Allo specchio. Autoritratto del padre dell'etologia 8883588045, 9788883588044

In questo libro Lorenz fornisce di se un’immagine in qualche misura inedita, quella cioè di un grande scienziato che si

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Allo specchio. Autoritratto del padre dell'etologia
 8883588045, 9788883588044

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Konrad Lorenz

ALLO SPECCHIO Autoritratto del padre dell’etologia

ARMANDO EDITORE

LORENZ, Konrad ; Allo specchio. Autoritratto del padre dell’etologia; Pres. di Vittorio Somenzi; Roma : Armando, © 2005 270 p. ; 22 cm. - (Classici Armando) ISBN 88-8358-804-5 I. Somenzi, Vittorio 1. Etologia/Biologia/Scienza 2. Ambientalismo 3.Cultura-Culture CDD 572

Titolo originale: Konrad Lorenz. The man and His Ideas © 1975 by Richard I. Evans Harcourt Brace Jovanovich, New York and London Traduzione di Carla Piccoli © Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 21-19-008 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. L’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate a: Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO); [email protected]

Sommario

Presentazione di VITTORIO SOMENZI Introduzione di RICHARD I. EVANS

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Impressioni personali su uno scienziato controverso. Alcune osservazioni sulla tecnica dell’intervista e una veduta d’insieme

PARTE PRIMA: INTERVISTA CON KONRAD LORENZ

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1. Etologia e “Imprinting”

23

2. Interpretazioni etologiche della motivazione

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3. Discussioni sull’aggressività

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4. Alcuni concetti e problemi psicologici

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5. Riflessioni su problemi attuali e sul futuro

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PARTE SECONDA: KONRAD LORENZ COME PSICOLOGO

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1. Konrad Lorenz come psicologo D. CAMPBELL

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Nella tradizione di William James. Behaviorismo cibernetico. Epistemologia evolutiva. Aggressività tra gruppi. Evoluzione sociale e conservazione della tradizione. Le implicazioni politiche della genetica evoluzionistica. Conclusione

2. Konrad Lorenz risponde a Donald Campbell

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3. Evoluzione della ritualizzazione nelle sfere biologica e culturale KONRAD LORENZ

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Approccio etologico e ritualizzazione filogenetica. La ritualizzazione nell’evoluzione psico-sociale della cultura umana

4. L’errore alla moda di tralasciare la descrizione KONRAD LORENZ

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Apprezzamento esclusivo della quantificazione. Abitudine al pensiero “tecnomorfico”. Restrizioni etiche nel trattare i sistemi organici. Indispensabilità di conoscere la struttura. Riduzionismo ontologico ovvero “Nothingelsebuttery”. Il comportamentismo e le sue restrizioni cognitive. Motivazioni delle restrizioni del comportamentista. Scimmiottamento della fisica. Desiderio di potere. Influenze di vasta portata del comportamentismo. I pericoli del pensiero tecnomorfico. Approccio ai sistemi viventi: il problema di Darwin. Inventario delle parti. Parti relativamente indipendenti. Strategia di ricerca imposta dai sistemi. La patologia come fonte di conoscenza. Il linguaggio come fonte di conoscenza. Aspetti etici

5. La dottrina kantiana dell’“a priori” alla luce della biologia 171 contemporanea KONRAD LORENZ 6. L’ostilità tra generazioni e le sue probabili cause etologiche KONRAD LORENZ

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L’approccio darwiniano e il problema dell’adattamento. Integrazione creativa e metodo dei sistemi di approccio. Tradizione cumulativa come esempio. La scala assiomatica dei valori organismici. Metodi obbligati di approccio ai sistemi integrati. Disturbi patologici come fonte di conoscenza. Lo squilibrio dell’economia piacere-dispiacere. Squilibrio dei meccanismi di conservazione e adattamento della cultura. Conclusioni e prospettive

Bibliografia

245

Indice analitico e dei nomi

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Presentazione VITTORIO SOMENZI

Dal punto di vista del filosofo della scienza, è molto interessante la convergenza verso una nuova forma di teoria della conoscenza scientifica, detta “epistemologia evoluzionistica”, manifestata in tempi vicini ma con motivazioni diverse sia dall’etologo Konrad Lorenz, sia dal filosofo Karl Popper e dallo psicologo Donald Campbell. Proprio a Campbell l’autore della presente raccolta di interviste a Lorenz e di saggi suoi particolarmente provocanti ha affidato il compito di una valorizzazione del suo apporto alla psicologia, in particolare al “comportamentismo cibernetico”, e di una critica radicale alle implicazioni ideologiche di certe prese di posizione lorenziane contro gli eccessi “pseudo-democratici” dell’ambientalismo oggi prevalente in campo intellettuale negli Stati Uniti, oltre che in molti Paesi a orientamento socialista. Campbell ha tuttavia sottolineato anche gli aspetti dell’approccio evoluzionistico al problema della conoscenza, che potrebbero venire considerati esenti dai rischi del rozzo “biologismo” di una parte della letteratura etologica più popolare, in quanto si riallacciano direttamente alla problematica kantiana della conoscenza a priori e ne sperimentano, almeno a partire dal saggio di Lorenz su Kant qui riportato, l’effettiva traducibilità in termini di evoluzione naturale degli organi di senso e del sistema nervoso verso un pre-adattamento dei singoli esseri viventi alla realtà ambientale caratteristica della loro rispettiva specie, dal Paramecium all’Homo Sapiens. Il “realismo ipotetico” o realismo critico che consegue da questa epistemologia evoluzionistica, detta da W.V.O. Quine “epistemologia naturalizzata”, è stato ulteriormente sviluppato da 9

Lorenz nel recente volume L’altra faccia dello specchio1, mentre Popper, che da tempo condivide le idee di Lorenz e lo ha difeso dalle critiche di Thure von Uexküll, fin dal 1937 aveva riconosciuto nel metodo per prova ed errore usato dall’uomo nella risoluzione di problemi scientifici e filosofici “fondamentalmente lo stesso metodo adottato dagli organismi viventi nel processo di adattamento”2. Sia Lorenz che Popper tendono però a fare rientrare nell’ambito filosofico i risultati dei loro paragoni tra processi conoscitivi umani e processi evolutivi naturali, mentre Campbell ritiene che la nuova epistemologia, pur ereditando dalla tradizione filosofica l’impostazione dei propri problemi, costituisca ormai una scienza autonoma, alla quale verranno dati contributi risolutivi da fisici, biologi, psicologi e sociologi, piuttosto che da filosofi. Campbell ritiene cioè effettivamente possibile la “riduzione” dei processi conoscitivi più elevati, in particolare di quelli che danno luogo alla creazione scientifica, a lunghe serie di tentativi “alla cieca” nei quali il cervello individuale si comporta come una specie vivente in corso di evoluzione per variazione e selezione della discendenza. L’interesse della posizione di Campbell, delineata con molta chiarezza in un saggio già apparso in italiano e nel suo contributo al fondamentale volume dedicato da P. A. Schilpp alla filosofia di Popper3, consiste a mio parere nella possibilità che ne consegua il coordinamento in termini di opportune estensioni della teoria dell’informazione, quali quelle recentemente proposte da E. H. Hutten4, di tre settori di ricerca finora sviluppatisi in forme indipendenti: 1 K. Lorenz, L’altra faccia dello specchio (per una storia naturale della conoscenza), Adelphi, Milano 1974. 2 K. R. Popper, Che cos’è la dialettica? e Umanesimo e, ragione, in Congetture e confutazioni (lo sviluppo della conoscenza scientifica), Il Mulino, Bologna 1972; Conoscenza oggettiva (Un punto di vista evoluzionistico), Armando, Roma 1975; La ricerca non ha fine (Autobiografia intellettuale), Armando, Roma 1976. 3 D. T. Campbell, Evolutionary epistemology, in: The Philosophy of Karl Popper, The Library of Living Philosophers, a cura di P. A. Schilpp, The Open Court Publishing Co., La Salle, Illinois, 1974; Variazioni alla cieca e sopravvivenza selettiva come strategia generale dei processi conoscitivi, in La fisica della mente, a cura di V. Somenzi, Boringhieri, Torino 1969. 4 E. H. Hutten, La scienza contemporanea (Informazione, spiegazione e significato), Armando, Roma 1975.

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Il settore dell’apprendimento e della creatività, visti rispettivamente come acquisizione e come produzione di informazione. L’interpretazione dei fenomeni evolutivi come generazione di strutture a contenuto e capacità informazionali crescenti, per effetto della selezione ambientale tra le varianti del processo di autoriproduzione che ha dato origine alle prime forme organiche terrestri. L’applicazione di particolari tecniche di simulazione di questi processi naturali di evoluzione per prova ed errore al campo della “intelligenza artificiale”, in particolare alla programmazione di calcolatori elettronici per la scoperta di nuove soluzioni a vecchi problemi o per la risoluzione di nuovi problemi. L’evoluzione biologica che ha condotto all’attuale struttura del corpo e del cervello umani verrebbe collegata, in questa visione unitaria dei processi naturali e artificiali di accumulazione ed elaborazione della informazione, all’evoluzione culturale della nostra specie che ha prodotto sia i contenuti del “mondo3” di Popper, sia quei prolungamenti “esosomatici” del nostro corpo e del nostro cervello che sono gli strumenti specifici della scienza e della tecnica, dal cannocchiale di Galileo al calcolatore elettronico visto come autentica “mente artificiale”.

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Introduzione RICHARD I. EVANS

Impressioni personali su uno scienziato controverso L’introdurre Konrad Lorenz, a chi si interessa di psicologia, con questo dialogo non poteva giungere più a proposito; appena terminata l’intervista, Lorenz e altri due zoologi ottennero il Premio Nobel 1973, ed era la prima volta che veniva assegnato a studiosi di scienze comportamentali. Più degli altri due il nome del Dr. Lorenz veniva comunemente associato alle scienze del comportamento in generale e alla psicologia in particolare. L’esperienza di stare col Prof. Lorenz durante la stesura e la ripresa di questi dialoghi è stata importantissima. Entrando nel terminal internazionale dell’aeroporto di Vienna, ero in dubbio se l’avrei riconosciuto e se per caso non stesse ancora lì ad aspettarmi, dato che il mio aereo da Londra aveva quasi un’ora di ritardo. La mia preoccupazione fu di breve durata, perché l’uomo in prima fila nella folla in attesa, il volto schiacciato sulla vetrata, era senza dubbio Konrad Lorenz. Era impossibile non riconoscere l’alta e possente figura, il viso dai tratti marcati, i caratteristici capelli e la barba bianchi. Con la camicia a scacchi bianchi e neri, un consunto abito di velluto a coste marrone, e gli stivali di gomma al ginocchio, il portamento eretto e il passo aggressivo che nascondevano i suoi settant’anni, avrebbe potuto facilmente essere scambiato per un robusto contadino. La vitalità che ne sprizzava rendeva difficile credere che si considerasse pronto a ritirarsi dal Max-Planck Institut, nella sua casa di Altenberg, vicino a Vienna. Il suo entusiasmo si sarebbe poi dimostrato una delle fonti di gioia nell’essere con lui durante i giorni successivi. Rispondendo al mio segno di riconoscimento con un sorriso, volle aiutarmi a caricare il mio bagaglio sulla Mercedes-Benz. Gli 13

ricordai che i tecnici cinematografici e mio figlio, studente di medicina, sarebbero arrivati il giorno successivo. Il riferimento a mio figlio stimolò il Dr. Lorenz a parlare dei suoi studi di medicina a New York e Vienna e del suo contatto continuo con questo campo. Egli si è laureato in medicina soprattutto per accontentare il padre, famoso chirurgo viennese. La famiglia vive in Adolphlorenzgasse, strada che porta il nome del padre. Sua moglie (47 anni) Margarethe, Grete per le amiche, è anche lei un medico, con specializzazione in ostetricia e ginecologia. Ricordò quanto importanti fossero i guadagni di lei durante i duri anni in cui egli completò il suo Ph. D. in zoologia, all’Università di Vienna. Fu preside della facoltà di psicologia all’Università di Könisberg e prestò servizio nell’esercito tedesco come psichiatra, ma il suo primo amore non era la clinica medica. Una notevole carriera nel campo della ricerca, in una disciplina del tutto nuova, con arrivo al Premio Nobel, rende valida la sua auto-valutazione. L’evoluzione di Lorenz etologo cominciò con le sue attività, da bambino, ad Altenberg, dove passò ore ed ore ad osservare uccelli acquatici. Il suo amore appassionato per la natura, e la sua passione per il comportamento degli organismi nel loro ambiente naturale, crebbe col passare degli anni. Oskar Heinroth, uno dei pionieri della ricerca comportamentale, aiutò a focalizzare questo interesse sul comportamento naturale. Lorenz fu impressionato dall’osservazione di Heinroth, secondo cui l’oca selvatica, uscita da un uovo fatto schiudere artificialmente dagli uomini, avrebbe poi seguito questi come se fossero i suoi genitori naturali. Fu ancor più interessato quando Heinroth fece notare che, giunta alla maturazione sessuale, l’oca avrebbe posto l’uomo come oggetto delle sue attenzioni “sociali” pur partecipando al normale accoppiamento con altre oche. Ossessionato da queste osservazioni, Lorenz sentì il bisogno di approfondirle ed eseguì esperimento su esperimento, controllando e ricontrollando questo apparente strano fenomeno con le oche, le anitre e i suoi vecchi “soggetti da esperimento”, le cornacchie. Confermò le osservazioni di Heinroth e fissò il periodo preciso di sviluppo e le condizioni in cui si verifica l’“imprinting”. Estese ancora i suoi studi ponendoli in relazione con la programmazione nel genoma. Un certo numero di risposte sono “innate”? Quanto sono rigide? Quali stimoli dell’ambiente le 14

fanno scattare? E per quel che riguarda tipi di comportamento come l’aggressione? E la territorialità? Quali sono i parametri all’interno di questa successione programmata in modo “innato”? Naturalmente un tale riesame dell’importanza del determinismo biologico contro quella del comportamentismo radicale e del suo determinismo ambientale, prevalente negli Stati Uniti tra il 1940 e il 1950 portò ad un notevole discredito delle osservazioni di Lorenz da parte di molti psicologi, discredito che è ancor vivo oggi. Il suo libro sull’aggressività (Il cosiddetto male, 1966, trad. it. Milano, Garzanti, 1974) portò questa teoria sotto gli occhi di un pubblico ancor più numeroso, scontrandosi con la critica quando pose la domanda: è l’aggressività “innata” nell’uomo? Può manifestarsi anche senza provocazione? Può la territorialità spiegare veramente il complesso comportamento dell’uomo? Egli rispose al critico che più d’ogni altro rispettava, Daniel Lehrman, con un saggio di cui va molto orgoglioso, Evoluzione e modificazione del comportamento (Lorenz, 1965, trad. it. Torino, Boringhieri, 1971). Altri problemi cominciarono a preoccuparlo: poteva affrontare gli effetti della programmazione genetica, del comportamento istintivo e della selezione naturale fino a quando avesse continuato le sue osservazioni sugli organismi inferiori, nel loro ambiente naturale. E l’uomo? Che cosa non va? Poco convinto dalla crescita della tecnologia, della scienza, della medicina, Lorenz sente sempre più che il problema coinvolge l’evoluzione dei valori dell’uomo, piuttosto che la sua struttura biologica. Crede che questi valori distorti portino alla sovrappopolazione, alla minaccia della distruzione nucleare, al decadimento genetico, all’indebolirsi delle emozioni più profonde, all’aumentata vulnerabilità da un controllo autoritario, alla crisi ecologica, alla guerra e all’odio tra gli uomini in generale. Nel suo libro più recente, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (1974, trad. it. Milano, Adelphi, 19743, 1977) scrive tutto ciò in un tono drammatico e didattico che sorprende i lettori dei piacevoli L’anello di Re Salomone (1962, trad. it. Milano, Adelphi, 197410) e E l’uomo incontrò il cane (1964, trad. it. Milano, Adelphi, 19742). Egli pensa che la scienza non abbia più il tempo di occuparsi metodicamente di questi problemi, sente che gli scienziati devono prendere una posizione, ed è ciò che egli fa! 15

Comprensibilmente, anche questo libro susciterà molte critiche perché attacca il comportamentismo e studia l’impatto sull’uomo degli schemi di comportamento filogeneticamente derivati. Un preoccupante problema, fattomi notare dal Prof. Lorenz una sera a cena, sono le accuse di razzismo sollevate contro di lui in questi ultimi anni. Un articolo apparso sul «Journal of the New York Academy of Sciences» (1973) riassume la disputa. Gli psichiatri Peter Breggin e Frederic Wertham criticarono il conferimento del premio, mentre l’antropologa Margaret Mead difendeva Lorenz, affermando che era vittima di una persecuzione sistematica. Elizabeth Hall espose il problema in «Psychology Today» (1974): Lorenz non ha mai negato di aver trovato per un certo periodo affascinanti alcune delle teorie naziste. Egli ha risposto al giornalista Vic Cox: “Naturalmente credevo che qualcosa di buono potesse venire dal nazismo. Uomini migliori e più intelligenti di me lo credevano, e fra essi mio padre. Che intendessero “omicidio” quando dicevano “selezione”, nessuno ci credeva. Non ho mai creduto nelle ideologie naziste, ma stoltamente credevo di poterle correggere, e portarle a qualcosa di migliore. Fu uno stupido errore”.

Questo ci porta ad una preoccupante domanda. Fino a che punto il coinvolgimento di uno scienziato in un movimento politico può essergli imputato quando poi ammette che era un coinvolgimento da ingenuità? Chiesi al Prof. Lorenz di rispondere a qualche domanda su questo argomento, ma stanco dal continuo ripetersi di reazioni, soprattutto dopo l’assegnazione del Premio Nobel, egli sembra pensare che non servano altri commenti. In una lettera che mi inviò il 13 agosto 1974, su questo argomento, perché ne trattassi in questo libro, spiega così il suo disagio. D’altra parte, decisamente io non voglio rispondere in pubblico alle domande che mi avete posto. Se lo facessi, sembrerebbe che io sentissi il bisogno di giustificarmi, il che non è vero. Se la mia stupidità nel cercare di rivolgermi ai Nazisti può essere cancellata da qualche cosa, questo qualcosa sta nel battermi per idee che trovo giuste, anche se mi rendono molto impopolare tra i lettori d’oggi. 16

Alle osservazioni del professor Lorenz posso solo aggiungere di essere persuaso che egli creda appassionatamente nei valori da lui oggi difesi. Sento che affronterà queste critiche e tutte le critiche, senza impegnarsi con i suoi critici in attacchi ad hominem, forse ripensando o perfino modificando qualcuna delle sue idee alla luce della critica; ma certamente attaccherà ciò che considera pericoloso e distruttivo e continuerà a battersi per ciò in cui crede. Il fatto di essere uno dei primi scienziati del comportamento ad ottenere il premio Nobel non ha cambiato affatto Lorenz, nemmeno nelle sue posizioni impopolari. Forse questa è una caratteristica dei vincitori del premio Nobel: certo è una caratteristica di Konrad Lorenz.

Alcune osservazioni sulla tecnica dell’intervista e una veduta d’insieme Questo libro è il nono di una serie basata su interviste con alcuni dei più importanti personaggi nel mondo della psicologia. Per evitare possibili incomprensioni sugli obiettivi di questo tipo di interviste credo sia importante considerarle nella loro giusta prospettiva. Studiata come sussidio didattico innovativo, la collana* fu lanciata nel 1957 alla fine delle interviste con Carl Jung ed Ernest Jones, e sovvenzionata dal Fund for the Advancement of Education. La collana proseguì poi grazie al finanziamento da parte della National Science Foundation. Uno degli scopi fondamentali del programma è di produrre una serie di film per uso didattico, i quali introducano lo spettatore alla conoscenza di quanto hanno dato contributi eccezionali al campo della psicologia e del comportamento umano. Speriamo che questi film servano anche da documento di crescente valore per la storia delle scienze comportamentali**. I libri di questa serie si basano sulla pubblicazione della trascrizione dell’intervista, comprese discussioni registrate e i contenuti dei film. Le interviste sono studiate per introdurre il letto* In questa introduzione, R. Evans fa ovviamente riferimento alla collana in cui, nell’edizione originale, il volume è stato inserito. ** Questi filmati sono distribuiti dalla Macmillan Films, Inc., 34 Mac Questen Pkwy, So., Mt. Mernon, New York.

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re alle principali idee e punti di vista dello scienziato, aggiungendo, attraverso l’estemporaneità del colloquio, un più vivo contatto con la personalità dell’intervistato. Quando terminammo il primo libro della serie basata sulle interviste con Jung e Jones (Evans, 1964) pensammo che la parola “conversazione” potesse spiegare bene, nel titolo, il procedimento e il contenuto. Scoprimmo presto che per il potenziale lettore significava invece qualcosa di più casuale e superficiale di quanto avremmo desiderato. Anche se sottolineiamo la spontaneità del dialogo, questo non deve togliere niente al significato del contenuto. Una descrizione più dettagliata della filosofia e delle tecniche di questo progetto è riportata altrove (Evans, 1969c). Poiché le domande intendono riflettere molti degli scritti già pubblicati dall’intervistato, ci si potrebbe aspettare un richiamo, benché succinto, all’intera sua opera. La selettività necessaria allo sviluppo delle domande entro un intervallo di tempo limitato, non fornisce sempre la base per un riepilogo completo, come si trova invece in fonti secondarie. Ma adoperiamo questa tecnica di insegnamento proprio per scoraggiare tanti degli studenti di oggi dal dipendere sempre più da fonti indirette. Il materiale – film e libri – che risulta dalle nostre interviste fornisce l’esposizione ad una nuova “fonte originale” che a sua volta può stimolare lo spettatore e il lettore a risalire agli scritti originali. È mia intenzione che questi “dialoghi” riflettano un nuovo, costruttivo metodo di insegnamento essendo il mio ruolo di intervistatore non principalmente diretto ad una sfida critica. L’uso di questi dialoghi come sfondo per un esame critico dei punti di vista dei partecipanti deve essere lasciato ad un’altra iniziativa, anche perché penso che alcuni degli intervistati non avrebbero partecipato a questa iniziativa se l’avessero considerata principalmente una base per un attacco critico al loro lavoro. Come accadde per i soggetti dei libri precedenti, Jung e Jones (Evans, 1964), Fromm (Evans, 1966), Erikson (Evans, 1969a), Skinner (Evans, 1968) Arthur Miller (Evans, 1969) Allport* (Evans, * Ci ha fatto molto piacere che uno dei libri di questa collana, Gordon Allport: The Man an His Jdeas sia stato insignito del “1971 American Psychological Foundation Media Award in the Book Category”.

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1970) e Piaget (Evans, 1973), si spera che la presentazione dell’intervista permetta al lettore di essere introdotto a o di riesaminare alcune delle idee di Konrad Lorenz in situazione relativamente informale. Bisogna però sottolineare che nei suoi scritti egli ha l’opportunità di riscrivere e correggere fino ad essere soddisfatto del prodotto finale. Nella spontaneità della nostra discussione è invece chiamato a sviluppare le sue idee estemporaneamente e in una lingua che non è la sua. Spero che questo elemento di spontaneità possa presentare meglio “l’uomo dietro il libro” senza perdere niente delle idee più importanti per il suo pensiero. La conservazione dell’immediatezza di comunicazione è essenziale agli scopi di ogni volume di questa serie, e ci si è presi poche libertà col contenuto di base delle risposte del Prof. Lorenz, anche se è stata esercitata qualche licenza editoriale per passare efficacemente dalla comunicazione orale a quella scritta al servizio dell’accuratezza, della leggibilità e della chiarezza. Malgrado ciò, fu una gradita sorpresa rivivere le nostre ore di discussione e constatare che ben pochi cambiamenti erano stati necessari. Per facilitare al lettore la conoscenza di Lorenz e delle sue idee, è stata aggiunta una parte con saggi precedentemente pubblicati, forse meno conosciuti, approvati da Lorenz e presentati da Donald Campbell, professore di psicologia alla North Western University e attualmente Presidente dell’American Psychological Association. Il Dr. Campbell ha scritto un saggio stimolante, che integra questa parte del libro e aggiunge molto alla nostra comprensione di Lorenz e della sua opera.

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1. Etologia e “imprinting”

Sommario – In questo capitolo il Prof. Lorenz ed io discutiamo l’evoluzione del suo contributo all’etologia, per cui ricevette il premio Nobel. Egli dà una definizione dell’etologia e racconta come si interessò per la prima volta a questo approccio allo studio degli organismi. Discutiamo anche le sue osservazioni sull’imprinting e concludiamo questa parte con la sua reazione a come il feticismo e perfino la costruzione dell’identità di Erik Erikson possano essere analoghe in qualche modo all’imprinting.

EVANS – Lei, Nikolaas Tinbergen e Karl von Frisch, naturalmente, vi siete fatti conoscere per il vostro rivoluzionario approccio allo studio del comportamento, conosciuto come etologia. L’etologo osserva i caratteristici schemi di comportamento di un animale che cerca il cibo, si difende, corteggia la sua compagna e alleva i suoi piccoli. Questa ricerca è portata avanti senza importunare gli animali, nel loro ambiente naturale. A questo punto, Prof. Lorenz, potrebbe essere molto interessante sapere esattamente che cosa lei intende col termine “etologia”. LORENZ – L’etologia non è niente di nuovo: nel metodo, nell’approccio, nelle domande che pone, è una scienza comparativa, così come tutte le altre branche della biologia, a parte il fatto che mette a fuoco soprattutto il comportamento. Perché queste domande non siano state applicate molto prima al comportamento, è una questione interessante. EVANS – Ciò che interessa è il suo modo di usare il termine “comportamento”. È chiaro che in psicologia noi consideriamo normalmente il comportamento come una risposta osservabile e misurabile. Cioè, quando parliamo di unità di comportamento, mettiamo a fuoco qualcosa di osservabile. Quan23

do discute di comportamento, si riferisce anche lei alle reazioni osservabili dell’organismo, non è vero? LORENZ – Sì, ma direi che osservabile è completamente diverso da misurabile: l’osservazione viene prima della misurazione. Supponiamo che lei cerchi di descrivere il lavoro di una macchina molto complicata, che non aveva mai visto prima. Supponiamo che un marziano venga sulla terra e veda una automobile, una strana visione per lui. Farebbe, per prima cosa, un inventario delle parti: l’albero a manovella, il carburatore, i pistoni ecc.; non comincerebbe a misurare fino a che non conoscesse l’interazione delle parti. Il filosofo tedesco Windelband (1894) diceva che ogni scienza, ogni scienza naturale, procede in tre fasi: idiografica, sistematica e nomotetica. Lo stadio idiografico è la descrizione della forma esterna dell’individuo, l’immagine. Il secondo stadio consiste nel sistematizzare ciò che si è visto, contando per esempio gli schemi di comportamento riconoscibili. La fase nomotetica si riferisce alla scoperta delle leggi dominanti nella molteplicità dei fenomeni e determina la regolarità che si scopre nella sistematizzazione. Ultimamente si è insistito davvero troppo sullo sviluppo dei metodi di misurazione, fino al punto, in realtà, di dimenticare le osservazioni che devono precederla. EVANS – Quindi, quando usa la definizione “biologia del comportamento” lei parla di osservazione secondo la tradizione darwiniana. LORENZ – Certamente. EVANS – Per essere ora un po’ più precisi, qual è la caratteristica specifica dell’etologia come branca della biologia? LORENZ – Non saprei trovare una sola domanda o un solo metodo, applicato ad un tipo di comportamento, che non possa essere applicato esattamente nella stessa forma alla struttura e alla funzione di un ordine. Naturalmente questa particolarità implica che siamo perfettamente convinti che tutto quanto vediamo nel comportamento osservabile dell’animale sia funzione di una struttura interna; struttura e funzione del sistema nervoso centrale. E, come lei sa, anche in termini di definizione non si può tracciare una linea netta tra struttura e funzione. I due concetti si fondono tra loro e più si cerca di distinguerli, meno ci si riesce. Così ho rinunciato al tentativo di dare una definizione del comportamento. 24

Per esempio, se si osserva un babbuino mentre cerca di risolvere un preciso problema, lo si vedrà guardare la scatola, guardarsi attorno, grattarsi la testa: pensa, soprattutto, col movimento. In un giovane scimpanzé, si vedrà solo il movimento degli occhi; anche lui si gratta. E un vecchio scimpanzé, pieno di esperienza, non farà che starsene lì seduto a pensarci sopra. C’è un gran movimento interno, il quale si esplica, cinque minuti più tardi, sotto forma di comportamento, evidente e osservabile. Ora, non saprei proprio dove porre una linea di demarcazione tra pensiero interiore, non direttamente osservabile, e comportamento, che è osservabile ed è la conseguenza di quel pensiero. Questo dilemma nasce da un processo biologico molto complicato. EVANS – Lei ha citato i metodi dell’etologia. Quali sono i metodi specifici usati dall’etologo per raccogliere i suoi dati? LORENZ – Forse glielo posso spiegare dicendole in che modo cominciai ad interessarmi di etologia. Quand’ero un bambino di circa dieci anni mi interessavo del problema dell’evoluzione: avevo letto un libro di Wilhelm Bölsche che parlava del primo uccello – l’archeopteryx –, un animale con le ali d’uccello, una coda simile a quella di una lucertola, con un paio di piume ad ogni vertebra – e mi rendevo conto che quest’idea dell’evoluzione poteva adattarsi dovunque, che forse gli insetti, con i loro corpi segmentati, derivavano dai vermi. (In realtà questa era una supposizione esatta). Pensai allora che la cosa più interessante della terra fosse lo studio dell’evoluzione. E quando ebbi letto il libro di Bölsche, conclusi che zoologia e paleontologia erano le cose da studiare. Mio padre volle però che studiassi medicina, ed essendo io un ragazzo obbediente, lo accontentai. Questa si rivelò poi la mia fortuna, perché il mio professore di anatomia era un grande studioso di anatomia comparata e uno studioso ancor più grande di embriologia comparata. Imparai da lui a ricostruire l’albero genealogico degli animali confrontando somiglianze e disuguaglianze delle caratteristiche delle forme moderne, delle forme recenti. Anche allora conoscevo molte cose del comportamento degli animali, particolarmente le anitre; ero matto per le anitre fin dalla prima infanzia e, conoscevo molte cose sul loro comportamento. Sarei stato davvero molto stupido se 25

non mi fossi reso conto che il metodo comparativo poteva applicarsi anche al comportamento. Certi atteggiamenti del corteggiamento dell’anitra maschio, per esempio, sono caratteristici di una specie, di un genere, di una famiglia, anche di un ordine di anitre, e sono distribuiti esattamente allo stesso modo delle caratteristiche morfologiche, come caratteri di forma e struttura. Rimasi affascinato da questo tipo di studio del comportamento e pensai di averlo inventato, scoperto io. Molto più tardi mi resi conto che il vecchio Oskar Heinroth lo conosceva perfettamente, ma nessuno di noi due a quel tempo sapeva che Charles Otis Whitman aveva applicato esattamente gli stessi metodi dieci o quindici anni prima di Beinroth. Così il primo vero studio di etologia comparata della filogenesi del comportamento con metodi comparativi, fu un saggio pubblicato da Charles Otis Whitman a Woods Hole, Massachussets, nell’anno 1898. Questo fu in realtà il modo in cui scoprii l’origine dell’etologia, perché né Heinroth, né Whitman erano psicologi. Erano soltanto semplici zoologi e tassonomi; volevano scoprire la parentela tra due specie di piccioni, nel caso di Whitman, o di anitre, nel caso di Heinroth. Usarono ogni tipo di comportamento – il corteggiamento, i movimenti di segnalazione e così via – come caratteri tassonomici per dimostrare che il mallardo e l’anitra nera americana sono tra loro in relazione molto più stretta di quanto non lo siano con altri della stessa loro specie. Né Heinroth, né Whitman, si resero pienamente conto dell’importanza della loro scoperta, che i tipi di comportamento sono caratteristici delle specie ed anche di più grandi ordini tassonomici. Erano molto sicuri della validità della loro scoperta, benché non fossero consapevoli che essa si scontrava in pieno con le teorie delle grandi scuole psicologiche: la scuola psicologica dell’istinto così come quella dei behavioristi. Proprio non lo sapevano. Si dice spesso che io sono il padre dell’etologia, ma non è vero. So soltanto che c’è un merito notevole nello scoprire una legge generale della natura e un merito inferiore nello scoprirne l’importanza. Il mio merito, dal punto di vista scientifico, sta nell’aver scoperto Whitman e Heinroth. EVANS – Leggendo i suoi libri, si deduce che lei tende sempre allo studio dell’organismo nel suo habitat naturale. È così? 26

LORENZ – È così! Non si può capire alcuna (orma di vita, alcuna struttura, senza capirne l’uso e l’interazione con l’ambiente. Non si può capire la forma affusolata di un pescecane senza sapere che è stata creata per fendere l’acqua con la minima resistenza. Non si può capire il becco dell’anitra mestolona a meno che non si sappia di che cosa si ciba. E ciò è vero per ogni sistema – l’organismo e il suo ambiente sono un sistema. Non si può capire la struttura di un pistone del motore di una automobile, a meno che non si sappia che contiene valvole e non si possono capire le valvole a meno che non si sappia come l’albero a camme sollevi la valvola, la valvola di aspirazione in cima al cilindro, che aspira la miscela attraverso il carburatore. In altre parole, le parti di un sistema possono essere capite in toto o per nulla. Mi si accusa spesso di essere contro la misurazione, incapace di misurare, incapace di sperimentare e così via. Io affermo soltanto che bisogna cominciare dal sistema completo e scendere alle parti, non focalizzarsi su una parte o rimuovere quella parte dal motore per studiarla. Tornando alla mia similitudine del motore d’automobile, è come toglierne la parte più facile da smontare, per esempio una vite e un bullone, volgere le spalle al sistema e cercare di risintetizzarlo partendo dalla vite e dal bullone. Non si può fare! EVANS – Il problema metodologico che abbiamo nell’osservazione scientifica è rappresentato dall’obiettività dell’osservatore e dalla verifica della sua risposta. LORENZ – Sì. EVANS – E naturalmente gli scienziati sono sempre interessati alla verifica delle osservazioni. Se lei andasse in un ambiente naturale, per osservare un animale e poi riferisse le sue osservazioni; sarebbe sufficiente? Sarebbero i dati considerati sufficienti nel campo dell’etologia o ci dovrà essere qualche tipo di verifica delle sue osservazioni? LORENZ – Misurazione è solo l’ultima parola nella verifica; già soltanto vedere qualcosa, scoprire una cosa come funzione della percezione visiva costituisce ciò che potremmo chiamare produzione di idee. Produce una supposizione appena suggerita che rimane però supposizione, finché non la si sarà verificata. 27

Ecco dove si introduce tutta la logica della scoperta scientifica: nella verifica. Lo scopritore è spesso un poeta: i grandi poeti scoprono moltissime cose, ma questa è ancora soltanto poesia, non scienza. Ed è nella verifica che si arriva all’esperimento e, particolarmente, alla misurazione. Per provare qualcosa, si deve misurarla. Nei nostri approcci più olistici al comportamento sociale delle oche, che è un sistema abbastanza complicato, siamo già arrivati al punto di inserire i nostri dati in computers. Non possiamo più fare i calcoli con semplici registrazioni. In particolare, l’analisi motivazionale richiede a sua volta l’analisi di correlazione. È l’unico modo attendibile per verificare le parentele. Ma che cos’è verificare? Verificare significa provare qualcosa che si sospetta, si suppone, si è visto. EVANS – Ci sono molti modi diversi per verificare. In etologia non vi trovate di fronte ad una gran varietà di processi di verifica? LORENZ – Ci sono moltissimi modi diversi per verificare e ci sono molti tipi, di esperimenti che si possono eseguire. Tuttavia, un punto che Tinbergen sottolinea sempre è che bisogna cambiare il meno possibile dell’ambiente normale, così che si sappia che quell’unica cosa che si è cambiata è la causa vera della variazione di comportamento osservato. Questo è ciò che Hess ha chiamato esperimento discreto (1962). La scuola di Tinbergen eccelle in questo tipo di esperimenti. Il loro lavoro sulla vespa scavatrice e quello di Tiet Sevensten sullo spinarello, sono precisamente esperimenti di fisiologia che coinvolgono una verifica misurabile dei fenomeni osservati. EVANS – Donald Campbell (1966) ha dimostrato l’importanza delle misure discrete nella ricerca umana in psicologia sociale; si è profondamente concentrato su questo, argomentando che l’osservatore può alterare l’ambiente. Ora il vero problema è: ci sono abbastanza misure discrete da giungere realmente ad un processo di convalidazione delle osservazioni? Non è difficile determinare misure discrete utili? Questo è certamente vero nello studio del comportamento umano: trovare buone misure discrete è certamente difficile. LORENZ – Dovrei dire che l’etologo adopera quella che potremmo chiamare deviazione – una poco coraggiosa evasione dalle difficoltà – con concentrazione su elementi semplici. 28

Sapete che è sempre una buona regola nello studio del comportamento studiare il fenomeno nelle sue forme più semplici. Ecco perché studiamo l’aggressività in qualche specie di pesce che, anche se creatura relativamente semplice, è egualmente molto aggressivo, oppure studiamo il comportamento del legame nelle oche. Naturalmente, se le cose si complicassero, come nel comportamento sociale umano, non conoscerei alcun metodo, se non quello di campioni estratti statisticamente, nella speranza che le differenze individuali fossero così eliminate. Ma io penso ancora che l’approccio statistico alla comprensione di un fenomeno sia soltanto un sostituto per la determinazione della causa e dell’effetto reali; perché se si può influire direttamente sulla causa e osservare direttamente l’effetto, non si ha bisogno di statistiche. La previsione dovrebbe collimare al cento per cento e, nel nostro elemento semplice, spesso accade. EVANS – Ora, tornando ad una sua precedente affermazione: lei ha accennato al fatto che il filosofo Windelband parla di approcci idiografici, sistematici e nomotetici. È interessante che uno psicologo americano, Gordon Allport (Evans, 1971) abbia preso Windelband molto seriamente e si sia concentrato soprattutto sulla distinzione tra approcci idiografici e nomotetici. Ha visto l’approccio idiografico come la ricerca della caratteristica tipica dell’organismo individuale, in contrasto con l’approccio nomotetico che implica la ricerca di leggi generali applicabili ad un gruppo più esteso. Nello studiare il comportamento animale, è veramente possibile concentrarsi su schemi idiografici? In altre parole, ci sono determinati comportamenti, tipici di un singolo animale? LORENZ – È interessantissimo che mi abbia rivolto questa domanda, perché questo è esattamente ciò che stiamo cercando di fare. È sbagliato arrivare per prima cosa alla legge generale, ma ogni libro di testo considera prima la parte generale e poi quella speciale. Sappiamo ora abbastanza della gamma di schemi comportamentali dell’oca normale, per concentrarci sulle differenze tra individui che, naturalmente, diventano idiografiche nel più specifico e puro senso della parola. Si troverà che ciò che esce da questo studio è qualcosa di si29

mile ad un modello di caratteriologia molto semplificato. Da due anni ormai uno dei miei allievi sta studiando gli schemi di comunicazione tra quattro oche e ha contato gli schemi di comportamento evidenti tra loro, man mano che si mettono in relazione l’un l’altra. Facendo istogrammi di quanto spesso un’oca minaccia e un’altra fugge, si troverà che ci sono delle differenze quantitative; benché gli schemi comportamentali siano in se stessi tutti eguali, un’oca può spiccare nella condotta di contatto e nell’impavidità, ma essere poco aggressiva. È un’oca tranquilla. È anche un’oca molto simpatica. In altre parole, un’oca ha una soglia molto bassa sia del comportamento di fuga che di quello aggressivo. È una buffa combinazione: un codardo aggressivo – e questo tipo è ciò che molte persone normali chiamerebbero maligno, perché attacca improvvisamente alle spalle, morde e scappa via ed ha una condotta di contatto assai scarsa. È un solitario, ma procrea. Questa combinazione di differenze quantitative descrive molto chiaramente il carattere di un’oca, ma la descrizione del carattere di quest’oca è maledettamente antropomorfica. E questo, naturalmente, è soltanto un semplicissimo modello. Ma noi pensiamo che, usando lo stesso metodo, si potrebbe forse studiare qualche altra creatura estremamente socievole, particolarmente i mammiferi, dei quali solo pochissime specie sono state studiate a fondo. Per esempio, un animale molto interessante e facilmente accessibile è il maiale selvatico. Nella mia nuova sistemazione ne abbiamo un gran recinto pieno e cercheremo di ripetere con quelli gli stessi studi fatti con le oche. Questo è il nostro programma. EVANS – Così, in un certo senso, la ricerca che lo psicologo conduce sulle caratteristiche specifiche dell’individuo – dicendo che il cercare di applicare principi generali a tutti gli individui distrugge l’individualità – è un parallelo delle vostre osservazioni al livello animale più basso. Quando dice di parlare qui in senso antropomorfico, lei scopre realmente le caratteristiche misurabili e specifiche degli organismi inferiori, che li rendono specificatamente identificabili. LORENZ – La mia giovane allieva, Jane Packard, ha fatto proprio questo in un altro interessante esperimento con le oche. Confrontammo i giudizi, dati su quattro oche da persone esperte nella percezione della Gestalt, con i dati quantitativi relativi al30

le stesse quattro oche. I singoli osservatori dichiararono soltanto le loro impressioni soggettive – quest’oca era graziosa e placida, o maligna, e così via. Naturalmente, per ragioni di controllo, essi non erano a conoscenza dei giudizi degli altri osservatori, i quali usavano misure oggettive quantificabili. Quando confrontarono i dati, fu interessante scoprire con quanta precisione i giudizi soggettivi individuali corrispondessero ai giudizi quantitativi. Era un lavoro affascinante! EVANS – Prof. Lorenz, credo che lei abbia introdotto un termine assai interessante nel linguaggio dell’etologia: “imprinting”. Che cosa significa esattamente? LORENZ – Prima di dare una definizione è meglio che dica come fu scoperto il fenomeno dell’imprinting. Whitman e Heinroth allevarono dei giovani uccelli: erano entrambi particolarmente interessati all’ontogenesi del comportamento, così studiarono uccelli giovani allevati da “ genitori adottivi ”. Alcuni erano allevati direttamente da loro, altri da specie correlate. Scoprirono che in molti casi questi animali non potevano procreare perché reagivano sessualmente solo alle specie dei loro “genitori adottivi” e non alla loro. Questo fatto si dimostrò assolutamente irreversibile. Lo osservai nella mia terza cornacchia: io stesso mi occupai molto di quest’uccello quand’era piccolo e più tardi risultò sessualmente attirato dagli esseri umani. Quindi, una delle caratteristiche dell’imprinting, è la fissazione di uno schema comportamentale innato. La seconda è la sua irreversibilità e la terza è che si realizza durante una fase relativamente breve nella vita individuale dell’animale. Per esempio, come ha dimostrato Hess (1963), la reazione di “accodamento” di una anatrina è fissata sul suo oggetto circa diciassette ore dopo la nascita. La curva della possibilità di “imprinting” è molto ripida, con un massimo a diciassette ore; da venti a ventitré ore è già abbassata. L’imprinting è stato studiato a fondo nella reazione di “accodamento” di anatre e pulcini; c’è una grande differenza tra i due, perché l’imprinting viene assorbito da ogni tipo di apprendimento che possa essere ristretto ad un periodo. Mi di31

spiace dire che i pulcini domestici, su cui sono state fatte tante ricerche, non sono soggetti validi per la dimostrazione dell’imprinting. Questo termine fu coniato soprattutto tenendo a mente il comportamento sessuale. Tutte le caratteristiche dell’imprinting che ho descritto furono confermate da parecchi ricercatori, tuttavia alcune delle mie osservazioni sono state particolarmente messe in discussione dalle osservazioni di Patrick Bateson (1964) sulla reazione di “accodamento” dei pulcini. Le garantisco che tale reazione nei pulcini non è un tipico esempio di imprinting ed è, più o meno, appresa. In realtà, ci sono altri esempi di comportamenti che hanno qualche caratteristica comune con l’imprinting: Mark Konishi (1964) ha dimostrato che anche l’apprendimento del canto negli uccelli è ristretto ad un periodo di tempo molto breve ed è irreversibile. Non può essere ripetuto più tardi, né riguadagnato se quel periodo va perduto. E non può essere modificato. E così nuovamente non si può dare una definizione che tutto includa perché alcune delle caratteristiche dell’imprinting sono visibili in ogni circostanza fissata, mentre altre no. L’imprinting tipico, ristretto ad un determinato periodo e irreversibile, è l’imprinting sessuale; ma, contrariamente all’affermazione di Bateson, non ho mai detto che tutti gli uccelli siano soggetti a imprinting. In realtà, la prima volta che parlai di imprinting (ho controllato di recente), richiamai l’attenzione sul fatto che, mentre è relativamente facile fissare sessualmente le cornacchie sull’uomo, è quasi impossibile farlo con le gazze anche se queste sono in stretta parentela con le cornacchie. EVANS – Lei dice, in realtà, che il fenomeno dell’imprinting è limitato a determinate specie e a determinati periodi di tempo durante il processo di sviluppo. LORENZ – Sì. EVANS – E solo verso oggetti specifici. E, soprattutto, pensa che questo sia stato dimostrato nella zona sessuale. È esatto? LORENZ – Esatto: e lei sa che quando l’imprinting non era ancora chiamato così, molto tempo fa, credo fosse verso il 1900, Brun, un medico svizzero, richiamò l’attenzione sull’imprin32

ting nelle formiche. Il mantenimento delle schiave dipende dal fatto che la formica riceve l’imprinting sulle specie presenti quando nasce dalla sua crisalide. Si possono trapiantare le crisalidi di una specie di formiche nel nido di un’altra specie e se la crisalide viene accettata e la formica nasce in quel formicaio straniero, risponde a quella specie e non alla sua propria. Questo è un caso di imprinting tipico. L’imprinting è stato anche provato in varie specie di vespe parassite. I bruchi di determinate falene, sono invasi dai parassiti e se la larva di un bruco viene trapiantata nella specie di un altro, la vespa che ne nasce alla fine, deporrà le sue uova nella specie del bruco da cui è emersa. Se si vuole, la si può considerare una tradizione. Thorpe produsse razze di Hymenoptera (1956) che, dopo molte generazioni, depositarono le uova nel tipo sbagliato di falena. EVANS – C’è nessuna implicazione di questo concetto per il comportamento umano? È un salto molto, molto grande, naturalmente, me ne rendo conto. LORENZ – È davvero un gran salto. Penso che sia un’affermazione non dimostrabile, ma se leggete il lavoro di uno psichiatra molto vecchio e quasi dimenticato, Krafft-Ebing (1950) sul feticismo, si ha l’impressione che qualche comportamento dei suoi pazienti fosse analogo all’imprinting. Non è possibile provare queste osservazioni, naturalmente. EVANS – Estenderebbe il concetto di imprinting a qualche cosa come la relazione gregario-capo che i sociologi hanno studiato? Per esempio i membri più deboli di una gang si attaccheranno a quello più forte, lo seguiranno in giro ed eseguiranno sempre i suoi ordini. LORENZ – Bene, uno degli aspetti più interessanti dell’imprinting è che il processo non si fissa sull’individuo ma sulla specie. Negli esperimenti del Dr. Schutz (1963) con le anatre, durante i quali, allevò mallardi e maschi di volpoca, per esempio, i mallardi tentarono poi di accoppiarsi con volpoca maschi, ma non con i fratelli adottivi, perché queste specie hanno un tabù che inibisce l’incesto. Non credo che l’imprinting influenzi mai le reazioni nei confronti di un individuo, tranne forse nel caso delle reazioni di “accodamento” degli anatroccoli e dei paperini. Ma se si porta questo fenomeno a livello umano, penso che il punto in cui 33

ci si avvicina di più all’imprinting sia quella fase critica in cui l’adolescente diviene scettico nei riguardi della cultura dei genitori e cerca nuove cause da abbracciare. Si attacca a qualche causa ideale, ma come nell’imprinting, la sua causa ideale lo porta alla delusione. Questa frustrazione influenza il giovane ad un punto tale che non si attaccherà più ad un altro ideale con la stessa forza emotiva dimostrata verso il primo amore. EVANS – Questo è, in un certo senso, analogo a quello che Erik Erikson (1963-68) dice sull’adolescente alla ricerca di una sua identità*. LORENZ – Molto simile. Penso che da questo particolare punto di vista, Erik Erikson abbia avuto alcune delle più profonde intuizioni mai raggiunte nei riguardi della natura umana. Secondo me, Erik Erikson è uno dei più grandi profeti della verità sulla natura umana. Ma sono verità che non possono essere provate. Potete solo capirle e dire: “Sì, sì, è così, lo sento anch’io!”. Ma provate soltanto a dimostrare con la misurazione! Vi sfido a farlo! EVANS – Ho paura che non sia proprio possibile.

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Cfr. E. H. Erikson, Gioventù e crisi d’identità, Armando, Roma 19772 (N.d.T.).

2. Interpretazioni etologiche della motivazione

Sommario. – In questo capitolo il Prof. Lorenz ed io discutiamo come l’approccio etologico alla motivazione differisca dalla più tradizionale interpretazione psicologica. Discutiamo le fonti della motivazione sociale come l’approvazione sociale (appresa o non appresa), gli istinti e il lavoro di Harry Harlow in questo campo.

EVANS – Come lei sa, Prof. Lorenz, in tutta la storia della psicologia, la motivazione ha costituito un campo di notevole interesse per gli psicologi. Nei nostri tipici testi di introduzione alla psicologia definiamo la motivazione come “tutte le condizioni che stimolano, dirigono e sostengono l’organismo”. La maggior parte delle teorie psicologiche sulla motivazione fanno perno sul modello omeostatico – che proviene in realtà dalla fisiologia – secondo cui, quando le esigenze sviluppano tensioni, nell’organismo si genera un movimento verso la riduzione della tensione: si cerca uno stato di bilanciamento o equilibrio. Nelle nostre teorie sulla motivazione parliamo delle cosiddette pulsioni primarie. Una pulsione primaria è parte della natura ereditata dell’organismo; è universale ed ha una componente fisiologica la cui soddisfazione è necessaria per il mantenimento dell’organismo. La fame e la sete sono esempi di queste pulsioni. Altri strati motivazionali si sviluppano attraverso l’apprendimento e a questi ci riferiamo come a motivi secondari o terziari. Questi sono generalmente di natura sociale e comprendono la realizzazione, l’approvazione sociale e la relazione. Che cosa ne pensa di questo modello? Vi trova un qualche senso? LORENZ – Bene, temo che il modello etologico della motivazione sia fondamentalmente diverso. Uno dei progenitori dell’etologia, Wallace Craig (1918) faceva una distinzione tra appetiti e avversioni. 35

Ci sono due diversi tipi di comportamento, uno dei quali è motivato (lo considero antropomorficamente) dal bisogno dell’animale di fare qualche cosa. Praticamente ogni schema motorio fisso, ogni movimento istintivo, come lo chiamiamo, ha bisogno di uscir fuori. Un cane che non abbia corso per lungo tempo dovrà correre, un topo nella ruota mobile correrà senza andare in alcun posto, perché lo schema motorio che giace inutilizzato per qualche tempo irrita l’animale. Non liberando uno schema motorio per un determinato periodo, “sbarrandolo”, come si dice, non solo si abbassa la soglia di liberazione dello stimolo, ma si spinge l’animale a cercare quella situazione di stimolo. Questo fatto fu scoperto per la prima volta da Charles Otis Whitman e più tardi confermato da Wallace Craig, il quale, come ho detto, coniò il concetto degli appetiti e delle avversioni. Ora, riguardo agli appetiti, per esempio quello di copulazione, mi sembra un’affermazione piuttosto stiracchiata affermare che l’animale si accoppia per liberarsi dagli stimoli interni e che la ricompensa rinforzante sta nel sollievo dalla tensione. Si può parlare di appetito di quiete, come ha fatto Monika Meyer-Holzapfel, per spiegare molti comportamenti animali ed umani. Benché il concetto che il maggior fattore rinforzante sia il sollievo dalla tensione possa essere vero in gran parte delle azioni animali ed umane, non è tutto qui. EVANS – Si riferisce qui al modello di Clark Hull (1943) di riduzione della pulsione? LORENZ – Sì. C’è, naturalmente, una molteplicità di motivi, interni ed esterni. Per esempio, mentre l’aggressività, secondo me, è qualcosa che viene dall’interno, può anche essere messa in moto dall’esterno, diciamo dalla frustrazione generale e dalla repressione dell’organismo da parte dell’ambiente. Non c’è dubbio che un individuo è più aggressivo in un ambiente ostile che in uno aperto e permissivo; tuttavia, come ho detto in precedenza, è pericoloso concettualizzare in modo troppo semplificato. EVANS – Ai fini della discussione, consideriamo la fame una pulsione singola primaria, così da poter illustrare l’applicazione dei criteri di alcuni psicologi per una pulsione primaria. Prima di tutto, la fame è di natura fisiologica; secondariamente l’organismo deve soddisfare la pulsione della fame o morire; ter36

zo, è universale, riscontrata in tutti gli organismi, senza riguardo per la specie o la cultura e, infine, è parte della natura ereditata dell’organismo. Quindi, la fame soddisfa tutti i criteri particolari che contraddistinguono una pulsione singola primaria. Trova che questo sia un modo utile di classificare le pulsioni primarie? LORENZ – No. Neppure la fame è così semplice come indicherebbero questi criteri, particolarmente negli animali, perché gli schemi motori per l’acquisizione del cibo hanno le loro specifiche motivazioni misurabili. Se si danno dei topi in pasto a un gatto, questo li inseguirà, salterà loro addosso, li ucciderà e ne mangerà quattro o cinque per soddisfare la sua pulsione al cibo. Tuttavia, in condizioni normali, il gatto insegue per ore, lascia perdere un gran numero di possibili tentativi di uccidere e aspetta, magari seduto davanti alla tana, per ore ed ore. Un animale ha bisogno di queste attività, molto più del reale morso mortale, il morso che uccide. Un gran numero di queste attività devono essere abreatte – non mi piace la parola, ma è la migliore che mi venga in mente per definire ciò. Tuttavia, se si danno a quel gatto un gran numero di topi, si vedrà che, dopo aver ripetuto questa sequenza per quattro volte, ucciderà ancora un certo numero di topi e poi, abbastanza sorprendentemente, continuerà a inseguire topi a distanza, mentre altri topi gli correranno tra le zampe. E non ucciderà più, ma continuerà per lungo tempo a inseguire, poi a restare immobile a puntare. Queste attività esprimono tutta una gamma di motivazioni che coinvolgono ciò che chiamereste la pulsione della fame. Questi comportamenti, naturalmente, aumentano quando il gatto è affamato, ma anche se la sua fame è soddisfatta, le pulsioni a saltare, uccidere, inseguire non sono ancora estinte. EVANS – La motivazione a livello umano è ancora più complicata, soprattutto quando ci occupiamo di motivi sociali, secondari o appresi. Per esempio, se osserviamo lo sviluppo di un bambino, troviamo che il suo comportamento quando mangia è condizionato da molti schemi culturali. La pulsione della fame diviene sempre meno una reazione naturale e osserviamo una modificazione di pulsione primaria per mezzo dell’ap37

prendimento. Non crede che il bisogno di approvazione sociale segni un salto ancora maggiore in direzione diversa dalla motivazione primaria? LORENZ – Non direi un salto, perché il bisogno di approvazione, il bisogno di essere accettati, è ad un livello molto più basso di complessità; è molto più simile ad una pulsione primaria di fame che ad una variazione socialmente condizionata di tale pulsione primaria. Si possono attribuire ad ogni senso primario le funzioni rimunerative di un certo numero di reazioni condizionate di primo, secondo, terzo o quarto ordine in questo complesso sistema di motivazioni. Per esempio, si pensi a quale potente motivazione sia una cosa come il denaro! E tuttavia il denaro è soltanto uno stimolo condizionato in quanto si è imparato che se ne può trarre qualche soddisfazione primaria. Ma il bisogno di approvazione sociale è ovviamente radicato molto più in profondità ed è, ne sono perfettamente sicuro, programmato istintivamente. Per esempio, il bisogno di approvazione sociale è diabolicamente sfruttato come metodo adatto al lavaggio del cervello. La prima cosa che fa chi opera il lavaggio del cervello, è ritirare l’approvazione sociale, così che qualunque cosa dica la vittima, causa stupita disapprovazione; ciò disturba emotivamente l’individuo ad un punto tale che dopo un po’ farebbe qualunque cosa per ottenere un sorriso gentile; arriverebbe a tutto, anche al punto di sacrificare la sua fede più cara pur di ottenere questo tipo di approvazione sociale. Possiamo osservare reazioni analoghe in molti animali. Per esempio, è stato dimostrato che gli scimpanzé arriverebbero realmente alla morte se non ottenessero il feed-back di un comportamento di legame sociale. EVANS – Ciò introduce una distinzione importante tra le opinioni di alcuni psicologi e le osservazioni dell’etologo. Quelli affermerebbero che il bisogno di approvazione sociale si evolve attraverso l’apprendimento, nello sviluppo e nella socializzazione del bambino. Lei invece dice che ciò è parte della natura ereditata dell’organismo. Precedentemente ha usato il termine “antropomorfismo”. Non c’è pericolo di antropomorfismo nella percezione dell’approvazione sociale negli animali? Quello che nell’animale sembra un comportamento motivato 38

dall’approvazione sociale potrebbe essere soltanto funzione dell’attribuire all’animale qualità umane. LORENZ – Questo è un problema veramente fondamentale ed è chiaro che si potrebbero dire molte cose su questo argomento. Ma io direi che questo bisogno di contatto sociale comincia nel momento stesso in cui il bambino riconosce la madre come individuo. René Spitz (1965) ha dimostrato definitivamente che, se un bambino è privato del legame personale con la madre, che si instaura nei primi mesi di vita, si irriterà poi per la presenza di persone estranee. Se in un orfanotrofio, dove le infermiere prendono il posto della figura materna, questo legame viene interrotto dal corso della normale routine di avvicendamento nel lavoro, il bambino cercherà di stringere un altro legame con la seconda infermiera. Poi, anche questa entra nell’avvicendamento e il bambino cerca di stabilire un terzo legame: quando perde la terza figura materna, si rinchiude in se stesso e perde la capacità di formare ulteriori contatti sociali. Questo si verifica sicuramente a livello preculturale e può avere come conseguenza lo sviluppo di un bambino autistico. I sintomi di questa malattia mentale acquisita sono molto simili a quella che generalmente viene chiamata schizofrenia infantile. Animali sociali trattati in modo simile danno esattamente gli stessi risultati. Un precoce isolamento sociale può facilmente produrre un’anatra autistica che più tardi rifiuterà di formare contatti sociali. Se mettete assieme in una gabbia due di tali uccelli, si accovacceranno agli angoli opposti, volgendosi le spalle e ignorandosi completamente. Questo può non essere omologo, ma è senz’altro analogo. EVANS – Naturalmente alcuni psicologi credono che il lavoro di René Spitz indichi che il bambino in una situazione di questo genere risponda alla mancanza di affetto materno, piuttosto che alla mancanza di “contatti sociali”. LORENZ – Sì. EVANS – Il salto, tuttavia, è molto sottile: dal bisogno di affetto materno, o anche di contatti sociali, all’approvazione sociale. Ora, lei dice che questo bisogno di affetto o di contatto sociale è una forma primitiva di approvazione sociale. È esatto? LORENZ – Sì: direi che l’una si fonde con l’altra perché quando un bambino esce dalla famiglia, si stacca dalla madre e comincia a sviluppare relazioni con altri bambini e adulti, il suo bi39

sogno di contatti sociali si amalgama impercettibilmente Con le via via più complesse implicazioni e impegni sociali. EVANS – Come lei sa, usiamo spesso la frase: “processo di socializzazione” per descrivere lo spostamento dell’organismo dall’essere dominato da pulsioni fisiologiche primarie all’essere dominato da vari tipi di bisogni sociali. Lei qui sostiene che le radici della socializzazione sono innate. LORENZ – Sì: direi che è un errore la diffusa opinione di moltissimi psicologi e sociologi, secondo i quali tutto ciò che è sociale nell’organismo umano è culturale e il livello istintivo è intra-sociale. Se c’è qualcosa di cui sono convinto è che questo sia assolutamente falso e che, prima di diventare esseri umani, i nostri progenitori fossero animali socievoli, altamente socievoli, con risposte verso gli appartenenti alla stessa specie molto simili alle nostre. Ritengo molto probabile che i contatti sociali siano un presupposto per la riflessione: guardare la propria mano e riconoscere che un’altra persona ha lo stesso tipo di mano, può essere la radice del ragionamento: “Bene, sono lo stesso tipo di essere di quell’uomo là!”. Rifiuto assolutamente di credere alla teoria secondo cui tutte le reazioni sociali sono culturali e apprese. D’altra parte c’è una predisposizione per la reazione culturale appresa, su cui è costruita tutta la sovrastruttura culturale. EVANS – Così lei afferma veramente che il bisogno di affetto ed altri bisogni sociali, come l’approvazione, sono intrinseci all’organismo ed hanno una base fisiologica. LORENZ – Sì, forse anche una base omologa. EVANS – Così non dovremmo esitare a dire che quella che in generale possiamo chiamare la pulsione della fame non sia meno primaria di quello che in generale possiamo chiamare il bisogno di approvazione sociale. LORENZ – Certamente no; certamente no. Tutti questi bisogni vengono programmati nello stesso sistema nervoso centrale. EVANS – Se è così, è meglio che cominciamo a riscrivere alcuni dei nostri libri di testo di introduzione alla psicologia. Lei ha già usato il termine istinto. Probabilmente si renderà conto che nei nostri primitivi sforzi in psicologia, per giungere a termini utili nella comprensione della motivazione, adoperavamo “istinto”, ma siamo diventati sempre più prudenti con l’uso del termine in questi ultimi anni. 40

LORENZ – Sì, è un termine pericoloso! EVANS – Negli anni ’20, nella psicologia americana quasi ogni atto, ogni risposta, era definita istintiva. In realtà, L.L. Bernard (1925), il sociologo, calcolò i vari tipi di comportamento descritti come istintivi e giunse ad oltre 14.000! Si giunse al punto che, se qualcuno girava i pollici, dicevano che aveva l’istinto di girare i pollici e se non lo faceva, dicevano che aveva l’istinto di non farlo. “Istinto” significa troppe cose. Di conseguenza la maggior parte degli psicologi smise di usare questo termine e passò a “pulsione” o “bisogno”, che considerava più precisi. Tuttavia, il termine “istinto” si conserva nella letteratura; lei, lo lascerebbe cadere? Che cos’è un istinto, secondo il suo punto di vista? LORENZ – Prima di tutto non lascerei cadere il termine: lo userei, come approvato dalla conferenza etologica, per descrivere osservabili schemi motori fissi e non per definire le motivazioni dell’organismo. La prima definizione di Tinbergen (1951) dell’organizzazione gerarchica dei comportamenti appetitivi e degli schemi motori semplici, giunse molto vicina a ciò che era generalmente chiamato un istinto, ma fu considerata una definizione troppo vaga. Quanto a ciò che lei ha detto sull’assunzione dell’istinto come movente, come ogni altra assunzione assoluta di un semplice fattore esplicativo, è inammissibile. Tuttavia, potrebbe essere di aiuto per descrivere uno schema motorio fisso in qualsiasi comportamento la cui origine non sia chiara. Se il piccione domestico vola a casa, questo può essere definito l’istinto del “dirigersi verso casa”; tuttavia, può esserci una molteplicità di schemi motori operanti. Per esempio, un uccello da preda può avere l’istinto di afferrare gli uccelli o quello di spennarli, e così via. Ci sono molte motivazioni specifiche coinvolte in qualsiasi istinto o schema motorio fisso, ma non devono essere classificate in termini di funzione: devono essere osservate e contate specificamente. Altrimenti, le cosiddette spiegazioni di un comportamento sono indirette. Come lei ha fatto notare, alcuni dei primi psicologi, e questo vale anche per McDougall (1908), mi dispiace dirlo, sono colpevoli di aver fatto queste supposizioni indiret41

te molto liberamente. Se le loro spiegazioni sono scientifiche, allora la prossima volta che il mio nipotino mi chiederà che cosa fa andare un convoglio ferroviario, dirò: “Bambino mio, la forza della locomotiva!”. EVANS – Noto che gli etologi hanno cercato di eliminare l’uso del termine “innato”, forse per la stessa ragione per cui gli psicologi hanno smesso di usare il termine “istinto”. È una supposizione esatta? LORENZ – C’è una cosa a cui si può applicare il termine “innato” ed è l’informazione che è alla base del comportamento adattato ad un’esigenza ambientale. Ciò significa che l’informazione su questo stimolo esterno è stata messa a punto e inserita nell’organismo per costruire la forma correlata di comportamento adattato di struttura etologica. EVANS – Cerchiamo di essere un po’ più specifici: lei parla di informazione “inserita”: comincia al livello del genoma? LORENZ – Sì. EVANS – E dice che qui c’è un certo tipo di programmazione? LORENZ – Sì; se un animale “sa” come trattare un’esigenza ambientale, ha “l’informazione” o è “programmato” per rispondere ad essa. EVANS – Quando usa il termine “sapere” non lo intende antropomorficamente. Lei vuol dire che un messaggio è presente nel DNA o successivamente nell’RNA, che programma la reazione dell’animale. È esatto? LORENZ – Sì, ho un messaggio o un’informazione su come è strutturata la situazione, che assicura la mia risposta alla situazione stessa. Ci sono solo due modi per inserire quest’informazione nell’organismo: col metodo della “prova ed errore” – tendenza a “prova e successo” nel genoma – incorpora ciò che ha successo ed elimina ciò che non lo ha – o può essere alimentato nell’organismo da modificazioni individuali o apprendimento. EVANS – Torniamo indietro per un momento: lei si riferisce all’assimilazione di ciò che ha successo e all’eliminazione di ciò che non ne ha. È data una risposta; non ha successo e viene eliminata. In che cosa consiste questo processo di eliminazione e assimilazione? È un processo di adattamento? Stiamo parlando ora di adattamento in termini darwiniani, che viene riflesso bio42

chimicamente nel senso in cui Darwin avrebbe congetturato se il DNA fosse stato scoperto ai suoi tempi? LORENZ – Sì, stiamo parlando in termini strettamente darwiniani, con risposte di adattamento riflesse biochimicamente. Questo processo di immagazzinamento di piccole unità di informazione in circa dieci volte all’ottava potenza riflette un comportamento privo di successo. Uno su dieci all’ottava potenza si riferisce a qualcosa di leggermente più adattabile. L’individuo dotato di questa nuova informazione ha un enorme vantaggio nei suoi sforzi per adattarsi all’ambiente e nel suo potenziale di sopravvivenza. EVANS – Un problema incontrato dall’etologo nell’uso del termine “innato” è che lo trova non sufficientemente preciso. Così lei ha cercato di considerare un comportamento apparentemente innato in termini di informazione o di programmazione nel genoma. L’organismo “conosce” o “sente” questo messaggio e comincia a comportarsi nei termini del messaggio stesso. È esatto? LORENZ – Sì, e poi non c’è niente di completamente innato, perché, comunque sia fissato il programma o la forma di comportamento nel genoma, ha bisogno dell’ambiente per svilupparsi. Solo l’informazione sembra completamente innata. La supposizione è che quando una forma di comportamento si adatta ad un determinato ambiente, l’organismo è stato alimentato con informazioni su quell’ambiente particolare. Esprimerò in una forma leggermente diversa ciò che ho detto in precedenza. Ci sono solo due modi per farlo: primo, con l’interazione della specie col suo ambiente, processo generalmente chiamato adattamento, che significa formare, costruire l’organismo con mutazioni selettive in termini darwiniani perché si adatti all’ambiente, o, secondo, adattare il comportamento all’ambiente con modificazioni. Modificazione del comportamento è apprendimento nel senso più ampio della parola. Quindi questa informazione ha origini filogenetiche o deriva da un processo di apprendimento. L’esatta natura di questi processi è, naturalmente, ancora allo studio. Secondo la mia opinione, è di immensa importanza sapere quale fonte di informazione sia alla base della natura adattabile di una forma specifica di comportamento. Questo si riferisce anche al comportamento umano perché, se il valore nor43

male di sopravvivenza di uno schema di comportamento crolla, è molto pertinente chiedere se il disturbo sia genetico o derivato da un comportamento appreso o dal condizionamento dell’individuo perché le misure da prendere contro il disturbo sono molto diverse nei due casi. EVANS – Vorrei approfondire questo ragionamento appena un po’ di più. Può essere sufficiente a questo scopo quel comportamento umano disturbato descritto come “schizofrenia”, sulle cui origini si sostengono attualmente molti punti di vista diversi. Quello genetico dice che c’è una predisposizione ereditaria al comportamento schizofrenico. Se un individuo predisposto cresce in un ambiente che provoca schizofrenia, è molto più facilmente preda della schizofrenia stessa dell’individuo cresciuto nello stesso ambiente, ma non predisposto. Un’altra teoria sostiene che la schizofrenia è del tutto acquisita – come conseguenza di influenze ambientali – e che non è un problema di predisposizione genetica. Un terzo punto di vista coinvolge una scissione biochimica all’interno dell’organismo, scissione che dà inizio alla schizofrenia, sia programmata geneticamente che comandata dall’ambiente. Ma il punto principale in queste teorie è l’interazione tra predisposizione genetica, effetti ambientali e apprendimento. Come applicherebbe ciò che ha appena detto a queste opinioni sulla schizofrenia? LORENZ – Non potrei dirlo con certezza. Naturalmente ci sono molte possibilità di cattivo funzionamento. Anche se il potenziale di sopravvivenza di un individuo è dell’ordine più alto, non c’è niente nel suo programma innato che non possa essere menomato. Potete menomarlo dalle radici, istituzionalizzando un bambino: in un bambino istituzionalizzato si può creare un’imitazione perfetta della schizofrenia, come ha dimostrato in modo definitivo René Spitz. D’altra parte, come si originino le funzioni di adattamento e adattabilità è una domanda molto più specifica. Il chiedere come questo si applichi ad una malattia complessa è una domanda decisamente difficile. EVANS – Vediamo se è possibile seguire un’analogia simile nel comportamento animale, come quella che lei ha usata nel lavoro di Spitz, discutendo come il bisogno di affetto porti al bisogno di approvazione e così via. 44

La reazione di immobilità, che qualcuno chiama comportamento adattivo, è certamente ben conosciuta negli animali ed è stata oggetto di molte ricerche. È possibile che noi parliamo qui di programmazione di immobilità – della possibilità che questo tipo di reazione sia ora filogeneticamente portato a livello umano e trasportato nella forma di un sintomo della schizofrenia, la catatonia? Questo sarebbe in accordo con l’opinione di R.D. Laing (1965) secondo cui alcune risposte schizofreniche sarebbero di adattabilità piuttosto che di cattiva adattabilità. LORENZ – Proprio non so. Certamente in molti animali ci sono reazioni di immobilità di alto valore di sopravvivenza. Il chiaro caso del “fingersi morto” è una reazione con altissimo valore di sopravvivenza che hanno anche molti insetti e mammiferi. Se questa reazione, tuttavia, sia in qualche modo in relazione con lo stupore catatonico negli esseri umani, semplicemente non lo so. In ogni modo ritengo difficile questo tipo di considerazione. EVANS – Un’altra area di ricerca, in relazione con ciò che abbiamo discusso, è il lavoro di Harry Harlow (1958, 1965, 1966). L’idea generale del lavoro di Harlow, come sapete, era di imparare qualcosa sulle radici e la natura dell’affetto nell’organismo in via di sviluppo. Studiò le reazioni della scimmia Rhesus a sostituti di madri in fil di ferro e in pelo, in confronto a quelle alla vera madre. Giunse alla conclusione che, mentre poteva creare un efficace sostituto della madre con l’uso del pelo e di un meccanismo di alimentazione, col passare del tempo le scimmie cresciute con sostituti di madri erano impotenti. Che cosa ne pensa del lavoro di Harlow? LORENZ – Penso che sia eccellente e che dovrebbe essere portato più avanti. Ho tuttavia una critica da fare, basata sulla mia esperienza con le relazioni madre-figlio nelle oche. Harlow conclude che i neonati Rhesus si attaccano più fortemente alla madre di pelo che a quella naturale. Penso questo sia dovuto alla natura esclusivamente tattile del contatto, ad una mancanza di comunicazione verbale. Se il sostituto della madre rispondesse al pianto di richiamo del piccolo, sono sicuro che questo si avventurerebbe ad una distanza maggiore dalla madre. Se la “madre” non parla, bisogna “aggrapparsi” a lei, perché 45

questo è l’unico conforto che può offrire. Arrivammo a qualche informazione molto interessante nei nostri esperimenti analoghi con sostituti di madri con i paperi. Tali sostituti avevano tutto ciò che può avere una madre: piume soffici, calore nella parte ventrale, e un largo becco con un registratore a nastro inserito che emetteva il verso dell’anatra. I paperi rifiutarono recisamente di reagire ad essa. Presi in mano un papero che aveva rifiutato una finta madre e mi sedetti: i paperi allora cominciarono a piangere e ad emettere il grido di allarme: “Bip, bip, bip”. Immediatamente dissi: “vieni, vieni, vieni” in risposta. Allora il piccolo rispose con la nota di saluto: “Bibip, bibip, bibip”. Nell’esperimento successivo usammo la stessa finta madre, ma senza l’emittente continua che dicesse automaticamente “caca, caca, caca”. Avevamo invece una ragazza con un microfono che rispondeva per la falsa madre. Quando il paperino uscì e cominciò a piangere, la madre finta disse: “vieni, vieni, vieni”, in risposta. Ecco la semplice spiegazione del perché il paperino non avesse risposto alla finta madre dallo schiamazzare continuo. Allora Fisher ed io facemmo un esperimento molto semplice: prendemmo due paperini, uno marcato di rosso sulla testa e l’altro di giallo. Io risposi ad un paperino e il Dr. Fisher all’altro. Ripetemmo l’esperimento quattro volte per dieci minuti e poi ce ne andammo. Ogni paperino seguì la persona che aveva risposto al suo richiamo: entrambi avevano sentito i due richiami, l’unica differenza era che ogni paperino aveva ricevuto la voce di una delle due persone in risposta al suo segnale di richiamo. Così vorrei ampliare la teoria di Harry Harlow sui modelli di pelo e ricavarne un modello che risponda quando il piccolo si allontana e chiama aiuto.

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3. Discussioni sull’aggressività

Sommario. – In questo capitolo il Prof. Lorenz ed io discutiamo la sua interpretazione del concetto di aggressione o aggressività, come preferisce chiamarlo, ed egli reagisce alle errate interpretazioni del suo libro Il cosiddetto male. Discutiamo la sua analisi del rapporto della Commissione Presidenziale sulla pornografia e la violenza, gli effetti dei modelli di violenza e i motivi della limitata influenza dei modelli di pace. Alla fine, Lorenz presenta alcune proposte per scoraggiare la violenza nella società di oggi.

EVANS – Vorrei cominciare questa parte del nostro colloquio dal suo libro sull’aggressione, Il cosiddetto male. La parola “aggressione” è un termine carico di emotività: implica violenza, qualcosa di estremo. È realmente ciò che lei voleva trasmettere con quel titolo? LORENZ – La sua domanda spiega perché tanta gente abbia reagito emotivamente e pensi che io abbia scritto l’apologia della violenza. Quando fu pubblicata l’edizione francese del mio libro, mi resi conto che non avrebbe dovuto essere intitolato Sull’aggressione, ma piuttosto “Sull’aggressività”. Lo stesso vale, anche se in grado minore, per il titolo inglese; nei libri di Freud questa parola fu tradotta in inglese con “aggression” e non con “aggressivity”. In tedesco le due parole sono più o meno sinonime, ma non lo sono in inglese o in francese; quindi, il titolo avrebbe dovuto essere “Sull’aggressività” e non “Sull’aggressione” e tanto meno “Sulla violenza”. La maggior parte del libro tratta il problema di come gli animali evitino la vera violenza, l’uccidere vero e proprio e così via. Ora lasciamo da parte la parola e rivolgiamoci a ciò a cui mi ri47

ferii una volta, in una conferenza ad Honolulu, come al comportamento “io-ti-posso-battere”. Se mettete assieme due bambini, due pesci della stessa specie, due galletti, due scimmie, si comporteranno nel modo descritto da Mark Twain in Tom Sawyer: al primo incontro di Tom col suo rivale, Alfred Temple, i due misurano le forze spingendosi con le spalle; poi uno di loro dice “io-ti-posso-battere”. In un gran numero di specie l’aggressione è dissimulata nel rituale della minaccia, del misurare le forze. Non è la pulsione a uccidere un’altra persona, ma a forzarla alla sottomissione. È connessa allo status e al territorio, non all’uccisione; non c’è in ciò un istinto distruttivo. Se osservate voi stessi fenomenologicamente – ciò che sentite quando siete realmente furioso verso un altro uomo, – vi accorgerete che non volete ucciderlo, ma batterlo fino a farlo arrendere: questo non è uccidere! Nel comportamento aggressivo, l’uccisione è sempre, più o meno, un incidente. Ci sono soltanto due specie, ora conosciute, in cui la lotta tra rivali termina in realtà con l’uccisione dell’avversario: una è una specie di lucertolone e l’altra l’elefante indiano. L’uccisione effettiva in una lotta territoriale è stata documentata, in un film, soltanto in un altro animale: il tuffolo, un uccello acquatico del nord. La scarsità degli esempi ci dimostra quanto raro sia in realtà. EVANS – Parlando di aggressività, possiamo sollevare la questione del grado a cui si applica lo stesso modello di cui abbiamo discusso – informazione o programmazione del genoma. In termini di aggressività, lei direbbe che è presente questa stessa programmazione genetica? LORENZ – Se dovessi scrivere di nuovo il mio libro sull’aggressività, farei una distinzione molto più precisa tra aggressività individuale intrasociale e l’aggressività collettiva di un gruppo etnico contro un altro. Questi possono essere benissimo due programmi molto diversi; lo si può vedere perfino negli animali. Gli schemi di comportamento di singoli animali che cercano uno status e lottano per il rango, sono completamente diversi dagli schemi di comportamento di un gruppo che lotta contro un gruppo rivale. Quindi, posso aver sbagliato nel non definire con sufficiente precisione questi due fattori perché hanno una natura molto diversa e un ben diverso valore. Come lei sa, io penso che entrambi i tipi di aggressività abbia48

no in se stessi valore di sopravvivenza. Se si è completamente privi di aggressività individuale, non si è in realtà individui, si appartiene a chiunque altro, non si ha orgoglio in se stessi. Credo che il mio amico Antony Storr (1968), abbia dimostrato molto bene le conseguenze della mancanza patologica di aggressività individuale. D’altra parte l’entusiasmo collettivo militante, che è il presupposto per una guerra, è anche il presupposto per ogni più alta realizzazione umana. Il nostro entusiasmo per la scienza è basato sulle stesse radici istintive primordiali. Un uomo privo dell’entusiasmo collettivo è in realtà uno storpio emotivo e non può venir coinvolto in niente. Ma la gente ha bisogno di un’attenta guida nell’entusiasmo collettivo; il pericolo del nazionalismo esasperato – un legame locale che si risolve nell’odio verso le altre nazioni – è sempre presente. Questo legame parziale è caratterizzato dalla necessità di essere americano o francese o tedesco. Ecco perché il nazionalismo estremo può essere pericoloso: un uomo può essere con tutto il cuore francese, inglese o tedesco, ma può essere anche qualcosa di più generale: può essere uno scienziato, un biologo così come un musicista entusiasta o un filantropo. Si possono avere molte diverse cause o identità, ristrette o ampie, in cui essere profondamente coinvolti. lo penso che un ristretto entusiasmo nazionale o nazionalismo, sia oggigiorno un particolare pericolo. EVANS – Lei parla di una programmazione che porta all’aggressività individuale, diversa da quella in relazione con l’aggressività collettiva o di gruppo. C’è anche uno strato di rinforzo sociale coinvolto nel dirigere lo schema di aggressività, o qualunque altro istinto a livello umano, non è vero? LORENZ – C’è sempre. Non c’è nulla nel comportamento umano, niente nel suo comportamento o nel mio, non un arricciamento del naso o un movimento delle labbra, né un segno, che non sia influenzato dal nostro ambiente culturale. Tutto il comportamento umano è rituale: ciò che non è reso rituale è osceno. Il grattarsi, il toccarsi il naso, lo sbadigliare, lo stiracchiarsi per non parlare di cose più scorrette, sono comportamenti non resi rituali. Se un uomo manca di conformarsi ai ritualismi sociali normali e prescritti, è ovviamente ostile. Se un amico en49

tra improvvisamente nella stanza senza un sorriso, senza guardarvi, senza prender atto della vostra presenza, il vostro primo pensiero è: “Mio Dio! Devo averlo offeso perché è diventato ostile!”. Nei contatti sociali, tutto, anche il più piccolo movimento è rituale. Quindi, naturalmente, questo è diventato per noi una seconda natura. L’uomo, intrinsecamente, è una creatura della sua cultura e quindi se dico che ci sono programmi innati alla base del nostro comportamento sociale, questo non significa che su di esso non ci siano sovrastrutture determinate culturalmente. EVANS – In pratica lei dice che non è un problema del principio di programmazione innata, applicata unicamente all’aggressività, ma a tutti i tipi di comportamento sociale espressi in forma individuale o collettiva. Nello sviluppare quest’idea nel suo libro Il cosiddetto male, lei ha scelto l’aggressività come punto focale. Avrebbe potuto scegliere la ricerca di status o, se è per questo, qualunque altro comportamento speciale. LORENZ – Esattamente. EVANS – Così non pensa che ci sia qualcosa di particolare, almeno in teoria, circa le caratteristiche dell’aggressività? LORENZ – Con tutte le armi nucleari che ci circondano, l’aggressività mi sembra, al momento, una delle motivazioni più pericolose. Ma, come lei dice, l’aggressività è soltanto uno tra i tanti schemi di comportamento. Dal sesso sono motivati schemi di comportamento più nocivi che l’aggressività. Naturalmente, le origini innate di ogni motivazione devono essere capite da ogni essere umano responsabile ed educato perché deve conoscere il cavallo su cui galoppa. Ho scritto questo libro sull’aggressività perché credo sia per noi particolarmente importante conoscere una delle nostre tendenze pericolose – la tendenza all’entusiasmo collettivo contro altri uomini, organizzati da un entusiasmo egualmente collettivo. Tuttavia, l’angoscia è per lo meno allo stesso livello di pericolosità e di minaccia. Le conseguenze di un’angoscia che si propaga liberamente sono incalcolabili. Qualcuno, che conosca più di me quest’argomento, dovrebbe scrivere un libro sull’angoscia in parallelo al mio sull’aggressività. EVANS – Cerchiamo di essere un po’ più specifici per ciò che concerne il suo lavoro sull’aggressione o aggressività. Una cosa che ha turbato alcuni lettori della sua opera è il fatto che lei dà 50

l’impressione di credere che il comportamento aggressivo possa essere spontaneo: che l’aggressività possa verificarsi negli animali in situazioni di gioco, senza provocazione vera e propria: “giochi” aggressivi. Logicamente, si potrebbe dire che la base dell’aggressività dovrebbe essere qualche funzione di adattamento come la reazione alla frustrazione, ma lei par che dica che il comportamento aggressivo potrebbe emergere senza provocazione. LORENZ – Io ne sono convinto. Non posso provarlo molto bene nell’uomo, ma lo posso fare in certi animali. L’aggressione o aggressività segue tutte le regole dell’abbassamento di soglia e del comportamento appetitivo. Si può vedere un animale in cerca di guai. Anche un uomo può farlo, naturalmente. Sono perfettamente sicuro che le leggi, formali o informali, della società umana servono come meccanismi coercitivi per dirottare l’aggressività verso canali prescritti. Tuttavia, la stessa relazione tra pulsione interna in aumento e centri superiori che la controllano, limita l’aggressività, così come la maggior parte degli altri schemi di comportamento istintivo. Un forte argomento a sostegno di questa tesi si può trovare negli studi sulle tribù primitive come gli Indiani Maika dell’Orinoco e gli aborigeni australiani. Si trovano anche schemi di cultura altamente elaborati, riflessi in ciò che si dice socializzazione dei bambini che volgono l’aggressività verso canali innocui. EVANS – Spostiamoci su una scena attuale degli Stati Uniti, dove si distinguono due pulsioni: sesso e violenza. Abbiamo avuto Commissioni Presidenziali sull’oscenità e la pornografia. È interessante il fatto che la Commissione per l’oscenità e la pornografia (1970) abbia concluso che qualunque eccitazione sessuale sollevata dalla pornografia sia, generalmente parlando, innocua e che sarebbe ridicolo mettere in pericolo il nostro sistema di libertà censurando o mettendo al bando la maggior parte della pornografia. D’altra parte, la Commissione Nazionale per le cause e la prevenzione della violenza (1969) ha giudicato il quadro della violenza un modello molto distruttivo e considerato che dovremmo cercare di eliminare la violenza dalla televisione e dai film. Che cosa ne pensa di queste conclusioni? 51

LORENZ – Sarei in linea generale d’accordo sul fatto che la presentazione di sesso e violenza ha due effetti diversi. Julian Huxley scrisse, quasi 70 anni fa, che queste attività sono allo stesso tempo autostimolanti e autoesaurienti. Naturalmente l’aggressività è autogratificante. È quindi un reale problema capire se, incoraggiando una persona a provare l’aggressività distruttiva in luogo di un’altra, aumentate le probabilità di tale aggressività o producete il buon effetto di una abreazione catartica. Ma penso che il pericolo di rimuovere le inibizioni sia il problema maggiore. L’esposizione dei bambini a dosi eccessive, da parte dei mass-media, di guerre, battaglie, delitti ed altri atti di violenza, può diminuire le inibizioni a commetterli. Penso che il potenziale di aggressività in se stesso sia meno alterato da questi fattori che non la tendenza a diminuire le inibizioni con la creazione di un clima sociale che tollera sempre più l’aggressività. Anche la tendenza generale degli individui a non lasciarsi coinvolgere, l’estraniarsi della gente dai vicini, la vita solitaria che si conduce oggi nelle grandi città, può influire molto sull’aumento di criminalità e violenza nelle strade. In un certo senso la violenza porta all’estraniazione e l’estraniazione porta ad un clima di maggior violenza; io penso che la rimozione delle inibizioni verso quest’ultima sia pericolosa. Un sadico sessuale può anche venir coinvolto nella violenza, ma, nell’insieme, credo che il pericolo maggiore della pornografia sia la deromanticizzazione del comportamento sessuale: elimina l’innamoramento, la bellezza e le cerimonie della formazione di una coppia; per la nostra cultura questo è altrettanto pericoloso della violenza. EVANS – Che cosa intende qui con la parola “pericoloso”? È pericoloso in un senso diverso dalla violenza, non è vero? LORENZ – Sì; potrei dire che la distruzione degli esseri umani sembra molto crudele, ma la nostra cultura può tollerarne una certa quantità e sopravvivere; ma la distruzione delle emozioni più alte, la scomparsa dell’amore, dell’innamoramento, dell’essere innamorato, dell’amare la propria moglie, la molteplicità generale del comportamento nel legame raffinato di adattamento, può presentare per la sopravvivenza della nostra cultura un pericolo maggiore della violenza come tale. EVANS – Significa allora che la pornografia può rinforzare il 52

“sesso momentaneo” non selettivo, estinguendo gradualmente ciò che noi chiamiamo risposte amorose? LORENZ – Sì, credo che possa estinguere le sovrastrutture più sottili, più sensibili e, da un punto di vista sociologico, più importanti del comportamento sessuale. Posso riferirvi un sintomo di ciò: la gente scrive libri sul sesso; il rapporto Kinsey (1948) per esempio, tratta l’accoppiamento come se fosse l’unica forma di comportamento sessuale e la stessa cosa possiamo dire di Masters e Johonson (1966). Secondo il mio punto di vista, il comportamento sessuale comincia con l’innamoramento, con l’inizio della consapevolezza del sesso opposto, con le forme elaborate di corteggiamento che sono in parte innate, in parte culturalmente determinate. EVANS – Trovate il comportamento di corteggiamento negli animali? LORENZ – Sì, naturalmente, ma negli animali domestici tutte queste più sottili sovrastrutture del comportamento sessuale tendono a scomparire in un modo molto simile a quanto accade nell’uomo civilizzato. Se si confrontano gli schemi di comportamento degli animali domestici con quelli delle specie selvatiche, si troverà che il bisogno di accoppiamento non selettivo, di quella forma di copulazione istantanea non selettiva che chiamiamo bestiale, non è caratteristico degli animali selvatici, ma di quelli domestici. EVANS – Tornando ancora una volta all’aggressività, un interessante distacco da alcuni dei suoi punti di vista è descritto in uno studio di Mallick e McCandless (1966). Essi studiarono se fosse possibile o meno che il permettere ai bambini di prender parte ad attività aggressive scaricasse il loro bisogno di aggressione. Si preparò un esperimento in cui un gruppo di bambini che avevano avuto l’opportunità di giocare prima a giochi aggressivi e poi ad altri, fu confrontato con un altro a cui non era stato permesso di unirsi ai giochi aggressivi. Scoprirono, cosa abbastanza interessante, che il partecipare a giochi aggressivi non sembrava scaricare il loro bisogno di aggressione. Al contrario: quando era loro nuovamente offerta l’opportunità di essere aggressivi, lo erano più che mai. Questo farebbe pensare che il partecipare all’aggressione non scarichi necessariamente il bisogno di essa. Può invece rinforzarlo. Che cosa ne pensa di questo esperimento? 53

LORENZ – Penso che qui ci sia un fraintendimento del mio punto di vista. Non ho mai avuto l’intenzione di dire che non si può rinforzare l’aggressività. Naturalmente è possibile! Un eccesso di attività aggressiva in determinate situazioni può portare ad un comportamento maggiormente aggressivo. Sappiamo che i pesci possono essere addestrati ad essere più aggressivi di quanto non lo siano normalmente. Il che non significa che lo stesso pesce, privato dell’opportunità di scaricare in qualche modo l’aggressività, non diventi spontaneamente aggressivo. Stiamo parlando qui di due effetti distinti. Si possono creare le condizioni per addestrare l’organismo ad essere più aggressivo, ma il contrario non è vero. Eliminando tutte le situazioni ambientali che sollecitano l’aggressività, non è possibile disattivarla; non si può sperare che si verifichi un’atrofia per quanto concerne il bisogno di scaricare l’aggressività che si è prodotta e accumulata. Questo è noto anche agli psicanalisti; le persone con forti blocchi di aggressività possono diventare decisamente suicide, perché rivolgono l’aggressività verso se stesse. Quindi i risultati delle ricerche di Berkowitz non mi sorprendono: non ho mai pensato che si potesse non aumentare l’aggressività insegnando al bambino a scaricarla con più successo. Si tenga però presente che questo procedimento può influenzare le inibizioni nei riguardi dell’aggressività. Il processo di facilitare o inibire l’aggressività è molto più complesso di quanto appaia. EVANS – Quindi lei dice che l’atto stesso di diventare aggressivo è rinforzante. Non la sorprende che, in queste particolari condizioni, i bambini siano poi più aggressivi? LORENZ – Non in queste condizioni: sarei sorpreso se, eliminando tutti i fattori che provocano l’aggressività, per esempio completa non-frustrazione o permissività totale, si producesse un bambino non aggressivo. Vedete la differenza? In realtà molte ricerche dimostrano che i bambini in un ambiente del tutto permissivo e non frustrante sono, nel complesso, molto aggressivi. EVANS – Vorrei ora riepilogare le possibilità da lei descritte: una situazione permette all’individuo di essere aggressivo scaricando la sua aggressività. In un’altra, l’ambiente permette all’individuo di essere aggressivo, ma questo non scarica l’ag54

gressività; in realtà sembra accrescere la probabilità del suo ripetersi. LORENZ – Sì, particolarmente se si rinforza questa attività con l’approvazione sociale. Ciò è stato dimostrato molto bene da una ricerca che confrontava una tribù di indiani con i Boscimani. Gli Indiani sono molto aggressivi e incoraggiano i loro figli ad esserlo, ritualizzando l’aggressività. Permettono ai bambini di colpirsi scambievolmente sulla testa con un bastone, in modo molto vistoso, ma non violento. I Boscimani, che sono meno aggressivi, incanalano l’aggressività verso il bambino con una disapprovazione leggera, ma espressiva. L’esposizione a diversi tipi di aggressività nell’infanzia ha come risultato un’enorme differenza tra questi due popoli, da adulti. Tuttavia, se si osserva il comportamento aggressivo precoce dei loro bambini, si scoprirà che le sue dimensioni sono molto simili. EVANS – Lo studio che lei ha ricordato si origina da un esempio che noi chiamiamo apprendimento sociale: Alberto Bandura (19691965), di Stanford, e Berkowitz (1962) hanno esplorato quella che è generalmente chiamata “imitazione” e, più precisamente, “prendere a modello” in psicologia sociale. Applicandolo al problema della violenza in televisione, Berkowitz potrebbe dire che, se un bambino vede violenza in televisione, questa diventa un modello che a sua volta rinforza gli schemi violenti. Da ciò che ha appena detto, deduco che lei non è in disaccordo. LORENZ – No, affatto. Il prendere a modello, l’imitare, sono fortemente stimolati dal rendere interessante il modello che il bambino imita. I modelli molto pericolosi sono figure come James Bond, killer professionisti, resi interessanti come eroi. In questi casi non c’è problema di scarica benefica. Ho scritto qualcos’altro nel mio libro sull’aggressività che modificherei se lo riscrivessi. Oggi, ho moltissimi dubbi sul fatto che il semplice osservare comportamenti aggressivi abbia qualche effetto catartico. È anche uno dei pericoli della pornografia; invece di fare qualcosa, ci si rassegna a guardare qualcosa. Questa è una tendenza generale nella nostra cultura: non fare, ma accontentarsi di guardare. Da questo punto di vista, osservare la violenza potrebbe anche essere un beneficio. Chi lo sa? Tuttavia, tutte queste cose sono spade a doppio taglio; funzionano da entrambe le parti. 55

EVANS – Supponiamo di poter riuscire a bandire la violenza dalla televisione e ad eliminare i giocattoli bellici. Supponiamo di poter eliminare la maggior parte dei modelli di violenza dalla nostra cultura. Secondo lei, che cosa accadrebbe? Ci sarebbe una ragionevole probabilità di ridurre l’aperta violenza nella società? LORENZ – Potrebbe almeno ridurre l’entusiasmo per la guerra. Non si può insegnare ad una persona a non essere entusiasta, ma è possibile insegnare per che cosa entusiasmarsi, quali eroi imitare, a quali eroi appassionarsi. Potrei non entusiasmarmi per Napoleone o alcun eroe guerriero, non appassionarmi moltissimo a Charles Darwin, il quale rappresenta il lato costruttivo della nostra cultura. Si può insegnare ad una persona quali cause abbracciare, quali cause siano degne di essere abbracciate anche se l’atto di abbracciarle è emotivo e programmato in modo altamente genetico. Questo è ciò che voglio dire quando affermo che la guerra è istituzionale, perché le guerre sono generalmente considerate cause degne di essere abbracciate. Dobbiamo abituarci all’idea che la guerra non è più funzionale: con le armi nucleari la guerra significa suicidio. Penso che il compito maggiore dell’educazione sociale di oggi dovrebbe essere l’eliminazione della guerra. EVANS – Proseguendo su questa linea, osserviamo gli sviluppi che portarono alla seconda guerra mondiale e osserviamo il risorgere della Germania, un paese completamente infranto in conseguenza degli accordi della prima guerra mondiale. Gradualmente cominciammo a vedere l’emergere dal nazionalismo fanatico, che lei ha ricordato precedentemente. Questo diede ad Hitler il potere di cui aveva bisogno per i suoi tremendi attacchi al genere umano. In un certo senso, lo stesso popolo tedesco divenne vittima di Hitler. Come valuta il sorgere dell’aggressività in Germania, che portò, per esempio, al fanatismo della Hitler Jugend? Che cosa pensa al riguardo? LORENZ – A questo proposito ho una teoria molto personale. Quando i giovani della Germania di oggi sono disillusi e “blasé”, – attaccandosi ai fili di paglia, abbracciando cause sbagliate, criminalità giovanile e così via, – si dice spesso che questo dimostra la delusione sofferta negli ideali nazionalistici portati avanti da Hitler. Credo che il successo del nazionalso56

cialismo fosse un sintomo della mancanza di veri ideali. Si prenda il musical West Side Story, che riflette gli stessi modelli nelle gang delle strade di New York. Qui vediamo giovani buoni, del tutto normali dal punto di vista genetico, crearsi un avversario soltanto per diventare collettivamente entusiasti nel combatterlo. È proprio questo lo spirito nazista. Se si pensa che questi giovani crearono le loro unità combattenti, si capirà anche quanto sensibili siano i giovani ai punti di vista del demagogo, che offre loro falsi ideali e li fa combattere, in un modo molto simile a quello con cui facciamo combattere gli spinarelli contro un modello fasullo. Credo che il successo di Hitler in Germania sia una prova della pericolosa mancanza di veri ideali da abbracciare. Credo che i problemi più importanti che oggi dobbiamo affrontare siano etici e morali. C’è anche il problema della gioventù ribelle che, a buon diritto, si rivolta contro la razza di roditori della competizione commerciale e contro la distruzione e la contaminazione dell’ambiente. Sono perfettamente giustificati nel ribellarsi a molte cose che fanno parte dell’ambiente costituito. Io sono decisamente dalla loro parte. Ma il problema è che cosa dar loro in cambio, che ideali, e questa è una cosa difficile da realizzare. Ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa come una nuova etica. EVANS – È una cosa interessante che i modelli di guerra sembrino sempre più attraenti di quelli di pace. LORENZ – Sì, perché l’uomo si entusiasma collettivamente e militarmente; entusiasmarsi per la pace è una cosa difficile da chiedere. Ma credo che riusciremo a portare la gente a questo: possiamo portarli ad entusiasmarsi per la salvezza dell’ambiente. Sono lieto di poter dire che, particolarmente qui, in Austria, l’interesse dei giovani per il movimento per la protezione dell’ambiente è in rapido aumento. Sono sempre andato d’accordo con gli studenti: ho detto loro apertamente ciò che c’è di sbagliato nei loro scopi, nelle loro guerre tribali contro le generazioni precedenti e del bisogno di dirigere il loro entusiasmo verso i giusti canali. Ci sono, per Dio!, abbastanza ostacoli da superare, se vogliamo salvare l’Umanità! Ci sono tante cause, veramente significative, per cui i giovani dovrebbero entusiasmarsi, piuttosto che battaglie contro le vecchie generazioni. È un peccato che questo non possa esser loro comunicato con sufficiente convinzione. 57

EVANS – Pensa che i simboli dell’aggressività, come Hitler, possano risorgere? Pensa che esistano ancora le vecchie basi? LORENZ – Ho il timore, profondamente radicato, che possa essere così. EVANS – Ritornando a qualcosa di più specifico nella vostra teoria sull’aggressività: il Prof. Heinz sollevò una critica al suo lavoro e penso sia bene sentire la sua risposta. L’interpretazione di Heinz della sua teoria dell’aggressività è: (1) che l’aggressività sia un’energia, in costante aumento, la quale esige uno scarico e (2) che questa aggressività si scaricherà, anche senza un’appropriata stimolazione esterna ed un oggetto verso cui dirigerla. È giusta questa critica? LORENZ – Non so se l’aggressività cresca in questo modo nell’uomo; ma credo di sì. Considerando il grosso pericolo dell’aggressività collettiva che abbiamo prima descritto, riguardo al pericolo di individui che “vanno in cerca di guai”, lo scienziato ha il dovere di allontanarsi dal suo fondamento logico generale secondo cui deve dire solo ciò che può provare. Se il pericolo è abbastanza serio, lo scienziato non è soltanto legittimamente giustificato, ma legato al dovere di richiamare l’attenzione sul pericolo, particolarmente se sa che il cavallo che si sta cavalcando è selvaggio e dovrebbe essere imbrigliato prima che sia troppo tardi. Abbiamo fatto moltissimi esperimenti con i pesci dalla prima volta in cui ho formulato quella teoria, ed essi dimostrano che in moltissimi casi i pesci vanno “in cerca di guai”. L’abbiamo osservato anche nelle oche. In realtà, nel nostro istituto è stato dimostrato in modo del tutto conclusivo il comportamento appetitivo come scarica di appetitività negli animali. È ancora aperto al dubbio, naturalmente, se questo sia vero o meno negli uomini. Ma se ci fosse anche una debole possibilità che sia così, dovremmo prendere misure difensive per essere al sicuro. Questa è la mia risposta a quella domanda.

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4. Alcuni concetti e problemi psicologici

Sommario. – In questo capitolo il Prof. Lorenz ed io discutiamo alcuni concetti freudiani e l’equilibrio tra le teorie: biologica, culturale e di autodeterminazione. Egli presenta le sue reazioni alle diverse componenti delle teorie di Karen Horney, Erich Fromm e, in modo particolare, Karl Jung. Discutiamo le teorie di Skinner e, infine, la reazione del Prof. Lorenz al concetto di Abraham Maslow sul dominio del maschio sulla femmina.

EVANS – In queste interviste abbiamo ottenuto dai nostri illustri partecipanti una varietà di punti di vista sulla teoria freudiana. Ci piacerebbe moltissimo sentire le sue reazioni alle idee di Freud. Specialmente nei suoi primi scritti, Freud, postulava un’essenziale energia psico-sessuale che chiamava “libido”. Egli credeva che lo sviluppo biologico dell’uomo fosse caratterizzato dalla libido alla ricerca di obiettivi prima all’interno dell’uomo stesso e poi al di fuori – in cui investirsi. Che cosa ne pensa della teoria freudiana della libido? LORENZ – In primo luogo, diciamo che l’etologia va molto d’accordo con la teoria freudiana. Per stabilire correttamente i meriti di Freud, si deve tener presente che quando scrisse le sue opere, tutto il mondo scientifico era vincolato alla teoria dei riflessi di Sherrington, cioè la dottrina secondo cui il rispondere alla stimolazione esterna è l’unica e sola funzione del sistema nervoso centrale; Freud riconobbe l’esistenza di una produzione endogena di istinto, di una produzione di stimolo endogena, comunque la si voglia chiamare. La chiamò “libido” e, traducendo libido con istinti pulsioni generali nella loro piena complessità -, ci si accorgerà che è vero. La scoperta fondamentale di Fremi fu la funzione del sistema nervoso centrale come un dualismo tra pulsioni interne pullu59

lanti e centri più alti, sovrapposti, che reprimono quelle pulsioni. Questo modello, credo, è molto più fedele alla funzione fondamentale del sistema nervoso centrale. Quando si scende agli animali più bassi, come il verme, si scopre che il sistema nervoso centrale – il midollo ventrale dell’animale – produce continuamente stimoli per tutta una gamma di attività: per mangiare, strisciare e così via. Se tagliate i gangli appropriati, queste attività vengono fuori in un miscuglio, quasi come in un attacco epilettico e la funzione del sistema nervoso centrale è, ovviamente, di reprimerle. Ma il sistema nervoso centrale agisce anche da rivelatore – preferisco il vecchio termine di Pavlov, “detector” – che decide quando una di queste attività, generalmente inibite, debba essere disinibita o liberata. Questo è il modello di base dell’approccio etologico alla fisiologia del comportamento animale. Penso che l’idea freudiana della “libido” che scaturisce e dell’“ego” che la frena, sia molto simile. EVANS – Il significato specifico di libido come energia psicosessuale fu esteso da Freud alla teoria di sviluppo psicosessuale. Questa teoria, naturalmente, dice che lo sviluppo passa attraverso una serie di stadi durante i primi cinque anni di vita umana – orale, anale e fallico. Che cosa ne pensa? LORENZ – Bene, devo onestamente riconoscere che non so che farmene delle tre fasi, perché le fasi, orale, anale e fallica si riscontrano anche in animali che non hanno bocca, ano o fallo. Si trova la fase fallica anche negli uccelli, che non hanno il pene. Quindi non so davvero che farmene di quella teoria. Il concetto generale di sesso, come esempio di un istinto, va bene; sono d’accordo su questo, ma penso che Freud ignori la molteplicità, il mosaico delle numerose, piccole motivazioni indipendenti, che insieme formano, in mancanza di una parola migliore, una pulsione. Robert Hinde (1956) ha scritto un ottimo saggio sull’unità di pulsione. Giunse alla conclusione che la pulsione – paterna o sessuale e così via… – è in realtà la materializzazione di una molteplicità di fattori indipendenti e che la pulsione in se stessa non esiste. EVANS – Come lei sa, in seguito Freud modificò parecchio la sua teoria della libido. Era stato gravemente turbato dagli eccidi e dalla brutalità della I Guerra Mondiale: la teoria della libido – egli disse – non può spiegare questo e ci deve essere nell’uo60

mo una specie di istinto di morte. Allargò allora la teoria, per includere non soltanto l’istinto di vita, o libido, ma anche l’istinto opposto. Proveniente dall’istinto di morte, egli postulò l’aggressività. Credete che Freud avesse ragione quando diceva che nell’organismo ci sono gli opposti istinti di vita e di morte? LORENZ – Penso sia decisamente sbagliato: è molto più difficile spiegare come gli animali restino in vita e propaghino la loro specie che come muoiano. Non è necessario postulare un meccanismo di controllo-guasti nella macchina, per dimostrare il fatto che di quando in quando si rompe; si rompe in ogni caso. Non mi piace si possa pensare che io voglia difendere Freud; è un uomo più grande di me, ma credo che si possa giustificare la sua teoria del ripiegamento dell’aggressività verso se stessi, nell’ambito della sua applicazione primaria agli istinti sessuali. Per cominciare, il bambino, l’animale giovane, il giovane uomo, sono essi stessi gli oggetti dei loro istinti sessuali, che vengono poi riflessi verso l’esterno. Penso però, che l’idea di Freud di un istinto di morte diretto originariamente verso l’individuo stesso e poi verso l’esterno – così che invece che uccidere se stesso, uccide qualcun altro – sia discutibile. Se si applica allo sviluppo individuale dell’istinto sessuale, questo modello è valido, ma non credo lo sia se applicato all’istinto aggressivo. L’aggressività è soltanto una delle molte pulsioni: può portare alla violenza e alla morte, ma può farlo anche il sesso. Nelle vostre vite civilizzate, più danno è causato dall’innamoramento, credo che dall’aggressività, almeno da quella non violenta. EVANS – Per inciso, lei ha parlato qui di suicidio: so che può risultare una domanda semplicistica ma, gli animali, commettono mai suicidio? LORENZ – No, assolutamente no. Per commettere suicidio bisogna riflettere e, inoltre, il suicidio è in realtà un’aggressione diretta verso lo stesso soggetto. È stato dimostrato da molti psicanalisti e psichiatri brillanti che un’alta percentuale di suicidi viene da aggressività bloccata, soprattutto aggressività verso un membro molto amato della stessa specie – come quando si ama la moglie e si prova nei 61

suoi confronti un sentimento di aggressività, che è bloccata dalla stessa condotta di legame che all’inizio unì il soggetto alla persona. Proprio l’amore che si porta a questa persona può spesso portare al suicidio. EVANS – Dovremmo allora arguire che, come schema comportamentale, il suicidio è strettamente umano. LORENZ – È soltanto umano. EVANS – Spostandoci ora in un’area leggermente diversa, Dr. Lorenz, guardando ai vari centri di interesse che abbiamo ora in psicologia, essi sembrano andare più o meno in tre direzioni: una teoria del determinismo biologico, la quale afferma che il comportamento dell’uomo è principalmente determinato da una varietà di forze biologiche; una teoria del determinismo socio-ambientale secondo la quale l’uomo è soprattutto plasmato e influenzato dall’ambiente sociale in cui vive; e, naturalmente, la teoria secondo cui l’uomo è soprattutto autodeterminato, ha una libera volontà e così via. Freud, in conseguenza delle sue teorie, dovrebbe essere considerato un determinista biologico. Sentiva che l’uomo è soprattutto una vittima di forze primitive, inconsce e irrazionali, all’interno di se stesso, parte della sua natura ereditata, l’Es. Secondo Freud, l’uomo sviluppò un controllo conscio, un io razionale, in antitesi all’irrazionale inconscio; apparentemente una battaglia perduta. Era molto duro per l’uomo superare queste influenze biologiche. Che cosa ne pensa di queste tre teorie? LORENZ – Direi che tutte e tre sono in parte vere. Il problema è soltanto quello della misura in cui l’uomo è motivato da ciascuna di esse. Freud aveva ragione circa lo scontro tra Es e Io e ancor più tra Es e Super-io. L’uomo possiede lo stesso complesso di motivazioni istintive degli animali, ma anche molte sovrastrutture, largamente culturali, derivate dal pensiero concettuale. C’è un certo antagonismo tra ciò a cui gli istinti – l’Es – istigano l’uomo e ciò che la società gli richiede. Certamente, nelle sue opere successive, Freud andò a fondo di questo problema con grande precisione e comprensione. Direi che le richieste che la cultura fa alla struttura istintiva dell’uomo, crescono con la cultura, e, particolarmente, con la popolazione. Gli istinti che servirono bene alla società di cinquanta milioni di Maikas o all’uomo dell’Età della Pietra, possono dive62

nire un problema molto serio in una società di milioni di uomini. EVANS – Uno degli studiosi neo-freudiani, la Dr. Karen Horney, fece un’osservazione su cui sarebbe interessante sentire la sua opinione. Prese in considerazione tre schemi generali di comportamento dell’uomo messo in relazione con un suo simile: 1. Movimento contro gli altri, che potrebbe definirsi aggressione. 2. Movimento verso gli altri, che potrebbe essere definito amore. 3. Allontanamento dagli altri, che potremmo chiamare paura o ritiro in sé. Secondo le vostre osservazioni, pensate che queste tre direzioni siano fondamentali? LORENZ – Penso che questo sia semplificare in modo molto pericoloso. Si badi bene: nel muoversi verso un obiettivo, un animale può essere motivato da un gran numero di cose. Per esempio, può essere contemporaneamente motivato da sesso e aggressività. Quando due pesci si incontrano per la prima volta non conoscono il sesso l’uno dell’altro. Che cosa allora li stimola? Amore, odio o aggressività? Tutti e tre, decisamente, e ci possono essere molte ulteriori motivazioni che non abbiamo ancora identificato. Ma il cercare di mettere questa gamma di pulsioni, anche soltanto quelle che abbiamo identificato in modo definitivo, in tre scatole, mi sembra altamente pericoloso. È impossibile distinguerle da un punto di vista operativo. Siamo abbastanza obiettivi da non accettare una definizione che non può essere controllata. Qualsiasi definizione comportamentale richiede l’analisi della motivazione, che è un procedimento sottile e complicato. Maggiore è la nostra conoscenza della motivazione, meno siamo disposti a concettualizzare pulsioni semplici. EVANS – Un altro scrittore, spesso collegato al gruppo dei neofreudiani (anche se ciò non rende giustizia a quest’uomo particolare) è il Dr. Erich Fromm (Evans 1966). Il Dr. Fromm, come è noto, ha assunto un punto di vista molto interessante su diversi aspetti del comportamento, in senso psico-storico. Nel suo classico Escape from Freedom (Fuga dalla libertà) (1941) esaminò lo sviluppo storico dell’uomo e della sua ricerca della libertà; come l’uomo talvolta non possa far 63

fronte alle responsabilità della libertà stessa e più o meno fugga, accettando dominanza e dipendenza. In un libro pubblicato nel 1973, uno dei temi del Dr. Fromm è l’aggressività: osserva che quando l’uomo è messo di fronte al pericolo, minaccia o frustrazione, può trovare nel ritiro in se stesso una risposta più convincente dell’aggressione. Che cosa ne pensa di quest’idea? LORENZ – Bene, se lei include aggressione, fuga, evasione, ritiro in sé, nella categoria dello scansamento, arriverà al cuore di questo problema. Il liberarsi di un membro della propria specie può avvenire in due modi: si può scacciarlo o fuggire da lui. Sappiamo che le motivazioni di entrambi sono molto vicine. Si metta davanti ad uno spinarello un modello-esca: se questo è leggermente più piccolo dello spinarello in questione, si avrà l’aggressione; se è leggermente più grande, si avrà la fuga. Si può sottoporre un animale a stimoli identici: se in un determinato giorno è in cattive condizioni di salute fuggirà, ma se è in condizioni anche leggermente migliori attaccherà. Quindi aggressione e fuga sono due cose molto vicine. Infine, si pensi a quella che talvolta è detta reazione critica: il topo, messo alle strette, che combatte. Se si spinge in un angolo un animale, che reagisce normalmente con la fuga, si avrà il più drammatico attacco a tutta velocità – precursore in un certo senso dell’aggressività, – un commutatore di aggressione e fuga. I due comportamenti sono molto vicini e collegati in modo tale che la commutazione è molto facile. Se due animali della stessa specie, due rivali pari, si minacciano a vicenda, si constaterà che entrambi sono combattuti tra il comportamento di aggressione-attacco e quello di fuga. In realtà, ogni minaccia, per definizione, è attivata dal conflitto tra aggressione e fuga. Tutto il cerimoniale altamente elaborato della lotta tra rivali, nei pesci o negli uccelli, ha in realtà un alto valore di sopravvivenza. Serve alla funzione di selezionare l’organismo più forte, senza sacrificare un individuo. Ma ancora una volta, secondo me, le semplificazioni in questo campo sono pericolose. EVANS – Fra tutti gli scrittori psicanalisti, l’unico le cui idee, a mio avviso, costituirebbero per lei una vera sfida, è Carl Gustav Jung (Evans, 1964) con la sua teoria dell’inconscio collettivo. 64

LORENZ – Sì, è vero. EVANS – Egli parlava di arche tipi, che sono “tendenze ad una risposta non acquisita”, come mi ha spiegato durante la mia conversazione con lui. Tuttavia, quando si riferisce ai simboli acquisiti attraverso la storia dell’uomo, Jung sembra parlare in termini quasi lamarkiani. Si riferisce, per esempio, ad archetipi come “il padre”, “il peccato”, “la madre”, “il re” e così via. Questo è stato un punto di vista molto combattuto; gli psicologi americani trovano difficile credere che si possa ereditare qualcosa a livello simbolico. A giudicare dalla mia discussione con lui, Jung era più sottile di quanto potrebbe suggerire questa interpretazione delle sue idee. Argomentava che l’ambiente potrebbe attivare questi “simboli”. Ha per lei un significato questa idea dell’inconscio collettivo? LORENZ – Sono perfettamente convinto che ci sia una certa disposizione di questo tipo, innata, geneticamente acquisita, non programmata, riprodotta nel genoma. In realtà, c’è una risposta innata (forse dovrei evitare l’impopolare termine “innato”) nell’uomo, alla figura paterna, alla figura materna, o ad un individuo che si comporta in modo socialmente anormale. Un uomo che uccide dei bambini o li maltratta, provoca una risposta ben precisamente inconscia, o, per dir poco, subconsciamente motivata. Ciò non sorprende l’etologo, perché sa che ad uno schema incorporato, altamente complesso, tipo immagine di una certa situazione, è possibile una risposta innata. Ci può essere una risposta selettiva allo schema altamente complicato di una situazione, che io dapprima ho definito schema innato, definizione che ho poi lasciata cadere perché dava troppo l’impressione che fosse tutto innato, in forma di immagine, il che non è vero nell’animale. In un animale si può dimostrare molto chiaramente che le risposte innate sono una combinazione di risposte singole o combinazioni di piccoli e semplici stimoli, ciascuno dei quali ha in se stesso un effetto scaturente; le risposte al modello falso dipendono dalla somma degli stimoli elementari che colpiscono l’animale. Quindi questa non è un’immagine. L’uomo, invece, ha il potere di creare immagini mentali: per esempio si può dimostrare sperimentalmente, che l’immagine 65

di alcuni tratti caratteristici della femmina è innata: una vita sottile, fianchi e petto protuberanti, ecc. Si pongono gli stimoli di eccitazione sul modellino di un animale femmina nel modo sbagliato e nel posto sbagliato, si provocherà ancora una reazione nel maschio inesperto. Ma l’uomo ha il potere di creare immagini mentali: è in grado di creare nella fantasia una forma femminile anche senza averla mai incontrata. Può crearsi l’immagine della figura paterna, anche se non ha mai avuto un padre. Questo meccanismo innato di innesco come lo chiamiamo, in combinazione con la capacità umana di creare immagini mentali, di sognare una situazione, ha come risultato reazioni fenomeniche più o meno identiche al concetto di archetipi di Jung. Credo che gli archetipi siano meccanismi innati, di innesco, investiti nella creazione mentale, nella fantasia dell’individuo. L’uomo può, nella fantasia, eseguire esperimenti in se stesso, cosa che un animale non può fare. Questo, in realtà, può spiegare la teoria degli archetipi di Jung e la stessa cosa si può applicare al concetto freudiano degli istinti inferiori. Il livello inferiore del sistema nervoso centrale produce energia, il livello superiore lo domina e lo reprime o lo incanala verso la situazione giusta. EVANS – Stando alla sua esperienza, penso che quando per la prima volta cominciò a leggere Freud e Jung, lei fosse abbastanza ricettivo. LORENZ – Mi dispiace terribilmente ammettere che è vero esattamente il contrario. Mi opposi energicamente a Freud perché era troppo temerario nelle sue affermazioni. Se lei leggesse le mie note marginali alle opere di Freud, si sorprenderebbe nel notare quanto rapidamente lo abbia respinto. Mi ci volle la ponderazione propria dell’età matura per apprezzarlo. La stessa cosa vale per la mia iniziale reazione a Jung. EVANS – Leggendo il suo libro Evoluzione e Modificazione del Comportamento trovai molto interessante la reazione al lavoro di Clark Hull (1943). Mi piacerebbe sentire le sue reazioni ad un altro behaviorista diventato abbastanza importante, il Prof. B. F. Skinner dell’Università di Harvard. Come è noto, nel suo modello particolare Skinner ha sempre più messo in dubbio il valore di termini motivazionali come 66

l’aggressività. Pensa che questo tipo di concetto sia irrilevante, che possiamo modellare e modificare il comportamento semplicemente organizzando le situazioni contingenti nell’ambiente. Possiamo, in tal modo, aumentare le probabilità che si verifichino certe reazioni specifiche; possiamo misurare, controllare e predire questa aliquota di risposte; perché dovremmo impegolarci in termini incomodi o, come lui li chiamerebbe, a “scatola nera”, come “aggressività”? Che cosa ne pensa? Può ammettere che una scienza del comportamento che ignora i concetti come “aggressività”, almeno in senso motivazionale possa essere una scienza migliore? LORENZ – Penso di poter dare a questo riguardo una risposta concisa: per Skinner e tutti gli altri teorici del condizionamento operante, come lei ha detto, soltanto un approccio è scientificamente legittimo: variare la situazione rinforzando una situazione di stimolo. Le eventualità di un comportamento rinforzato aumenteranno certamente le probabilità che questo comportamento si verifichi più spesso. Ma praticamente tutti gli organismi con un sistema nervoso più altamente sviluppato, hanno un apparato di apprendimento, un apparato filogeneticamente programmato, che rinforza col successo del comportamento, il comportamento precedente (feed-back). Questo apparato di apprendimento si è sviluppato nei calamari, nei polipi, nei cefalopodi, nei crostacei, negli insetti, nei vertebrati – tutti hanno indipendentemente trovato questa invenzione e l’apparato di apprendimento è più o meno lo stesso in tutti. Se ci si limita a questa tecnica skinneriana, non si studia che l’apparato di apprendimento, tralasciando qualsiasi altra cosa sia diversa, nei polipi, nei crostacei, negli insetti e nei vertebrati. In altre parole, si tralascia tutto ciò che di un piccione fa un piccione, di un topo un topo, di un uomo un uomo e, soprattutto, di un uomo sano un uomo sano e di un malato un malato. Secondo me, lo skinneriano per definizione non può vedere nient’altro che l’apparato di condizionamento e, di conseguenza, non ha diritto di criticare il comportamento innato o un comportamento filogeneticamente programmato come l’aggressione. Gli skinneriani non ammettono mai di essere incapaci di condizionare certe specie di piccioni ad assumere il tipico comportamento di corteggiamento dell’inchino e del tubare, o di 67

condizionare un piccione femmina o un topo ad accovacciarsi come fa durante l’accoppiamento, perché questo è un comportamento geneticamente programmato che non può essere condizionato dalla tecnica di Skinner, lasciando soltanto cadere una pallottolina. È impossibile. Non si può condizionare un topo ad astenersi dal mangiare certe cose con nessuno stimolo che non sia il provocare la nausea, come ha dimostrato John Garcia in qualche lavoro molto interessante e importante. Ha dimostrato che il punire un topo con l’elettroshock, o col forzarlo a nuotare o col fargli provare dolore dopo che ha mangiato un certo tipo di cibo, non ha effetto. Tuttavia, se lo sottomettete ad un leggero shock da raggi X o ad una iniezione di apromorfina, cose che gli provocano nausea, il topo smetterà di mangiare la sostanza in questione. Garcia diede ai suoi topi un assortimento di dieci piatti diversi e quando con uno di essi provocò in loro la nausea, in seguito lo evitarono. Questo vi dimostra quanto sia “intelligente” questo programma innato. Se si mangia ogni giorno la stessa cosa e si sente nausea dopo aver mangiato qualcosa di nuovo, si darà la colpa alla cosa nuova, che sia stata questa o no. EVANS – Non so se il Prof. Skinner sarebbe necessariamente d’accordo, ma alcuni comportamentisti argomentano che lo scienziato comportamentista è interessato a tre aspetti: previsione, controllo e comprensione. Ma non sono interessati alla comprensione del comportamento; soltanto nel prevederlo e/o controllarlo. Potrebbero dire: “Bene, Prof. Lorenz, lei ha diritto al suo affascinante lavoro di capire il comportamento, ma per noi è una cosa estranea. Ciò che noi possiamo dimostrare in modo decisivo è come predire e/o controllare certi comportamenti specifici con i nostri metodi di modificazione comportamentale e condizionamento operante. Ammetteremo in parte ciò che lei dice; speriamo che lei continui questo bel lavoro, ma la nostra area di interesse è la modificazione del comportamento, il controllo del comportamento, la precisione del comportamento. Il resto non ci interessa molto”. Come reagisce a questo tipo di osservazione? LORENZ – La mia risposta è che non si può controllare il comportamento fino a che non si sappia quali sono gli stimoli-premio. Si deve conoscere la gamma di schemi comportamentali innati, per sapere che tipo di situazione agisce da stimolo pre68

mio (reinforcing). Per esempio, le pallottoline di cibo non hanno necessariamente effetto in ogni situazione. Garcia può controllare il comportamento dei suoi topi, come non può invece fare Skinner, perché sa quali rinforzi funzionano e quali no. Anch’io posso controllare abbastanza bene il comportamento. Sfido chiunque a far stabilire una colonia di oche cinerine in una nuova zona senza una perdita superiore al 4% degli uccelli, usando i metodi di Skinner. Noi possiamo controllare il comportamento proprio bene, sapete? EVANS – Ma gli skinneriani potrebbero dire che lei adopera semplicemente un condizionamento operante di tipo skinneriano, senza specificarne le contingenze. LORENZ – Adopero realmente metodi di condizionamento operante, ma adopero anche altri metodi, e soprattutto altre fonti di informazione. Ecco la differenza! Non respingo niente di ciò che fanno gli skinneriani; faccio soltanto un sacco di altre cose in più. EVANS – Potremmo confrontare il modo in cui lei addestra un cane, col modo in cui lo farebbe un seguace di Skinner. Per specificare, come ammaestrerebbe un cane a stare in casa? LORENZ – Se il cane fosse lo stesso, penso andremmo a scegliere metodi molti simili. Ma ritengo che gli skinneriani con ogni probabilità non userebbero l’approvazione sociale come rinforzo. L’approvazione sociale gioca invece un ruolo importantissimo nel condizionamento di un cane. Io, non percuoto mai un cane: lo ammiro e lo applaudo quando per la prima volta fa le sue piccole pozzanghere fuori della porta. EVANS – Gli skinneriani potrebbero argomentare che è un problema empirico. Se la sua approvazione sociale avesse un effetto di rinforzo, se funzionasse, a loro non importerebbe necessariamente chiamarla “approvazione sociale” o qualunque altra cosa. Ma lei non esclude inevitabilmente il valore dei metodi di condizionamento operante, vero? LORENZ – Non sono in disaccordo col comportamentista convinto qualunque cosa egli faccia. Ciò che gli rimprovero è il gran numero di cose che non fa: per esempio la semplice osservazione dell’adattamento dell’animale al suo ambiente naturale. Non credo che molti comportamentisti abbiano preso in considerazione lo studio di un topo selvatico in campagna, solo per vedere che cosa faccia. Se lo facessero potrebbero avere validissime informazioni sul rinforzo. 69

EVANS – In altre parole, pensa che ci potrebbe essere un modo di combinare l’osservazione etologica con le tecniche operanti, aumentando così la conoscenza dei rinforzi. LORENZ – Non metto minimamente in dubbio i risultati degli skinneriani: sono esatti. EVANS – Ma penso che lei potrebbe dar loro degli ottimi suggerimenti su quali stimoli-premio usare. LORENZ – Sì, certamente. EVANS – Non privo di relazione con questo campo generale di discussione, è il lavoro di uno psicologo americano, lo scomparso Abraham Maslow (1954), che fu conosciuto come il capo della cosiddetta Terza Forza o Personal Growth Movement. Portò avanti un interessantissimo studio di ricerca coinvolgendo molte coppie sposate e scoprì che la vera origine dei conflitti tra la maggior parte dei mariti e delle mogli non è sessuale od economica, ma piuttosto una sottile lotta di predominio. Pensa che questa sia la vera origine dei conflitti coniugali e che i conflitti sessuali ed economici siano soltanto manifestazioni superficiali? LORENZ – Potrebbe essere. Vorrei prima descrivere brevemente come il predominio sia in relazione con la formazione delle coppie nei pesci e negli uccelli. Nelle specie che non evidenziano grandi differenze esterne in misura o aspetto, tra i due sessi, ciascuno potrebbe potenzialmente dominare l’altro. Questa fu in realtà una scoperta della tesi di laurea di mia nuora; condusse un’analisi motivazionale simultanea delle reazioni di lotta, di scansamento-attacco e sessuali. Allo stesso tempo cercò di scoprire come i sessi si riconoscano tra loro, perché in questi pesci in cui entrambi i sessi hanno esattamente lo stesso aspetto, raramente si hanno coppie omosessuali, come invece accade spesso negli uccelli. Scoprì che quando si mettono assieme due pesci della stessa misura, sessualmente maturi, entrambi sono sessualmente eccitati in modo aggressivo e leggermente intimoriti l’uno dell’altro. Questi elementi, aggressività e paura, aggressione e fuga, si mescolano egualmente nei maschi e nelle femmine. Ogni minaccia, per definizione, è un comportamento conflittuale tra aggressione e paura. Tuttavia, aggressività e sesso, paura e sesso, si mescolano in modo diverso nei due sessi. Il maschio può essere altamente aggressivo e sessualmente motivato allo 70

stesso tempo. Può colpire la femmina fino a farne volare attorno le squame e l’attimo successivo impegnarsi in movimenti sessuali; non può essere sessualmente eccitato e spaventato dal suo partner contemporaneamente. Se ha anche il minimo timore nei riguardi di lei, la sua sessualità si affloscia completamente. Nella femmina, è vero esattamente l’opposto: può essere spaventata a morte dal maschio e ancora sessualmente eccitata. Se il maschio è di carattere così debole, è un tale codardo che la femmina ha il coraggio di essere aggressiva con lui, quello non rappresenta più alcun interesse come partner sessuale e la femmina lo ucciderà, anche se ciò vorrà dire morire per ritenzione di uova. L’intensità della sua motivazione sessuale non evita questo. Lo stesso meccanismo opera in molti uccelli: il più forte assume il ruolo di maschio, il più dominato, quello della femmina. L’essere dominante sopprime la sessualità femminile; l’essere dominato, sopprime quella maschile. Ma, nell’uomo, non esistono né il maschio puro, né la femmina pura; c’è un elemento femminile in ogni uomo ed elementi maschili in ogni donna. Non credo che nelle coppie umane sposate la relazione sia così semplice: uno dominato e l’altro dominante. Per esempio, sotto certi aspetti, mi sottometto a mia moglie: lei ha una conoscenza migliore della gente; le sue valutazioni su persone estranee sono migliori delle mie e quindi, in questo campo, mi fido di lei. Sotto altri aspetti, lei si sottomette al suo giudizio. Credo che questo valga anche per molti amici. Fino a che punto la “virilità” si opponga all’essere dominato, è una domanda opportuna. Ci sono maschi puri e femmine pure che sono molto belli e piuttosto stupidi allo stesso tempo. Il “maschio”, l’attore cinematografico ideale, è quasi sempre stupido. Se incontro un uomo troppo bello, dubito spesso della sua intelligenza. Conosco molti uomini “maschi” che trovano da ridire delle donne intelligenti, che le preferiscono stupide, non è così?

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5. Riflessioni su problemi attuali e sul futuro

Sommario. – In questo capitolo il Prof. Lorenz ed io discutiamo problemi di attualità come il Movimento Femminista, il controllo della popolazione, la controversia sorta attorno alla pretesa “inferiorità” dei negri nell’interpretazione di Arthur Jensen, basato su punteggi Q.I. Discutiamo anche alcune delle più forti influenze sull’opera di Lorenz, il suo pensiero sul lavoro di Robert Ardrey e Desmond Morris e, alla fine, il suo giudizio sui suoi principali contributi e i suoi progetti per il futuro.

EVANS – Molti aspetti della dominanza, che abbiamo prima discusso, interessano anche il Movimento Femminista, come il fatto che alcuni uomini credono di dover essere dominanti, mentre le donne dovrebbero essere sottomesse. Negli animali, è sempre dominante il maschio e sempre sottomessa la femmina? LORENZ – Mi dispiace dover dire alle signore della “Women’s Lib” che nella maggior parte degli animali che conosco, c’è un netto predominio maschile. E nei pesci che ho descritto in precedenza la femmina è sessualmente frigida in risposta ad un maschio non dominante. Ci sono delle eccezioni: in qualche specie di trampolieri, in cui la femmina è decisamente più bella del maschio, questo è dominato dalla femmina e deve star seduto sulle uova e covarle. Lo stesso accade in qualche specie di pesci. EVANS – Mi piacerebbe sentire adesso il suo parere su un altro interessante sviluppo contemporaneo: il “Gay Liberation Movement”. Questo movimento, naturalmente, è caratterizzato da maschi e femmine omosessuali, i quali credono che la società sia stata discriminante contro di loro e che sia loro diritto svolgere l’attività sessuale di loro scelta. Mettono in discussione il diritto della società di decidere ciò che è giusto per lo73

ro. Si oppongono anche accanitamente alla concezione che il comportamento omosessuale sia deviante. Dalle sue osservazioni sull’accoppiamento degli animali, definirebbe deviante il comportamento degli omosessuali? LORENZ – Domanda interessante. In quegli animali, pesci o uccelli, in cui maschi e femmine hanno la stessa statura, aspetto e forma, c’è generalmente, nel normale unirsi degli animali, la capacità di comportamento omosessuale. Qualunque coppia di piccioni, maschi o femmine rispettivamente, messi assieme, si dedicheranno ad attività sessuali. L’uccello dominante impersonerà la parte maschile e l’uccello dominato quella femminile. Non si è consapevoli del fatto di avere una coppia di omosessuali finché si osserva l’assenza di uova nel nido – o un doppio numero di queste. Le uova possono essere fertili perché entrambi i piccioni lesbici hanno una relazione con un piccione maschio. Questo è un tipo di omosessualità. Poi c’è un altro tipo di relazione omosessuale, che si trova nelle oche, in cui la formazione della coppia e l’innamoramento, possono essere dissociati dalla copulazione, come può accadere nell’uomo. Nelle oche, si può trovare un legame omosessuale molto forte tra due maschi che si comportano come una coppia: stanno assieme, si difendono l’un l’altro, partecipano assieme alle cosiddette cerimonie del trionfo, benché non possono accoppiarsi. Non lo fanno mai. Provano ad ogni primavera, dimenticando che entrambi si rifiutano di essere montati. Entrambi si comportano da maschio perfettamente normale. Se potesse parlare, quest’oca direbbe: “Amo molto mia moglie ma è del tutto frigida”. Questa coppia di maschi può avere una femmina in comune e sarà superiore in combattimento a qualunque altra coppia normale perché il potenziale di combattimento di due maschi è superiore a quello di una coppia. Così salgono molto nella gerarchia di una colonia di oche. Sono ammirati dalle femmine non accoppiate; molto spesso, quando cercano di accoppiarsi ma non possono perché entrambi vogliono montare, ma nessuno accovacciarsi, una femmina innamorata si mette tra loro e si accoppia con uno o con entrambi. Questa femmina viene gradualmente accettata dai due maschi, ma non è rispettata. 74

Nessuno le offre la cerimonia del trionfo, ma se riesce a costruirsi un nido e a deporre le uova, può risvegliare la risposta dell’amore paterno in entrambi i maschi, ed entrambi staranno a guardia del nido, accetteranno i piccoli e offriranno loro la cerimonia del trionfo. Allora si avrà una famiglia, un ménage à trois, ma non il solito ménage à trois con due maschi innamorati di una femmina, ma piuttosto con due maschi innamorati l’uno dell’altro e una femmina che ama uno di loro. Questo non può essere chiamato comportamento anormale o sbagliato. Peter Scott ha dimostrato che tra le oche selvatiche dal piede rosa d’Islanda, c’è una forte incidenza di relazioni triangolari, che hanno un successo particolare nell’allevamento dei piccoli. Due maschi sono maggiormente in grado di difendere i piccoli contro pericoli come quello rappresentato dal girifalco. Qui l’omosessualità ha valore di sopravvivenza. Tornando alla vostra domanda sul “Gay Liberation Movement”, non credo ci possa essere obiezione morale all’omessualità. Molti provano una certa avversione estetica o emotiva al comportamento omosessuale: ho visto una volta due ragazzi che si baciavano e abbracciavano in un bagno: perché non avrebbero dovuto? Non c’era alcuna obiezione morale, ma mi scandalizzai; lo trovai un po’ ripulsivo. Ma, in termini morali, perché non avrebbero dovuto? In un mondo sovrappopolato, un aumento di omosessualità potrebbe essere una cosa buona. Da questo punto di vista potrebbe anche essere auspicabile. EVANS – La sovrappopolazione è considerata un serio problema negli Stati Uniti, dove potrebbe anche non essere serio come in altre parti del mondo. C’è chi afferma che bisogna fare qualcosa per ridurre il numero dei componenti le famiglie. Ha osservato il comportamento dei gruppi di animali in cui si sia verificata una sovrappopolazione e sia stata tentata qualche soluzione? LORENZ – Sì, certamente. Ci sono molti tipi di schemi comportamentali che regolano le popolazioni. La sovrappopolazione è un disastro economico. Se si sfrutta troppo l’animale o la pianta da cui si dipende per i mezzi di sussistenza, si distrugge il sostentamento. Il non sfruttare è nell’interesse della specie. La territorialità – il comportamento territoriale – ha un preciso significato di sopravvivenza nel limitare il numero de75

gli individui o delle coppie, e nel distribuirli uniformemente nell’habitat disponibile. Winne Edwards (1962) tratta questo problema nel suo libro molto chiarificante Dispersione degli animali in relazione al comportamento sociale. I meccanismi di limitazione della popolazione esistono in alcuni animali; ma non in tutti. C’è decisamente un fattore limitativo della popolazione nei leoni, ma non negli sciacalli o nei cani da caccia. EVANS – A livello umano, quelli che si interessano di sovrappopolazione affermano che non è solo un problema di dispersione, ma di capacità economiche, di risorse di cibo e di energie. In altre parole, la dispersione non è l’unica risposta. Ci sono situazioni in cui le scelte sono limitate anche per gruppi di animali, dove proprio non c’è abbastanza cibo per alimentare la popolazione animale? Quando le scelte si esauriscono per gruppi di animali, muoiono così, semplicemente? LORENZ – Nelle popolazioni animali, il controllo per fame è l’eccezione. Di regola ci sono meccanismi che regolano la sovrappopolazione molto prima che si stabilisca una scarsità di cibo come fattore limitante. Credo che il nostro pianeta, la terra, possa alimentare molti più esseri umani di quanti ne possa sostenere in dignità e libertà. Per vivere una vita mentalmente sana, una coppia umana ha esigenze di spazio che sono molto superiori a quelle che sarebbero loro assegnate se soltanto la produzione di cibo agisse da fattore limitante. Lei ha parlato di misure drastiche: non possiamo prendere misure drastiche. Tutti i nostri problemi oggi originano dalla sovrappopolazione; ma se una soluzione è tentata con qualunque mezzo diverso dall’educazione, ritorniamo nel tipo più violento di autoritarismo. Se non può essere fatto volontariamente, non può essere fatto per nulla. Il pericolo maggiore dei tentativi volontari è che si può finire nel tipo sbagliato di selezione, nel senso che la gente intelligente e responsabile si impegna nella pianificazione familiare; la gente irresponsabile, no. EVANS – C’è anche negli animali qualcosa di simile alla pianificazione familiare, naturalmente non a livello conscio? LORENZ – Ci sono molti meccanismi che portano proprio a questo. Vorrei citare un esempio: se i lupi fanno molta fatica a trovare il cibo e debbono uccidere grossa selvaggina per soprav76

vivere, come fanno nella zona del Lago Superiore, devono riunirsi in grossi branchi. In questi branchi solo la femmina alfa, la femmina dominante, procrea. Infatti impedisce l’accoppiamento a tutte le altre femmine. Se l’uccisione di grossa selvaggina non è necessaria per il rifornimento di cibo, il branco si divide in singole coppie ed ogni femmina può procreare. In breve, se un branco di quattordici lupi è necessario per uccidere un grosso alce, su sette femmine una soltanto procrea. Ciò è stato ripetutamente confermato da diversi ricercatori. Si ha quindi un meccanismo che molto chiaramente regola la velocità di riproduzione secondo il cibo disponibile. EVANS – C’è oggi una polemica importante tra psicologi e pedagogisti americani su cui mi piacerebbe molto sentire la sua opinione. Le teorie in questa discussione sono quelle di un fisico vincitore di premio Nobel, William Shockley, uno psicopedagogista americano, Arthur Jensen, e uno psicologo di Harvard, Richard Herrnstein. Essenzialmente, la loro posizione è che, anche se i negri sono esposti ad ambienti culturalmente arricchiti, con la possibilità di superare la privazione sofferta, non raggiungeranno il livello dei bianchi perché sono geneticamente inferiori in almeno un tipo di potenziale intellettivo. Per esempio, Jensen trovò che, malgrado l’esposizione precoce ad un ambiente culturalmente arricchito, i negri non erano in grado di operare bene come i bianchi in un test che misurava un tipo, per ipotesi più astratto, di intelligenza. Jensen è stato molto diffamato su questo punto. Egli afferma di essere stato male interpretato. Pensa di aver riaperto il problema delle differenze individuali, compreso il problema delle differenze intellettuali genetiche, correlate alla razza. Sono sicuro che lei conosce questa controversia. Qual è la sua opinione? LORENZ – Vorrei citare il mio amico John Garcia sui test del Q.I. dei bianchi e dei negri di Jensen. Il test del Quoziente di Intelligenza è stato studiato nei termini della cultura bianca della classe media e non è adatto per quelli di razza e cultura diverse. Nessuno può negare che le razze siano diverse; tuttavia, è assolutamente stupido affermare che questo implichi una differenza di valori. Lei ed io siamo geneticamente più diversi tra noi di quanto 77

non lo sia l’anatra dalla coda a punta (Anas Acuta) dal mallardo. Ora le chiedo: qual è l’anatra migliore, quella che ha maggior valore, l’anatra dalla coda a punta o il mallardo? Questa è una domanda ridicola. Per ciò che riguarda il test di intelligenza, Garcia cita le scoperte di Tryon (1940), il quale cercò di allevare topi particolarmente abili nel correre attraverso un labirinto: questo labirinto, aveva una porta-tranello che si chiudeva ogni volta che il topo girava a destra. Dopo aver selezionato i topi per molte generazioni, si accorse alla fine che stava selezionando topi insensibili a porte-tranello che si chiudessero dietro a loro invece che topi abili in un labirinto. I topi insensibili al tranello si comportavano meglio in questa situazione particolare e Garcia afferma che c’è esattamente lo stesso pericolo nelle misure dell’intelligenza. Mentre non nego le indubbie ed essenziali differenze tra le razze, nego a chiunque il diritto di dire che una razza è migliore o vale più di un’altra. Quale razza è superiore? Potete arrivare anche al punto di dire che gialli, bianchi e neri sono sottospecie. Potete andare oltre il concetto di razza. Ma chiedere quale sottospecie sia migliore è assurdo! EVANS – Spostandoci ora in un’altra area, vorrei sentire la sua reazione ad alcuni dei più recenti sviluppi in psicologia e neurofisiologia, che toccano direttamente il problema del passaggio genetico di informazione nell’organismo. Questa linea di ricerca è stata seguita da scienziati americani come James McConnel (1959), A. L. Jacobson (1959) e George Unger (1970): sono riusciti a formulare ipotesi per la base di quel notevole fenomeno che è il trasferimento della memoria. I primi lavori di McConnel furono condotti sulla “planaria” o platelminto. Questi fu addestrato a reagire alla luce, cosa che normalmente non fa. Si poteva tagliare il platelminto in pezzetti e la sua coda avrebbe continuato ad avere questa reazione particolare. Parti di platelminto che avevano appreso questa reazione potevano essere date come alimento ad un altro platelminto che non aveva “appreso” la reazione e il platelminto “non addestrato” la imparava, così, rapidamente. In seguito Jacobson (1965) fece qualche ricerca con i topi. Si insegnava al topo una determinata risposta e poi l’RNA estratto dal topo poteva essere iniettato in un altro a cui non era stata 78

insegnata questa risposta particolare. Il topo con l’iniezione di RNA avrebbe imparato molto più in fretta di quelli a cui l’iniezione non era stata fatta. Nei termini della sua concettualizzazione dei meccanismi che fanno scattare il comportamento, questo tipo di ricerca le interessa? LORENZ – Ho molti dubbi su questi risultati. Fondo il mio giudizio sull’autorità di vari biochimici. Credo che queste tendenze chimicamente trasferibili verso una certa risposta si riferiscano alla sensibilizzazione e alla desensibilizzazione. Trovo difficile credere che ci sia implicato qualcosa di più specifico. Diciamo che l’informazione – i platelminti imparano a reagire alla luce, quando normalmente non lo fanno – si possa spiegare in termini di sensibilizzazione. Diventano semplicemente più sensibili alla luce, non formano una vera associazione; non è implicato alcun rinforzo della reazione. La critica da parte dei miei colleghi biochimici è che, per codificare una memoria appresa, si deve prima supporre che ci sia un apparato che registra una catena di molecole dell’informazione in entrata, tac, tac, tac… come un telegrafo sulla strisciolina di carta. Si deve poi supporre che ci sia un altro apparato che legge le molecole e le ritrasforma in impulsi nervosi. Quanto ci vuole all’RNA messaggero per costruire una molecola? Tutto ciò richiede troppo tempo – non so esattamente quanto, ma probabilmente nell’ordine della 10a potenza – per spiegare questo passaggio di informazione su base chimica. Studiosi autorevoli negano che molti degli esperimenti con la planaria non possono essere riprodotti; questa non è un’osservazione superficiale. Ma io sono scettico: se è possibile immagazzinare l’informazione appresa per trasferimento di memoria, qual è allora la funzione dell’enormemente complesso sistema nervoso centrale? Non ci sarebbe una chiara correlazione tra capacità di apprendimento e la misura del sistema nervoso centrale. Questa, credo, è una prova contraria convincente. Ma, naturalmente, potrebbe essere troppo presto per giudicare la validità vera di questa ricerca. EVANS – Per continuare un punto che avevamo discusso in precedenza, molti credono che le sue acute osservazioni sul comportamento animale, soprattutto nell’area del comportamento sociale e della mobilità, abbiano suggerito una maggior ricon79

siderazione dei metodi di approccio nelle scienze sociali. Questo vale non soltanto per la psicologia, ma anche per le scienze politiche, l’antropologia culturale e la sociologia. Lei ha maggiormente focalizzato gli effetti delle predisposizioni biologiche nell’uomo come fattori con cui trattare, così come gli effetti dell’ambiente sociale. In un certo senso ha creato i campi dell’antropologia comportamentale, della sociologia comportamentale e perfino anche delle scienze politiche del comportamento. Il suo concentrarsi sugli effetti dell’ambiente sugli organismi, ha portato grandi contributi al campo della biologia del comportamento. Ne sono risultati molti concetti e domande: una coinvolge l’affollamento e lo spazio personale. Siamo tutti preoccupati per le nostre città affollate e sono state sviluppate varie ipotesi. Per esempio, alcuni dicono che l’affollamento può far sì che i modelli di comando si spostino da modello a partecipazione a modello autocrate. Trova un senso in ciò? Se si comincia con un tipo di comando essenzialmente a partecipazione, o democratico, l’affollamento lo ridurrà ad un tipo più autocratico? LORENZ – Questo accade senz’altro nelle scimmie e il meccanismo è chiaramente dimostrato. Penso sia giustificabile dedurre che lo stesso processo si verifichi nell’uomo. In una popolazione non densa di scimmie, soprattutto tra i Rhesus e i babbuini, la capacità di esigere il comando dipende largamente dalla capacità dell’individuo di formare alleanze o amicizie. Perché non ammettere che le semplici amicizie nell’uomo siano istintive ed emotive? In tutto c’è una base innata emotiva come l’amicizia. Ora i capi guerrieri nei gruppi di babbuini studiati da Washburn e De Vore (1961) erano molto vecchi, non più nel rigoglio della loro forza, ma mantenevano il comando stando uniti e difendendosi l’un l’altro. Gli esperimenti hanno mostrato schemi molto simili in una normale colonia di scimmie Rhesus. Quando si ammassano, diventano irritabili. Se ammassate gli uomini, diventano anch’essi irritabili. Il posto più affollato che io conosca nel mondo è il terminal dell’autobus nella 42a strada a New York City e non conosco alcun altro posto al mondo in cui la gente sia più irritabile. Se chiedete la strada a qualcuno, vi investe; è irritato dal trovarsi gomito a gomito. 80

Se si ammassano, le scimmie si irritano e si mordono l’un l’altra. Questa asprezza rompe le amicizie. Nel momento in cui si instaurano irritabilità e meschinità, l’aggressività diviene più forte del comportamento di legame e i vecchi capi cessano di essere amici. Naturalmente, l’individuo più violento, più forte, più aggressivo diventa il capo. In questo modo si avrà il governo “a uno” com’è stato dimostrato in molte ricerche sul comportamento dei primati. In una società normale, non densa, gentile, c’è un minimo di aggressività tra A, B, e C tra Presidente, Vice-presidente e Senato. In una società densa, c’è l’ostilità più forte, la più grande inimicizia e il massimo di schemi di comportamento aggressivo tra gli individui dei gradi più alti. Calcolando gli schemi di comportamento aggressivo al minuto tra A e B, si otterrà un minimo in una popolazione normale e un massimo in una popolazione densa. Si trova lo stesso fenomeno anche tra i mammiferi inferiori. Per esempio, i gatti rivelano una pressione sanguigna elevata ed altri sintomi di stress in condizioni di affollamento. EVANS – Negli Stati Uniti, prima la gente si sposta verso il centro delle zone urbane, poi generalmente segue una fuga verso i sobborghi. C’è uno schema di movimento – prima verso la folla, poi lontano dalla folla. È uno schema che si può osservare anche in gruppi di animali? LORENZ – Non credo: questa è cultura a livello più alto. EVANS – Questa discussione ci porta, naturalmente, allo spazio personale. Recentemente in America, nella psicologia sociale, ci siamo particolarmente interessati allo spazio personale. L’idea generale dell’imperativo territoriale è stata sviluppata nei dettagli dal suo collega Robert Ardrey. Ma fino a dove è possibile generalizzare sull’importanza dello spazio personale e sugli effetti dell’affollamento? Non c’è un punto in cui si può andare troppo oltre, con un concetto come questo? È realmente un indice abbastanza preciso del comportamento, nell’analisi finale, anche a livello animale? LORENZ – A livello animale, certamente! Ma l’uomo è un animale altamente condizionabile e il condizionamento della cultura diventa una seconda natura, al punto da influenzare la forma del corpo e le attitudini individuali. Non si può dire fi81

no a che punto si possa addestrare un uomo a inserirsi in un altro ambiente. Ma ho forti dubbi sul suo possibile condizionamento a non diventare nervoso e nevrotico in condizioni di affollamento. Ne dubito fortemente. In una zona in cui la gente vive in case molto lontane, a miglia dai loro vicini più prossimi, si trova la maggior gentilezza umana. Ricordo un’esperienza ancora viva nella mia memoria. Quando vivevo nel mio istituto di Monaco, ero saturo di contatti umani; tutti volevano farmi domande, i miei amici venivano sempre a trovarmi, anche la gente più cara può rendervi irritabile. Avevamo come ospiti una coppia di Americani, gente all’antica che vive nella zona selvaggia del Wisconsin. Proprio mentre stavamo per sederci a pranzo, suonò il campanello. Dissi: “All’inferno! Chi c’è ancora?”. Se avessi detto la peggiore bestemmia, non avrei potuto scuotere più profondamente quelle persone. Non sentirsi pieni di gioia quando suona il campanello alla porta era per loro del tutto incomprensibile! Questo incidente mi fece capire quanto fossi diventato, io stesso, vittima del sovraffollamento. EVANS – Prof. Lorenz, di tutte le sue realizzazioni degne di menzione e uniche, quale considera la più importante? LORENZ – Per quanto riguarda i libri pubblicati, direi Evoluzione e modificazione del comportamento che fu poi la mia risposta al lavoro di critica di Lehrman (1953). Penso che questo libro contenga in nuce l’essenza del mio pensiero. EVANS – Abbiamo discusso una quantità di altri suoi contributi, lei è stato uno dei fondatori dell’etologia e a lei è dovuta quella che chiamerei l’etologia psicologica. LORENZ – Non posso attribuirmi un merito per quella parte di etologia che studia la coordinazione motoria e gli schemi di movimento di una specie e i più grandi gruppi tassonomici caratterizzati da tali schemi. Questo fu scoperto da Whitman e Heinroth e costituisce la base su cui è poi fondata l’etologia. Potrei attribuirmi il merito per lo sviluppo del concetto di meccanismo d’innesco. Fino a quando la coordinazione motoria o schema di movimento fu considerato soltanto una catena di riflessi, il primo riflesso nella catena non aveva un particolare rilievo. Ma quando si riconobbe che lo schema primario in una disposizione del sistema nervoso centrale consiste in uno stimolo che genera il meccanismo e in un altro che lo inibisce, 82

il mio concetto divenne cruciale. Pavlov (1927) chiamò questo meccanismo di selezione degli stimoli “rivelatore”. Mi si può attribuire il merito di aver messo a fuoco il processo di liberazione dello stimolo, la selettività di una reazione a una certa situazione di stimolo. Questa divenne in seguito la ragione di collaborazione tra Tinbergen e me. Tinbergen cominciò a fare ricerche sperimentali sul meccanismo innato d’innesco che disinibisce gli schemi motori. Il riconoscimento della dualità di questi due processi può essere la mia scoperta più importante. EVANS – Guardando indietro alla sua vita, quali uomini e donne pensa che abbiano esercitato la maggior influenza su di lei? LORENZ – Nella formazione del mio carattere una grande influenza fu esercitata da un insegnante di scuola superiore, un monaco benedettino. Penso sia una cosa degna di nota e altamente caratteristica della liberalità della vecchia Austria, il fatto che io abbia conosciuto Darwin e la selezione naturale attraverso un monaco. Se lei mi chiede chi ammiro di più tra gli uomini, viventi o no, rispondo che è Charles Darwin, il quale in un modo molto semplice, fece così grandi scoperte. Ammiro anche un uomo contro cui la tradizione, la tradizione cristiana ortodossa, combatté così violente battaglie, Thomas Huxley. Com’egli disse una volta, “ogni verità comincia a vivere come eresia e chiude la sua vita come ortodossia”. Questo è profondamente vero delle scoperte di Darwin. Quand’egli fu finalmente in grado di render chiara la sua teoria dell’evoluzione, non si sentì un vincitore o l’autore di grandi scoperte. “Mi sento un assassino!” scrisse nel suo diario. EVANS – Qual è la critica del suo lavoro che più la disturba? LORENZ – L’aspetto più penoso della critica è il trovare qualcosa di sbagliato nella propria posizione. La semplice difesa di questa non richiede necessariamente alcun coinvolgimento personale; tuttavia le critiche che mi hanno fatto cambiare posizione furono quelle che mi turbarono di più e mi aiutarono di più allo stesso tempo. O, per metterla in modo diverso, le critiche che mi turbarono sono identiche a quelle a cui reagii nel modo più completo. Un buon esempio è il saggio di Daniel Lehrman Critica alla teoria di Konrad Lorenz dove egli interpretò un atteggiamento più o meno comportamentalistico, dicendo che tutto il comportamento che attribuiva a programmazione 83

genetica poteva invece essere acquisito. Citava gli esperimenti di Z.Y. Kuo (1932), il quale credeva che ciò che insegna al pulcino a beccare fosse il battito del cuore, che passa passivamente dalla testa del pulcino. Allo stesso tempo la sua critica sovrasemplificò abbastanza i miei punti di vista. In questo fu ingiusto. Gli risposi più tardi su un saggio che preparai per il Congresso sull’Istinto. Feci notare che, per evitare il concetto di “innato”, Kuo postulava qualcosa di simile ad una maestra innata, il battito del cuore, che insegnava al pulcino “come si becca”. Naturalmente, questo insegnante non può insegnare al pulcino che cosa beccare. È cosa degna di nota che mi ci volessero dieci anni per concludere che la maestra innata, in realtà, riassume il problema di tutto l’apprendimento; se l’apprendimento migliora il valore della sopravvivenza, l’apparato di apprendimento deve contenere l’informazione su ciò che deve essere appreso e ciò che non deve essere appreso. Ci deve essere un insegnante che vi batte sulle spalle e dice: “Bene, fallo ancora!” o “no, no, no, non farlo! ti farà venire il mal di pancia!”. Le mie reazioni alla critica di Lehrman culminarono nel mio saggio La base innata dell’apprendimento (1969) e in ciò che considero il mio scritto più importante Evoluzione e modificazione del comportamento (1965). Così, la critica che mi turbò di più fu, alla distanza, la più costruttiva! EVANS – Una delle cose che osservai leggendo il suo lavoro è che lei si è piuttosto preoccupato per le generalizzazioni troppo entusiastiche derivate dai suoi studi sull’etologia. In particolare ci furono due libri letti moltissimo: The Naked Ape di Desmond Morris (1967) (La scimmia nuda) e The Territorial Imperative (L’imperativo territoriale) di Robert Ardrey (1966). Contengono certamente ampie generalizzazioni del suo lavoro. La disturbano questi lavori particolari? LORENZ – Prima di tutto potrei dire che, sia Morris che Ardrey sono miei buoni amici. Desmond Morris lo è sempre stato, o Ardrey lo è diventato. Potrei dire, inoltre, che Robert Ardrey è un bravissimo etologo di diritto: ha imparato moltissimo. Nei suoi primi libri, particolarmente nel The Territorial Imperative, i principi sono leggermente troppo generalizzati, un po’ troppo azzardati. Mentre lo leggevo, soffrii tutte le agonie che voi soffrite se siete seduti accanto ad un autista che prende un 84

tratto di strada determinato, molto più velocemente di quanto non osereste fare voi stessi, ma non riuscite a farlo rallentare. In altre parole, Ardrey stava rischiando il mio collo. Sottolineo che questo non accade con l’ultimo lavoro di Ardrey: con quello sono pienamente d’accordo. EVANS – E con Morris? LORENZ – Non sono d’accordo con alcuni aspetti della Scimmia nuda, perché tratta l’uomo come se la sua cultura fosse un fenomeno biologicamente irrilevante. Né sono d’accordo col suo punto di vista che ogni tradizione cumulativa sia un argomento secondario e qualcosa che va deplorato, piuttosto che ammirato, nella specie umana. Se dò un nome ad una specie, scelgo la funzione che fa sopravvivere quella specie; chiamo picchio un picchio perché vive picchiettando il legno. Se dovessi chiamare scimmia la specie umana, dovrei almeno dimostrare che sono le scimmie con cultura, le scimmie con tradizione accumulata, il concetto ideale di tutte le scimmie. Che l’uomo sia nudo è irrilevante: potrebbe anche essere peloso. EVANS – Per concludere, Prof. Lorenz, sarebbe interessante sapere a che cosa sta lavorando ora e che cosa progetta per il futuro. So che sta lavorando ad un nuovo libro. Di che cosa si tratta? In quale ricerca è ora impegnato? LORENZ – Sono combattuto tra epistemologia, particolarmente la filosofia dei valori, e qualche ricerca molto specifica che sto ancora portando avanti. Al momento sto terminando un libro sulla teoria della conoscenza che sarà seguito da un altro sul senso dei valori nell’uomo da un punto di vista naturalistico. Ma ciò che voglio fare come lavoro di ricerca, sono studi più dettagliati del comportamento aggressivo nei pesci, del comportamento del legame e di tutti i meccanismi di inibizione dell’aggressione negli animali superiori. In altre parole voglio continuare a studiare la sociologia del comportamento.

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1. Konrad Lorenz come psicologo DONALD CAMPBELL

L’immagine più conosciuta di Konrad Lorenz è quella dello scienziato eminente, pronto ad andare al di là del tecnicismo della sua ricerca nel discutere una vasta gamma di interessi sociali col pubblico comune, del popolare saggista di L’anello di Re Salomone (1952), Il cosiddetto male (1966), Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (1973) e L’ostilità tra generazioni (1970) (ristampato nella sezione successiva di questo libro). Il premio Nobel per la biologia del 1973 presenta un’altra immagine di Lorenz, il fondatore con Carl von Frish e Nikolaas Tinbergen di una nuova esoterica disciplina scientifica, “l’etologia” o zoologia comportamentale, che usa studi dettagliati del comportamento innato degli animali per descrivere sequenze evolutive e relazioni tra le specie. Questo aspetto di Lorenz è rappresentato meglio nei due volumi della sua raccolta di saggi pubblicati dalla Harvard University Press (1971-1972) ed è riflesso nell’affascinante Evoluzione della ritualizzazione (1966) qui ripubblicato. Questa introduzione e i saggi scelti che la seguono presentano una terza immagine di Lorenz, visto come psicologo dall’ampio respiro. Gli argomenti trattati sono il comportamentismo cibernetico, l’epistemologia evolutiva, l’aggressione tra gruppi, l’evoluzione sociale e le implicazioni politiche della genetica evolutiva. Le tesi psicologiche coinvolte includono la teoria dell’apprendimento, la psicologia della conoscenza, la psicologia della scienza, la psicologia sociale e la psicologia delle differenze individuali. Inevitabilmente quest’immagine si sovrappone a quella del premio Nobel, ma presenta anche alcune realizzazioni egualmente importanti che non hanno ancora ricevuto l’attenzione che meritano. Inevitabilmente c’è una sovrapposizione anche con 89

l’immagine del popolare saggista. In questa sede mi prenderò la libertà di distinguere alcune delle accentuazioni di Lorenz dalle mie, a causa della sua propensione a prendere delle posizioni decise su argomenti controversi e a beneficio dei miei colleghi che conoscono la mia posizione su questi argomenti più di quanto non conoscano il mio entusiasmo per Lorenz e possono aver bisogno di riconciliare le due cose. Spero che questa discussione sulle nostre aree di disaccordo aumenterà la validità della mia introduzione di Lorenz agli psicologi.

Nella tradizione di William James Pensando al tipo di psicologo a cui Lorenz più si avvicina, arrivo allo William James dei “Principles of Psychology” (1890). Questa potrebbe sembrare una scelta strana, perché gli attuali iscritti al club dei seguaci di William James sono dominati da fenomenologi e umanisti. Ma James era uno psico-biologo, entusiasta delle implicazioni della teoria dell’evoluzione per la psicologia, convinto dell’intenzionalità del comportamento umano ed animale e impegnato a trovare delle spiegazioni di questa intenzionalità compatibili con un orientamento materialista. Egli era un darwiniano, fautore della selezione naturale, chiaramente avverso alle soluzioni lamarckiane o teleologiche, pur riconoscendo che i fattori teleonomici devono essere spiegati. Era interessato alla comprensione dell’esperienza conscia e alla relazione di questa con le vedute biologiche ed evoluzionistiche e al fare epistemologia – teoria della conoscenza – in piena competizione e contatto con la filosofia. Come Lorenz, tendeva a sminuire le fonti culturali-ambientali della psicologia umana, malgrado fosse interessato all’evoluzione sociale come allargamento e analogia dell’evoluzione biologica (James 1880). Entrambi si sono seriamente preoccupati del bisogno di trovare un equivalente morale della guerra. La distribuzione dell’interesse è, naturalmente, diversa. La parte più lorenziana di James, si limita ad alcuni capitoli, come le sue discussioni sugli istinti. La parte più jamesiana di Lorenz non è il suo lavoro più famoso, ma quello rappresentato nella selezione qui riportata La dottrina kantiana dell’“a priori” (1962) e in saggi come La percezione della Gestalt 90

come fonte di conoscenza scientifica (1959) e Gli animali sono soggetti a esperienza conscia? (1963) che si trovano nei volumi di Harvard. Tuttavia, James serve ad illustrare l’attinenza di molte sfaccettature di Lorenz con una psicologia veramente completa, meglio di quanto non faccia qualunque altro modello a cui io possa pensare. Si ricordi che la base biologica di James e di Lorenz non fa di loro dei riduzionisti tipici. Né sono sostenitori del vitalismo, ancorché siano aperti ai fatti (ed in realtà tendono ad accettarli) indicati da vitalisti come Bergson (1911), Driesh (1914); Uexküll (1926), e Polanyi (1969). Ma accettano questi fatti come rompicapi, che richiedono una spiegazione e trovano soluzioni compatibili con la fisica, la chimica e la biologia evoluzionistica. Entrambi trovano nel concetto darwiniano della selezione naturale (1859) una chiave a questa spiegazione. Il modo in cui Lorenz tratta questo problema è elegantemente illustrato in L’errore alla moda di tralasciare la descrizione (1973) qui riportato.

Behaviorismo cibernetico Sotto questo titolo mi riferisco alla parte centrale del contributo di Lorenz alla comprensione del comportamento animale, ai lavori che condusse sulla fisiologia del comportamento, all’Istituto Max Plank di Seewiesen-über-Stamberg, una Mecca per gli psicologi americani dalla sua fondazione nel 1954, al ritiro di Lorenz nel 1973. (Sotto gli auspici dell’Accademia Austriaca delle Scienze, ha in seguito fondato un nuovo Istituto di ricerca comportamentale comparata, ad Altenberg, presso Vienna). I comportamentismi ancora dominanti nella psicologia di oggi (compresi i principali modelli matematici di apprendimento) sono a mio giudizio inadeguati alla spiegazione di un comportamento adattabile acquisito o innato o perfino ad un atto coordinato come quello di afferrare una penna. La cibernetica (Wiener 1948; Ashby 1952; 1956) fornisce un modello meccanicistico per un comportamento intenzionale e orientato ad una meta, che sarà, penso, alla fine elaborato in una completa teoria psicologica che rimpiazzerà il comportamentismo attuale. Quando questa teoria psicologico-cibernetica sarà completata, il lavoro di Lorenz e degli altri etologi sarà uno dei pilastri centrali dell’edificio. 91

In questo modello cibernetico, per ogni azione di adattamento l’organismo deve avere un organo di senso o un criterio percettivo per la sua realizzazione (un “omeostato multidimensionale”, un “segnale di riferimento” o un “sostegno” e punto d’appoggio per il suo obiettivo). Qualora sia coinvolta l’interazione con altri animali od oggetti, questi criteri assumono il carattere di “immagini” e si aggiunge una dimensione fenomenologica. Il concetto di Lorenz di “stimolo liberatore” rientra in questo quadro. L’organismo deve avere strutture anatomiche specifiche che controllano i vari stati del corpo – livello di zucchero nel sangue, salinità del siero, ecc. – coinvolti nella fame, la sete, ed altre cosiddette pulsioni e deve avere altri organi di senso che segnalino la probabile eliminazione del deficit corporeo. Azioni complesse coinvolgono gruppi gerarchicamente organizzati di tali sotto-unità intenzionali. Ad ogni livello c’è un dispositivo di segnali di avviamento, una struttura di reattività durante i periodi di non-attivazione e un dispositivo per il conseguimento dell’obiettivo, il quale a sua volta può essere un componente del dispositivo di innesco per la successiva unità di adattamento nella gerarchia. Dove il meccanismo di innesco o il meccanismo di conseguimento dell’obiettivo richiedono oggetti esterni, ci sarà un comportamento attivo di ricerca a livello percettivo e motorio. Dov’è coinvolto l’apprendimento, ci saranno specifici sistemi sensoriali di “piacere” e “dolore” (Olds, 1958) attivati congiuntamente da alcuni meccanismi intermedi di raggiungimento dell’obiettivo. Questo parafrasa molte descrizioni di Lorenz di specifici sistemi istintivi negli animali. Un quadro similare emerge quando due comportamentisti ortodossi come Miller (1959) e Sheffield (1950) studiano un supposto sistema singolare di pulsione e rinforzo, come la fame. I loro topi corrono nei labirinti per assaggiare germi resi stuzzicanti con saccarina non nutritiva, o per la gioia di masticare o ingoiare cibi che non raggiungono mai il loro stomaco per un’operazione di derivazione, o perché hanno un palloncino gonfiato nello stomaco, che produce senza dubbio, se non gonfiato in eccesso, una sensazione piacevole di essere pieni. Il concetto comportamentista della “riduzione di pulsione” ha una teleologia nascosta che deve essere sostituita da un certo nu92

mero di specifiche unità cibernetiche anatomiche, come Lorenz ci ha insegnato. Uno dei suoi migliori saggi su questo argomento è il recente Sulle basi innate dell’apprendimento (1969). Per gli psicologi sociali, ha un valore potenziale notevole l’affascinante ricostruzione di Lorenz dei riti istintivi interpersonali delle diverse specie. Si noti come il rituale di corteggiamento in una specie di uccelli sembri si sia evoluto dal rituale di alimentazione infantile, mentre, in un’altra specie, dalle risposte istintive di aggressività dirette verso estranei della stessa specie. Questi studi sono a livello di Premio Nobel per i biologi dell’evoluzione, per la loro sorprendente aggiunta di prove comportamentali agli studi di sequenza e differenziazione evolutiva di specie, basati normalmente soltanto sull’anatomia. Per gli psicologi, che devono alla fine preoccuparsi dell’evoluzione del comportamento, hanno un ulteriore valore. Evoluzione della ritualizzazione nelle sfere biologica e culturale, qui riportato, è un’introduzione affascinante a questo campo, com’è pure L’anello di Re Salomone di Lorenz (1952), giustamente popolare.

Epistemologia evolutiva Con questo titolo mi riferisco al campo di studio in cui filosofi, biologi e psicologi si impegnano a risolvere, in uno spirito scientifico, aspetti dei problemi tradizionali nella filosofia della conoscenza, o epistemologia. “L’epistemologia evolutiva” è una versione specifica della “Epistemologia descrittiva” o, come la chiama Quine (1969) “Epistemologia naturalizzata”. L’epistemologia descrittiva cerca di individuare i problemi della conoscenza (Conosciamo? In che modo conosciamo così come conosciamo? Possiamo sapere di sicuro se la nostra conoscenza è esatta?) usando conoscenze scientifiche come la fisica, del mondo da conoscere, e la biologia evolutiva e la psicologia dell’uomo che conosce. In una certa misura c’è sempre stata una tale epistemologia, ma l’astrattezza della filosofia del secolo scorso ne fece un tabù. I filosofi hanno cercato di reagire a questi tentativi come prova di incompetenza, un fallimento nella comprensione di ciò che l’epistemologia è in realtà. 93

Si capisce con particolare facilità il loro punto di vista riguardo al problema di introduzione o di giustificazione della conoscenza scientifica. È in realtà un ragionamento a circolo chiuso ammettere la validità della conoscenza scientifica giustificando la validità del processo che origina tale conoscenza. Tuttavia, se si distinguono i compiti dell’epistemologia descrittiva dall’epistemologia tradizionale o analitica, emerge un campo utile ed affascinante di scienza, abbastanza coerente con le principali conquiste della tradizione dell’empirismo scettico di Locke, Berkeley, Hume, Kant e dei loro successori moderni. La loro pessimistica conclusione è che non possiamo giustificare in modo logico il nostro credo scientifico, né possiamo raggiungere la certezza in alcun altro modo. La logica induttiva, o i procedimenti che usiamo per giungere alle conclusioni scientifiche, lasciano sempre aperta la possibilità di errore. Queste conclusioni valgono non soltanto per il credo scientifico, ma anche per la percezione visiva e tattile per quanto queste generano in noi concetti su oggetti ed eventi al di là delle stesse sensazioni transitorie non interpretate. Lo “scandalo dell’induzione” di Hume fu per un certo tempo trascurato a causa della fede in certe verità della fisica di Newton. L’attuale rovesciamento di quella teoria, più un attento esame delle basi storiche su cui le teorie scientifiche sono scelte o rigettate, ha portato a nuova preoccupazione per questo problema, se accettare esplicitamente la logica e il pessimismo di Hume (Popper, 1959; 1963) o reinventarlo come osservazione nuova (Kuhn, 1962; Toulmin, 1961; 1972). In completa compatibilità con questa soluzione pessimistica del problema logico della conoscenza, un’epistemologia descrittiva può chiedere come ci occupiamo della conoscenza, per ammissione imperfetta, che abbiamo? Data la nostra svantaggiata condizione epistemologica, come possiamo conoscere bene, così come sembra che conosciamo? Gli epistemologi classici come Hume e Kant fanno delle ipotesi al riguardo, e così fanno anche i moderni, come Popper (1959; 1963), Polanyi (1958), Toulmin (1961; 1972), Kuhn (1962) e altri. Ciò che nella filosofia tecnica era stato trascurato come insignificante è ora esplorato da una crescente minoranza coraggiosa all’interno della filosofia. (Vedi Campbell 1974, per i particolari). L’epistemologia descrittiva o evolutiva, è un nuovo importan94

te campo; e non è affatto monopolio dei filosofi. Nei termini della distinzione che i filosofi hanno in genere fatto tra filosofia e scienza, l’epistemologia descrittiva sarebbe stata classificata come scienza. La filosofia fornisce l’antica lista di relazioni, la scienza moderna fornisce le basi per le soluzioni. Così l’epistemologia descrittiva è un campo in cui dovrebbero collaborare fisici, biologi, psicologi e sociologi. Quando questa disciplina sarà consolidata, Konrad Lorenz sarà riconosciuto come uno dei suoi fondatori e dei maggiori esponenti. Il fisico-filosofo Vollmer (1974) ha già conferito a Lorenz questo status; uno dei più recenti libri di Lorenz, Die Rückseite des Spiegels (L’altra faccia dello specchio)1 (1973) è tutto dedicato a questo. Ristampato nel presente volume è il primo di questi saggi La dottrina kantiana dell’a priori alla luce della biologia contemporanea. La nostra amicizia si formò così. Quando pubblicai il mio primo saggio sull’argomento (1959), conoscevo già alcuni scritti epistemologici di Lorenz attraverso un saggio di Bertalanffy (1955) e una raccolta edita da Whyte (1951). In seguito feci fare una traduzione dello scritto, qui pubblicato, e della Percezione della Gestalt (1959). I risultati erano così incerti che mi ci vollero mesi per rivederli, usando un dizionario tedesco-inglese, almeno una volta per ogni frase. Fu così grande il mio coinvolgimento e il conseguente oblio dei miei scritti, che misi in lista queste realizzazioni nel mio curriculum vitae, come “curatore della traduzione”, raggiungendo i due terzi delle mie pubblicazioni per il 1962. Fui aiutato moltissimo, nelle traduzioni, dal sentire intuitivamente ciò che Lorenz cercava di dire. Il maggior consolidamento alla nostra amicizia venne dal fatto che valutavamo i rispettivi contributi in un campo a cui a quel tempo nessuno sembrava interessato, ma che aveva per noi un fascino enorme. Nello scrivere La dottrina kantiana dell’a priori alla luce della biologia contemporanea, il giovane Lorenz risolse in modo creativo un importante rompicapo epistemologico. Risulta che anche almeno ventidue filosofi, diciotto biologi, fisici e psicologi da Darwin in poi, hanno affermato che le categorie “a priori” della percezione e della conoscenza possono essere i prodotti di una evoluzione 1 L’altra

faccia dello specchio, Adelphi.

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biologica (Campbell 1974), eresia ricorrente cui è stata prestata così poca attenzione che quasi tutti ignorano completamente gli altri sostenitori. Di tutte queste, la presentazione di Lorenz è la migliore, la più piena e la più acuta. Il relativismo epistemologico è un problema ricorrente nella teoria della conoscenza e il modo in cui Lorenz affronta il problema è di particolare valore. Come il suo maestro Uexküll (1934), egli riconosce che ogni animale (e ogni lingua, ogni cultura, ogni periodo storico ogni paradigma scientifico), vede la realtà da una prospettiva diversa e limitata. Ogni prospettiva è basata su presupposti che, per quanto utili, sono di validità non dimostrata e limitata. Queste differenze sono presentate in modo meraviglioso nelle sue speculazioni sui concetti di spazio e causalità nel topo-ragno acquatico (in La dottrina kantiana dell’a priori alla luce della biologia contemporanea). Egli riconosce un’analoga, limitata prospettiva nella conoscenza umana anche quando viene riflessa dalla fisica moderna. Questo egli lo descrive come relativismo epistemologico nella nostra condizione di conoscitori. Molti fra quanti hanno raggiunto questo livello teoretico, proseguono fino ad una filosofia che nega la realtà, o qualunque altra realtà al di fuori delle nostre stesse percezioni, o qualunque realtà comune riflessa, per quanto imperfettamente, in prospettive diverse. Non così Lorenz. Egli unisce il suo relativismo epistemologico con un realismo ipotetico, un realismo critico. La sua teoria evoluzionistica lo porta a trovar necessario premettere uno spazio fisico comune e la causalità che è imperfettamente tracciata dal topo-ragno acquatico e dall’uomo. Organismi superiori hanno spesso mappe più complete che uniscono le distinzioni dei più primitivi progenitori con discriminazioni più sottili. Teorie fisiche avanzate possono riuscire a racchiudere categorie percettive di animali e uomini non sofisticati, e tuttavia restare ancora parziali e relative da un punto di vista prospettico. Questo è ancora un punto di vista di minoranza tra i filosofi della conoscenza, ma è progressivamente in aumento, anche se nella storia delle idee ogni nuova dimostrazione di relatività epistemologica genera temporaneamente nuovi convertiti ad una relatività ontologica. Lorenz ha dato anche dei contributi ad altre aree di epistemologia descrittiva. I saggi L’errore alla moda di trascurare la descrizio96

ne, qui riportato, e La percezione della Gestalt come fonte di conoscenza scientifica (1959), sono contributi altissimi alla psicologia della scienza. Forniscono una necessaria correzione a quelli che erroneamente vedono la conoscenza quantificata, atomizzata e strumentalizzata, come sostituto della normale percezione nella scienza (Campbell, 1966). Il leggero fascino del Gli animali hanno un’esperienza cosciente? (1963) non dovrebbe mettere in ombra contributi validi ai problemi filosofici delle “altre menti” e della relazione “mente-corpo”. Si noti che ciò rappresenta una sfida a una credenza comune secondo cui è l’attività delle parti più alte e più recenti, dal punto di vista evolutivo, del cervello che corrisponde all’esperienza conscia. È questo enigma della percezione conscia che porta Lorenz alla sua opera paradossale, L’altra faccia dello specchio.

Aggressività tra gruppi Il cosiddetto male (1966) è il libro più conosciuto di Lorenz tra psicologi e sociologi, e quello più vigorosamente attaccato. Nell’introdurre Lorenz sento il bisogno di discutere questo lavoro, a causa sia della sua notorietà sia del mio interesse al problema dell’ostilità umana tra gruppi. Il modo in cui Lorenz tratta l’aggressività animale, è un bellissimo esempio di soluzione scientifica di un problema. Per il pesce corallo egli mette assieme i pezzi di rompicapo di schemi a colori vivaci, la lotta concentrata su membri della stessa specie, stabili posti per vivere nella roccia corallina e i vantaggi di sopravvivenza dati dallo spazio. Egualmente impressionante è il suo modo di trattare l’unione delle coppie, la difesa del nido e l’aggressività verso altri della stessa specie in varie specie di oche, assieme alla sua identificazione di gesti di aggressività modificata nei loro rituali di corteggiamento. In questo e in molti altri esempi è esposto il caso che l’aggressività tra membri della stessa specie possa essere utile e adattiva, prolungando la sopravvivenza della specie stessa. Lorenz presenta questo fatto come correttivo della spiegazione di Freud dell’aggressività come espressione di un desiderio di morte autosconfiggentesi e di tendenze più generali a vedere tutte le espressioni, di ostilità come malvage, non-adattive, innaturali e prodot97

to di condizioni ambientali anormali, da cui il suo capitolo intitolato A che cosa serve l’aggressività e il titolo ancor più provocante dell’edizione tedesca del libro Das Sogenannte Böse (Il cosiddetto male). Questi titoli sono parte di una conversazione, una reazione ad affermazioni estremistiche, in altre direzioni, fatte dai precedenti partecipanti. Considerando il contenuto del libro in sé e le conferenze successive che sollecitò, potrebbe essere stato un titolo più preciso, con accentuazione inversa, per esempio: “Il male dell’aggressività umana in contrasto con la mansuetudine dell’aggressività animale in ambienti naturali stabili”. Secondo Lorenz, l’aggressività umana che si esprime nella guerra, nell’omicidio, nel genocidio, è il pericolo moderno, in assoluto. L’uomo ha disperatamente bisogno di innovazioni politiche e comprensione popolare che controllino queste tendenze aggressive umane. In questa soluzione del problema ed autoeducazione, farà male, piuttosto che bene, negare l’aggressività innata nell’uomo. Dovremmo invece cercare di capire l’aggressività e questo implica anche il comprendere la passata adattabilità di tendenze che sono state deviate ed ora minacciano la nostra stessa sopravvivenza. Molti dei miei colleghi liberali, fautori della pace, reagiscono con la paura al messaggio “l’aggressività è naturale”, perché per loro implica anche “l’aggressività è un bene”, o temono che possa essere questa la conclusione per il grande pubblico, che essi cercano di educare sui pericoli della tradizionale ostilità etnocentrica verso i gruppi esterni. Temono che questo messaggio di un eminente scienziato possa servire a giustificare e rivendicare queste pericolose eredità dei passati sistemi sociali e/o stadi dell’evoluzione biologica. Costoro e Lorenz sono d’accordo sul pericolo delle tradizioni aggressive, e degli istinti e sul fatto che siano fuori moda. Lorenz non vuole dare la parvenza di un supporto scientifico a queste tradizioni. Al contrario; e tuttavia sfortunatamente resta vero, che dare, nel clima attuale, all’aggressività l’etichetta di “naturale” può avere lo stesso effetto che definirla normale o buona. Dovremmo forse educare noi stessi a non usare questa moralità troppo semplificata e troppo ottimistica, tornando a quella diffidenza verso la natura umana che si trova nelle nostre tradizioni religiose. I miei colleghi liberali hanno un’altra reazione di paura al 98

messaggio “l’aggressività è innata”, perché è pessimista, implicando la difficoltà o l’impossibilità di prevenire la guerra. Lo scienziato che ratifica questo messaggio, appoggia l’apatia e il disfattismo nei riguardi del problema della guerra e provoca un nazionalismo sciovinista. Sono così grandi le implicazioni politiche pratiche delle dichiarazioni autorevoli di un eminente scienziato, su questo argomento, che egli dovrebbe evitare conclusioni del tipo “l’aggressività è innata” o “la guerra è naturale”, a meno di non avere una prova schiacciante, cosa che, a questo punto, non è certamente vera. L’aggressività umana “naturale” porta alla guerra, o non è piuttosto l’organizzazione sociale umana che produce la guerra? Lorenz si riferisce sia all’ereditarietà biologica che all’evoluzione sociale e sia alla territorialità individuale maschile che all’organizzazione tribale nei riguardi della tendenza umana alla guerra. Per i suoi divulgatori, tuttavia, non c’è tale ambiguità. Il messaggio, invece, è chiaro: il comportamento di tendenza alla guerra dell’uomo è dovuto al fatto che è un animale territoriale. Lorenz, nell’intervista riportata in questo libro, vorrebbe ora aver messo in chiaro la distinzione tra l’aggressività individuale e l’aggressività organizzata di gruppo. Egli ha, di conseguenza, espresso il suo accordo con le affermazioni seguenti: La linea di pensiero, sia nello scritto del 1965, che negli attuali emendamenti, deve essere nettamente distinta dalle consuete spiegazioni popolari biologico-evoluzionistiche della guerra. Il concetto di territorialità ha aggiunto molto alla nostra comprensione dell’aggressività a livello della lotta individuale tra pesci e oche (Lorenz, 1966). Una teoria realistica sul conflitto di gruppo può essere intesa come una teoria di territorialità sociale di gruppo e aggressione sociale di gruppo. Ma la relazione tra questi due livelli di territorialità dovrebbe essere mantenuta chiara. La territorialità tra i vertebrati, studiata dagli etologi, rappresenta la sindrome comportamentale di un individuo maschio che protegge una singola femmina o un harem e i suoi figli. Una teoria realistica del conflitto di gruppo non è la stessa teoria e non spiega il conflitto tra gruppi come espressione di questo istinto territoriale negli individui maschi. O, piuttosto, è una teoria analoga ad un diverso livello di organizzazione. La teoria realistica sui conflitti di gruppo si riferisce a gruppi orga99

nizzati che comprendono molti maschi e molte famiglie. Nei termini delle disposizioni comportamentali degli individui implicati, i due livelli di territorialità sono in opposizione. Anche se gli sforzi per mobilitare l’etnocentrismo fanno spesso riferimento alla protezione della casa e della famiglia, la territorialità a livello di gruppo ha sempre richiesto che il soldato abbandoni per lunghi periodi la protezione della propria moglie, dei propri figli, della propria casa. La territorialità e l’aggressività individuale significano conflitto intragruppo e vengono regolarmente soppresse a favore del conflitto intergruppo. La quarta proposta della teoria realistica di conflitto di gruppo (1965, p. 288) afferma che una minaccia reale provoca solidarietà all’interno del gruppo. In una dichiarazione precedente Summer dice: “Le esigenze di una guerra esterna provocano la pace interna per evitare che la discordia intestina indebolisca il gruppo, per la guerra”. “Queste esigenze rendono stabili, all’interno del gruppo, governo e leggi per prevenire dispute e rafforzare la disciplina” (1906, p. 12). Sono le “discordie interne” e le “dispute all’interno” le manifestazioni aggressive della territorialità istintiva, se ce ne sono. Questa è l’asserzione che più ricorre nelle molte fonti della teoria realistica del conflitto di gruppo. Gli Sherifs (1953) ne fanno un punto fondamentale. E con l’aiuto di recensori come Coser (1956) Berkowitz (1962) e Rosenblatt (1964) si possono riunire facilmente parecchie dozzine di citazioni che lo affermino. È anche un tema principale della descrizione antropologica delle società a segmentazione piramidale (Levine e Campbell, 1972). Così, non è la territorialità dei mammiferi o dei primati che spiega la guerra in questa teoria. È invece una funzione analoga ad un più alto livello organizzativo, livello che richiede l’inibizione della territorialità individuale a più basso livello, dei mammiferi. È questa discontinuità che fa gli insetti sociali, più che delle scimmie più evolute, la più stretta analogia funzionale della complessa organizzazione sociale umana (Campbell, 1972).

Da questo punto di vista le guerre si combattono sulla base dell’indottrinamento e dell’organizzazione sociale e richiedono la inibizione della “naturale” aggressività territoriale del maschio. Queste tradizioni ed istituzioni dell’ostilità di gruppo sono state 100

per qualche secolo del tutto fuori moda, pericolose e malvage e sono diventate suicide con le armi nucleari. In Evoluzione della ritualizzazione e L’ostilità tra generazioni entrambi qui riportati, e negli Otto peccati capitali della nostra civiltà (1973) Lorenz spiega l’aggressività tra gruppi socialmente organizzati come dovuta a “pseudo-speciazione” termine che egli prende da E. H. Erikson (1966). La capacità di genocidio dell’uomo, socialmente organizzato, è basata su stratagemmi sociali che fanno sembrare inumani quelli che parlano una lingua diversa e appartengono a una diversa tribù, una specie diversa dalla nostra. Questa concettualizzazione è un valido contributo alle teorie sociologiche del conflitto intergruppo, dell’etnocentrismo, della guerra e del genocidio. I punti di vista di Lorenz sulla malvagità dell’uccisione di appartenenti alla stessa specie, differenziati soltanto da pseudo-speciazione sono essenzialmente in accordo con le recenti, brillanti analisi di Kelman (1973).

Evoluzione sociale e conservazione della tradizione Benché zoologo di professione, Lorenz ha fornito alcune erudite riflessioni ed osservazioni sull’evoluzione socio-culturale, raccolte qui in L’ostilità tra generazioni e in Evoluzione della ritualizzazione. L’accumulo storico di abitudini, tecniche, credenze e leggi ha probabilmente avuto luogo col formarsi di un processo di “selezione naturale”, o “conservazione selettiva” analogo all’evoluzione biologica. Data un’ecologia, o un sistema selettivo stabile, e dati sistemi sociali in grado di riprodurre fedelmente le varianti selezionate, tale processo avrebbe come risultato abitudini sagge e adatte, comprese sagge “superstizioni”, dei cui veri vantaggi la popolazione e i suoi capi potrebbero essere inconsapevoli o che potrebbero razionalizzare in termini scientificamente semplici. Uno che sostenga questo punto di vista, come faccio io stesso (1965 a) con qualche riserva, è idoneo ad arrivare ad un rispetto generalizzato per la tradizione. Proprio come il credere in una teoria evoluzionistica produce in un biologo un perplesso stupore per quelle forme bizzarre di vita biologica i cui vantaggi adat101

tivi ancora non capisce, così il credere nell’evoluzione sociale dovrebbe generare nel sociologo che si trova di fronte a una fede tradizionale “incredibile” una fiducia sperimentale che sotto ad esso vi sia qualche verità adattiva che egli ancora non capisce. Poiché la scienza di tutti i processi evolutivi è scienza di ambienti passati, piuttosto che presenti o futuri, a meno che questi non restino simili al passato, migliorerebbe probabilmente la validità della scienza sociale se questa attitudine di fiducia fosse più comune. Certamente non c’è giustificazione per l’abitudine comune di invocare la tradizione solo come una spiegazione del cattivo funzionamento della società. L’evoluzione biologica dipende da rigidi meccanismi per duplicare fedelmente la selezione accumulata di geni alternativi. Benché questo rigido mantenimento e duplicazione sia in opposizione ai cambiamenti alternativi, è egualmente importante. Se la variazione o il mantenimento vengono elevati al massimo grado, l’adattamento evolutivo è reso impossibile. Ci si potrebbe aspettare che i genetisti evoluzionistici favorissero un aumento di velocità di mutazione perché questo aumenterebbe la materia prima per l’innovazione evolutiva. Al contrario, si sono unanimemente opposti a tali aumenti, quali quelli prodotti da raggi X e reazioni nucleari, adducendo la ragione che questi mettono in pericolo il mantenimento di adattamenti già acquisiti. A loro giudizio, l’equilibrio tra mantenimento e variazione è già inclinato abbastanza verso la variazione. Similmente, se uno crede che un processo storico di evoluzione socioculturale abbia prodotto sistemi adattivi le cui funzioni non comprendiamo ancora completamente, è propenso a pensare che tesori preziosi siano messi in pericolo quando falliscano i meccanismi di mantenimento di abitudini sociali. Ci sono motivi di preoccuparsi che stia venendo su un’intera generazione di giovani che non vogliono crescere per diventare come i loro genitori, o che gli schemi per allevare un bambino non lo portino più ad identificarsi con i suoi genitori o i genitori trascurino i loro doveri disciplinari nell’abituare i bambini all’autocontrollo e all’ordine sociale esistente, o il vivere cittadino e la televisione riducano la stabile partecipazione di gruppo e il controllo sociale. Lorenz si volge a questi problemi in L’ostilità tra generazioni e ne Gli otto peccati capitali della nostra cultura (1973). Questi fenomeni sono ora 102

molto trascurati e Lorenz si accinge ad una missione molto valida nel dirigere la nostra attenzione verso i loro pericoli. L’accettazione popolare del punto di vista del mondo scientifico, con la conseguente perdita di credibilità per le sanzioni soprannaturali, possono aver contribuito ad una possibile interruzione nella trasmissione della saggezza culturale. L’ostilità tra generazioni fu pubblicato come parte di una raccolta di saggi da eminenti scienziati che dibattono questa possibilità (Weiss, 1970; Polanyi, 1970; Eccles, 1970). Lorenz conviene: “L’erronea credenza che soltanto ciò che è razionalmente comprensibile o scientificamente dimostrabile, appartenga al sapere stabile del genere umano, produce effetti disastrosi. Incoraggia i giovani “illuminati dalla scienza” a buttar via le enormi riserve di conoscenza e saggezza contenute nelle tradizioni di ogni antica civiltà e negli insegnamenti delle grandi religioni del mondo” (1973, p. 63). Ma l’enfasi personale di Lorenz sullo stato dell’uomo come animale, può risultare particolarmente insidiosa per l’autorità della tradizione sociale. L’enfasi tradizionale sulla differenza tra uomo e animale, la sua natura vicina alla divinità, può essere una copertura della verità secondo cui l’uomo è portatore di una preziosa civilizzazione culturale socialmente trasmessa. Si noti che Monod (1971) nel capitolo su “Il regno e le tenebre” in Il caso e la necessità si ritrova egualmente legato come i nemici di Lorenz, gli psicologi comportamentisti. Sono completamente d’accordo sull’importanza del problema e condivido ampiamente le conclusioni di Lorenz. Ma nell’insieme, questi due saggi mi mettono a disagio e finisco col non volermi identificare con essi. Vagliando le mie diverse sensazioni, mi ritrovo per molti punti in disaccordo. L’evoluzionista sociale può assegnare un ruolo socialmente utile all’anziano brontolone che automaticamente censura ogni deviazione da una versione sentimentalmente idealizzata del passato. E tuttavia, è penoso vedere Lorenz perdere la sua più vasta prospettiva socio-evolutiva e cadere in questo ruolo. In questi due saggi egli si oppone troppo e troppo automaticamente a tutti gli aspetti della modernità e idealizza troppo forme rurali e arcaiche di vita adatte a nicchie ecologiche non più esistenti, producendo una serie contraddittoria di critiche. Obietta contro la produzione industriale di massa e le comunicazioni di massa nel 103

mercato dell’abbigliamento, asserendo che ciò produce un’uniformità passiva e maniaca di stili e porta alla perdita dei tradizionali costumi rurali regionali. Tuttavia, il moderno abitante della città ha una molto più ampia scelta di stili ed esercita abbastanza questa scelta per finire con il godere di una molto più grande diversità tra persona e persona, e di una individualità e libertà maggiori di quanto non avesse l’antico abitante di un villaggio. Ciò che un turista vede come una valida differenza tra villaggio e villaggio in pericolo di andare perduta attraverso i moderni mezzi di produzione e distribuzione, era storicamente, per l’individuo all’interno di ogni villaggio, un’omogeneità forzata ed una limitazione oppressiva della scelta. Inoltre, come Lorenz riconosce, sia l’uniformità all’interno del gruppo che le differenze meticolosamente mantenute tra gruppo e gruppo, sono parte di quella pseudo-speciazione o etnocentrismo, che Lorenz giustamente censura. Mentre in questi due saggi Lorenz manca di annoverare il tribalismo o nazionalismo come uno dei peccati capitali, considerando questi saggi assieme a Il cosiddetto male, penso sarebbe d’accordo sul fatto che il peccato più gravemente capitale è il nazionalismo che usa la pseudo-differenza di specie per giustificare il genocidio. In realtà afferma questo in un passo de Gli otto peccati capitali: “Ogni gruppo culturale sufficientemente circoscritto tende a considerarsi una specie a sé e a non ritenere come veri e propri uomini i membri di altre unità analoghe. In molte lingue indigene il termine usato per designare la propria tribù significa semplicemente “uomo”. L’uccisione di un membro della tribù vicina non costituisce perciò propriamente un assassinio! Questa conseguenza della pseudo-speciazione è molto pericolosa perché provoca una riduzione notevole dell’inibizione a uccidere un proprio consimile, mentre rimane viva l’aggressività intraspecifica scatenata appunto dai consimili e soltanto da essi. Verso i “nemici” viene nutrita una collera quale si può provare solo per un altro uomo e non certo per un animale da preda, fosse anche il più feroce, mentre d’altra parte, poiché i “nemici” non sono considerati veri uomini, si può sparare tranquillamente su di essi. È ovvio che la propagazione di questo punto di vi104

sta fa parte di una tecnica praticata da tutti i guerrafondai” (Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, trad. it. Adelphi, Milano 19773, pp. 94-95).

Sono in così completo accordo con questo brano che mi dispiace sia sfruttato qui soltanto come esempio di una simile pseudospeciazione nella guerra tra generazioni. Al confronto, il male e il pericolo di quest’ultima mi sembrano insignificanti. Mentre le armi nucleari sono nella sua lista di peccati capitali, il nazionalismo genocida era già il peccato capitale numero uno prima delle bombe atomiche e a idrogeno. Un altro punto di disaccordo: l’interesse ai rigidi meccanismi di mantenimento che rendono possibile l’evoluzione sociale, porta anche simpatia, benché riluttante, per le pressioni di fanatico conformismo e l’ostracismo alle deviazioni, che membri di gruppi ben indottrinati esercitano anche su argomenti di stile, apparentemente privi di significato. Una visibile deviazione dalle norme di gruppo agisce come uno dei meccanismi innati d’innesco di Lorenz, facendo partire una rappresaglia di rimproveri e di ostracismo, come se si trattasse di qualcosa di fondamentale importanza. Mentre posso capire l’importanza di questo meccanismo, odio di vederlo operare in Lorenz in questi saggi, in cui egli reagisce all’eccentricità di taluni giovani, nel modo di vestirsi e di presentarsi come il proverbiale toro a un drappo rosso. Questo mi sorprende in modo particolare perché egli stesso si è notevolmente compiaciuto di allontanarsi dal tipo classico di scienziato o uomo d’affari, sbarbato, con giacca e cravatta. Più seriamente, il messaggio globale di Lorenz è che, se le cose resteranno come sono, il disastro è incombente. Quindi, dovrebbe essere e in realtà lo è spesso, contro quei procedimenti di indottrinamento sociale tradizionale, quelle pressioni conformistiche e lealtà di gruppo etnocentrico che cercano di mantenere le cose come sono. Come egli stesso afferma, precedenti sagge tradizioni possono diventare poco adatte se il sistema selettivo è cambiato, com’è in realtà. Riconosce che lui e gli “Hippies”, orientati in senso etico, sono d’accordo su molte delle fonti del male. Perché allora non può considerare le loro “uniformi” eccentriche simili al colletto del prete, un impegno pubblico esteriore per condurre una vita altruistica non materiale, indipen105

dente dalla cultura di un sistema fuori moda che ci sta portando al disastro? Ancora più gravi sono le mie riserve riguardo alla sua discussione sulla dottrina “pseudo-democratica”. Come già dimostrato, condivido alcune delle critiche di Lorenz al comportamentismo, ma mi ritrovo completamente d’accordo con i comportamentisti che vogliono cambiare l’ambiente, porre l’accento sull’apprendimento, migliorare la società, e che egli condanna con i termini di “dottrina pseudo-democratica” e “indottrinabilità”. Qualche citazione specifica mette a fuoco questa preoccupazione: “È un principio etico indiscutibile che tutti gli uomini abbiano diritto ad avere eguali possibilità di affermazione. Ma questa verità si presta troppo facilmente ad essere falsata e a far ritenere che tutti gli uomini siano ugualmente dotati. La dottrina behaviorista fa un altro passo avanti sostenendo che tutti gli uomini diventerebbero uguali qualora fossero messi in grado di svilupparsi nelle medesime condizioni ambientali; essi diventerebbero uomini ideali ove queste condizioni fossero ideali. Di conseguenza gli individui non possono, o meglio non devono, possedere caratteri ereditari, soprattutto non quelli che determinano il loro comportamento sociale e i loro bisogni sociali” (Gli otto peccati capitali…, cit., pp. 120-121). “La falsa credenza secondo cui, condizionando adeguatamente l’uomo, ci si può aspettare da lui qualsiasi cosa, e se ne può fare quel che si vuole, sta alla base dei molti peccati mortali che l’umanità civilizzata commette non solo contro la natura, ma anche contro la natura dell’uomo e contro la sua più profonda umanità. Il fatto che un’ideologia universale, e la politica che ne deriva, siano basate su una menzogna, non potrà non avere le peggiori conseguenze. Alla dottrina pseudo-democratica va certamente attribuita una gran parte della responsabilità per il crollo morale e culturale che incombe sugli Stati Uniti e che, con tutta probabilità, trascinerà nel suo vortice anche tutto il mondo occidentale” (ivi, pp. 121-122).

I peccati, i mali, il collasso di cui sopra, non sono specificati. Non li riconosco e mi chiedo ansiosamente quale ordine sociale 106

del passato venga idealizzato. Monarchie ereditarie e caste sociali giustificate dalla fede in superiorità genetiche ereditarie? Diritti speciali per un Herrenvolk? “Comportamentisti” del miglioramento sociale come me, si concentrano su cambiamenti ambientali e sull’apprendimento perché li vediamo come qualcosa a cui una ben intenzionata società può provvedere, non perché neghiamo ogni differenza individuale di capacità. L’educazione pubblica libera è una delle nostre mete maggiori e dei nostri parziali successi. Pensate a quali profondi cambiamenti nella società si verificherebbero se prendessimo seriamente quella parte dell’ideale egualitario che Lorenz approva. “Tutti gli uomini hanno un eguale diritto alle stesse possibilità di sviluppo”. Produrrebbe lo stesso tipo di traguardo politico che egli sembra censurare come eccesso di egualitarismo. Ci porterebbe ad un “capitalismo onesto in partenza” o ad un socialismo in cui le possibilità di sviluppo di ciascuno non siano influenzate da ricchezze ereditate e privilegiato accesso alle opportunità. Lorenz vede la diversità orizzontale di cultura come ideale; ciò è minacciato più da un imperialismo economico specialmente privilegiato, che da un egualitarismo democratico o socialista. Ciò che invece egli auspica mi sembra implicitamente giustificare una diversificazione “verticale” di classi sociali o caste, una gerarchia di culture inferiori accompagnate da speciali opportunità garantite politicamente per quelli già sulla cima. Ma non è esplicito quale ordine sociale egli auspichi come alternativa a quello che rifiuta.

Le implicazioni politiche della genetica evoluzionistica Nicholas Pastore (1949) fece una volta una ricerca confrontando le idee politiche degli psicologi che danno rilievo all’influenza dell’ereditarietà, con quelle di quanti danno rilievo ai determinanti ambientali dell’intelligenza. La correlazione era forte: quelli che mettevano in evidenza l’ereditarietà erano politicamente più conservatori. Una delle poche eccezioni era il socialista Lewis Terman. Suppongo che, se gli zoologi fossero inclusi in questa ricerca, tenderebbero a sottolineare i determinanti ereditari delle differenze individuali e ad essere più politicamente conservatori, 107

mentre i sociologi tenderebbero ad essere all’opposizione in entrambe le cose. Molta parte di ciò viene semplicemente dalla tendenza ad esagerare l’importanza della propria specializzazione, e ci sono naturalmente delle eccezioni. Karl Pearson (1887, 1897) univa un’entusiastico biologismo evoluzionistico darwiniano ad un entusiastico socialismo pamphletistico; Kropotkin (1902, 1924) con l’anarchia, e Haldane (1938) con simpatie filocomuniste apertamente espresse. R. A. Fisher (1930) fornì una teoria genetica dettagliata del declino delle civiltà che avrebbe potuto rendere mio fautore del socialismo o dei contraccettivi o di entrambi. Nelle società a proprietà privata delle civiltà antiche e moderne, i geni associati con la sterilità aumentavano la dotazione ed altri vantaggi sociali forniti ai bambini, portando questi geni ad associarsi con quelli delle capacità, e alla fine eliminando questi ultimi dalla popolazione. Ma resta senza dubbio una tendenza generale del biologismo ad unirsi al conservatorismo e potrebbe essere più forte oggi che in passato. Oggi la difesa di programmi socio-eugenetici, come la restrizione di opportunità di procreazione nelle persone incapaci e anormali, appare soltanto nelle piattaforme politiche di destra. Nel periodo 1880-1930, l’eugenetica era spesso parte dei programmi di riforma democratico-liberali. Si noti che, mentre Haldane (1938) censura la politica eugenetica nazista, espone minuziosamente gli effetti minimi che ci si potevano aspettare, sottolinea la mancanza di un’adeguata conoscenza genetica su cui basare le decisioni eugenetiche e solleva il problema morale di chi dovrebbe decidere, è ancora lontano dallo scartare legittimamente tutte le politiche eugenetiche dei governi. Uno zoologo tende, naturalmente, ad applicare le sue prospettive biologiche ai problemi umani e a trarne implicazioni politiche. È una tendenza, questa, che tutti noi dovremmo incoraggiare se fosse realizzata completamente ed esplicitamente; abbiamo probabilmente bisogno di speculazioni dettagliate sugli effetti del celibato ecclesiastico in Irlanda, se i più intelligenti venivano il più delle volte reclutati per il sacerdozio. Sono in atto ricerche sull’effetto dei contraccettivi sulle future pulsioni sessuali umane (cfr. Darwin, 1960). Mentre preferisco le spiegazioni culturali-motivazionali degli ambientalisti della leggera superiorità media degli ebrei america108

ni nei test d’intelligenza (Klineberg, 1944), e sono particolarmente affascinato dalle ipotesi dell’emancipazione etero-culturale dell’ex-contadino norvegese-americano Thorstein Veblen (1919), penso dovremmo avere delle ricerche storiche che sollevassero la questione se le condizioni di vita degli Ebrei nella Diaspora europea fossero tali che le persone più capaci nelle abilità richieste da un alto grado di civilizzazione, tendessero anche ad avere il maggior numero di bambini che raggiungessero l’età adulta. Abbiamo anche bisogno di ricerche come quella fornita da Herrnstein (1973) sulla possibilità che aumentando l’eguaglianza delle opportunità, aumenti alla fine la superiorità genetica di quelli che si trovano in ruoli professionali e direttivi su quelli che hanno occupazioni più subalterne. Il presente clima intellettuale nel complesso si oppone a tali speculazioni con un’interdizione così efficace che potremmo perdere qualcuno dei benefici che la genetica evoluzionistica potrebbe fornire alla pianificazione sociale. Questo è il nucleo centrale di gran parte delle proteste di Lorenz sull’indottrinabilità e il “dogma pseudo-democratico”. Vedo le radici dell’opposizione non nel comportamentismo populista che egli condanna, ma piuttosto nella reazione interessata degli intellettuali contro specifici movimenti politici che hanno difeso dottrine di superiorità razziale con risultati catastrofici. Nella scena politica degli Stati Uniti le idee politiche razziali bianchi-negri, sono un pericolo sempre presente, tanto che, anche se il pericolo nazista è scomparso da trent’anni, il bisogno di una sorveglianza politica lungo queste linee è ancora grande. È un costo spiacevole se questa sorveglianza sopprime una area legittima di studi biologici e di ricerca. Non vedo chiaramente come si potrebbe risolvere il dilemma, ma simpatizzo col biologo, il quale sente che la sua libertà di ricerca scientifica viene violata. D’altra parte sono in specifico disaccordo con molte delle implicazioni dei brevi e casuali commenti sulla genetica che Lorenz fa in L’ostilità tra generazioni, Gli otto peccati capitali e nell’intervista presentata in questo libro. Egli mette nella lista dei peccati capitali il “deterioramento genetico”. Per quanto possa capire ciò di cui sta parlando, non sono d’accordo. È concepibile, perfino probabile, che l’aumentata disponibilità di occhiali abbia in qualche modo ridotto un’antica tenden109

za, operante come pressione selettiva, delle persone con vista menomata ad avere pochi figli. Tuttavia, la capacità della nostra specie presa globalmente nel campo della vista, è stata incrementata tanto (compresa per es., la capacità degli ultracinquantenni di leggere) che la nostra capacità adattiva, il nostro valore di sopravvivenza è stato grandemente migliorato dal diffondersi dell’uso dei mezzi ottici. Un evoluzionista comprensivo, considerando sia l’evoluzione biologica che quella sociale, dovrebbe quindi favorire l’uso degli occhiali anche se comportano un costo genetico. Si potrebbe considerare il caso simile che i mezzi di trasporto artificiali, dal cavallo in poi, hanno ridotto la forza selettiva sulle componenti innate della velocità di corsa. Al riguardo abbiamo un centinaio d’anni di record olimpici confrontabili, in cui le velocità massime mostrano un continuo aumento anziché una diminuzione e nessun vantaggio generale per gli abitanti di campagna su quelli cittadini, dovuto senza dubbio a migliorato nutrimento e addestramento. Ma anche se ci fosse prova di un deterioramento di origine genetica nella velocità di corsa, questo non sarebbe motivo di allarme perché la velocità di corsa è irrilevante per la capacità adattiva nella moderna nicchia ecologica dell’uomo. A causa della lentezza dei cambiamenti evolutivi, le preferenze estetiche che regolano la selezione sessuale e la scelta di un capo possono benissimo perpetuare criteri fuori moda di capacità adattiva, ma l’evoluzionista coerente dovrebbe, mi sembra, censurare questi gusti atavici, piuttosto che dar loro lo status di standard morali ed estetici approvati. Particolarmente frustrante nella discussione di Lorenz sul deterioramento genetico è la combinazione di conclusioni estreme – “Non c’è alcun dubbio che attraverso il deterioramento di comportamenti sociali ancorati alla genetica, siamo minacciati dall’apocalisse in una forma particolarmente orribile” (1973, p. 59) – con deboli esempi di importanza limitata. Invece di prove per le sue conclusioni, ci viene offerto un esempio in cui un pazzo criminale uccise altre tre persone dopo essere stato rilasciato tre volte come guarito. Crede egli forse che impiegando la pena di morte o il carcere a vita in questi casi migliorerebbe la nostra base genetica? O che nessun assassino sia mai in grado di essere rilasciato con sicurezza? O che la psichiatria sia in grado di fare le diagnosi necessarie? 110

Non trovo giustificata nessuna di queste credenze. Avrebbe almeno dovuto specificare le sue alternative e discutere il loro impatto genetico. Egli non riesce chiaramente, contro la permissività, a provare la ragione della punibilità, importante per i fondamenti delle sue confessate preoccupazioni. La civilizzazione (acclimatazione, attaccamento alla vita familiare) è una tendenza genetica che egli deplora. Questo mi sembra fuorviante. Urbanizzazione è il termine più appropriato, e l’uomo moderno è senza dubbio più adatto alla vita cittadina e ad una cultura cosmopolita di portata mondiale di quanto non sia mai stato prima nella storia. Questo adattamento include senza dubbio quello genetico, così come quello culturale e, anche se difficile da determinare, è un argomento legittimo per la ricerca scientifica. Ma rimpiangere che questo processo sposti adattamenti specifici verso specifiche nicchie ecologiche regionalmente diverse, come sembra fare Lorenz, è una follia, quando quelle nicchie ecologiche non esistono più. La purezza genetica sembra uno dei valori di Lorenz, ma gli studi moderni sulla genetica delle popolazioni naturali nei loro ambienti naturali, trova molte forme di eterozigoti invece che uniformità genetica od omozigosi. È il sistematico allevamento di animali e piante in ambiente domestico che produce purezza di base genetica, che risulta poi una vera tendenza sia per il controllo dei geni letali che per l’adattabilità ai cambiamenti ambientali. Dal punto di vista dell’esperienza genetica con animali e piante, per quanto io sappia, non ci sono pericoli derivanti dallo ibridismo, né esempi documentati in cui un notevole adattamento specifico per specie ad una nicchia ecologica ancora rilevante, sia stato eliminato dalla contaminazione razziale. Konrad, devo scusarmi con te e il lettore per aver occupato tanto spazio a lavori che corrispondono ad una ben piccola parte di tutti i tuoi scritti o dei quattro preziosi saggi qui ristampati. Tu avrai riconosciuto che il fatto che io mi sia comportato così è un segno che anch’io sono stato influenzato da ciò che chiami dominio di una dottrina pseudo-democratica e da ciò che io riconosco come ben fondate paure della politica razziale da parte degli intellettuali progressisti. 111

Queste pressioni sociali ben reali mi rendono incapace di esprimere, altruisticamente consapevole, la mia ammirazione per i tuoi grandissimi contributi all’etologia, all’evoluzione del comportamento, al comportamentismo cibernetico, all’epistemologia descrittiva, alla conoscenza dei pericoli dell’aggressione organizzata di gruppo e dell’evoluzione sociale. Invece, sento anche il bisogno di intervenire per render chiara la mia posizione su altre tue credenze controverse. Se non fosse per le pressioni sociali, sulla cui presenza siamo entrambi d’accordo (anche se con spiegazioni diverse) avrei potuto tralasciare, non facendone menzione, i miei punti di disaccordo e fornire un’introduzione uniformemente entusiastica – altrettanto accurata di questa – soltanto deviata in direzione opposta. Così com’è, tuttavia, ritengo necessario assicurarmi che la mia valutazione degli argomenti controversi, non sia confusa dalle mie espressioni di grande ammirazione per il tuo lavoro. Questa, preoccupazione egoistica è talmente importante per me che, oltre a discuterne qui sopra, sento il bisogno di discutere un argomento a cui appena alludi alla fine dell’intervista: la differenza di razza nell’intelligenza. Questo è un argomento di importanza fondamentale nella psicologia statunitense di oggi, e in esso le dichiarazioni degli psicologi sono immediatamente raccolte in idee politiche razziste. Penso non basti che tu dica che, mentre le razze sono diverse, queste differenze non comportano un meglio o un peggio, perché ognuna di esse è adattata al meglio in qualche nicchia ecologica diversa. Tale conclusione è accondiscendente e avvilente per razze che ora vivono nello stesso ambiente. Credo sia anche sbagliata per i principali componenti di adattamenti passati e attuali. Nella moderna teoria evoluzionistica la comprensione della differenza razziale richiede la specificazione di una differenza nelle forme di selezione sistematica. Per il colore della pelle alcune delle pressioni selettive sono ora capite: nel nord-Europa i bambini sono soggetti ad assorbire troppo poca vitamina D dalla luce solare; in Africa troppa. Per l’anemia drepanocitica, possiamo ora determinare l’aumentata resistenza alla malaria per la condizione di eterozigosi che portò ad un’alta frequenza del gene nell’interno dell’Africa occidentale. Sessanta secoli di tabù culturali spiegano il fatto che i Cinesi non siano riusciti a sviluppare la capacità di digerire latte di mucca. 112

Ma per le caratteristiche dell’adattabilità generale alle novità ambientali, non si può specificare questa pressione di selezione differenziale. Come con la velocità nella corsa, che i record olimpici dimostrano essere largamente distribuita tra le razze, a mio giudizio, la prima aspettativa di un biologo evoluzionistico dovrebbe essere un’alta pressione selettiva in favore dell’intelligenza nello sfondo evolutivo di tutti i gruppi. Qualsiasi congettura opposta dovrebbe essere accompagnata da esami dettagliati di specifiche pressioni selettive che operano in altre direzioni. Le capacità di vocabolario, che sono il nucleo centrale dei test di intelligenza, e di realizzazione, sono così ovviamente apprese che non posso considerarle importanti per l’argomento delle differenze genetiche, dove i gruppi in questione hanno diverse opportunità di apprendere il vocabolario impiegato nei test. L’eguaglianza di opportunità non esiste nemmeno tra fratelli e sorelle nella stessa famiglia e ci sono abbastanza differenze medie di opportunità di produrre una differenza di Q.I. sicura, che favorisce i primogeniti. Anche così, le ricerche che mettono a confronto le somiglianze di Q.I. tra gemelli identici, possono essere importanti per il contributo dell’eredità quando l’ambiente familiare è mantenuto relativamente costante. Queste determinazioni sono, in ogni modo, non appropriate per interpretare i confronti, in cui interferiscono, come elementi di confusione, diversità ambientali, proprio come sarebbero non appropriate per spiegare le differenze tra bambini inglesi e francesi in un test di vocabolario in lingua francese. Trovo ancora importanti e autorevoli gli studi di Otto Klineberg (1944) degli anni Trenta. Più simile è l’ambiente educativo bianchi/negri, più piccole sono le differenze. Poiché nessun confronto disponibile elimina le differenze ambientali, la conclusione più plausibile è che non vi sia alcuna differenza di Q.I. ove le opportunità di apprendimento siano eguali. La mia partecipazione agli accesi dibattiti sulle differenze razziali, che si stanno svolgendo nella psicologia U.S.A. oggi, è stata limitata, ma chiaramente dalla parte degli egualitari. Ho anche chiesto una moratoria su ulteriori misurazioni delle differenze di gruppo, a meno che non siano accompagnate da una misurazione meticolosa del quoziente ambientale di produzione di intelligenza, cioè il vocabolario dell’ambiente, la frequenza dei giochi con recitazione di vocaboli, la stimolazione intellettuale e la rea113

zione alla curiosità infantile, la qualità dei giocattoli, ecc. (Campbell e Frey, 1970). Il clima politico pubblico in America è tale che differenze prodotte dall’ambiente, quando siano pubblicizzate, sono interpretate da un punto di vista razziale e usate per giustificare differenze, incoraggiate e aumentate, nelle opportunità offerte dall’ambiente. Purtroppo, Lorenz si sbaglia nel giudicare l’egualitarismo dominante nell’opinione pubblica degli USA. Ha, invece, ragione per quanto riguarda la sua prevalenza tra gli intellettuali degli Stati Uniti, anche se questa prevalenza è attualmente corrosiva, malgrado le vessazioni dei non egualitaristi. Una delle esperienze nazionali che sta aumentando la fede nelle differenze ereditarie tra le classi sociali e tra le razze per quanto concerne le capacità, sono gli scarsi risultati dei programmi scolastici integrativi. I programmi non eliminano mai interamente le differenze, e gli effetti svaniscono rapidamente. Frey ed io abbiamo dimostrato che questi sono esattamente i risultati che ci si sarebbe aspettati se i punteggi Q.I. fossero interamente dovuti a differenze di opportunità ambientali e non hanno, quindi, alcun peso nella controversia eredità/ambiente. (Campbell e Frey, 1970). La maggior parte delle valutazioni dei programmi integrativi hanno coinvolto progetti quasi sperimentali che sottovalutano gli effetti, anzi, fanno sì che i programmi sembrino nocivi se sono, in realtà, inefficaci. Ho parlato chiaro e forte su questo argomento (Campbell ed Erlebacher, 1970; Campbell, 1973). Sono i pochi esperimenti fatti a caso che producono i migliori risultati. Non eliminano mai del tutto il divario, ma non eliminano mai contemporaneamente neppure il divario nel vocabolario di casa e di gioco. Riesco ad immaginare un ambiente politico in cui le discussioni sulle differenze genetiche potrebbero essere portate avanti con curiosità scientifica scevra di passione politica. Tale ambiente sarebbe impegnato per l’eguaglianza delle opportunità e in esse la razza di una persona o le capacità medie della sua razza non avrebbero niente a che fare con le sue opportunità. In America, invece, abbiamo una struttura in cui un bianco di classe media con Q.I. di 100, ha nella vita innumerevoli vantaggi più di un negro con lo stesso Q.I. Alcuni di questi vantaggi hanno ancora uno status quasi lega114

le, altri sono contenuti in discriminazioni non ufficiali, strutture dell’opportunità e differenze sub-culturali. I pochi intellettuali che abbiano pubblicamente asserito di credere nelle differenze razziali per quanto riguarda l’intelligenza, hanno, mi sembra illogicamente, teso ad accompagnare questa conclusione con la raccomandazione di sistemi (come curricula speciali) che aumenterebbero lo svantaggio nelle opportunità e produrrebbero ampie differenze in futuro. Sarebbe stato più logico che avessero raccomandato di classificare i bambini per questi trattamenti differenziali sulla base dei test che usavano per misurare le differenze razziali medie, perché certamente dovrebbero credere che i punteggi dei test sono un migliore indicatore dei relativi geni del colore della pelle. Negli USA sarebbe un vantaggio morale sostituire con la divisione per Q.I. la divisione per razza e la ricerca della capacità nelle scuole può avvicinarsi a questo. Ma tale sistema non vive secondo quei principi di eguaglianza e opportunità che Lorenz ed io appoggiamo. La divisione per Q.I. aggiunge ulteriori possibilità differenziali a quelle già create dall’eredità e dal precedente ambiente. Non abbiamo attualmente alcuna proposta realizzabile per sistemi educativi che potrebbero realmente rendere eguali le opportunità. Permetteteci almeno di evitare sistemi che aumentino le differenze.

Conclusione Nella sua brillante carriera Konrad Lorenz ha dato contributi creativi in una gran varietà di campi; oltre a quelli citati dalla commissione per il Premio Nobel, ci sono altri lavori qui descritti, come sul comportamentismo cibernetico e sull’epistemologia descrittiva, che alla distanza potrebbero essere giudicati egualmente importanti. Ci sono anche i suoi popolari saggi degli ultimi anni, che sono diventati controversi best-seller, largamente acclamati e largamente combattuti. Questi hanno presentato punti di vista che egli sapeva in partenza che non sarebbero stati accolti favorevolmente da molti intellettuali e in alcuni saggi c’è riuscito così bene che ho fatto di tutto per dissociarmi da essi, creando in questo saggio un notevole squilibrio. 115

Il rileggere le prime quattro sezioni e mezza di questa introduzione, aiuterà a ristabilire l’equilibrio disturbato dall’ultima parte. Lo farà anche la lettura delle principali opere di Lorenz e dei quattro saggi qui pubblicati, perché soltanto uno di essi, L’ostilità tra generazioni entra nell’area controversa ed anche quello merita il suo posto per il suo stimolante ampliamento delle prospettive.

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2. Konrad Lorenz risponde a Donald Campbell*

Altenberg, 16 agosto 1974 Caro Donald, come ho già detto, ti sono molto riconoscente per aver scritto “Konrad Lorenz come psicologo”. Come quando ho letto la tua interpretazione dei primi saggi che hai tradotto, ho sentito che avevi espresso, ciò che avevo tentato di dire molto più chiaramente di quanto non avrei potuto fare io. Hai anche, magnificamente, analizzato la leggera ma importante divergenza tra le mie opinioni e l’interpretazione che ne hanno dato alcuni scrittori, come ad esempio Robert Ardrey nella sua troppo semplicistica interpretazione della territorialità umana. Sei anche perfettamente nel giusto nel supporre che “la fede nella natura quasi divina dell’uomo può essere una copertura della verità per cui l’uomo è il portatore di una preziosa civiltà culturale, socialmente trasmessa”. Questo è l’esatto motivo per cui mi infurio con chiunque disprezzi la gente religiosa o, peggio, si faccia gioco della loro fede. In relazione alla tua profonda comprensione del 98 per cento di ciò che cerco di dire, i pochi punti in cui sento di essere stato frainteso mi sembrano avere ben poca importanza. Tuttavia io penso che, nella maggioranza di essi, sia possibile tra noi un consenso reale e questa sensazione mi spinge a scrivere ciò che segue: * Nel suo saggio introduttivo (pp. 76-100) Donald Campbell ha espresso la speranza che una discussione sulle aree di disaccordo accresca la validità della sua presentazione di Lorenz agli psicologi. Fortunatamente questa discussione può fare un importante passo avanti. Il Prof. Lorenz ha risposto con una lettera personale, che abbiamo avuto il permesso di pubblicare in questo libro.

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1. (p. 89) Io certamente non “censuro ogni deviazione da una versione sentimentalmente idealizzata del passato”. Sarebbe esattamente come se censurassi il fatto che si verificano le mutazioni delle specie. Il mio punto di vista è che l’interazione tra fattori che conservano l’invarianza da una parte e fattori che provocano i mutamenti dall’altra debba mantenere un equilibrio che corrisponda esattamente alla variabilità dell’ambiente in cui il sistema vivente deve esistere, indipendentemente dal fatto che questo sistema sia una specie o una cultura umana. Mi rendo perfettamente conto che la variabilità dell’ambiente umano è in rapido aumento e che, quindi, l’influenza della gioventù ribelle deve aumentare in corrispondenza, mentre il conservatorismo deve decrescere velocemente, se la nostra cultura deve restare vitale. Nella mia conferenza di tre anni fa a Stoccolma, L’ostilità tra generazioni tenuta davanti a un uditorio costituito quasi prevalentemente da giovani hippies, posso aver dato l’impressione di essere più dalla parte dei conservatori che dalla loro. Se avessi parlato ad un uditorio di uomini d’affari conservatori, sarei senza dubbio sembrato un simpatizzante dell’altro gruppo. Mi sono ormai adattato all’idea che si diventa estremamente impopolari, sia con i vecchi conservatori che con i giovani rivoluzionari, se si dice loro che soltanto assieme, nell’equilibrio del loro antagonismo, possono ottenere la vitalità di qualunque sistema culturale. Se volete la mia opinione sull’interazione tra la civiltà costituita e quelli che pensano che abbia bisogno di essere completamente cambiata, leggete il libro di Theodore Roszak, La nascita di una controcultura (1969; trad. it. Feltrinelli, Milano 1971). 2. (p. 90) Non reagisco con antagonismo all’uniforme della gioventù rivoluzionaria – a parte il fatto che detesto vivamente qualunque tipo di uniforme. Se, come etologo, osservo la mia istintiva reazione antagonistica, sollecitata da lunghe capigliature e piedi nudi non lavati, reazione che è realmente analoga a quella del proverbiale toro, il risultato di questa auto-osservazione è del tutto diverso dalla stessa reazione istintiva. Tuttavia, non sono d’accordo con te che questa uniforme sia analoga al colletto del prete: penso sia paragonabile alla pittura di guerra degli indiani. In realtà fu un’osservazione spontanea, divertente anche se un po’ umiliante, che mi fece render conto di ciò. 118

Come hai detto, anch’io spesso devio normalmente dal vestito ortodosso dello scienziato, ma lo faccio in nome della convenienza e non come un segnale diretto a qualcun altro. Quando i miei giovani collaboratori cominciarono a vestirsi in modo progressivamente hippy, mi sorpresi a fare il contrario. Un giorno stavo mettendomi colletto e cravatta per andare ad uno dei nostri colloqui settimanali a Seewiesen, e cominciai a chiedermi perché lo stessi facendo. Quando mi resi conto che mi stavo dando i colori di guerra per protesta contro i giovani, vergognandomi, ritornai ai miei vecchi, sciatti vestiti. Devo anche riconoscere che il significato dei vestiti è cambiato anche per me: recentemente, vedendo un ragazzo con i capelli corti, vestito con proprietà, camicia e cravatta, mi sorpresi ad aver l’impressione che dovesse essere piuttosto effeminato. Ma tutto ciò è ormai superato: ciò che dapprima era “ornamento di guerra” dei ribelli, ha deplorabilmente perso il suo significato, diventando una moda generalmente accettata. 3. (p. 89) Considero realmente un serio pericolo la “produzione industriale in serie e il mercato delle comunicazioni di massa”. Parecchio tempo fa mi resi conto delle deleterie conseguenze etiche che una dottrina pseudo-democratica produce, sollevando la persona umana da ogni responsabilità per le sue azioni. Questo processo elimina la maggior parte o tutti i valori umani, perché la responsabilità morale non è soltanto un obbligo ma una prerogativa dell’uomo, non concessa ad alcun animale. Un po’ più tardi capii chiaramente il danno portato all’etica e alla morale umana, da ciò che ho definito “costituzione tecnomorfica del pensiero” in L’errore alla moda di tralasciare la descrizione. Mi vergogno un po’ per aver mancato di vedere la stretta interdipendenza tra tecnocrazia e pseudo-democrazia fino a che, proprio di recente, ho letto il gran libro di Theodore Roszak. Se mi sono sempre opposto all’industrializzazione estrema, è perché ho sempre sentito, in modo vago ed istintivo, ciò che Roszak rende così straordinariamente chiaro: tutti questi processi sono parte della tendenza tecnocratica a rendere gli uomini più malleabili, più facili da manipolare, per privarli sempre più della capacità di prendere le loro decisioni, in breve per toglier loro l’individualità. 119

Non sono d’accordo con la tua affermazione che “l’attuale abitante della città ha una molto più vasta scelta di stili ed esercita abbastanza la sua capacità di scelta da finire con una molto più grande eterogeneità, individualità e libertà tra persona e persona, di quanto non avesse l’antico abitante di villaggio”. Ho vissuto per la maggior parte del tempo in antichi villaggi, ma anche abbastanza a lungo in grandi città moderne, e ancora non sono d’accordo. Può sembrare che l’abitante medio della città abbia molta libertà di scelta, ma in realtà è troppo propenso a seguire il consiglio degli esperti nell’altissima arte di manipolare i clienti. La tecnocrazia è il regime degli esperti, e, come Roszak mi ha chiarito molto bene, un totalitarismo che resta ideologicamente invisibile, perché le sue tecniche diventano sempre più sub-liminali. La tecnocrazia potrebbe costringere, ma, “preferisce strapparci il conformismo come una magia, sfruttando il nostro profondamente radicato impegno col punto di vista del mondo scientifico, e manipolando i valori e gli agi materiali della ricchezza industriale che la scienza ci ha dato”. Quindi, “non è facile interrogare l’umanismo pienamente sensibile, del tutto ben intenzionato e tuttavia riduttivo di cui si circonda la tecnocrazia, senza dar l’impressione di parlare una lingua morta e fuori moda”. Niente potrebbe esprimere i miei sentimenti con maggior esattezza di quanto non facciano le parole del libro di Roszak. Tutti i termini che denotano “valori” appartengono a questo linguaggio antiquato. La costituzione tecnomorfica del pensiero ha sviato la maggior parte dell’umanità odierna portandola a pensare che qualsiasi cosa non possa essere definita in linguaggio scientifico e verificata con metodi di misurazione, non possiede alcuna esistenza reale. La libertà, la dignità, e la morale umane, sono considerate pure illusioni e questo credo è graditissimo alla tecnocrazia, come, per ovvie ragioni, tutte le emozioni sono indesiderabili dal suo punto di vista. Il lavoro privo di attrito della società tecnocraticamente organizzata dipende dalla prevedibilità di ogni comportamento individuale. Quindi l’autonomia dell’individuo deve essere abolita. Le emozioni imprevedibili e le decisioni individuali prese sotto la loro influenza, tutte le iniziative individuali, ecc. costituiscono un pericolo per questo tipo di sistema sociale, come Aldous Huxley, il grande profeta, ha così chiaramente realizzato. Chiunque sia realmente interessato all’at120

tuale stato dell’umanità, deve considerare un dovere il leggere o rileggere Mondo nuovo (1932) e Ritorno al mondo nuovo (1958) di Aldous Huxley, così come La nascita di una controcultura di Theodore Roszak. C’è soltanto un particolare punto su cui mi trovo in forte disaccordo con Roszak e sono sicuro che sarà così anche per te: Roszak paragona la scienza in sé con un procedimento analitico di tipo puramente tecnografico. Anche se sta lottando al nostro fianco, sembra non rendersi conto che ci sono meccanismi cognitivi, diversi dal pensiero razionale e dai metodi analitici di quantificazione. Ogni “concezione scientifica del mondo”, come egli la chiama, sarebbe realmente poco scientifica nella tua e nella mia opinione. In realtà, essendo esattamente quel tipo di visione pseudo-scientifica del mondo, che ho cercato di contestare ne L’errore, alla moda di tralasciare la descrizione, sarebbe basato su una abietta epistemologia. 4. (pp. 91-96) Il leggero cambiamento di posizione esercitato dall’influenza di Roszak, mi obbliga a modificare le affermazioni che citi sulla dottrina pseudo-democratica. La dottrina è solo una conseguenza e forse uno strumento della tecnocrazia. Il vero male, com’io lo vedo, è la tendenza dell’umanità ad evolversi culturalmente e forse geneticamente, nella direzione dell’allegro robot, meglio adattato alla vita in un sistema sociale industrializzato al massimo. Forse tutto ciò che lì ho detto non dovrebbe trovarsi nel capitolo sulla indottrinabilità, perché Roszak ha probabilmente ragione nel dire che il progresso della tecnocrazia è “ideologicamente invisibile”, ma se è così, questo è esattamente il motivo per cui è tanto pericoloso. Noi non ci rendiamo conto di quanto rapidamente e facilmente possiamo essere trasformati in perfetti imbecilli, con l’essere circondati da macchinari perfettamente infallibili, dall’essere guidati ad ogni passo da indicazioni di cui possiamo completamente fidarci, che rendono superflua la facoltà di orientamento, per non parlare della facoltà decisionale. Questi, allora, sono i mali che vuoi io precisi. Nuovamente, questa precisazione è il pericolo di “sembrar parlare una lingua morta e fuori moda”. Mi hai frainteso se pensi che io idealizzi un qualunque passato ordine sociale. Niente mi è meno congeniale dello storicismo. 121

L’evoluzione e la storia sono processi a senso unico; non c’è alcuno stato di stasi che possa essere considerato ideale. Né io vedo differenze orizzontali di cultura come uno stato ideale, benché sia stato a suo tempo un fattore che ha portato ad una selezione salutare. Se mi chiedi quali contromisure io patrocini, temo proprio di trovarmi nella posizione tipica in cui si trova così spesso il medico, com’io sono: quella di vedere con sufficiente chiarezza le cause di una malattia senza riuscire a indicare un rimedio. E tuttavia c’è qualcosa di diverso nel tuo suggerimento di “diversificazione orizzontale” almeno per quanto riguarda le relazioni interpersonali. Nella cooperazione naturale di qualunque coppia di amici, si sviluppa regolarmente una divisione di compiti in cui, ciascuno fidandosi delle particolari facoltà dell’altro, i due tendono a differenziarsi maggiormente l’uno dall’altro in modo complementare. Ciascuno considera e rispetta l’altro come suo superiore per ciò che riguarda alcune speciali funzioni che devono essere eseguite al servizio della loro comune impresa. Io non so se sarà mai possibile produrre un sistema sociale vitale sulla base di questo tipo di “diversificazione orizzontale”. Funziona in gruppi piccolissimi, fino a quando nessuno dei membri insegue un traguardo diverso da quello dell’impresa comune. È allora pienamente fattibile il dare ad ogni collaboratore pieno potere decisionale, per tutto il gruppo, su tutti quei problemi in cui lui o lei sia davvero la maggiore autorità. Nel mio reparto, e sono orgoglioso di dirlo, questa attribuzione orizzontale di autorità ha sempre funzionato, in modo pienamente soddisfacente. Tuttavia, è un problema affatto diverso se sarà mai possibile istituzionalizzare un sistema democratico analogo con regole e leggi senza la funzione catalitica di stretta amicizia personale. Vengo ora al punto più controverso, che tu chiami frustrante, perché senti giustamente che sotto questo aspetto non c’è incomprensione, ma una vera diversità di opinioni. Tu non credi che il mio grido d’allarme per quanto riguarda i pericoli del decadimento genetico abbia una base reale. In effetti non posso offrire alcuna verifica su base quantitativa della loro validità. Tuttavia, considera questo: la selezione è sempre stata il principale fattore di creazione e sviluppo, dallo stato molecolare ai primordi della vita, fino al processo di acquisizione di conoscenza attraverso la falsificazione di ipotesi. 122

Nell’attimo stesso in cui cessa l’eliminazione per falsificazione, il grande processo cognitivo dell’evoluzione e dell’accumulo culturale di tradizioni o dell’acquisizione scientifica di conoscenza, non soltanto si arresta, ma comincia immediatamente ad essere regressivo. Proprio per le conquiste della sua mente, l’uomo ha eliminato tutti quei fattori selettivi che hanno creato quella mente. Ci si deve soltanto aspettare che l’umanità cominci ora a deteriorare, culturalmente e geneticamente, e non sorprende affatto che i sintomi di questo decadimento diventino sempre più evidenti da tutti i lati. Posso aver cambiato notevolmente il mio pensiero su ciò che riguarda l’importanza relativa della disumanizzazione culturale e genetica; la prima procede tanto più rapidamente che si può considerare la seconda come una cura posterior piuttosto di scarsa importanza. Riconosco che questo scambio delle priorità nella mia opinione fu causato da Roszak, che mi ha letteralmente terrorizzato con la sua convincente esposizione degli effetti disumanizzanti della tecnocrazia. Tuttavia, l’“addomesticamento” genetico dell’uomo civile è, ne sono convinto, in aumento piuttosto rapido. Alcuni principali sintomi presenti nella maggior parte dei nostri animali domestici sono un aumento delle dimensioni e l’ipertrofia dell’alimentazione così come quella dell’attività sessuale. Che tutti e tre questi sintomi siano notevolmente cresciuti nell’uomo, durante il breve arco della mia stessa vita, è, a dir poco allarmante. Nella mia famiglia e tra i miei amici mi è difficile trovare anche un solo caso in cui il figlio sia di più piccola statura del padre. Egualmente diffuso è l’aumento quantitativo delle pulsioni alimentari e sessuali, accompagnate in entrambi i casi dalla perdita di selettività nei meccanismi d’innesco. Basta andare su una spiaggia dove molta gente urbanizzata fa il bagno, per notare l’incidenza in rapido aumento di ragazzi e giovani grassi, o sfogliare un grande giornale illustrato moderno per trovarsi di fronte ad entrambi i sintomi in modo del tutto allarmante. Naturalmente non sono sicuro che questi sintomi siano genetici; potrebbero benissimo essere culturali, almeno in parte, ma questo non ha eccessiva importanza. Lo sviluppo culturale è analogo all’evoluzione genetica in tante aree, che le distinzioni causali diventano senza importanza per ciò che riguarda il fenomeno qui in discussione, tranne per il fatto che i processi culturali 123

non sono meno pericolosi, ma lo sono di più, a causa della loro velocità enormemente maggiore. Per di più un medico è spesso forzato a dare avvertimenti anche se non è molto sicuro dei fatti. Se due persone del mio villaggio natio, appena tornate dalle vacanze in Portogallo, mostrassero sintomi di leggera diarrea, dovrei agire come se sapessi che hanno il colera. Come Theodore Roszak, sono convinto che sia uno dei più insidiosi stratagemmi della tecnocrazia, evitare qualunque metodo coercitivo ed appoggiarsi soltanto a rinforzi apparentemente gentili. Tu stesso pensi che io sia troppo duro nei confronti degli assassini e dei criminali in generale. Non difendo la pena di morte, né crudeli misure primitive, dettate da una qualunque idea di punizione o, peggio, da qualsiasi istintiva brama di vendetta. Un uomo che sia un assassino di massa è, per definizione un malato di mente, perché una persona mentalmente sana, semplicemente e prevedibilmente non commette un assassinio di massa. Tuttavia, non penso che una sana filosofia dei valori possa svilupparsi senza il senso, non solo di ciò che è buono, ma anche di ciò che è cattivo. È il mio principale rimprovero all’ideologia della dottrina pseudo-democratica, il fatto che tenda a sradicare in tutta la nostra cultura, il senso dei valori dai quali soltanto dipende il futuro dell’umanità. L’opinione pubblica non dovrebbe sollevare il delinquente da ogni responsabilità, passandole all’ambiente che effettuò il suo condizionamento. È mia opinione che l’assassino debba essere moderatamente scoraggiato, non incoraggiato e perfino valorizzato, com’è oggi. Nessuno può essere più convinto di me che la causa principale dell’attuale aumento della criminalità sia da ricercarsi nella diffusa insufficienza di contatti madre-bambini durante la prima infanzia. Tuttavia un’altra, anche se meno importante, causa, giace nella sconsiderata e illimitata permissività dettata dalla dottrina pseudo-democratica. Non credo che la pena di morte o il carcere siano in grado di impedire la rovina della nostra stirpe genetica: infatti non è rimasto niente nella società civilizzata che possa impedire una evoluzione in senso inverso tranne il nostro non-razionale senso dei valori che io ancora credo e spero possa svolgere una funzione decisiva sull’evoluzione, sia genetica che culturale. Per quanto riguarda la genetica, credo ancora che il non-razionale senso dei valori giochi un ruolo importante nella formazione delle coppie, in altre paro124

le nell’innamoramento. Se ho commesso la incredibile stupidità, vista retrospettivamente, di cercar di dire questo alle autorità naziste, naturalmente del tutto inutilmente, l’unico modo in cui posso espiare per ciò consiste nel predicare tenacemente la stessa verità ad un altro mondo, in cui è anche meno popolare. Donald, esistono cose come il bene e il male, c’è l’individuo onesto e il farabutto, e la differenza tra loro è senza dubbio parzialmente genetica. Nessun sistema vivente potrà mai esistere senza eliminazione, per quanto umanamente si possa attuare e per quanto si cerchi di non farlo apparire come una misura punitiva. Donald, anche la falsificazione di una teoria è una misura punitiva. Conosco scienziati per cui è più dolorosa dell’estrazione di un dente. Noi sappiamo che l’evoluzione si arresta nella sua salita e torna indietro quando cessa di operare la selezione creativa. L’uomo ha eliminato tutti i fattori selettivi tranne il suo nonrazionale senso dei valori. Dobbiamo imparare a fidarci di quello. Sempre tuo KONRAD

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3. Evoluziohne della ritualizzazione nelle sfere biologica e culturale* KONRAD LORENZ

Approccio etologico e ritualizzazione filogenetica La giovane scienza dell’etologia può essere semplicemente definita la biologia del comportamento. È senz’altro un paradosso che il comportamento degli animali non fosse, fin dall’inizio, studiato da zoologi e biologi, così come fu per tutti gli altri processi vitali. Lo studio del comportamento fu iniziato da psicologi, e la psicologia è figlia della filosofia, non delle scienze naturali. La disputa filosofica tra psicologi vitalisti e meccanicisti contribuì notevolmente a porre in ombra i problemi del comportamento “istintivo”. Benché un approccio interamente scientifico a questi problemi sia chiaramente espresso negli scritti di Charles Darwin, gli zoologi furono lenti nel riconoscere il comportamento come oggetto degno di ricerca. Un merito particolare va riconosciuto agli ornitologi il cui intenso piacere e interesse soltanto nell’osservare gli uccelli fu utile nel riscoprire il fatto che l’approccio e il metodo biologico possano essere applicati, con successo, allo studio del comportamento, esattamente come aveva fatto Darwin nel suo libro The expression of the Emotions in Men and Animals. Che cosa sono, allora, questi vecchi, buoni procedimenti darwiniani? Vorrei indicare per primo il più ovvio, come anche il più importante. È l’osservazione parziale del sistema organico e l’inventario delle sue parti componenti. In tutte le scienze naturali la descrizione deve procedere sistematicamente ed entrambe *

In Philosophical Transactions of the Royal Society of London, 1966, 251 (Series B), 273-284.

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unite sono il presupposto per astrarre le leggi naturali che prevalgono nell’operazione del tutto. L’anatomia comparata e la sistematica, usando un’ampia base riduttiva, ottenuta con l’osservazione e la descrizione, portarono ordine nella caotica molteplicità delle specie viventi e prepararono la via per il riconoscimento dell’origine comune di tutti gli esseri viventi. Una volta stabilito questo fatto evoluzionistico fondamentale, era un’inevitabile conclusione che una spiegazione storica fosse necessaria praticamente per ogni dettaglio della struttura e della funzione osservata nei viventi. Tale spiegazione storica è in realtà anche causale: se ci chiediamo perché l’uomo abbia organi uditivi ai lati del capo, con canali uditivi che li congiungono alla faringe, una delle spiegazioni causali di questo stato di cose è che è cosi perché l’uomo discende da vertebrati che respiravano nell’acqua e avevano aperture a branchia in quella parte della loro anatomia. Così la ricerca nella storia filogenetica di un organo o funzione, diventa parte indispensabile del suo studio scientifico. L’applicazione al comportamento del metodo comparativo, che ricostruisce la storia filogenetica dell’organismo studiando somiglianze e dissimiglianze del loro carattere, è in realtà uno dei più importanti procedimenti di ricerca etologica. Dopo l’approccio comparativo, quello selettivo è, a mio parere, il più indispensabile all’etologia; in realtà i due non possono a buon diritto essere separati l’uno dall’altro. Trovare dove sia il valore di sopravvivenza di una struttura o di una funzione, è il presupposto per capire i fattori che ne causano l’evoluzione. Se ci chiediamo il perché degli artigli ricurvi e retrattili di un gatto, e rispondiamo “per catturare i topi”, questa non è una professione di teleologia mistica, ma una scorciatoia per una domanda riguardante la causalità, cioè “ qual è la funzione il cui valore di sopravvivenza esercitò la pressione selettiva che produsse gatti con questo tipo di artigli?”. Noi chiamiamo questo tipo di ricerca “teleonomica”, termine introdotto da Colin Pittendrigh, nella speranza di stabilire il concetto corrispondente, in contrapposizione a quello di teleologia, cosi chiaramente come l’astrologia è stata distinta dall’astronomia. Non soltanto l’approccio teleonomico è essenziale per la più profonda comprensione del comportamento, si può anche affer128

mare che pochi zoologi hanno mai investigato l’interazione di pressioni selettive contrastanti con tale sottigliezza, come hanno fatto etologi come Tinbergen e i suoi discepoli. Ultimo, ma non meno importante, ricorderei come essenziale per l’approccio etologico, una costante consapevolezza del fatto che l’organismo è il complesso di tutto il corpo, nel senso in cui Otto Koehler definisce questo concetto – un sistema organizzato in cui ciascuna parte si trova in relazione mutua e causale con ogni altra. Questa realizzazione ci rende cauti e circospetti, nelle nostre sperimentazioni, perché siamo nettamente consapevoli che in ogni tentativo di influenzare o isolare sperimentalmente una singola funzione, dobbiamo prendere in considerazione le ripercussioni che la nostra interferenza può avere in tutte le altre parti del sistema. Non possiamo far ciò senza sapere qualcosa sul resto del sistema; ecco perché la ricerca etologica deve cominciare con lo studio dell’organismo intatto nel suo ambiente vitale e con la sua approfondita conoscenza prima dell’inizio della sperimentazione. Naturalmente, la sequenza dei procedimenti appena descritti non è una caratteristica esclusiva dell’etologia. Non c’è in realtà, una branca delle scienze biologiche che non proceda dall’osservazione e dalla descrizione imparziale e libera da ipotesi preconcette, all’approccio o filogenetico e teleonomico, prima di procedere all’esperimento. Ma in molte branche delle scienze psicologiche e comportamentali, è oggi del tutto normale inventare, fuori dal controllo, qualche tipo di procedimento sperimentale, applicarlo ad un sistema altamente complicato di cui non si sappia quasi niente e poi registrare i risultati. Naturalmente, con questo metodo si possono raccogliere e si sono raccolte informazioni; è esattamente il modo in cui una specie, per mutazione e ricombinazione a caso, raccoglie “informazioni” e si adatta al suo ambiente. Conosciamo tuttavia la bassissima velocità con cui opera questo procedimento e preferiamo avere dei risultati prima che l’attuale periodo interglaciale sia finito. Ecco perché l’etologia si attacca enfaticamente ai ben collaudati procedimenti darwiniani. L’origine storica dell’etologia si può ascrivere ad una scoperta fatta da due zoologi, che erano imparziali nelle dispute odierne tra diverse scuole di psicologia, e inclini soltanto a spiegare le relazioni tassono129

miche della specie di un gruppo relativamente piccolo di uccelli. II successo di un tale tentativo, come ogni filogenista sa, dipende dal numero di caratteri omologhi che si possono addurre per dare la misura di una relazione genetica tra le forme investigate. Nella loro ricerca di caratteri sempre più corrispondenti, Charles Otis Whitman, negli USA, e Oskar Heinroth in Germania, fecero, indipendentemente l’uno dall’altro, la scoperta di estrema importanza, secondo cui ci sono schemi motori coordinati di azione, caratteristici di una specie, di un genere, di una famiglia, di un ordine e perfino delle più alte categorie tassonomiche così come qualunque proprietà strutturale dell’anatomia animale. Questo fallo da solo giustifica la conclusione che la coordinazione di questi movimenti sia attuata nel genoma di una specie e che il concetto di omologia possa essere loro applicato così come ai caratteri morfologici. Whitman, già nel 1898, fece una affermazione che coinvolge una parte essenziale dell’attuale programma dell’etologia “ Istinti e organi devono essere studiati dal punto di vista comune delle discendenze filogenetiche”. Lo studio del processo filogenetico di ritualizzazione, con le sue analogie culturali, costituisce il tema principale di questa nostra conferenza, un tema affiorato contemporaneamente allo studio comparativo degli schemi motori omologhi per il semplice motivo che la maggior parte delle coordinazioni motorie seguite dai pionieri dell’etologia erano ritualizzate esse stesse. Sia Whitman che Heinroth si concentrarono sugli schemi degli atteggiamenti ed ebbero buon motivo di Carlo, come vi spiegherò in breve. Furono Julian Huxley ed Edmund Selous a rendersi conto per primi che un particolare processo evolutivo si era verificato nella esibizione di minaccia, di corteggiamento e di altri atteggiamenti che uccelli ed altri animali rivolgono ad appartenenti alla loro stessa specie. Scoprirono che molti di questi movimenti, che servono alla comunicazione, sono simili e tuttavia differiscono da schemi di movimento che svolgono una funzione del tutto diversa nella vita quotidiana della specie. Per ovvie ragioni, nelle quali non voglio qui entrare, i movimenti comunicativi si sono evoluti dalle funzioni quotidiane. Il processo attraverso il quale vi arrivarono, fu definito “ritualizzazione” da Julian Huxley. È di grande interesse non soltanto per i sociologi e i teorici dell’infor130

mazione, interessati alla comunicazione, ma anche per gli studiosi dell’evoluzione in generale. Ci sono molti motivi per cui i movimenti ritualistici si prestano particolarmente bene allo studio comparato: sono manifesti, precisi e facilmente riconoscibili: il processo di ritualizzazione è uno dei più rapidi dell’evoluzione, conosciuto in animali non addomesticati, come si può concludere dalle loro differenze, in specie in relazione relativamente stretta fra loro. Se si confrontano movimenti istintivi non ritualizzati come la locomozione, l’alimentazione, il pavoneggiamento, la costruzione del nido ecc. all’interno di un gruppo tassonomico di famiglie o di ordine sub-familiare, non compaiono tra i membri differenze apprezzabili. Per studiare la filogenesi di questi tipi di schemi motori col metodo comparativo, bisogna andare molto più lontano, studiando le loro manifestazioni in ordini, o almeno sottordini diversi. Per questo motivo i movimenti ritualistici sono di grande aiuto nell’accertare la relazione filogenetica di specie strettamente correlate. Un’altra proprietà dei movimenti ritualistici che li rende particolarmente validi per la filogenesi comparata è una conseguenza del loro funzionamento come segnale. Ogni codice di segnali è basato su una convenzione tra mittente e destinatario della comunicazione. Il significato di una parola, per esempio, è comprensibile soltanto a chi sia al corrente di questa convenzione; sulla base di un’altra convenzione, di un altro codice, la parola potrebbe avere un significato completamente diverso. Se uno storico trova, in due culture diverse e non correlate, una scure o un aratro di costruzione molto simile, questa somiglianza può essere provocata da quella della funzione e il ricercatore non verrà giustificato nel presumere che lo strumento di una cultura sia in qualche modo derivato da quello di un’altra. Se, d’altra parte, il filologo comparato trova che le parole che significano “madre” in inglese, tedesco, latino, greco e russo, hanno in comune un certo numero di proprietà strutturali, conclude senza esitare che queste derivano da una radice comune. Le possibilità che queste somiglianze siano casuali sono trascurabili e nessuna somiglianza di funzione può spiegarle. Con lo stesso ragionamento una somiglianza causata da funzione simile nell’evoluzione convergente del linguaggio del biologo, può essere esclusa nello studio comparato dei movimenti ritualistici. Tutto ciò fa sì che il loro studio sia un’occupazione estremamen131

te rimunerativa per il filogenista comparato; e poiché un numero considerevole di ricercatori, guidati da Whitman e Heinroth, sembra essersi reso conto di questo fatto, sappiamo di più sulla loro evoluzione di quanto non sappiamo su quella di qualunque altro tipo di schema motorio innato. Il concetto che associamo col termine “ritualizzazione”, come la maggior parte dei concetti biologici, può essere definito soltanto da ciò che Bertrand Hassenstein ha chiamato definizione “ingiuntiva”, cioè dall’enumerazione di un certo numero di proprietà che costituiscono l’essenza del concetto soltanto per sommatoria. Le proprietà della vita, per esempio, come il metabolismo, la crescita, la procreazione ecc. si possono tutte trovare anche nei processi inorganici, ma danno origine alla vita solo se realizzate nello stesso oggetto. Tutti i concetti definiti “ingiuntivamente” mancano di una netta linea di confine, ma si fondono sfumando nei concetti vicini. La prima e probabilmente più importante caratteristica della ritualizzazione è già stata ricordata. Uno schema motorio filogeneticamente adattato, che originariamente serviva alle specie nel trattare alcune necessità ambientali, acquista una nuova funzione, quella della comunicazione. La funzione primaria può persistere, come in molti pesci, uccelli e mammiferi, in cui la locomozione è stata ritualizzata per comunicare agli altri membri di una specie, l’allontanarsi di un animale. Tutti questi movimenti fanno scattare la risposta di “inseguimento” negli animali della stessa specie. In molti casi, invece, la funzione primaria recede o sparisce del tutto così da raggiungere un cambio completo di funzione. Dalla comunicazione, possono nascere due nuove funzioni, egualmente importanti, entrambe le quali, per quanto possa differenziarsi il movimento al loro servizio, mantengono sempre una quantità di effetto comunicativo. La prima di queste nuove funzioni è la canalizzazione dell’aggressione, in modo che permetta la sua scarica senza danno per gli altri membri della specie, come accade in numerose forme di combattimento ritualistico trovate in pesci, uccelli e mammiferi; la seconda è la formazione di un legame che tiene uniti due o più individui. Questo è raggiunto dalla maggior parte delle cosiddette cerimonie di saluto che un animale può eseguire soltanto con un certo partner, conosciuto individualmente, la cui presenza, per questo motivo, diventa un bisogno indispensabile alla vita dell’ani132

male. È del tutto erroneo dire che queste cerimonie sono l’espressione di un legame; in realtà esse stesse lo costituiscono. La seconda caratteristica degli schemi motori ritualizzati è un cambiamento di forma a cui il prototipo non ritualistico fu sottoposto al servizio della sua nuova funzione di comunicazione, e che ovviamente fu provocato dalla pressione selettiva esercitata dal valore di sopravvivenza della comunicazione. Tutti quegli elementi che, anche nel movimento primario o non ritualistico, producono stimolazione visiva od uditiva, sono fortemente esagerati, mentre quelli che servono all’originaria funzione meccanica sono molto ridotti o, scompaiono del tutto. Questa “esasperazione mimica” ha come esito un cerimoniale che è in realtà molto vicino a un simbolo e che produce quell’effetto teatrale che per primo colpì Sir Julian Huxley mentre osservava gli ormai classici grandi colombi crestati. Una profusione di forma e colore si è sviluppata per aumentare quest’effetto. Le bellissime forme e i colori delle pinne di un pesce siamese da combattimento, le piume di un uccello del paradiso, la coda di un pavone, gli straordinari colori alle due estremità di un mandrillo, si svilupparono tutti sotto la pressione selettiva della funzione di comunicazione ottenuta da alcuni particolari movimenti ritualistici. Nell’interesse di una maggior chiarezza di comunicazione, la velocità e l’ampiezza dei movimenti ritualistici sono strettamente controllati, fenomeno definito “intensità tipica” da Desmond Morris, che per primo attrasse l’attenzione su ciò. Lo stesso scopo è perseguito da frequente ripetizione ritmica che spessissimo è per se stessa sufficiente a riconoscere uno schema comportamentale come ritualistico. Infine, un grandissimo numero di movimenti istintivi elementari, che sono indipendentemente variabili nel prototipo non ritualistico, sono in molti casi saldati in una singola sequenza obbligatoria. Questo importante effetto è raggiunto con l’evoluzione di uno schema motorio completamente nuovo che copia, in forma rituale, una serie completa di movimenti primariamente indipendenti e indipendentemente variabili. La cosiddetta cerimonia di incitamento delle anitre fornisce un ottimo esempio. Nella sua forma primaria, consiste di schemi comportamentali motivati da almeno tre fattori indipendenti. L’anitra femmina corre aggressivamente verso un avversario, è 133

poi presa da paura e corre indietro, sotto la protezione del compagno. Nel momento in cui ha ristabilito contatto con lui, riguadagna coraggio e ricomincia a minacciare l’antagonista. Nella forma primaria, che si può osservare nella volpoca, le componenti descritte variano in intensità e durata, gli atteggiamenti della femmina quando minaccia sono esclusivamente dipendenti così come le sue posizioni, quelle del maschio e quelle del “nemico”. Tutte le angolature tra l’asse del suo corpo e le direzioni in cui allunga in avanti il collo nella minaccia, sono egualmente possibili. C’è però un caso tipico che si verifica più frequentemente di altri: spessissimo l’anitra, dopo esser corsa dietro al maschio cercando protezione, si arresta davanti a lui senza girare il corpo, quasi toccandolo col petto, poi ricomincia ad allungare minacciosamente il collo in direzione del nemico. La relazione spaziale tra la femmina, il maschio e il nemico, la obbliga ad eseguire il movimento di minaccia indietro, sopra la spalla, ad angolo acuto con l’asse del suo corpo. In molte anitre che si alimentano in superficie, questo caso speciale e di coordinazione motoria si è fissato come schema obbligato. Tuttavia il movimento della testa, diretto indietro sopra la spalla, contiene ancora le risposte originarie di orientamento che, nel prototipo non ritualistico, producono uno schema motorio fenotipicamente identico a quello genotipicamente fissato nelle anitre che si alimentano in superficie. I movimenti provocati dalle primarie risposte di orientamento sono sovrapposti al nuovo schema: se l’uccello nemico sta direttamente di fronte all’anitra incitante, gli occhi di questa restano fissi nella sua direzione e il minaccioso movimento indietro sopra la spalla è notevolmente diminuito, mentre aumenta con l’angolo tra l’asse maggiore del suo corpo e la direzione in cui sta il nemico. Se questo è situato direttamente dietro a lei, l’ampiezza del movimento raggiunge un massimo, col becco dell’anitra che quasi tocca la sua coda (fig. 2). Questa sovrapposizione di risposte orientative primarie, su uno schema motori o fisso da poco evoluto, offre spesso notevoli difficoltà all’analisi della motivazione del comportamento ritualistico. Un ulteriore, importante carattere costitutivo della ritualizzazione nasce direttamente dall’evoluzione del nuovo schema motorio: questo acquista tutte le caratteristiche di un movimento istintivo autonomo. Ha il suo meccanismo d’innesco, la sua spontaneità, e quindi il suo comportamento appetitivo. Così, col pro134

cesso di ritualizzazione può nascere un istinto completamente nuovo, che è in teoria indipendente come qualsiasi altra delle pulsioni primarie – fame, sete, paura e aggressività – e può influenzare altrettanto fortemente il comportamento di una specie. Se non lo facesse, non sarebbe nemmeno in grado di opporsi e superare l’aggressività, né adempiere all’altro suo compito di formare legame di amicizia letteralmente “più forte della morte”. Non ho il tempo di dare una descrizione convincente dello straordinario modo in cui le cerimonie del trionfo delle anitre svolgono entrambe queste funzioni: basti dire che questo rituale, derivato da un movimento aggressivo ridiretto nella filogenesi relativamente recente della sotto famiglia degli “anserini”, non soltanto elimina ogni aggressività tra partner, ma li unisce con qualcosa di simile a quella “fedeltà che sfida la morte”, la quale, nel comportamento, ci è familiare soltanto nei nostri cani fedeli. Come con la maggior parte dei concetti più ingiuntivamente definiti, anche quello della ritualizzazione non lo usiamo soltanto quando tutte le sue proprietà costitutive sono realizzate. Se qualche movimento intenzionale – per esempio quello delle anitre in procinto di levarsi in volo – viene ritmicamente ripetuto, senza alcun altro cambiamento, al servizio della comunicazione, possiamo dire che sono leggermente ritualizzati anche se non possiedono alcune delle altre proprietà appena descritte. L’essenza del comportamento ritualizzato, tuttavia, è rappresentata da quei casi in cui possiede tutte le proprietà che ho discusso e raggiunge la piena autonomia di una pulsione indipendente.

La ritualizzazione nell’evoluzione psico-sociale della cultura umana Se Sir Julian Huxley, quando per primo descrisse la ritualizzazione, usò il termine senza virgolette, lo fece intenzionalmente per sottolineare che indicava un concetto puramente funzionale, ugualmente applicabile ad un processo filogenetico e ad uno culturale. Il Prof. Carstairs, qualche tempo fa, disse di essere cauto nelle analogie. Sono d’accordo sul fatto che un’erronea supposizione di omologia o, peggio, di identità fisiologica, può essere davvero pericolosamente fuorviante. Se parlo degli animali a scienziati che studiano il comportamento umano, comincio sem135

pre con l’avvertimento che il sistema nervoso centrale ha un modo insidioso di espletare funzioni analoghe a diversi livelli di integrazione, in modo talmente simile da ingannare anche il più sofisticato ricercatore, portandolo a presumere l’identità fisiologica dove non esiste. Non penso tuttavia che l’affermazione di ovvie analogie possa portarci in qualche trappola. Premesso che un’analogia concerne dettagli chiaramente confrontabili, sufficientemente numerosi da escludere la possibilità di coincidenza, siamo del tutto giustificati nel presumere che due strutture analoghe, o schemi di comportamento, abbiano in realtà la stessa funzione. Niente, tranne un’evoluzione convergente, può giustificare la loro dettagliata somiglianza. Se fossi il primo scienziato a vedere un octopus morto e, nel sezionarlo, scoprissi che ha un occhio come il nostro, con una cornea, un cristallino, un’iride, muscoli convergenti e una retina, sarei giustificato se presumessi che quello è un organo visivo e nel chiamarlo senz’altro un occhio, anche se non avessi altre prove della sua funzionalità. “Occhio”, indica un concetto funzionale: i cefalopodi e i vertebrati non hanno progenitori comuni con occhi di questo tipo, i loro occhi sono funzionalmente analoghi, non filogeneticamente omologhi. Un esempio ancora migliore può risultare dall’applicazione del nostro concetto funzionale di ritualizzazione a entrambe le sfere biologica e culturale, perché non abbiamo bisogno di appoggiarci soltanto a dettagliate analogie formali. Sappiamo dall’osservazione e da ampie verifiche sperimentali che i riti, sia formatisi filogeneticamente che culturalmente, svolgono in realtà le stesse funzioni di comunicazione, di canalizzazione dell’aggressività e di effettuazione di coesione di coppie o gruppi. Prima di parlare delle ovvie analogie tra i processi di ritualizzazione filogenetica e culturale, devo dire alcune parole sulle differenze che concernono i meccanismi di base dei due processi e la quantità di tempo richiesta da ciascuno. Il pensiero concettuale e il linguaggio verbale, donando all’uomo la possibilità di una tradizione culturale, cambiarono fondamentalmente l’evoluzione dell’uomo, realizzando qualcosa di equivalente all’eredità di caratteri acquisiti. Abbiamo quasi dimenticato che la parola ereditare aveva un aspetto giuridico, molto prima di acquistarne uno biologico. Quando un uomo inventa, per esempio, un 136

arco e una freccia, non soltanto la sua progenie, ma anche tutta la sua tribù e, perfino, la sua cultura saranno, presto, in possesso di queste armi, altrettanto sicuramente che se fossero organi cresciuti sui loro corpi. Né è probabile che il loro uso venga dimenticato più di quanto non lo sia il fatto che un organo di pari valore di sopravvivenza diventi residuale. Così, lo sviluppo culturale e la tradizione, nell’arco di una o due generazioni, potrà compiere un processo di adattamento ecologico che nella normale filogenesi avrebbe richiesto un periodo di un ordine di grandezza del tutto diverso. Benché i riti culturali si sviluppino enormemente più in fretta della ritualizzazione filogenetica, il loro sviluppo è ancora più lento di quello delle invenzioni. Non credo che il sistema di norme e riti sociali, caratteristici di una cultura, debba molto all’intuito e all’inventiva dell’uomo. È stato detto che Mosè proibì il consumo della carne di maiale, perché sapeva tutto sulla trichinosi. Se lo fece, credette di più alla devozione dei suoi seguaci che non al loro intuito, perché enunciò una legge religiosa invece di fare lezioni di parassitologia. In generale i sistemi di norme e riti sociali caratteristici delle culture, danno piuttosto l’impressione che sia stata la buona, vecchia selezione naturale a plasmare le loro particolari forme, ma su base psico-sociale invece che genetica, usando come materia prima abitudini e costumi sorti a caso, anziché mutazioni e ricombinazioni. Avanzo questa idea, non importa se sia o no valida. Il ruolo giocato dall’eredità genetica nell’evoluzione e nel mantenimento di rituali evoluti filogeneticamente, è, naturalmente, ripreso dalla tradizione nella ritualizzazione culturale. Nel processo della tradizione stessa, tuttavia, sono al lavoro alcuni meccanismi istintivi, cioè filogeneticamente programmati. Primo fra questi il cosiddetto habitus delle creature. Nel deviare da un habitus acquisito individualmente, ma abbastanza profondamente radicato, uomo e bestia sperimentano l’ansia; Margaret Altman, nel corso delle sue ricerche sulla vita sociale dei vapiti e delle alci americane, seguì per molti mesi, sul suo vecchio cavallo e con un mulo da soma ancora più vecchio, le tracce di questi animali. Quando si era accampata un certo numero di volte in un posto particolare, le riusciva impossibile passare di là senza fermarsi: le sue cavalcature glielo impedivano e si davano al panico 137

se cercava di forzarle a continuare la strada. Essendo molto pratica delle abitudini degli animali, Margaret Altman ricorse a un compromesso – fermarsi, slegando simbolicamente i bagagli, accamparsi per qualche minuto e rifare i bagagli – dopo di che i suoi animali erano soddisfatti e pronti a riprendere la marcia. Questo comportamento, molto simile a quello coercitivo umano, è provocato da un meccanismo di ovvio valore di sopravvivenza. Un animale che ha acquisito un certo habitus e si è accertato che porta alla meta desiderata senza incorrere in pericoli, fa bene ad attenersi strettamente a tutti i dettagli del procedimento perché, non possedendo alcun intuito per le connessioni causali del tutto, non può in alcun modo sapere quali dettagli siano indispensabili al successo e alla salvezza e quali no. Molte superstizioni dell’uomo, come toccare ferro, ecc. implicano questo principio: non si sa esattamente che cosa possa succedere se le abitudini vengono violate. Oltre a questo obbligo di attenersi alle abitudini, c’è un secondo meccanismo che assicura che la fedeltà ad un’abitudine acquisita passi da una generazione umana alla successiva. Fatto abbastanza curioso, recentemente un processo analogo è stato dimostrato in un uccello. Il mio collaboratore J. Nicolai ha scoperto che i giovani cardellini imparano le loro canzoni soltanto dal padre. Per un tempo abbastanza lungo, dopo essersi ricoperti di piume, i giovani fringuelli maschi stanno col padre in una particolare relazione, chiaramente sessuale. Si accovacciano davanti a lui, eseguendo il gesto di sottomissione che, come quello di molte scimmie, deriva dalla posizione di copulazione della femmina, e sono molto più attaccati a lui che alla madre. Durante questi periodi imparano il canto caratteristico del padre. Nicolai aveva un cardellino maschio che era stato allevato da canarini e cantava esattamente come questi. Il suo canto, simile a quello dei canarini, fu trasmesso nella sua forma pura, senza variazioni, attraverso quattro generazioni cresciute in voliere in cui si trovavano moltissimi cardellini che cantavano normalmente. Nicolai ha dimostrato anche sperimentalmente che un cardellino può imparare il suo canto soltanto da una “figura paterna” verso la quale assume l’atteggiamento sopradescritto. Secondo il mio punto di vista, il forte valore emotivo, che gli esseri umani attribuiscono ad abitudini trasmesse prende la maggior parte della sua energia motivazionale da una relazione molto simile a quella tra una ge138

nerazione giovane e una più anziana. Se il destinatario della tradizione non sente, almeno per un membro della generazione più vecchia, quei sentimenti di rispetto e amore che, in condizioni normali, un figlio prova per il padre, il meccanismo di passaggio di norme e riti tradizionali sembra incapace di funzionare. In altre parole, qualcosa di molto simile alla situazione psicanalitica di transfert è il suo indispensabile presupposto. Se d’altra parte questa condizione è rispettata, i valori tradizionali acquistano forza, di generazione in generazione. Più la venerata figura del progenitore si allontana nel passato, meglio esegue la sua funzione di Super-io, più inviolabile diviene lo standard di comportamento sociale ritualizzato creato da questa. Quando la figura del padre, anche prendendo la forma di un immortale Dio personale, ispira non soltanto paura, ma anche amore, sorge un nuovo fattore per motivare la fedeltà a norme e riti sociali culturalmente evoluti. Non soltanto sentiamo una forzata paura della loro infrazione, ma li amiamo per loro stessi e per ciò che essi rappresentano. La formazione dell’habitus, l’ansia coercitiva per l’infrazione di regole accettate, il rispetto e l’amore per abitudini tradizionali, questi, e qualunque altro meccanismo ci possa essere per assicurare la continuazione di riti e norme sociali culturalmente ritualizzati di generazione in generazione, compiono la funzione analoga in riti e norme sociali culturalmente ritualizzati per l’eredità genetica, nell’evoluzione di forme di comportamento sociale filogeneticamente ritualizzate. Inoltre, tutti questi meccanismi sono essi stessi, naturalmente, filogeneticamente evoluti. L’uomo, come Arnold Gehlen ha giustamente detto, è, per natura una creatura culturale. In altre parole tutte le sue norme comportamentali ereditate sono state plasmate selettivamente nella filogenesi in modo tale da aver bisogno di essere unite in modo complementare alla tradizione culturale. La parte del nostro cervello evoluta filogeneticamente, che ci dà la facoltà del linguaggio verbale, sarebbe del tutto incapace di funzionare se l’individuo umano non fosse portato a contatto, durante l’ontogenesi, con un linguaggio culturalmente evoluto, di cui può imparare il vocabolario. Un uomo, privato della cultura, non sarebbe un felice selvaggio liberato dai legami della civiltà, ma un infelice storpio paragonabile a qualcuno col proencefalo leso. 139

È necessario ricordare che anche una perdita parziale di tradizione culturale è molto perniciosa e può anche verificarsi con molta facilità. Mentre le basi del comportamento sociale filogeneticamente evolute persisteranno, per il meglio e per il peggio, in qualunque cambiamento, per quanto rapido, imposto all’ambiente umano, le norme e i riti sociali culturalmente evoluti possono essere spenti come candele. Avendo parlato dell’intrinseca differenza dei meccanismi di base, dell’evoluzione della ritualizzazione nelle sfere biologiche e culturali, procedo ora alle straordinarie analogie nei loro risultati; analogie che concernono tutte le proprietà che costituiscono la ritualizzazione in genere, di cui ho già parlato. Devo dire ben poco sul cambiamento di forma che subisce l’originario, non ritualizzato, schema di comportamento al servizio delle sue nuove funzioni di comunicazione, di incanalamento dell’aggressività e di formazione di gruppi (legami). Tutti i mezzi che assicurano chiarezza di comunicazione sono usati esattamente come nella ritualizzazione filogenetica. L’esagerazione mimica, la ripetizione ridondante e l’intensità tipica sono chiaramente sottolineati nella maggior parte delle cerimonie umane. In particolare, velocità, frequenza e ampiezza “controllate”, sono sintomi che segnano il comportamento cerimoniale dell’uomo. I decani entrano nelle aule universitarie a passo misurato, il prete cattolico che canta durante la Messa è strettamente controllato, in tono e ritmo, dalle regole liturgiche. L’opulenza di forme e colori che accompagnano il cerimoniale umano, tutta la sua pompa, il suo fasto, si sono sviluppati, nella storia della cultura, al servizio di quelle stesse funzioni e lungo linee sorprendentemente parallele a quelle viste nella ritualizzazione filogenetica. In entrambi i casi è abbondantemente chiaro che l’evoluzione della parte del sistema di comunicazione che invia lo stimolo è adattata alle speciali richieste del destinatario: in altre parole è il gruppo ricevente che esercita la pressione selettiva responsabile dell’evoluzione del meccanismo emittente. Credo di aver spiegato, con cautela, che i rituali sviluppantisi nella storia della cultura ottengono il loro potere di motivare attivamente il comportamento umano in modo assai diverso da quello in cui gli schemi motori istintivi, che si evolsero nella ritualizzazione filogenetica, acquistano il carattere di pulsioni indipendenti e attive. Per quanto diverse siano queste due origini delle forze motivanti, il loro effetto sul comporta140

mento sociale è molto simile. In entrambi i casi i rituali diventano sufficientemente autonomi e stabili da funzionare come una specie di ossatura che regga la struttura della società. Questo è vero non soltanto per i grandi cerimoniali altamente ritualizzati, ma ancor più per gli insignificanti schemi comportamentali di ogni giorno. La parola polite (gentile) deriva dal verbo francese polire, levigare, fregare finché brilli, rifinire. L’onnipresenza di questa rifinitura culturale è portata davanti ai nostri occhi quando osserviamo, come eccezione, il comportamento umano in cui manca del tutto. Si sottolinea che questo tipo di comportamento non si suppone eseguito apertamente nella “società gentile”, come sbadigliare e stiracchiarsi senza ritegno. È particolarmente in simili insignificanti rituali culturali di ogni giorno, che noi chiamiamo buone maniere, che la triplice funzione di tutti i rituali, filogenetici e culturali, può essere meglio dimostrata: comunicazione, controllo dell’aggressività e formazione del legame. Ogni gruppo umano che superi in grandezza quello che può essere tenuto assieme dai legami personali di amore e amicizia, dipende da queste tre funzioni di ritualizzazione culturale, per la sua stessa esistenza. Le “buone” maniere, sono, per definizione, quelle caratteristiche del proprio gruppo. Come ho detto, ci confermiamo ad esse automaticamente e non ci rendiamo conto, di regola, che in realtà inibiscono l’aggressività e facilitano il legame. E tuttavia sono esse che producono quella che i sociologi chiamano coesione di gruppo, il formarsi di un gruppo. La funzione delle “buone maniere” nel produrre permanentemente il mutuo accordo tra i membri di un gruppo, può essere facilmente dimostrata osservando ciò che accade in loro assenza. Non intendo l’effetto prodotto da un’attiva, grave mancanza di buone maniere, ma la mera assenza di tutti quei piccoli gesti e sguardi gentili, con cui una persona, entrando per esempio in una stanza, rileva la presenza di un altro. Se una persona si considera offesa da membri del suo gruppo ed entra in una stanza occupata da loro senza osservare questi piccoli rituali, come se non ci fosse nessuno, il suo comportamento solleva rabbia e ostilità, proprio come fa un aperto comportamento aggressivo: tale soppressione intenzionale dei rituali pacificatori normali, equivale ad un comportamento apertamente aggressivo. L’aggressività provocata da qualunque deviazione dai modi caratteristici di un gruppo, forza i suoi membri ad una 141

stretta e uniforme osservanza di queste norme di comportamento sociale. Si fanno delle distinzioni contro il non-conformista, considerandolo un estraneo e in gruppi primitivi, di cui le classi scolastiche o piccole unità militari sono un buon esempio, è malmenato crudelmente o perseguitato. Le norme e i riti sociali sviluppati culturalmente sono caratteri di gruppi umani di varia grandezza, in modo molto simile a come le proprietà ereditate, sviluppate nella filogenesi, sono caratteri di sottospecie, specie, generi e di unità tassonomiche superiori. La loro storia può essere ricostruita più o meno con gli stessi metodi di studio comparato. La loro divergenza durante lo sviluppo storico erige barriere tra unità culturali allo stesso modo in cui lo fa una divergenza evolutiva tra specie: Erik Erikson ha quindi giustamente chiamato questo processo “pseudo-speciazione”, che porta alla formazione di pseudo-specie culturali analoghe a vere specie biologiche. Benché immensamente più rapida della divisione filogenetica delle specie, la pseudospeciazione culturale richiede tempo. I modesti inizi, lo sviluppo di un caratteristico manierismo di comportamento in un gruppo e la discriminazione contro estranei non iniziati, si può vedere in qualsiasi gruppo di bambini; ma a dare stabilità e carattere di inviolabilità ai riti e alle norme sociali di un gruppo, sembra necessaria la sua esistenza continuativa, per almeno alcune generazioni. Per questo motivo, le più piccole pseudo-sotto-specie culturali che mi vengano in mente, sono le scuole ed è sorprendente come le vecchie scuole conservino attraverso gli anni i loro caratteri pseudo-sotto-speciftci. La “vecchia cravatta di scuola” benché oggi sia spesso oggetto di ridicolo, è qualcosa di molto vero in due sensi, come legame e come cravatta. L’importante funzione delle buone maniere può essere con gran vantaggio studiata nelle interazioni sociali tra culture e sottoculture diverse. Molte abitudini raccomandate dalle buone maniere sono esagerazioni, culturalmente ritualizzate, di gesti di sottomissione, la maggior parte dei quali hanno probabilmente le loro radici in schemi motori filogeneticamente ritualizzati, che trasmettono lo stesso significato. Le tradizioni locali di buone maniere in sottoculture diverse, richiedono sia posta un’enfasi quantitativamente diversa su questi movimenti espressivi. Un 142

buon esempio è fornito dall’atteggiamento di educata attenzione che consiste nell’allungare la testa in avanti e simultaneamente piegarla di fianco “prestando orecchio” alla persona che sta parlando. Lo schema motorio trasmette la disponibilità ad ascoltare attentamente ed anche ad obbedire. Nelle buone maniere di alcune culture asiatiche è ovviamente passata una forte esagerazione mimica. Tra gli Austriaci, particolarmente tra le signore ben educate, è uno dei più comuni gesti di gentilezza, mentre in altri paesi dell’Europa Centrale sembra meno sottolineato. In alcune parti della Germania del Nord è ridotto a un minimo o perfino assente: invece in queste sottoculture la corretta espressione di gentile ascolto è il tenere alta la testa e il guardare diritto in volto la persona che parla, proprio come fa un soldato, quando riceve ordini. Quando venni da Vienna a Königsberg, due città in cui la differenza in questo schema motorio è, o era, particolarmente notevole, mi ci volle del tempo per superare la mia cattiva interpretazione del gesto di gentile ascolto delle signore prussiane dell’Est: aspettando un’inclinazione in avanti e di fianco del mento, per quanto piccolo, dalla signora con cui stavo parlando, non potei evitare di pensare di aver detto qualcosa di scioccante mentre sedeva rigida davanti a me guardandomi in faccia. Senza dubbio, piccoli malintesi di questo genere contribuiscono notevolmente a creare antipatie e odio all’interno di un gruppo. L’uomo che, nel modo descritto ha capito male i segnali sociali di un membro di un’altra pseudo-sottospecie, pensa di essere stato intenzionalmente ingannato. La semplice incapacità di capire i movimenti espressivi e i rituali di una cultura estranea crea sfiducia, sospetto e paura in un modo che può facilmente portare all’aperta aggressione. Dai piccoli particolari di linguaggi e modi che fanno sì che i gruppi sotto-culturali più piccoli possibile si uniscano, un’ininterrotta gamma porta alle norme sociali e ai riti altamente elaborati, coscientemente eseguiti e coscientemente simbolici, che uniscono le più grandi unità sociali dell’umanità in una nazione, una cultura, una religione o un’ideologia politica. Lo studiare questi sistemi e processi col metodo comparativo, in altre parole l’investigare le leggi della pseudo-divisione culturale delle specie, sarebbe perfettamente possibile, anche se più complicato dello studio della differenziazione biologica della 143

specie, a causa del frequente sovrapporsi dei concetti di gruppo, per esempio delle unità nazionali e religiose. Come ho già detto, l’apprezzamento emotivo dei valori dà potere motivazionale a tutte le norme ritualistiche di comportamento sociale. Erik Erikson ha dimostrato recentemente che il condizionamento alla distinzione del bene e del male comincia nella prima infanzia e continua per tutta l’ontogenesi umana. In teoria non c’è differenza tra la rigidità con cui aderiamo alle prime norme igieniche e la nostra fedeltà a norme e riti nazionali e politici su cui ci fissiamo in età più adulte. La stabilità del rito trasmesso e la tenacia con cui ci aggrappiamo ad esso, sono essenziali alla sua giusta funzione. Allo stesso tempo, come l’operazione di schemi istintivi di comportamento anche più rigidi, richiedono il controllo della nostra moralità responsabile e razionale. È giusto e legittimo che consideriamo “buone” le maniere che i nostri genitori ci hanno insegnato, che consideriamo sacre le norme sociali e i riti trasmessici dalla nostra tradizione culturale; ciò da cui dobbiamo guardarci con tutta la forza di una responsabilità razionale, è la nostra inclinazione naturale a considerare inferiori i riti sociali e le norme di altre culture. Il rovescio della medaglia della pseudo-speciazione è che ci fa considerare i membri di sottospecie diverse dalla nostra come non veramente o completamente umane. Molte tribù primitive lo fanno in modo dimostrabile perché nella loro lingua il nome della loro tribù è sinonimo di uomo: dal loro punto di vista strettamente parlando, non sono cannibali se mangiano i guerrieri caduti di una tribù nemica. E qualche nazione civile ha fatto la stessa cosa, proclamandosi il popolo prescelto o intrinsecamente superiore, quindi giustificato nell’assoggettare altre razze o nazioni con standard morali o culturali diversi. La morale della storia naturale della pseudo-speciazione, è che dobbiamo imparare a tollerare le altre culture, a liberarci dalla nostra arroganza culturale e nazionale e a renderci conto che le norme sociali e i riti di altre culture, a cui i loro membri mantengono fede così come noi ai nostri, hanno lo stesso diritto di essere rispettati e considerati sacri. Senza la tolleranza, nata da questa presa di coscienza, è anche troppo facile per un uomo vedere la personificazione del male nel Dio del suo vicino e l’inviolabilità sacra dei riti e delle norme sociali, che è una delle loro proprietà più importanti, può portare alla più terribile delle guerre, 144

alla guerra religiosa o pseudo-religiosa (ideologica) che è esattamente ciò che ci sta minacciando oggi. Dobbiamo anche imparare a tollerare, o meglio, ad accogliere i cambiamenti nelle nostre stesse norme e riti, fino a quando vanno nella giusta direzione, verso più grandi realizzazioni umane e una più completa integrazione umana.

Figura 1

Figura 2

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4. L’errore alla moda di tralasciare la descrizione* KONRAD LORENZ

“Spiegare” un avvenimento significa scoprire o “ridurre” le sue regolarità a leggi di natura più generali. Se l’avvenimento si verifica all’interno di un sistema costituito da molte parti diverse, una conoscenza della loro forma e funzione è, in ogni scienza, indispensabile al buon esito della riduzione. Mentre i fisici sono interessati alla struttura soltanto come ad un mezzo per giungere a questo fine, i biologi considerano la conoscenza della struttura come fine a se stessa. L’attuale convinzione che soltanto i metodi quantitativi siano scientifici e che la descrizione della struttura sia superflua, è un deplorabile errore, dettato dall’abitudine al pensiero “tecnomorfico” acquisito dalla nostra cultura nell’occuparsi in modo preponderante di materia inorganica.

Apprezzamento esclusivo della quantificazione Viviamo in un periodo in cui è di moda valutare la cosiddetta esattezza, e quindi il valore, di qualunque risultato scientifico dalla quantità relativa di operazioni matematiche usate per ottenerlo. Per evitare fraintendimenti, dirò che quantificazione e matematica hanno sempre l’ultima parola nella verificazione. Tuttavia, come ha fatto notare niente meno che Werner Heisenberg, le leggi della matematica non sono leggi di natura, ma le leggi che prevalgono in uno dei processi cognitivi a cui dobbiamo la nostra facoltà di comprendere la natura, fino ad un certo punto. L’attuale * Conferenza tenuta al XXV International Congress of Physiological Sciences, Munich, luglio 25-31. 1971. Naturwissenschaffen 60, 1-9 (1973). © by Springer-Verlag 1973.

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sottovalutazione di tutti gli altri meccanismi cognitivi come fonti di conoscenza scientifica, ha conseguenze deleterie. Tornerò su queste più avanti, e mi volgo ora a quelle che considero le cause che costringono gli scienziati di oggi a trascurare alcune delle più indispensabili facoltà cognitive dell’Uomo.

Abitudine al pensiero “tecnomorfico” La nostra cultura è pervenuta al dominio del mondo inorganico ad un grado mai raggiunto nella storia del genere umano e impensabile qualche generazione fa. Deve la sua forza all’alto sviluppo delle sue scienze analitiche, soprattutto la fisica e la chimica, che, a loro volta, traggono la loro efficacia da un’altrettanto sviluppata scienza dell’analisi matematica. Su questa base, la nostra cultura ha sviluppato una tecnologia che ha cambiato e sta ancora cambiando l’ecologia e la sociologia della specie umana ad una velocità sempre crescente. Anche se alcuni di noi cominciano a vedere il pericolo di questo sviluppo, la maggioranza del genere umano è ancora ubriaca di successo e corrispondentemente arrogante, gonfiata da quell’orgoglio che viene prima della caduta. La peggior conseguenza di tutto questo è stata indicata da Hans Freyer: non soltanto gli scienziati di diverse branche, ma la gente in generale ha acquisito abitudini di pensiero che si erano formate nel trattare con successo la materia inorganica. Milioni di operai e di tecnici hanno avuto a che fare per tutta la loro vita esclusivamente con cose non viventi e fatte dall’uomo; nei loro giorni di lavoro hanno raramente, o mai, avuto a che fare con qualunque essere vivente. Non c’è da meravigliarsi se la maggioranza degli uomini civili ha del tutto dimenticato come devono essere trattati gli esseri viventi, anche quando li si utilizzano e quindi, con la più gran presunzione possibile applicano i loro metodi abituali nell’affrontare i problemi nel mondo degli esseri viventi, compreso l’uomo e la società umana. Naturalmente, questo ha avuto effetti deleteri ed ha portato alcuni grandi umanisti a credere che la scienza, come tale, eserciti un influsso disumanizzante sulla nostra cultura. Questo è vero soltanto fino a quando una scienza, influenzata nel modo già descritto, ha ottenuto un’influenza disordinata sul pensiero pubblico. Ciò che la gran maggioranza degli uomini consi148

dera “grande” scienza è esattamente di questo tipo e, come cercherò di mostrare più avanti, gli scienziati di altre branche, essendo veri figli del nostro tempo, sono anch’essi disordinatamente influenzati dall’abitudine di pensiero ora di moda.

Restrizioni etiche nel trattare sistemi organici Lo sfruttamento del mondo inorganico è in gran parte esente da considerazioni etiche – a meno che le lungimiranti considerazioni economiche non possano anche essere considerate etiche. Una miniera di carbone può essere implacabilmente sfruttata; ma fornirà sempre la stessa quantità, sia che la si sfrutti in fretta, sia lentamente. La sola idea che alcuni tipi di procedimenti possano essere permessi ed altri no, non entra nella mente della gente abituata esclusivamente a trattare con il mondo inorganico. Uomini di quello stesso tipo sono la maggioranza, stanno guidando il mondo e di qui la profonda immoralità dello Zeitgeist di oggi. Che stia erodendo il suolo su cui vive, o sterminando le grandi balene, o avvelenando il suo ambiente con gli insetticidi o la mente dei suoi bambini reclamizzando crimine e violenza con i suoi mass-media, l’umanità di oggi si comporta consistentemente come se spinta dal demonio, la cui meta esclusiva è distruggere ogni forma di vita sul pianeta; Satana potrebbe ben raggiungere il suo scopo, anche senza ricorrere alle armi nucleari. Lo Zeitgeist del giorno d’oggi sembra incapace di capire che cosa sia la vita e cosa significhi. Le creature viventi, comprese le comunità superindividuali, come le biocenosi, le società o culture umane, sono sistemi, costruiti attraverso l’interazione di molte parti notevolmente non omogenee o “sotto-sistemi”. I sistemi viventi più semplici e i più complicati sono diversi l’uno dall’altro, non soltanto quantitativamente per il numero delle parti e per il numero dei tipi di parti diverse che essi abbracciano; differiscono anche essenzialmente in qualità. Ogni qual volta due sotto-sistemi, fino allora indipendenti, si integrano in un’unità funzionale, vengono ad esistere nuove proprietà del sistema e queste rendono l’organismo diverso dai suoi predecessori, non soltanto nel grado, ma anche nell’essenza. Questo tipo di integrazione è uno dei gradini più co149

muni e, allo stesso tempo, più importanti nell’evoluzione delle specie così come nello sviluppo storico di una cultura.

Indispensabilità di conoscere la struttura In teoria, la percezione causale del funzionamento di un sistema organico non può essere raggiunta senza la piena comprensione delle strutture di tutte le sue parti e del modo in cui interagiscono. Inoltre, dobbiamo anche conoscere la storia filetica dell’organismo, altrimenti non potremo mai sperar di capire perché le sue caratteristiche strutturali e funzionali sono quelle che sono. La conoscenza della storia filetica, a sua volta, non può essere ottenuta senza che si capisca il processo di adattamento e la parte che la selezione naturale vi ha giocato. Nessuno di questi successivi processi cognitivi per spiegare la natura dei sistemi viventi è superfluo e nessuno di essi può essere raggiunto soltanto con la quantificazione e il procedimento analitico. In realtà, più complicato è un sistema, più altamente integrata l’interazione delle sue parti, meno direttamente è accessibile a questi metodi. Nel discutere la differenza tra l’etologia e le altre scienze comportamentali, Norbert Bischof ha recentemente sottolineato quali severe limitazioni siano imposte alla ricerca sui sistemi viventi e il loro comportamento dal trascurare altri necessari atti cognitivi, come accade quando si usa un approccio fisico. Come Bischof fa notare, la fisica, dal tempo di Galileo, è avanzata col metodo della generalizzazione della riduzione. I fisici considerano ogni sistema reale allo studio in un dato momento (per esempio un sistema planetario, un pendolo o un sasso che cade) come un caso particolare di una classe più generale del sistema (per esempio la massa in un campo gravitazionale). Trovano poi le leggi dominanti in ogni sistema specifico (per esempio le leggi di Keplero, la legge del pendolo), che a loro volta derivano dalle leggi a cui obbedisce un sistema più generale (come, per esempio, le leggi di Newton). La struttura e il comportamento del sistema specifico studiati in qualunque caso singolo, sono considerati solo come mezzi allo scopo di raggiungere la conoscenza della legge generale e sono in realtà dimenticati una volta che lo scopo sia raggiunto. Per la validità delle leggi di Newton, non sono essenziali le 150

proprietà particolari del sistema solare, in cui Isaac Newton le trovò. Avrebbe trovato le stesse leggi se avesse rivolto le ricerche ad un sistema solare del tutto diverso, con altre misure di corpi celesti, altre orbite ecc. Il fisico, nel cercare di astrarre le leggi generali, è in teoria costretto a ridurre a queste leggi generali ogni legge speciale che egli possa trovare dominante in qualche particolare sistema. Questa riduzione inevitabilmente consisterà nel mostrare come la struttura del sistema faccia sì che la legge generale appaia sotto forma di una legge più particolare, caratteristica di quel particolare sistema. Per esempio, il fisico dimostrerà come la struttura di un pendolo, che consiste nella sospensione di una massa, per mezzo di un collegamento apparentemente privo di massa, da un asse teoricamente libero da frizione, faccia sì che le leggi generali di gravità, inerzia, ecc. compaiano sotto forma della legge più particolare del pendolo. Naturalmente, rientra nella possibilità della fisica teorica il predire queste leggi deduttivamente, ma il fisico sperimentale deve ricorrere ad un vero pendolo, in cui la sospensione possiede una massa e l’asse non è mai libero da frizione. Il fisico deve studiare e misurare questi fattori e tenerne conto mentre scava la sua via verso il basso, sempre più in basso, verso le leggi più generali che si possano raggiungere. Per lui, l’influenza e, in realtà, tutte queste proprietà del sistema reale particolare, sono soltanto ostacoli al procedimento di generalizzazione dell’induzione. Non è interessato né al sistema, né alla struttura in sé. Questo è proprio l’atteggiamento che il biologo non deve assumere. Anche se non fosse suo dovere servire la fisiologia e la patologia nel loro scopo di ristabilire la salute in sistemi che non funzionano più, dovrebbe ancora interessarsi ai sistemi viventi come tali, e a tutti i livelli di integrazione e a tutte le leggi più particolari e più generali che prevalgono a tutti questi livelli. Naturalmente, l’analisi del biologo, come quella del fisico, procede in direzione “dall’alto al basso”. In tutto il nostro quotidiano lavoro, noi ci comportiamo secondo il presupposto che ci sia un solo gruppo di leggi di natura mutualmente inclusive e non contraddittorie e che, se dovessimo mai giungere alla meta utopistica di capire completamente la natura, compreso quel lato della nostra natura che può essere studiato obiettivamente, dovremmo aver spiegato l’universo e tutto 151

ciò che è in esso sulla base di leggi globali fisico-chimiche e delle altamente complesse strutture in cui queste leggi sono operanti. Come studiosi del comportamento, speriamo di giungere alla sua comprensione sulla base dei processi fisico-chimici che hanno luogo nelle sinapsi, nelle membrane cellulari cariche, nella conduzione dello stimolo e così via. Nel nostro modo di procedere, siamo in realtà riduzionisti.

Riduzionismo ontologico, ovvero “Nothingelsebuttery” Tuttavia, nel nostro procedere verso il basso, non dimentichiamo le strutture, enormemente complicate, in cui questi processi attuano le loro interazioni meravigliosamente organizzate e integrate nel sistema. Non le mettiamo da parte come variabili indesiderate, ma le consideriamo oggetto della nostra ricerca, non meno del complesso delle leggi più fondamentali a cui alla fine speriamo di arrivare. Il mettere da parte la struttura nel modo che si può ammettere in fisica, nella ricerca sugli organismi viventi, porterebbe al disastroso errore del riduzionismo ontologico. Un esempio può servire ad illustrare la differenza tra la riduzione metodologica, indispensabile nelle scienze naturali, e il riduzionismo ontologico. La scienza dice: “I processi vitali sono processi chimici e fisici” oppure “Gli uomini sono animali appartenenti all’ordine dei primati”. Entrambe le affermazioni sono perfettamente corrette. Il riduzionista dice: “I processi vitali non sono nient’altro che processi fisico-chimici” e “Gli uomini non sono nient’altro che animali”. Entrambe le affermazioni sono non solo del tutto false, ma sintomatiche di una cecità molto pericolosa alle armonie e ai livelli di integrazione, che significa cecità ai valori. Julian Huxley ha forgiato un termine inglese per riduzionismo ontologico: nothingelsebuttery!*. Tutte le vere leggi biologiche nascono dalla struttura della materia vivente, cominciando da quella che regola gli eventi nella doppia elica fino a quella che predomina nel comportamento sociale umano. Per questo motivo, possiamo aspettarci leggi generali, valide per tutti gli esseri viventi solo in quanto i sistemi viventi hanno caratteri strutturali in comune. *

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“Nothingelsebuttery” = dispensa del null’altro (N.d.T.).

Il comportamentismo e le sue restrizioni cognitive E tuttavia nelle scienze comportamentali, in psicologia, c’è la tendenza ad applicare ai sistemi viventi il metodo dei fisici di generalizzare la riduzione. Molti psicologi accarezzano la speranza di riuscire ad aggirare la struttura e le funzioni fisiologiche dell’organismo, particolarmente quelle del loro sistema nervoso centrale, e riuscire ancora a trovare le leggi del comportamento. Senza dubbio, B.F. Skinner è attualmente il rappresentante più radicale di questa tendenza a formulare leggi generali che regolano il comportamento, senza ricorrere alla comprensione della macchina fisiologica che crea il comportamento. La sua dottrina dell’“organismo vuoto” ha avuto una notevole influenza non soltanto sulla psicologia americana, ma anche su quella tedesca. Lo studio delle eventualità di rinforzo per mezzo di un approccio puramente operativo e la valutazione con metodi statistici dei cambiamenti così operati (senza volgere il pensiero a ciò che è stato cambiato), è ancora considerato da molti non solo legittimo, ma l’unico modo legittimo di studiare il comportamento. La probabilità di trovare con questo metodo leggi comportamentali egualmente valide per i porcellini d’India, i piccioni e l’uomo, dipende naturalmente dall’esistenza, in tutti questi animali, di meccanismi neurali e sensoriali che reagiscono allo stesso modo alle operazioni scelte per l’esperimento. Fortunatamente per i comportamentisti, la maggior parte delle specie animali che si sono abbastanza evolute da possedere un sistema nervoso centralizzato, hanno realmente, indipendentemente l’uno dall’altro, “inventato” un’organizzazione sensorio-neurale che permette loro di apprendere dietro ricompensa. Questo spiega il fatto che ci sono alcune leggi che restano valide per l’apprendimento di tutti gli organismi prima ricordati. Per quanto importante sia l’analisi sperimentale di quest’unico meccanismo di apprendimento per rinforzo, è ancora più importante quello che è completamente tralasciato dal procedimento dei comportamentisti: comprende tutto il resto dell’organismo; comprende infatti tutto ciò che fa di un porcellino d’India un porcellino d’India, di un piccione un piccione, e di un uomo un uomo.

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Motivazioni delle restrizioni del comportamentista Trovo difficile mettermi al posto di uno scienziato che è pronto a rinunciare all’uso della maggior parte dei meccanismi cognitivi che l’uomo normale adopera come fonti di conoscenza; trovo ancor più difficile immaginare i motivi che lo costringono a fare questo sacrificio. Per mantenere la propria convinzione che l’organismo sia vuoto e che il condizionamento per rinforzo sia l’unico processo organico che valga la pena di studiare, sembra indispensabile o imprigionare l’organismo soggetto di esperimento, come fece I. P. Pavlov, in modo che non possa far niente tranne dare la risposta attesa, o impedirsi di osservare l’organismo mentre fa qualunque altra cosa, mettendolo in una scatola opaca. Nel caso che il soggetto della ricerca sia un uomo, questo verrebbe letteralmente disumanizzato perché gli viene impedito di reagire in qualunque altro modo in cui non potrebbero invece reagire un porcellino d’India o un piccione (infatti, lo stesso allestimento sperimentale è spesso applicabile ad animali e a uomini). Peggio ancora, in quel tipo di sperimentazione spesso non si permette allo sperimentatore di essere completamente umano perché gli è strettamente proibito di usare la maggior parte dei meccanismi cognitivi di cui la natura ha dotato la nostra specie. Posso pensare soltanto a due ragioni che possono obbligare un uomo a fare questi due sacrifici veramente ascetici e piuttosto orribili.

Scimmiottamento della fisica Una cosa è un’eccessiva ammirazione della fisica. Ciò può sembrare paradossale, considerando la singolare mancanza di comprensione, da parte del comportamentista, del modo di procedere del fisico o, meglio, di tutti gli scienziati. Tuttavia, si può attribuire proprio a questa incomprensione la responsabilità per l’imitazione di metodi che il fisico applica soltanto in certi casi particolari. Ogniqualvolta il fisico atomico ricorre all’uso esclusivo di un metodo operativo e alla valutazione statistica dei dati, lo fa perché tutti gli altri processi cognitivi gli vengono a mancare. Lavora in un regno in cui le categorie umane di pensiero, come causalità o sostanzialità, e perfino le forme umane di visualizzazione, come spazio e tempo, cessano di essere applicabili. Il fi154

sico si attiene al suo metodo perché l’oggetto della sua ricerca non ne permette altri, non perché pensi che sia l’unico “scientifico”. Fate sì che il fisico si trovi davanti un oggetto a cui sono applicabili le comuni, quotidiane funzioni di percezione; mettetelo a confronto con un sistema, le proprietà del cui organismo dipendano dalla sua struttura, e vedrete quanto rapidamente egli farà uso degli stessi metodi del biologo. Chiedetegli, per esempio, di aggiustare alcune apparecchiature elettroniche, fatte da qualcun altro e che si sono guastate; non applicherà mai un metodo operativo e una valutazione statistica dei risultati: smonterà l’apparecchio e vedrà com’è collegato: in altre parole ricorrerà alla descrizione. Il comportamentista però, con convinzione incrollabile, giudicherebbe ciò non scientifico.

Desiderio di potere La seconda ragione a cui posso pensare è di natura ideologica: ci sono ideologie che non vogliono che l’uomo abbia delle strutture. La stessa esistenza nell’uomo di sistemi ereditari di motivazione, filogeneticamente evoluti, chiamati istinti, lo rendono meno maneggevole, più resistente alla manipolazione. E quindi è perché lo desiderano intensamente che i grandi manipolatori, credono vera la dottrina dell’organismo vuoto e il fatto che l’uomo non dovrebbe essere in realtà che la creatura del suo condizionamento. Si potrebbe allora realizzare il quadro misterioso, disegnato da Aldous Huxley nel suo romanzo Il mondo nuovo, del cittadino idealmente duttile. Il desiderio identico di fare ciò spiega l’altrimenti sorprendente fatto che i capi del capitalismo occidentale e del comunismo orientale siano unanimi nell’accettare ciò che io chiamo dottrina pseudo-democratica.

Influenze di vasta portata del comportamentismo La psicologia è, generalmente parlando, figlia della filosofia e non delle scienze naturali, e perfino gli psicologi, che d’altra parte riconoscono in pieno la maggior parte degli errori commessi dai comportamentisti, sono ancora tentati di correre nel vicolo cieco di tentar di aggirare l’organizzazione del sistema degli es155

seri viventi e di cercar di arrivare alle leggi di comportamento indipendenti dalla struttura del sistema e valide per tutti gli organismi. Sembra molto difficile riconoscere che tali leggi semplicemente non esistono! Molti psicologi e sociologi stanno ancora cercando di riunire la molteplicità dei sistemi viventi, diversamente strutturati, in un continuum, nella speranza di riuscire a formulare delle leggi valide per tutte queste unità prodotte. La stessa tendenza si trova nello studio della motivazione: alcuni teorici hanno cercato di portare un certo ordine falso nella moltitudine di motivazioni indipendenti postulando una “pulsione generale” da cui si suppone che le altre siano derivate. Molti altri esempi sono ricordati da Bischof, come il tentativo di Guthrie di ridurre tutti i processi vitali ad una singola teoria di stimolazione e movimento, non prestando mai attenzione né alla qualità della stimolazione, né alla forma del movimento e meno che mai al valore adattivo della loro interazione. Un altro esempio è il grandioso sistema di postulati di Hull, che ricorda stranamente i Principia Mathematica di Newton o, come altro esempio, il tentativo di T. C. Schneirla di spiegare tutto il comportamento in base alla teoria dell’approccio e della fuga, che fa perno sul presupposto infondato che non ci sia differenza qualitativa fra stimoli: gli stimoli forti si presume siano sempre repellenti, i più deboli attraenti; soltanto l’intensità è considerata il parametro decisivo che determina la reazione dell’organismo. Una delle più curiose professioni di fede nella completa mancanza di importanza del sistema vivente e delle proprietà del sistema che nascono dalle sue particolari strutture, fu pronunciata da E. C. Tolman, il quale nel 1938 scrisse (citato da N. Bischof): “Credo che tutto ciò che importa in psicologia… possa essere investigato nella sua essenza attraverso l’analisi continuata… dei determinanti del comportamento del topo ad un punto scelto di un labirinto”. Ho intenzionalmente formulato nel modo più provocatorio possibile l’errore comportamentistico di cercar di trovare leggi generali che regolino il comportamento, trascurando completamente tutta la macchina che causa il comportamento; ho anche tracciato il peggior quadro possibile degli analoghi errori commessi da altri studiosi del comportamento. I fisiologi, è chiaro, sono perfettamente consapevoli delle interazioni del sistema e della strategia necessaria al loro studio. Chi potrebbe essere in una posizione migliore per conoscere questi argomenti? Così non cre156

do che esista alcun fisiologo che possa essere influenzato dal modo di pensare dei comportamentisti. Tuttavia il comportamentismo è soltanto un sintomo dell’errore di moda di tralasciare la descrizione. I fattori che hanno fatto sì che la maggioranza degli uomini moderni considerassero la misurazione il più importante processo cognitivo hanno esercitato la loro influenza su tutti noi. Abbiamo tutti gli stessi difetti, qualcuno meno, ma perfino io devo confessare un leggero senso di inferiorità quando mi rendo conto che non ho mai pubblicato in vita mia un saggio con un grafico. Resto impressionato, contro ogni mio ragionamento, quando qualcuno dei miei collaboratori formula abilmente un problema, per esempio sull’analisi della motivazione, in modo tale da poter fornirlo ad un computer. Un’altra circostanza che tende a far sembrare preferibili il metodo operativo e la valutazione statistica dei risultati allo studio descrittivo delle strutture sta nel semplice fatto che quest’ultimo richiede tanto più tempo. Il conoscere ogni sistema abbastanza bene da riuscire a scegliere un punto di attacco sperimentale presuppone una gran quantità di lavoro preliminare. È quindi molto più vantaggioso pensare a qualche semplice operazione nel campo d’azione di qualche attrezzatura automatica, che dovrebbe autoregistrare e contenere un massimo di elettronica. Si possono così ottenere quantità impressionanti di dati, con cui eseguire ancora più impressionanti operazioni matematiche. Ciò che ho appena tracciato, naturalmente, è una caricatura piuttosto amara, ma l’orientamento che rivela è senza dubbio presente in tutta la scienza biologica dei nostri giorni. Perfino quegli scienziati che sono perfettamente consapevoli della natura dei sistemi e della strategia dell’approccio che ci viene quindi imposta, tendono a considerare ogni procedimento sperimentale scientificamente superiore a qualsiasi descrizione. Nel mio campo dell’etologia, questo ha portato ad una situazione piuttosto grottesca: mentre la ricerca sperimentale e analitica è progredita, negli ultimi decenni, in modo realmente soddisfacente, il numero di specie animali su cui la ricerca è stata condotta non è aumentato quasi per niente. In altre parole, la maggior parte del lavoro sperimentale interessa gli stessi pochi tipi di animali che sono relativamente ben conosciuti, mentre enormi settori del regno animale restano terra incognita per l’etologo. Dal punto di vista dell’etologia, ben poco si sa degli artropodi, praticamente niente dei cefa157

lopodi. La preferenza per la sperimentazione ha semplicemente bloccato l’indispensabile crescita della descrizione. C’è un’immensa quantità di lavoro puramente descrittivo ancora da fare.

I pericoli del pensiero tecnomorfico Il bisogno di conoscere più specie, soprattutto quelle dei gruppi appena ricordati, è particolarmente urgente per quelli che desiderano studiare le analogie, un compito della massima importanza nella sociologia animale. L’analogia strutturale di forma o di comportamento o di entrambi, trovata in due specie non correlate, indica sempre un’identità di funzione di sopravvivenza. Più le due specie differiscono in ogni altro aspetto più attendibile è questa conclusione. Così, la scoperta delle analogie è la chiave per accertare, prima l’esistenza di una definita funzione di sopravvivenza, poi la soluzione del problema, in che cosa consista questo valore di sopravvivenza. Una norma di comportamento sociale che può, col massimo vantaggio essere sottoposta a ricerche studiando le analogie funzionali, è quella del legame di una coppia monogamica in molti animali. Wolfgang Wickler ha organizzato nel mio reparto un team di collaboratori che, riunendo gli sforzi, esaminano questo fenomeno nel maggior numero e nei più diversi animali. Prima di fare domande sui meccanismi fisiologici e comportamentali che tengono unita una coppia, si deve naturalmente sapere in quali specie il legame a coppia debba essere osservato. Recentemente, abbiamo scoperto un vero legame a coppia di individui monogami in una specie di gamberi, Hymenocera, e abbiamo chiesto una borsa di studio alle “Deutsche Forschungsgemeinschaft” per rendere possibile ad un giovane ricercatore di investigare a fondo sul legame a coppia in questi e in altri crostacei. La borsa di studio fu concessa, non senza che il consiglio consultivo aggiungesse un benevolo ammonimento: si dovrebbe fare attenzione perché la ricerca non scivoli in uno studio puramente descrittivo, “daβ die Untersuchung nicht ins Deskriptive obgleitet” (corsivo mio).

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Approccio ai sistemi viventi: il problema di Darwin Il peggio di questo diffuso disprezzo per la descrizione è che scoraggia la gente persino dal tentare di analizzare sistemi realmente complicati. Qualsiasi uomo intelligente, consapevole della natura sistemica degli organismi, sceglierà necessariamente sottosistemi relativamente piccoli. Non si pensi che io consideri ciò deplorevole per se stesso: praticamente tutti gli importanti principi esplicativi sono stati scoperti in questo modo. In realtà, l’unico principio che mi venga in mente in questo momento, scoperto con osservazione e descrizione non sperimentale, è la coordinazione motoria ereditaria, la cui scoperta da parte di C.O. Whitman e O. Heinroth diede origine all’etologia come branca della scienza. Tuttavia, lo svantaggio della preferenza per il metodo sperimentale è che rende i più grandi e più altamente integrati sistemi viventi meno attraenti come oggetti potenziali di ricerca, dato che ovviamente l’approccio con i metodi sperimentale e quantitativo diventa sempre più difficile, più complessa e integrata è l’entità organica. Così l’interesse principale delle scienze, biologica e fisiologica è diretto lontano dai sistemi viventi altamente integrati, il che significa lontano dall’uomo come oggetto di ricerca, e questo è uno dei fattori che fa sì che gli umanisti accusino la scienza di oggi in modo globale di avere un effetto disumanizzante sulla nostra cultura. In realtà, l’orientamento della scienza qui in discussione può ben essere la distruzione del genere umano. La scienza medica, cioè il tentativo di ristabilire la salute di sistemi organici non in efficienza, è necessariamente basata su una capacità di osservazione fisiologica causale nelle funzioni interne di questi sistemi. Nessuno, nel pieno delle sue facoltà, può dubitare per un momento che l’umanità nel suo tutto sia un sistema, completamente sfasato, e che l’osservazione fisiologica sia quindi una dura necessità se la nostra specie deve sopravvivere.

Inventario delle parti È in qualche modo possibile l’approccio ad un sistema vivente altamente integrato, come quello della società umana, con i metodi delle scienze naturali e, se è così, qual è la strategia del159

l’approccio? Mi sia permesso di fare alcune osservazioni elementari su questi problemi. Supponiamo che due scienziati, non influenzati dalle pericolose abitudini di pensiero discusse in questo saggio, arrivino da Marte – penso che si debba andare così lontano per trovare questa gente – e che comincino a far ricerche su un sistema terrestre. Per chiarezza, supponiamo che sia un sistema fatto dall’uomo, per esempio un’automobile. I ricercatori comincerebbero certamente il loro lavoro camminando attorno all’automobile e guardandola da tutte le parti; come spiegherò, ciò fa già parte dell’unico legittimo primo passo nell’approccio ai sistemi. Poi si chiederebbero probabilmente a che cosa serva l’automobile e avrebbero una ben piccola possibilità di raggiungere la comprensione del loro lavoro se mancassero di afferrare il fatto che è un organo locomotore dell’Homo Sapiens. Se un biologo si chiede “a che cosa serve?”, non per questo professa il suo credo in una teleologia super o extra naturale, ma solo una fiducia nella teoria della selezione naturale di Charles Darwin. Il fare la domanda: “Perché un gatto ha gli artigli piegati e retrattili?” e il rispondere “Per afferrare i topi”, è soltanto un modo rapido per dire che l’afferrare topi è la funzione, il cui valore di sopravvivenza è allevare gatti con quel tipo di unghie. Colin Pittendrigh ha chiamato questo approccio teleonomico, per staccarlo dalla teleologia, come l’astronomia è staccata dall’astrologia.

Parti relativamente indipendenti Avendo capito a che cosa serve l’automobile, i nostri scienziati extraterrestri non si sognerebbero ancora di cominciare a misurare qualunque cosa. Comincerebbero a smontare l’automobile e ad osservanze le parti. Il compito di capire l’interazione delle parti all’interno di un sistema è molto simile a quello di spiegarle durante l’insegnamento. Se si cerca di spiegare il funzionamento di un motore a quattro tempi a qualcuno che deve prendere la patente di guida, si deve cominciare da qualche parte, in una parte arbitrariamente scelta del sistema. Generalmente si comincia con l’albero a manovella che gira e la biella che tira giù il pistone che aspira la miscela dal carburatore, per l’unica ragione che è possibile illustrare il funzionamento di queste strutture teatralmente, evitando così il bisogno di rappresentare la moltitudine di intera160

zioni in una sequenza lineare di parole che poco si adattano a questo scopo. Goethe ne era consapevole quando disse “Das Wort bemüht sich nur umsonst, Gestalten schöpf‘risch aufzubau’n”. In realtà l’ascoltatore non può ancora sapere che cosa sia un albero a manovella o un carburatore o una miscela; tutto ciò che si può sperare è che, per ognuno di questi concetti egli tenga un posto provvisoriamente vuoto da riempire con una spiegazione successiva. E, questo è esattamente equivalente al metodo di disegno, come primo approccio alla comprensione di un sistema, di un cosiddetto flow-diagram (schema a stadi successivi) con quadratini neri che, si spera, non resteranno completamente neri per sempre. Mentre si spiega il motore a quattro tempi, è necessario essere costantemente consapevoli del fatto che l’ascoltatore non capisce in realtà come il pistone aspiri una miscela combustibile dal carburatore, finché non abbia anche capito come l’albero a camme giri ad una velocità pari alla metà di quello dell’albero a manovella, come le camme aprano e chiudano le valvole, come l’accensione produca una scintilla quando la miscela è compressa ecc. In altre parole, la funzione di ogni singola parte del sistema può essere capita completamente soltanto simultaneamente a quella delle altre parti, o non essere capita affatto. Questa tesi fu formulata quasi mezzo secolo fa, con la più grande chiarezza, dal mio insegnante Otto Koehler, a Friburgo. Come conseguenza della sua piena accettazione, dobbiamo progettare una strategia di ricerca obbligatoria che, in un precedente saggio ho chiamato “analisi su vasto fronte”. Questo significa che, avendo acquisito qualche nozione preliminare su quali e quante parti di un’entità siano interessate in una mutua interazione, si dovrebbe cercare di portare avanti la conoscenza di ciascuna di esse più o meno alla stessa velocità di ognuna delle altre.

Strategia di ricerca imposta dai sistemi Ci sono, tuttavia, eccezioni a questa regola, e nel loro riconoscimento sta l’ingegnosità del metodo. In ogni sistema vivente sono contenute certe parti elementari, o sottosistemi, che, mentre influenzano fortemente la struttura e la funzione del tutto, non vengono apprezzabilmente influenzati da questo. Gli elementi 161

dello scheletro, almeno nell’organismo adulto, forniscono un buon esempio di questo tipo di parte indipendente dal sistema come tutto. La scoperta di una qualsiasi di queste “parti relativamente indipendenti” ci offre sempre un gradito punto archimedeo per ulteriori ricerche. L’influenza relativamente scarsa che l’entità sistemica esercita su tale parte, rende possibile isolarla, mentalmente o sperimentalmente, senza rischiare il rimprovero di trascurare una fonte di errore. La scoperta di tale elemento rende possibile cominciare a scavare a fondo, “perforando alla ricerca del petrolio”, o, per usare un’altra similitudine, è come trovare, in uno schema di parole incrociate, una parola lunghissima che sia indubbiamente esatta e stia in relazione con molte altre, così che diventi possibile un’audace avanzata in territorio sconosciuto. La scoperta di tale parte relativamente indipendente equivale generalmente alla scoperta di ciò che è chiamato “nuovo principio esplicativo”. Se lo scopritore non è egli stesso addestrato nell’arte di pensare in termini di sistemi, in altre parole, se non è altamente specializzato nella tecnica dell’“analisi su vasto fronte”, quasi invariabilmente soccombe alla tentazione di credere che il nuovo principio, da solo, sia sufficiente a spiegare “tutto”. La fallacia del “monismo esplicativo” è, per modo di dire, prerogativa del genio dello scopritore. Da questo punto di vista è perdonabile, e ciò nonostante è uno dei più gravi ostacoli alla ulteriore analisi del sistema allo studio. Se i nostri extraterrestri investigatori dell’automobile, dopo aver staccato una vite e un bullone dall’oggetto della loro ricerca, girassero a questo le spalle e tentassero, sulla base di questi due elementi, una nuova sintesi dell’automobile, questo tentativo sarebbe, in teoria, non meno assurdo di quello di spiegare ogni comportamento di tutti gli organismi come un fascio di “tropismi”, come fece Jacques Loeb o come un cumulo di reazioni condizionate come fanno ancora psicologi e antropologi americani. La fallacia del monismo esplicativo va spesso fianco a fianco con quella dell’atomismo, anche se non è in alcun modo identico a questo. L’atomismo può essere definito come il tentativo di spiegare una funzione sulla base di leggi più generali di natura trascurando, per il momento, il ruolo che la struttura gioca nella particolare espressione che queste leggi generali assumono nel caso allo studio. L’atomismo è in molti casi una cattiva strategia di ricerca, 162

ma è ben lungi dall’essere un errore così pregiudizievole come il monismo esplicativo. L’atomismo non preclude il presupposto di molte parti, molto diverse l’una dall’altra, prendenti parte all’interazione all’interno dell’entità del sistema, né limita la spiegazione ad un singolo processo elementare. L’atomista è sempre pronto ad aprirsi alla realtà, a controllare la sua spiegazione con l’osservazione, a tutti i livelli dell’integrazione organica. Diversamente dal riduzionista e dal monopolista della spiegazione, non ha preconcetti ontologici. Anche se, in caso estremo, l’approccio atomistico culmina nella temerità di cercare di inventare tutte quelle strutture che non si degna di studiare e di descrivere, questo arrogante tentativo non è destinato al fallimento: ci sono molti casi nella storia della biocibernetica in cui forme puramente atomistiche di ragionamento sono riuscite a spiegare interazioni del sistema, per esempio il circuito auto-regolatore del feed-back negativo, molto prima che la biologia divenisse pienamente consapevole dell’importantissimo ruolo che l’omeostasi gioca in tutti i sistemi viventi.

La patologia come fonte di conoscenza Il primo lavoro nell’affrontare l’analisi di un sistema vivente complicato consiste senza dubbio nell’ottenere una conoscenza generale preliminare del numero e tipo di sottosistemi che in esso interagiscono. La percezione intuitiva della Gestalt e le audaci supposizioni da questa ispirate sono invariabilmente i primi passi per la formazione di un’ipotesi che è poi suscettibile di verifica sperimentale. Questo è ammesso anche da quei creatori di teorie di successo che avversano la percezione della Gestalt e negano la parte che questa ha nel loro lavoro. La percezione della Gestalt non ha niente di miracoloso, anche se è la funzione di un meraviglioso computer costruito nel nostro sistema nervoso centrale. Come altri computer paragonabili ad esso, ha bisogno di una grande sovrabbondanza di input per compensare i “disturbi” delle sue vie di comunicazione, così da poter distinguere tra informazioni essenziali ed accidentali. Quindi è soltanto all’osservatore paziente, all’esperto, che è concesso il vantaggio di ciò che è erroneamente chiamato supposizione ispirata o intuizione, disprezzata come non scientifica dagli 163

scienziati e che è in realtà la funzione di uno dei nostri meccanismi cognitivi più indispensabili. Il medico più anziano tra voi lo conoscerà meglio come “occhio clinico”. Per quanto alta sia la nostra opinione sui poteri della percezione della Gestalt, e per quanto importante il compito che noi attribuiamo alle funzioni di ottenere una conoscenza generale del sistema in esame, è chiaro che questi sono soltanto i passi preliminari nel tentativo di ottenere una vera comprensione di ogni sistema. Ricordate che gli scienziati extraterrestri della mia parabola rimasero attorno all’automobile soltanto un tempo limitato, accertando la sua teleonomia col porre la domanda “a che cosa serve?” e poi procedettero a smontarla. Entrambi i procedimenti a) accertare la teleonomia e b) smontare, incontrano difficoltà quando ci avviciniamo, al sistema vivente la cui comprensione è l’estremo traguardo di tutta la scienza: il sistema della società umana. Ogni volta che il biologo o l’etologo si chiede “a che cosa serve?” riguardo ad una struttura del corpo o ad uno schema di comportamento, lo fa perché si aspetta una risposta accettabile. In realtà, più strana è la struttura o lo schema di comportamento, più egli è sicuro di ottenere tale risposta. Se tuttavia poniamo assolutamente la stessa domanda concernente alcuni schemi di comportamento umano tipici e ricorrenti, restiamo con un pugno di mosche. Qual è il valore di sopravvivenza che ha la concorrenza commerciale o la guerra in Vietnam, o i cambiamenti della moda, o il sit-in degli studenti universitari o una parata nella Piazza Rossa di Mosca per la sopravvivenza della specie umana? Quale, in realtà? Pur riluttanti siamo spinti alla conclusione che l’umanità spessissimo fa delle cose che, lungi dall’aiutare la sua sopravvivenza, sono senza dubbio pregiudizievoli. Un gran numero di schemi di comportamento umano, e in particolare del comportamento sociale umano, sono chiaramente patologici. La constatazione che è così, non ci aiuta molto, tuttavia, a risolvere i problemi che ne nascono come conseguenza. È effettivamente molto difficile anche soltanto dare una spiegazione funzionale di ciò che è “normale” e di ciò che è “patologico”. Il mio amico Bernhard Hellmann, quando si trovava davanti qualche misterioso o bizzarro comportamento di un animale in cattività, il cui valore di sopravvivenza non era immediatamente chiaro, era solito chiedere scherzosamente: “È così che lo inten164

deva il costruttore?”. Il “costruttore” era, naturalmente il fattore evolutivo che fa sì che strutture e funzioni realizzino il valore di sopravvivenza. Non saprei dare del normale una definizione migliore di “era inteso così dal costruttore”! Naturalmente nella nostra specie le cose sono complicate dal rapido cambiamento dell’ecologia elaborato dalla tecnologia. Così uno schema di comportamento che è stato in modo dimostrabile “scelto” dai fattori dell’evoluzione, può essere in modo rovinoso pregiudizievole alla sopravvivenza nelle attuali condizioni di vita umana. Nello stesso tempo, ci può essere un pari numero di schemi di comportamento che devono la loro non-adattabilità ad altri e più tipicamente patologici fattori come le nevrosi ed altri disturbi mentali. Ad uno sguardo superficiale, si potrebbe disperare di giungere mai alla comprensione della società umana come sistema vivente. Non è soltanto il più complicato di tutti i sistemi esistenti, e quindi il più difficile da analizzare, ma il problema teleonomico che, come ho detto, è il primo passo nell’approccio ad ogni sistema, incontra risposte ambigue. La legislazione teleonomica, altrimenti attendibile, del sistema viene disturbata in modo irregolare e imprevedibile dai fenomeni patologici. Si potrebbe realmente disperare se la perturbazione patologica di un sistema, ben lontana dall’essere un ostacolo alla sua analisi, non ne fosse in realtà molto spesso la chiave. Non ho bisogno di dire, parlando a fisiologi, quanto spesso sia successo nella storia della nostra scienza che un sottosistema, di cui neanche si sospettava l’esistenza, abbia richiamato l’attenzione del ricercatore sulla sua esistenza con la malattia causata dal suo cattivo funzionamento, né ho bisogno di ricordare come la fisiologia acquisti conoscenza eliminando intenzionalmente alcune specifiche unità funzionali. Non conosco abbastanza a fondo la storia della scienza, ma penso che la ricerca sulle ghiandole endocrine sia stata realmente uno dei primi esempi in cui lo studioso di medicina abbia cominciato a pensare in termini di sistemi. È ben nota la storia del chirurgo svizzero, E.T. Kocher, che per primo sospettò che la ghiandola tiroidea avesse a che fare con il morbo di Basedow, che cercò di curare con la tiroidectomia. Il suo primo paziente morì di tetano perché egli aveva rimosso anche le paratiroidi e altri pazienti morirono più lentamente di ciò che Kocher chiamava “cachexia thyreopriva”1. Ma questo fece suonare 1 Mixedema

da tiroidectomia.

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un campanello d’allarme. Kocher vide la somiglianza dei sintomi tra questa malattia prodotta dall’intervento medico e il mixedema! Il morbo di Basedow era dovuto non al funzionamento qualitativamente diverso della tiroide ma ad un semplice eccesso di questo! II mio compianto amico, Ronald Hargreaves che penso sia stato uno degli psichiatri più lungimiranti, mi scrisse una volta che si era autodisciplinato a farsi, ogni volta che si trovava davanti ad una malattia mentale non spiegata, due domande simultanee: (a) qual è il principale valore di sopravvivenza della funzione che qui viene meno, e (b) il cattivo funzionamento è dovuto ad un eccesso o ad una deficienza? II gran numero di casi in cui è realmente possibile una risposta convincente alla duplice domanda di Hargreaves sembra indicare che il sistema sensorio-neurale che è alla base del comportamento umano e le numerosissime motivazioni indipendenti che produce, agiscono in modo molto simile alle ghiandole endocrine. Non c’è da meravigliarsi, perché gli impulsi endogeni che attivano schemi motori innati e simili parti elementari del comportamento, sembrano essere molto simili ai neuroormoni e l’equilibrio autoregolatore tra fattori antagonistici sembra essere uno dei più importanti tra questi principi.

Il linguaggio come fonte di conoscenza II primo compito, nel tentare l’analisi di un sistema, è, come ho detto, stabilire il numero e il tipo delle parti che lo compongono. Questo, nei riguardi del sistema della società umana, è realmente una cosa impossibile. Tuttavia, nel nostro esame iniziale, possiamo accettare l’aiuto che arriva da una parte insospettata, dal linguaggio. II linguaggio naturalmente sviluppato, di uso corrente, riflette nel modo più acuto fatti psicologici subconsci. Così, nella nostra ricerca preliminare dei sottosistemi della motivazione umana, che nei loro equilibrati antagonismi fanno sì che uomini e donne si comportino come fanno, possiamo riferirci ad una definizione di sottosistema data una volta da Paul Weiss. Anche se la diede come un aforisma d’impulso, è qui decisamente pertinente: “Un sottosistema è qualunque cosa abbastanza unitaria da meritare un nome”. Possiamo in realtà provvisoriamente ammet166

tere che un linguaggio sviluppato abbia creato i nomi soltanto per quelle cose veramente reali e abbastanza unitarie da meritare un nome! Si può quindi considerare, come regola empirica approssimativa e tuttavia aiuto inestimabile nel nostro primo approccio al più ambizioso tentativo della scienza, che ogni parola che un linguaggio ha creato per una motivazione umana qualitativamente definita corrisponde davvero ad una realmente esistente. Ci sono molte di queste parole – amore, amicizia, odio, gelosia, invidia, sensualità, paura, rabbia – ma il loro numero è finito. Non riesco, infatti, a pensarne alcun’altra al momento. Possiamo anche ammettere che il problema se qualcuna di queste motivazioni sia “buona” o “cattiva” è del tutto fuori questione come chiedere se la tiroide sia buona o cattiva. È d’altra parte giusto chiedere, nei riguardi di qualunque perturbazione del comportamento sociale, se ci sia un eccesso o una deficienza di una di queste motivazioni. Se una di queste è considerata incondizionatamente “buona”, come la fedeltà, l’amicizia, o l’onestà, si può presumere che ci sia una deficienza generale di questa nella nostra società e nella tradizione che le diede il nome. Nessuno, dotato di capacità di ragionamento, può dubitare che l’umanità sia un sistema attualmente del tutto fuori equilibrio o piuttosto minacciato di distruzione. Nessuno scienziato può dubitare che il ristabilimento dell’equilibrio perduto sia possibile soltanto sulla base di una capacità di comprensione causale nei meccanismi delle normali funzioni regolatrici così come nella natura della loro perturbazione. È mia opinione personale, ma ben ponderata, che questa necessaria capacità di comprensione possa essere raggiunta soltanto dal tipo di approccio che ho appena delineato. Non sarà mai raggiunta senza porre la domanda di Bernhard Helmann: “ È così che il costruttore voleva che fosse?” o la doppia domanda di Ronald Hargreaves riguardo la speciale funzione di sopravvivenza della funzione disturbata. Non si potrà raggiungere alcuna capacità di comprensione nel sistema del comportamento sociale umano senza considerarne l’aspetto medico; cioè senza utilizzare come fonte di conoscenza i disturbi patologici del comportamento sociale. Una quantità immensa di lavoro puramente descrittivo – per esempio la semplice registrazione di statistica clinica – dovrà essere compiuta prima che si possa passare alla quantificazione e al167

la verifica quantitativa. Non si pensi che io disprezzi la quantificazione perché i tecnici della quantificazione disprezzano la descrizione. Mi rendo perfettamente conto del fatto che la quantificazione ha l’ultima parola nel verificare la verità scientifica. Ma sono convinto che sia semplicemente stupido avvicinarsi ai problemi urgenti dell’umanità soltanto con metodi di quantificazione.

Aspetti etici Mi sia permesso ora di ritornare all’aspetto etico dell’errore alla moda di tralasciare la descrizione. Come ho detto, fu proprio il successo che fisica e chimica, basate sull’analisi matematica, ebbero nel conoscere a fondo l’ambiente inorganico dell’uomo che inculcò in questi l’arrogante idea di conoscere tutte le risposte; peggio ancora, l’uomo giunse a credere di conoscere altrettanto bene tutte le domande giuste da fare. È il successo di questo tipo di approccio a materiale non organizzato e semplicemente strutturato, che ha accecato l’umanità sulla natura dei sistemi viventi integrati e altamente strutturati. Orgoglioso come Lucifero, l’uomo ha trattato i sistemi organici con gli stessi metodi, legittimi e morali soltanto se riguardano la materia inorganica e con essi ha portato la distruzione. Orgoglioso come Lucifero non è un’espressione retorica, ma va intesa letteralmente. Il modo in cui l’umanità sta avvicinandosi alla distruzione del suo biotipo e quindi alla sua stessa distruzione, è realmente satanico. L’umanità sta appena cominciando ad imparare la sua lezione attraverso l’esperienza e, stranamente, gli scienziati, o almeno la gran maggioranza di essi, sembrano restarsene indietro, nel prender coscienza del fatto che l’attuale disprezzo per la descrizione è implicito nel processo di disintegrazione. L’ignoranza dell’esistenza dei sistemi è l’immediata conseguenza del concentrarsi sulla sola quantificazione, e dall’ignoranza dei sistemi deriva l’ignoranza delle armonie e, ipso facto, dei valori come tali. L’organo di cui siamo dotati per percepire i valori estetici è identico a quello che ci permette di percepire i valori etici. Questa capacità di percezione è strettamente legata alla percezione della Gestalt – e la percezione della Gestalt richiede una certa quantità di addestramento. Per gli Europei, la musica araba è un genere caotico di lamenti perché l’orecchio europeo 168

non è addestrato a percepire la legge della scala orientale completa dei toni. L’uomo, il cui occhio non è addestrato a percepire l’armonia della natura, la bellezza di una ben equilibrata atmosfera, è assolutamente cieco ad essa e non prova il minimo rimorso nel “valorizzare” gli ultimi bellissimi posti ancora rimasti sulla terra, abbattendo gli alberi con i bulldozer, coprendo tutto col cemento e costruendo alberghi di lusso. Né l’uomo, cieco all’armonia, prova alcun rimorso nel perpetrare le più incredibili crudeltà sugli animali domestici: i modi “intensivi” di allevare gli animali – metodi di ingrasso dei vitelli o di mantenimento delle galline in batterie di covata – sono sintomi allarmanti di disumanizzazione. Una mente equilibrata potrebbe tollerare l’idea di tormentare alcuni milioni di galline o di vitelli, trovando una scusa nella crudeltà stessa della natura come può testimoniare chiunque abbia visto un toporagno d’acqua mangiare un rospo o qualunque avvenimento “normale” egualmente orribile. Tuttavia, la cosa realmente spaventosa è che, come Paul Leyhausen ha esattamente formulato, l’utente-in-batteria è l’inevitabile complemento della gallina-in-batteria. Se avete qualche dubbio, date un’occhiata ad una delle moderne abitazioni di massa di una moderna città. È la concorrenza commerciale che forza il contadino, volente o nolente, a perpetrare crudeltà progressivamente più atroci sugli animali: se il suo vicino mette quattro galline in una cassetta a batteria contro le sue tre, deve rispondere con egual mossa o fare bancarotta. Concorrenza commerciale! Una delle più disastrose conseguenze del considerare l’intero universo, vivente e non vivente, come nient’altro che materiale omogeneo e quantificabile, sta nel fatto che questo tipo di filosofia porta all’estrema offesa di cercare di quantificare ciò che non è quantificabile: le emozioni umane. Come riduzione molto spiritosa all’assurdo, mia moglie soleva rispondere alla mia stupida domanda di quanto mi amasse, dicendo “otto”. Tuttavia, l’appagamento dei desideri umani è soggetto a costar denaro e quindi la loro intensità diviene, in certo modo, quantificabile confrontandone il costo. Il denaro quindi diventa uno strumento di misura per tutte le brame istintive umane per il potere, lo status, i beni, l’amore e così via. Ci si dimentica che il denaro è soprattutto un mezzo per giungere ad un fine è non un fine o una meta in se stesso e questo aumenta ulteriormente la squalifica generale delle qualità. 169

La più infernale (e ancora una volta questo non è inteso come un’imprecazione, ma nel senso letterale) conseguenza dell’arrogante cecità dell’uomo moderno alle armonie è che lo rende incapace di scoprire nuove entità sistemiche. Quando il nostro riduzionista non riesce a capire i processi di un sistema, è molto più facile che cerchi di guardarlo più da vicino che non se ne allontani un poco per osservarlo in un contesto più ampio. Non sospetta mai nemmeno che ci possano essere entità di un ordine più alto, magari altissimo. Il mio amico William H. Thorpe ha dato, nel suo libro Science, Man and Morals, una definizione veramente ispirata della religiosità: consiste nella consapevolezza dell’uomo di essere una piccolissima parte infinitesimale, ma come essere ragionevole, anche un membro responsabile di un’entità sistemica incommensurabilmente più grande e di un valore incommensurabilmente più alto di quanto non sia egli stesso. Noi sappiamo, e i migliori di noi sono profondamente consapevoli del fatto che ciascuno di noi, come individuo, rappresenta una parte ed è membro responsabile di un gran numero di sistemi superindividuali, alcuni dei quali integrati in altri, più alti e più comprensivi – c’è la nostra famiglia, il nostro paese, la nostra squadra di collaboratori, c’è la scienza e c’è l’umanità -, ma non sappiamo quale sia il sistema ultimo e onnicomprensivo, verso il quale siamo tutti responsabili. È la strada che porta alla rovina il chiudere i nostri occhi all’esistenza dei sistemi e il credere di conoscere tutte le domande che dovremmo porre. Mi si perdoni se concludo con una citazione più che trita: “Ci sono più cose nel cielo e sulla terra, Orazio, di quante non ci si possa sognare nella tua filosofia di misurazione e partizione”.

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5. La dottrina kantiana dell’“a priori” alla luce della biologia contemporanea* KONRAD LORENZ

Per Kant, le categorie di spazio, tempo, causalità ecc. sono dati stabiliti a priori, che determinano la forma di tutta la nostra esperienza e, in realtà, rendono possibile l’esperienza. Per Kant, la validità di questi principi primari di ragione è assoluta. Questa validità è fondamentalmente indipendente dalle leggi della vera natura che sta dietro alle apparenze. Non si deve pensare che essa nasca da queste leggi. Le categorie e le forme di intuizione a priori non possono essere messe in relazione alla “cosa in sé” con astrazioni o con qualunque altro mezzo. L’unica cosa che possiamo affermare, secondo Kant, circa la “cosa in sé” è la realtà della sua esistenza. La relazione che esiste tra essa e la forma in cui modifica i nostri sensi e compare nel nostro mondo di esperienza, è, * In L. Von Bertalanffy & A. Rapoport (a cura di), General Systems, Year-book of the Society for General Systems Research, vol. VII, Society for General Systems Research (205 N. Forest Ave., Ann Arbor, Michigan), 787 United Nations Plaza, New York 1962, pp. 23-35. Tradotto da: Kant’s Lehre vom apriorischen im Lichte genenwärtiger Biologie, in Blätter für Deutsche Philosophie, 1941, 15, 94-125. Questa traduzione approssimativa in inglese è stata preparata da Charlotte Ghurie e curata da Donald T. Campbell con l’assistenza del Prof. Lorenz e William A. Reupke. Ghurie, Lorenz e Reupke non hanno avuto modo di esaminare la traduzione nella forma attuale. La traduzione appare ancora alquanto difforme: la semplicità dell’apparato lessicale è voluta al fine di evitare usi più sofisticati. Le dizione “cosa-in-sé” traduce le espressioni kantiane “Ding an sich”, “Au sich Seienden”, “An siche Bestehenden”, “An sich der Dinge”, “An sich existierenden Natur”, ecc. Questo è parso qui preferibile all’uso solito di lasciare la frase non tradotta, o di tradurla con il greco “noumena”. Al fine di conservare alcune distinzioni kantiane anche a costo di sortire effetti poco soddisfacenti, sono stati impiegati i seguenti equivalenti; Wahrnehmung = Percezione; Anschauung = Intuizione; Realität = il reale; Wirklichkeit = la realtà; Gegenstand = Oggetto; Ding = Cosa.

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per Kant, alogica (con qualche esagerazione). Per Kant, la cosa in sé è, in teoria, inconoscibile perché la forma della sua apparenza è determinata da forme puramente ideali e categorie intuitive, così che la sua apparenza non ha connessione con la sua essenza. Questo è il punto di vista dell’idealismo kantiano “trascendentale” o “critico”, rienunciato in versione ridotta. L’orientamento di Kant è stato molto liberamente trasformato da vari filosofi della natura; in particolare gli interrogativi sempre più urgenti della teoria dell’evoluzione hanno portato a concezioni dell’a priori che forse non sono tanto lontane da quelle dello stesso Kant, quanto lo sono da quelle dei filosofi kantiani legati agli esatti termini della definizione kantiana dei suoi concetti. Il biologo convinto della realtà dei grandi eventi creativi dell’evoluzione, pone a Kant queste domande: la ragione umana, con tutte le sue categorie e forme dell’intuizione, non è qualcosa che si è organicamente evoluto in una continua relazione di causa-effetto con le leggi della natura immediata, proprio come il cervello umano? Non sarebbero completamente diverse le leggi della ragione necessarie al pensiero a priori se avessero subito un modo storico di origine completamente diverso e se di conseguenza fossimo stati dotati di un tipo di sistema nervoso centrale completamente diverso? È in qualche modo probabile che le leggi del nostro apparato cognitivo siano dissociate da quelle del mondo reale esterno? Può un organo, che si sia evoluto nel processo di continua lotta con le leggi della natura, essere rimasto così poco influenzato che la teoria delle apparenze possa essere seguita indipendentemente dall’esistenza della cosa in sé, come se le due fossero completamente indipendenti l’una dall’altra? Nel rispondere a queste domande, il biologo assume un punto di vista nettamente limitato. L’esposizione di questo punto di vista è il tema di questo saggio. Non siamo soltanto interessati a speciali discussioni di spazio, tempo e causa. Questi ultimi sono, per il nostro studio, semplicemente esempi della teoria kantiana dell’a priori e sono casualmente offerti al nostro confronto delle opinioni sull’a priori assunte dall’idealismo trascendentale e dal biologo. È dovere dello scienziato naturalista cercare una spiegazione naturale, prima di accontentarsi di attingere da fattori estranei alla natura. Questo è un dovere importante per lo psicologo che deve far fronte al fatto che esiste qualcosa di simile alle forme di pensiero a priori di Kant. Chi è familiare con i modi innati di rea172

zione degli organismi subumani, può subito far l’ipotesi che l’a priori sia dovuto a differenziazioni ereditarie del sistema nervoso centrale divenuto caratteristico della specie producendo predisposizioni ereditarie a pensare in certe forme. Ci si deve render conto che il concepire l’a priori come un organo significa distruggere il concetto: qualcosa che si sia evoluto nell’adattamento evolutivo alle leggi del mondo naturale esterno ha sviluppato in un certo senso un a posteriori, anche se in un modo completamente diverso da quello dell’astrazione o deduzione da esperienza precedente. Le somiglianze funzionali che hanno portato molti ricercatori al punto di vista lamarkiano sull’origine dei modi di reazione ereditari da precedenti “esperienze della specie” sono oggi riconosciute completamente fuorvianti. Il carattere essenziale delle scienze naturali di oggi denota un tale abbandono dell’idealismo trascendentale che si è aperta una spaccatura tra lo scienziato e il filosofo kantiano. La spaccatura è causata dal fondamentale cambiamento dei concetti, della cosa in sé e del trascendente, cambiamento che risulta dalla ridefinizione del concetto dell’a priori. Se l’apparato di possibile esperienza “a priori”, con tutte le sue forme di intuizione e le sue categorie, non è qualcosa di immutabilmente determinato da fattori estranei alla natura, ma invece qualcosa che rispecchia le leggi naturali al cui contatto si è sviluppato, nella più stretta interazione reciproca, allora i confini del trascendentale cominciano a spostarsi. Molti aspetti della cosa in sé che sfuggono completamente alla sperimentazione per mezzo dei nostri attuali apparati di pensiero e percezione, possono trovarsi, geologicamente parlando, entro i confini dell’esperienza possibile in un prossimo futuro. Molti di quegli aspetti che sono oggi entro la sfera dell’immanente possono essere ancora stati al di là di questi confini nel recente passato del genere umano. È ovvio che il problema del grado fino a cui ciò che esiste in senso assoluto possa essere sperimentato da un particolare organismo non ha la ben che minima influenza sul problema fondamentale. Tuttavia, questa considerazione altera in parte la definizione che dobbiamo dare della cosa in sé dietro i fenomeni. Per Kant (che in tutte le sue speculazioni prese in considerazione soltanto l’uomo maturo civilizzato, rappresentante un sistema immutabile creato da Dio), non si presentò alcun ostacolo per definire la cosa in sé come fondamentalmente inconoscibile. Nel suo modo statico di vederla, poteva, in173

cludere il limite dell’esperienza possibile nella definizione della cosa in sé. Questo limite sarebbe lo stesso per l’uomo e l’ameba, infinitamente lontano dalla cosa in sé. Prendendo in considerazione il fatto indubitabile dell’evoluzione, questo non è più a lungo sostenibile. Anche se riconosciamo che ciò che esiste in senso assoluto non sarà mai completamente conoscibile (anche per i più alti esseri viventi immaginabili ci sarà un limite, posto dalla necessità di forme categoriche di pensiero), il confine che separa lo sperimentabile dal trascendentale dovrà variare per ogni tipo individuale di organismo. La posizione del confine dovrà essere ricercata separatamente per ogni tipo di organismo. Includere la posizione attuale puramente accidentale di questo confine per la specie umana nella definizione della cosa in sé, significherebbe un ingiustificabile antropomorfismo. Se, malgrado l’indubbia modificabilità evolutiva del nostro apparato di esperienza, si volesse egualmente continuare a definire la cosa in sé come la cosa inconoscibile per questo stesso apparato, la definizione di assoluto sarebbe perciò considerata relativa, il che è ovviamente un’assurdità. Piuttosto, ogni scienza naturale ha bisogno urgentemente di un concetto dell’assolutamente reale il meno antropomorfico e il più indipendente possibile dall’accidentale posizione attuale dei limiti dell’umanamente sperimentabile. L’assolutamente attuale non può in alcun modo essere un problema del grado in cui è riflesso nel cervello dell’essere umano o di ogni altra forma temporanea. D’altra parte, è scopo di una delle più importanti branche della scienza comparata ricercare il tipo di questa riflessione e scoprire il grado in cui si trova in forma di simboli sommariamente semplificati (che sono soltanto superficialmente analoghi) e fino a dove riproduce i dettagli, cioè fino a dove arriva la sua precisione. Con questa ricerca delle forme di conoscenza pre-umane speriamo di ottenere gli indizi sul tipo di funzionamento e sull’origine storica della nostra conoscenza e in questo modo spingere avanti la critica della conoscenza più in là di quanto non fosse possibile senza questi confronti. Io sostengo che quasi tutti gli studiosi di scienze naturali di oggi, almeno tutti i biologi, consciamente o inconsciamente ammettono nel loro lavoro quotidiano una vera relazione tra la cosa in sé e i fenomeni della nostra esperienza soggettiva, ma una relazione che non è affatto “puramente” ideale in senso kantiano. 174

Vorrei perfino affermare che lo stesso Kant ammise ciò in tutti i risultati delle sue ricerche empiriche. Secondo noi, la vera relazione tra la cosa in sé e la forma specifica a priori della sua apparenza, è stata determinata dal fatto che la forma dell’apparenza si è sviluppata come un adattamento alle leggi della cosa in sé, nel far fronte alle trattative con queste leggi continuamente presenti durante la storia evolutiva del genere umano che si è protratta centinaia di migliaia di anni. Questo adattamento ha fornito il nostro pensiero di una strutturazione innata che corrisponde in considerevole grado alla realtà del mondo esterno. “Adattamento” è già una parola carica di significato e facilmente male interpretata. Non dovrebbe, nelle attuali condizioni, significare più che le nostre forme di intuizione e categorie “si adattano” a ciò che realmente esiste così come il nostro piede si adatta al terreno e la pinna del pesce all’acqua. L’a priori che determina le forme dell’apparenza delle cose reali del nostro mondo è, in breve, un organo o, più precisamente, il funzionamento di un organo. Ci avviciniamo di più alla comprensione dell’a priori se lo confrontiamo con le domande poste a tutto ciò che è organico: “Per che cosa?”, “Da dove?”, “Perché?”. Queste domande sono, 1. “Come protegge la specie?”, 2. “Qual è la sua origine genealogica?”, 3. “Quali cause naturali lo rendono possibile?”. Siamo convinti che l’a priori si basi sui sistemi nervosi centrali che sono del tutto reali come le cose del mondo esterno di cui determinano per noi la forma fenomenica. Questo apparato nervoso centrale non ordina le leggi della natura più di quanto lo zoccolo del cavallo non prescriva la forma del terreno. Proprio come lo zoccolo del cavallo, questo apparato nervoso centrale incespica negli imprevisti cambiamenti del suo compito; ma proprio come lo zoccolo del cavallo si adatta al terreno della steppa a cui deve far fronte, così il nostro apparato nervoso centrale, per organizzare l’immagine del mondo, si adatta al mondo reale, a cui l’uomo deve far fronte. Proprio come ogni organo, questo apparato ha raggiunto la sua conveniente forma di conservazione della specie con questo far fronte del reale al reale durante la sua evoluzione genealogica, durante molti eoni. La nostra concezione delle origini dell’a priori (origine che in un certo senso è “a posteriori”), risponde molto convenientemente alla domanda di Kant se le forme percettive di spazio e di tempo che non deriviamo dall’esperienza (come Kant, molto giu175

stamente, sottolinea, in antitesi a Hume), ma che sono a priori nella nostra rappresentazione, “non siano delle pure cervellotiche chimere, alle quali non corrisponda affatto alcun oggetto, o almeno alcun oggetto adeguato”*. Se consideriamo il nostro intelletto come funzione di un organo (e non c’è argomento valido contro questo), la nostra ovvia risposta alla domanda perché la sua forma di funzionalità sia adattata al mondo reale, è semplicemente la seguente: le nostre categorie e forme di percezione, stabilite prima dell’esperienza individuale, sono adattate al mondo esterno esattamente per le stesse ragioni per cui lo zoccolo del cavallo è già adattato al terreno della steppa prima che il cavallo nasca e la pinna del pesce è adattata all’acqua prima che il pesce nasca. Nessuna persona ragionevole può credere che in alcuno di questi casi sia la forma dell’organo ad “imporre” le sue proprietà all’oggetto. È chiaro a tutti che l’acqua possiede le sue proprietà indipendentemente dal fatto che le pinne del pesce siano biologicamente adatte a queste proprietà o no. Molto chiaramente, alcune proprietà della cosa in sé, che è alla base del fenomeno “acqua”, hanno portato alla forma specifica di adattamento delle pinne che si sono sviluppate, indipendentemente l’una dall’altra, da pesci, rettili, uccelli, mammiferi, cefalopodi, lumache, gamberi, vermi, ecc. Sono state ovviamente le proprietà dell’acqua a prescrivere a questi diversi organismi la forma e la funzione corrispondente dei loro organi di locomozione. Ma quando considera la struttura e il funzionamento del suo cervello, il filosofo trascendentale suppone qualcosa di fondamentalmente diverso. Nel paragrafo 11 dei Prolegomena Kant dice: “Se ancora minimamente si dubitasse di ciò, che, cioè, entrambi questi (spazio e tempo) non sono affatto determinazioni inerenti alle cose in sé, ma soltanto al loro rapporto, con la sensibilità, domanderei come si può trovar possibile di sapere a priori – e quindi prima di ogni conoscenza delle cose, cioè prima che esse ci sian date – come debba esser costituita la loro intuizione; eppure questo è il caso qui, quanto a spazio e tempo”**. * Prolegomeni ad ogni futura metafisica, trad. it. a cura di P. Carabellese, Laterza, Bari 1967, parte I, Osservazione III, p. 82. ** Prolegomeni, trad. it. citata, p. 72.

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Questo problema rende chiari due fatti molto importanti: primo, dimostra che Kant, non più di Hume, pensava alla possibilità di un adattamento formale tra pensiero e realtà piuttosto che attraverso l’astrazione da precedenti esperienze. Secondo, dimostra che egli presumeva l’impossibilità di qualsiasi diversa forma di origine. Mostra inoltre la grande e fondamentalmente nuova scoperta di Kant, cioè che il pensiero e la percezione umana hanno certe strutture funzionali precedenti ad ogni esperienza individuale. Quasi certamente Hume sbagliava quando voleva far derivare tutto ciò che è a priori da ciò che i sensi forniscono all’esperienza; così come sbagliavano Wundt o Helmholtz che lo spiegavano semplicemente come un’astrazione da esperienze precedenti. L’adattamento dell’a priori al mondo reale non ha origine dall’esperienza, più di quanto non l’abbia l’adattamento delle pinne del pesce alle proprietà dell’acqua. Così come la forma della pinna è data a priori, precedentemente a qualunque necessità individuale del giovane pesce di far fronte all’acqua, e proprio com’è questa forma che rende possibile la lotta, così accade anche con le nostre forme di percezione e categorie concettuali nella loro relazione col nostro tener testa al mondo reale esterno per mezzo dell’esperienza. Per gli animali ci sono limitazioni specifiche alle forme di esperienza possibile. Noi crediamo di poter dimostrare la più stretta relazione funzionale e probabilmente genetica tra l’a priori di questi animali e il nostro a priori umano. Contrariamente a Hume, crediamo, come Kant, alla possibilità di una scienza “pura” delle forme innate di pensiero umano indipendenti da ogni esperienza. Questa scienza “pura”, tuttavia, riuscirebbe a trasmettere soltanto una comprensione molto unilaterale delle forme a priori del pensiero perché trascura la natura organica di queste strutture e non pone la domanda fondamentale biologica che concerne il loro significato di conservazione della specie. Schiettamente parlando, è come se qualcuno volesse scrivere una teoria: “pura” dalle caratteristiche di una moderna macchina fotografica, per esempio una Leica, senza prendere in considerazione che questo è un apparecchio per fotografare il mondo esterno e senza controllare le fotografie che la macchina produce, che ci permettono di capire la sua funzione e il significato essenziale della sua esistenza. Per quanto concerne le fotografie prodotte (proprio come le esperienze), la Leica è intera177

mente a priori. Esiste prima di e indipendentemente da ogni fotografia; in realtà determina la forma delle fotografie, non solo, ma le rende in primo luogo possibili. Ora affermo: separare la “Leicologia pura” dalla teoria delle fotografie che produce non ha alcun senso, come non ne ha separare la teoria dell’a priori dalla teoria del mondo esterno, o quella della fenomenologia dalla teoria della cosa-in-sé. Tutte le regole del nostro intelletto, che noi troviamo lì a priori, non sono anomalie della natura. Viviamo di esse! E possiamo intuire il loro significato essenziale soltanto se prendiamo in considerazione la loro funzione. Proprio come la Leica non avrebbe potuto aver origine senza l’attività della fotografia, realizzata molto prima che la Leica fosse costruita; proprio come la Leica, completata da tutti i suoi incredibilmente ben costruiti e “adeguati” dettagli costruttivi, non è caduta dal cielo; così non lo è nemmeno la nostra, infinitamente più meravigliosa, “ragion pura”. Anche questa è giunta alla sua relativa perfezione a partire dalla sua attività e dalle sue trattative con la cosa-in-sé. Anche se per l’idealista trascendentale la relazione tra la cosa in-sé e la sua apparenza è estranea alla natura e alogica, è del tutto reale per noi. È certo che non soltanto la cosa-in-sé “modifica” i nostri recettori, ma che anche, viceversa, i nostri effettori da parte loro “modificano” la realtà assoluta. La parola “realtà” deriva dal verbo “realizzare” (“Wirklichkeit” kommt von wirken!)*. Ciò che appare nel nostro mondo non è affatto soltanto la nostra esperienza influenzata unilateralmente dalle cose reali esterne mentre lavorano su di noi come attraverso le lenti delle possibilità ideali di esperienza. Ciò a cui noi assistiamo come esperienza è sempre la lotta del reale in noi col reale al di fuori di noi. Quindi, la relazione tra gli eventi dentro e fuori di noi non è alogica, e non proibisce fondamentalmente di trarre conclusioni sulle leggi del mondo esterno dalle leggi degli eventi interni. Piuttosto, questa relazione è quella che esiste tra immagine e oggetto, tra un modello semplificato e la cosa reale. È la relazione di un’analogia di maggiore o minore entità. Il grado di questa analogia è fondamentalmente aperto alla ricerca comparata. Cioè, è possibile fare delle affermazioni sul fatto che l’accordo tra apparenza e realtà sia più *

L’abbinamento verbo-sostantivo è più significativo, forse, in inglese (“actuality” – “to act”) e in tedesco (“Wirk-lichkeit” – “Wirken”) che non in italiano, dove il verbo “realizzare” mette in minore evidenza l’aspetto dell’“attività” soggettiva (n.d.t.).

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o meno esatto, nel confronto di un essere umano con un altro, o di un organismo vivente con un altro. Da queste premesse dipende anche il fatto lampante che ci sono giudizi più o meno corretti sul mondo esterno! La relazione tra il mondo fenomenico e la cosa-in-sé non è, così, fissata una volta per tutte da leggi ideali di forma che sono estranee alla natura e, in teoria, inaccessibili alla ricerca. Né i giudizi, resi sulla base di queste “necessità di pensiero”, hanno una validità indipendente e assoluta. Piuttosto, tutte le nostre forme di intuizione e le categorie concettuali sono del tutto naturali. Come ogni altro organo, sono ricettacoli, sviluppati per via evolutiva, per la ricezione e l’utilizzazione retroattiva di quelle conseguenze regolari della cosa-in-sé a cui dobbiamo far fronte se vogliamo restare vivi e conservare la nostra specie. La speciale forma di questi ricettacoli organici ha con le proprietà della cosa-in-sé una relazione formatasi interamente dalle connessioni naturali reali. I ricettacoli organici sono adattati a queste proprietà in un modo che ha una sufficienza pratica biologica, ma che non è affatto assoluto né così preciso da poter dire che la loro forma eguaglia quella della cosa-in-sé. Anche se noi, come studiosi di scienza naturale siamo in un certo senso semplici realisti, tuttavia non prendiamo l’apparenza per la cosa in sé, né la realtà sperimentata per ciò che esiste in modo assoluto! Quindi non ci sorprendiamo nel trovare le leggi della “ragion pura” impigliate nelle più serie contraddizioni non soltanto l’una con l’altra, ma anche con i fatti empirici ogni volta che la ricerca domanda una maggior precisione. Questo accade in modo particolare quando chimica e fisica entrano nella fase nucleare. Là, non soltanto la forma intuitiva della percezione di spazio si disgrega, ma anche le categorie di causalità, di sostanzialità e, in un certo senso, di quantità (anche se la quantità sembra avere la più incondizionata validità tranne per la forma intuitiva della percezione di tempo). “Necessaria al pensiero” non significa in alcun modo “assolutamente valida” in considerazione di questi fatti empirici, altamente essenziali nella fisica nucleare, nella meccanica dei quanti, e nella teoria ondulatoria. La consapevolezza che tutte le leggi della “ragion pura” sono basate su strutture altamente fisiche o meccaniche del sistema nervoso centrale umano, che si sono sviluppate come ogni altro organo attraverso molti millenni, da una parte scuote la nostra fiducia nelle leggi della ragion pura e dall’altra parte sostanzial179

mente l’aumenta. L’affermazione di Kant che le leggi della ragion pura hanno validità assoluta, non solo, ma che ogni essere razionale immaginabile, anche se fosse un angelo, deve obbedire alle stesse leggi di pensiero, sembra una presunzione antropocentrica. Sicuramente la “tastiera” fornita dalle forme di intuizione e dalle categorie concettuali – lo stesso Kant la chiama così – è qualcosa di definitivamente situato nel lato psicostrutturale dell’unità psicofisica dell’organismo umano. Le forme di intuizione e le categorie concettuali sono in relazione con la “libertà” della mente (se esiste tale cosa), come le strutture fisiche sono in genere in relazione con i possibili gradi di libertà della psiche, cioè entrambi col sostenere e trattenere allo stesso tempo. Ma sicuramente questi rudimentali scompartimenti di categorie in cui dobbiamo stipare il nostro mondo esterno “per riuscire a implicarli come esperienze” (Kant) non possono rivendicare alcuna validità autonoma e assoluta. Questo è certo per noi nel momento in cui li concepiamo come adattamenti evolutivi – e vorrei davvero conoscere quale argomento scientifico possa essere addotto contro questa concezione. Allo stesso tempo, tuttavia, la natura del loro adattamento mostra che le forme categoriche dell’intuizione e le categorie concettuali si sono dimostrate ipotesi funzionanti nella lotta della nostra specie con l’assoluta realtà dell’ambiente (malgrado la loro validità sia soltanto relativa e approssimativa). Si rende chiaro così il fatto paradossale che le leggi della “ragion pura” che vengono infrante ad ogni passo nella moderna scienza speculativa, hanno superato, nonostante ciò (e superano ancora) la prova nei problemi pratici biologici della lotta per la conservazione della specie. I punti prodotti dagli schemi grossolani usati nella riproduzione di fotografie nei nostri quotidiani sono rappresentazioni sufficienti se osservate superficialmente, ma non possono superare un esame ravvicinato con una lente d’ingrandimento. Così, anche le riproduzioni del mondo date dalle nostre forme di intuizione e dalle categorie concettuali si frantumano non appena si chiede loro di dare una rappresentazione più aderente dei loro oggetti, come nel caso della meccanica ondulatoria e della fisica nucleare. Tutta la conoscenza che un individuo può strappare dalla realtà empirica dell’“immagine fisica del mondo” è essenzialmente soltanto un’ipotesi di lavoro. E, fino a dove arriva la loro funzione di conservazione della specie, tutte quelle strutture 180

innate della mente che noi chiamiamo “a priori” sono allo stesso modo soltanto ipotesi di lavoro. Non c’è niente di assoluto, tranne ciò che si nasconde dentro e dietro il fenomeno. Niente di ciò che il nostro cervello può pensare ha una validità assoluta, a priori, nel vero senso della parola, neppure la matematica con tutte le sue leggi. Le leggi della matematica non sono che un organo per la misurazione delle cose esterne, e, di più, un organo estremamente importante per la vita dell’uomo senza il quale non potrebbe mai sostenere il suo ruolo di dominatore della terra, e che così si è ampiamente rivelato biologicamente come tutte le altre strutture “necessarie” di pensiero. Naturalmente, la matematica “pura” non è soltanto possibile; come teoria delle leggi interne di questo miracoloso organo di misurazione, è di una importanza che può difficilmente essere sopravvalutata. Ma questo non giustifica che la rendiamo assoluta. Il contare e i numeri matematici agiscono sulla realtà approssimativamente allo stesso modo di quanto non faccia una draga con le sue pale. Da un punto di vista statistico in un gran numero di casi singoli ogni pala scava più o meno la stessa quantità, ma in realtà, neppure due potranno mai avere esattamente lo stesso contenuto. L’equazione di matematica pura è una tautologia: io affermo che se la mia draga porta dentro un tale e un tal altro numero di pale, allora un tal e tal altro numero sono portati dentro. Due pale della mia macchina sono assolutamente eguali l’una all’altra, perché strettamente parlando è sempre la stessa pala, cioè la numero uno. Ma soltanto la frase vuota ha sempre questa validità. Due pale, riempite con l’una o l’altra cosa, non sono mai eguali l’una all’altra; il numero uno applicato ad un oggetto reale non troverà mai il suo eguale in tutto l’universo. È vero che due e due fanno quattro ma due mele, o arieti o atomi, più altri due non saranno mai eguali a quattro altri perché non esistono mele, arieti o atomi eguali. In questo senso arriviamo al paradosso che l’uguaglianza due più due eguale a quattro, nella sua applicazione alle unità reali, come le mele o gli atomi, ha un grado molto più piccolo di approssimazione alla realtà dell’eguaglianza: due milioni più due milioni è eguale a quattro milioni, perché le differenze individuali delle unità contate si livellano statisticamente nel caso di un grosso numero. Considerata come un’ipotesi di lavoro o un organo funzionale, la forma di pensiero della misurazione numerica è e rimane uno dei più miracolosi apparati che la natura ab181

bia creato; richiama l’ammirazione del biologo soprattutto per l’incredibile ampiezza della sua sfera applicativa, anche se questa non viene considerata di validità assoluta. Sarebbe del tutto concepibile immaginare un essere razionale che non misura per mezzo del numero matematico (che non usa 1, 2, 3, 4, 5, il numero di individui approssimativamente eguali fra loro come arieti, atomi o pietre miliari per segnare la quantità disponibile), ma li coglie immediatamente in qualche altro modo. Invece di misurare l’acqua dal numero dei vasi da litro riempiti, si potrebbe per esempio concludere, dalla tensione di un pallone di gomma di una certa misura, quanta acqua contenga. Può benissimo essere una coincidenza, in altre parole causata da motivi puramente storici, se il nostro cervello riesce a misurare quantità estensive più prontamente di quelle intensive. Non è affatto una necessità di pensiero e sarebbe del tutto concepibile che la capacità di misurare intensivamente, secondo il metodo indicato dall’esempio di misura della tensione nel pallone di gomma, potesse essere sviluppato al punto in cui diventerebbe di pari valore e rimpiazzerebbe la matematica numerica. In realtà, la capacità di calcolare le quantità immediatamente, presente nell’uomo e in un certo numero di animali, è probabilmente dovuta ad un tale processo intensivo di misurazione. Una mente che misurasse in un modo puramente intensivo eseguirebbe alcune operazioni più semplicemente e rapidamente della nostra matematica del tipo “pala-dragante”. Per esempio, potrebbe calcolare immediatamente le curve, cosa possibile nella nostra matematica estensiva solo per mezzo della deviazione del calcolo integrale e differenziale, deviazione che ci fa superare le limitazioni dei passaggi numerici, ma si attacca ancora ad essi concettualmente. Un intelletto che misurasse puramente per intensità non riuscirebbe ad afferrare che due per due è eguale a quattro. Poiché non comprenderebbe il numero uno, il nostro spazio numerico vuoto non comprenderebbe nemmeno il nostro postulato dell’eguaglianza di due di questi spazi, e alla nostra costruzione di un’eguaglianza risponderebbe che non è corretta perché non esistono spazi, arieti o atomi eguali. E per quel che riguarda il sistema, sarebbe perfettamente corretto nella sua affermazione così come lo saremmo nella nostra. Certamente un sistema di misurazione intensiva eseguirebbe molte operazioni meno esattamente, cioè in un modo più complicato, di quanto non faccia la matema182

tica numerica. Il fatto che quest’ultima si sia sviluppata tanto, più in là della capacità di valutazione quantitativa intensiva, dimostra che è la più “pratica”. Ma anche così, è e rimane soltanto un organo, una “ipotesi di lavoro innata” acquisita per via evolutiva, che fondamentalmente è in modo soltanto approssimato adattata ai dati della cosa-insé. Se un biologo cerca di afferrare la relazione tra la struttura ereditaria e la plasticità ordinata di tutto ciò che è organico, arriva ad una legge universale che sostiene le strutture sia fisiche che intellettuali ed è altrettanto valida per il protoplasma malleabile e gli elementi scheletrici di un protozoo che per le forme categoriche di pensiero e la creativa plasticità della mente umana. Dai suoi più semplici inizi nei domini dei protozoi, la struttura solida è una condizione per ogni evoluzione più alta come la plasticità organica. In questo senso, la struttura solida è una proprietà indispensabile e logica della materia vivente, così come la sua scioltezza plastica. Tuttavia, qualsiasi struttura solida, benché indispensabile come supporto del sistema organico, porta con sé un indesiderato effetto collaterale: porta alla rigidità e toglie un certo grado di libertà al sistema. Ogni dipendenza da una struttura meccanica significa, in un certo senso, un legame. Von Uexküll ha giustamente affermato: “L’ameba è meno simile a una macchina del cavallo”, pensando soprattutto alle proprietà fisiche. Nietzsche ha poeticamente espresso la stessa relazione tra struttura e plasticità nel pensiero umano: “Un pensiero – in questo momento ancora calda, liquida lava; ma tutta la lava costruisce attorno a sé un castello. Ogni pensiero alla fine si frantuma con le leggi”. Questa similitudine della struttura che si cristallizza dallo stato liquido va molto più a fondo di quanto pensasse Nietzsche: non è del tutto impossibile che tutto ciò che diventa solido, sia nello psico-intellettuale che nello psico-fisico, sia costretto ad essere una transizione dallo stato liquido allo stato solido di certe parti di plasma. Ma la similitudine di Nietzsche e l’affermazione di Uexküll trascurano qualche cosa. Il cavallo è un animale superiore rispetto all’ameba, non malgrado, ma, in gran misura, a causa della sua maggior dotazione di strutture solide differenziate. Gli organismi col minor numero possibile di strutture devono restare amebe, che lo vogliano o no, perché senza strutture solide ogni più alta 183

organizzazione è inconcepibile. Potremmo simbolizzare gli organismi con un massimo di strutture fisse altamente differenziate, come le aragoste, creature rigidamente corazzate che possono muoversi soltanto in determinate giunture con gradi di libertà assegnati con precisione, o come carri ferroviari che possono muoversi soltanto lungo un binario prescritto avendo pochissimi punti di scambio. Per ciascun essere vivente, aumentare la differenziazione mentale o fisica è sempre un compromesso tra questi due estremi, nessuno dei quali rappresenta la più alta realizzazione delle possibilità della creazione organica. Sempre e dovunque la differenziazione verso un più alto livello di struttura meccanica ha la pericolosa tendenza ad ostacolare la mente di cui appena un attimo prima era il servitore, e di impedire la sua ulteriore evoluzione. Il duro exoscheletro degli artropodi è una tale ostruzione nella evoluzione, così come sono anche i movimenti istintivi fissati di molti organismi più alti e l’apparato industriale dell’uomo. In realtà, ogni sistema di pensiero che si affida ad un “assoluto” non plastico, ha questo stesso effetto ostacolante. Nel momento in cui tale sistema è finito, quando ha discepoli che credono nella sua perfezione, è già “falso”. Soltanto nello stato del divenire, il filosofo è un essere umano nel senso più proprio della parola. Ricordo ora la bellissima definizione di uomo che dobbiamo al pragmatista e che probabilmente è offerta nella sua formulazione più chiara nel libro di Gehlen Der Mensch. L’uomo è definito come l’essere permanentemente incompiuto, permanentemente non adattato e povero nella struttura, ma continuamente aperto al mondo e continuamente nello stato di divenire. Quando il pensatore, sia pure il più grande, ha portato a compimento il suo sistema, in fondo ha assunto qualcosa delle proprietà dell’aragosta o del carro ferroviario. Per quanto ingegnosamente i suoi discepoli possano manipolare i gradi prescritti e permessi di libertà della sua armatura da aragosta, il suo sistema sarà una benedizione per il progresso del pensiero e della conoscenza umani soltanto quando troverà dei seguaci che lo faranno a pezzi e usando nuovi gradi di libertà, non costruiti dall’interno, risistemeranno i pezzi in una nuova costruzione. Se, tuttavia, un sistema filosofico è così ben congegnato che per lungo tempo non compare nessuno che abbia la forza e il coraggio di spezzarlo, 184

può bloccare il progresso per secoli. “Là c’è la pietra, e bisogna lasciarla e ognuno avanza a fatica sulla sua gruccia di fede verso la pietra del diavolo, verso il ponte del diavolo” (Goethe, Faust). E proprio come un sistema filosofico creato dall’essere umano individuale rende schiavo il suo creatore, così fanno anche le forme sopra-individuali, sviluppate per legge evolutiva, del pensiero dell’“a priori”: anch’esse sono ritenute assolute! La macchina, il cui significato di conservazione della specie era originariamente nella misurazione delle cose reali esterne, la macchina che era stata creata per “contare”, improvvisamente pretende di essere assoluta e ronza, in ammirabile assenza di frizione e contraddizione interna, ma soltanto fino a quando funziona a vuoto, contando le sue pale; se si lascia che una scavatrice, un motore, una sega a nastro, una teoria o una funzione di pensiero a priori, corrano a vuoto in questo modo, allora le loro funzioni procedono immediatamente senza apprezzabile attrito, calore o rumore; perché le parti di questo sistema, naturalmente, non si contraddicono l’un l’altra e quindi si adattano intelligibilmente e in modo ben sintonizzato. Quando sono vuoti, sono realmente “assoluti” ma assolutamente vuoti. Soltanto quando ci si aspetta che il sistema lavori, cioè che conquisti qualcosa in relazione al mondo esterno, cosa in cui davvero consiste il significato reale e di conservazione della specie di tutta la sua esistenza, allora la cosa comincia a gemere e scricchiolare. Quando le pale della draga scavano nel suolo, i denti della sega a nastro scavano nel legno o i presupposti di una teoria scavano nel materiale dei fatti empirici che devono essere classificati, allora nascono i non desiderabili rumori laterali che provengono dall’inevitabile imperfezione di ogni sistema sviluppato naturalmente: e per lo studioso di scienze naturali non esiste alcun altro sistema. Questi rumori sono proprio ciò che rappresenta la lotta del sistema col mondo reale esterno. In questo senso, sono la porta attraverso cui la cosa-in-sé sbircia nel nostro mondo fenomenico, la porta attraverso cui continua a procedere la strada verso un’ulteriore conoscenza. La “realtà” sono quelli e non il vuoto ronzio senza resistenza dell’apparato. Essi sono, in realtà, ciò che dobbiamo porre sotto la lente d’ingrandimento se vogliamo arrivare a conoscere le imperfezioni del nostro apparato di pensiero ed esperienza e se vogliamo raggiungere la conoscenza al di là di queste imperfezioni. I rumori collaterali devono essere 185

studiati metodicamente se la macchina deve essere migliorata. I fondamenti della ragion pura sono altrettanto imperfetti e vicini a terra della sega a nastro, ma altrettanto reali. La nostra ipotesi di lavoro dovrebbe diventare: ogni cosa è un’ipotesi operante. Questo è vero non soltanto per le leggi naturali che otteniamo attraverso l’astrazione individuale a posteriori dai fatti della nostra esperienza, ma anche per le leggi della ragion pura. La facoltà di capire non costituisce in se stessa una spiegazione del fenomeno; il fatto che proietta il fenomeno per noi in una forma praticamente usabile sullo schermo della nostra sperimentazione è dovuto alla sua formulazione di ipotesi operanti; sviluppate nell’evoluzione e collaudate attraverso milioni di anni! Santayana dice: “La fede nell’intelletto è l’unica fede che abbia giustificato se stessa con i frutti che ha generato. Ma chi si aggrappa per sempre ad una forma di fede è un Don Chisciotte che fa tintinnare un’armatura fuori moda. Io sono un materialista deciso in merito alla filosofia naturale, ma non pretendo di conoscere che cosa sia la materia. Aspetto che me lo dicano gli uomini di scienza”. Il nostro punto di vista che tutto il pensiero umano sia soltanto un’ipotesi di lavoro non deve essere interpretato come un abbassamento del valore della conoscenza che il genere umano si è assicurata. È vero che questa conoscenza è per noi solo una ipotesi di lavoro, è vero che siamo pronti in ogni momento a gettar via le nostre teorie preferite quando nuovi fatti lo domandino. Ma anche se niente è “assolutamente vero”, ogni nuovo pezzo di informazione, ogni nuova verità è, nonostante tutto, un passo avanti in una direzione ben precisa e determinabile: ciò che esiste assolutamente è appreso da un aspetto nuovo, fino a questo momento sconosciuto; è ricoperto da una nuova caratteristica. Per noi è vera quell’ipotesi di lavoro che apre la via verso il passo successivo nella conoscenza o che almeno non ostruisce quella via. La scienza umana deve agire come un’incastellatura per raggiungere la maggior altezza possibile, senza che la sua dimensione assoluta sia prevedibile all’inizio della costruzione. Nel momento in cui tale costruzione è affidata ad un pilastro portante fisso, quest’ultimo si adatta soltanto ad una costruzione di una certa forma e misura; una volta che queste siano raggiunte mentre la costruzione deve continuare, il pilastro portante deve essere demolito e ricostruito, processo che può diventare più pericoloso per l’intera costruzione, più profondamente sia inseri186

to nelle sue fondazioni ciò che deve essere ricostruito. Poiché proprietà costitutiva di tutta la vera scienza è che la sua struttura debba continuare a crescere nell’illimitato, tutto ciò che è meccanicamente sistematico, tutto ciò che corrisponde a strutture solide e incastellature deve essere sempre provvisorio, trasformabile in ogni momento. La tendenza ad assicurarsi la propria costruzione per il futuro dichiarandola assoluta, porta all’opposto del successo cercato: proprio quella “verità” in cui si crede dogmaticamente, prima o poi porta ad una rivoluzione in cui la verità vera, il contenuto e il valore della vecchia teoria, sono anche troppo facilmente distrutti e dimenticati assieme alle antiquate ostruzioni al progresso. Le gravi perdite culturali che possono accompagnare le rivoluzioni sono incidenti particolari di questo fenomeno. Il carattere di tutte le verità come ipotesi di lavoro deve sempre essere tenuto a mente, per evitare il bisogno di demolire le strutture esistenti e per conservare per le verità “dimostrate” quell’eterno valore che potenzialmente meritano. La nostra concezione che le forme di pensiero e le intuizioni a priori debbano essere intese proprio come ogni altro adattamento organico porta con sé il fatto che esse sono per noi “ipotesi di lavoro ereditate”, per così dire, il cui contenuto di verità è in relazione all’assolutamente esistente allo stesso modo delle ipotesi di lavoro normali che si sono dimostrate altrettanto splendidamente adatte a far fronte al mondo esterno. Questa concezione, è vero, distrugge la nostra fede nell’assoluta verità di qualunque tesi a priori necessaria al pensiero. D’altra parte ci dà la convinzione che qualcosa di reale “corrisponde adeguatamente” ad ogni fenomeno del nostro mondo. Anche il più piccolo dettaglio del mondo fenomenico “ rispecchiato” per noi dall’ipotesi di lavoro innata delle nostre forme di intuizione e pensiero è in realtà preformato al fenomeno che riproduce, avendo una relazione che corrisponde a quella esistente tra le strutture organiche e il mondo esterno in generale (per esempio l’analogia della pinna del pesce e dello zoccolo del cavallo). È vero che l’a priori è soltanto uno spazio la cui forma si adatta senza pretese a quella della realtà da rappresentare. Questo spazio, tuttavia, è accessibile alla nostra ricerca anche se non possiamo comprendere la cosa-in-sé se non per mezzo dello spazio. Ma l’accesso alle leggi dello spazio, cioè dello strumento rende la cosa-in-sé relativamente comprensibile. 187

Ciò che ora abbiamo intenzione di fare, con paziente lavoro empirico di ricerca, è uno studio dell’“a priori”, delle ipotesi di lavoro “innate” presenti negli organismi subumani. Questo comprende specie che raggiungono una corrispondenza con le proprietà della cosa-in-sé meno dettagliata di quella dell’uomo. Con tutta la loro incredibile accuratezza di mira, gli schematismi innati degli animali sono ancora molto più semplici di quelli dell’uomo, così che i confini delle loro realizzazioni cadono ancora entro il dominio misurabile del nostro apparato recettivo. Prendiamo come analogia il settore che può essere analizzato con le lenti di un microscopio: la finezza della più piccola struttura dell’oggetto ancora visibile con esso, dipende dalla relazione tra l’angolo di apertura e la lunghezza focale, la cosiddetta “apertura numerica”. Il primo spettro di diffrazione proiettato dal reticolo strutturale deve ancora cadere nella lente frontale perché il reticolo sia visto come tale. Se non è così, non si vede la struttura; l’oggetto appare con una superficie liscia e, abbastanza stranamente, marrone. Supponiamo ora che io abbia solo un microscopio; direi allora che le strutture sono “concepibili” solo fino a quella finezza, più fini non esistono. Per di più, pur dovendo ammettere che esistono oggetti marroni, non avrei alcun motivo di presumere che questo colore abbia la più lontana relazione con le strutture visibili! Tuttavia, anche se uno conoscesse lenti meno fortemente risolventi che registrano il marrone per strutture ancora visibili come strutture con i nostri strumenti, si sarebbe allora molto scettici verso la registrazione marrone dei nostri strumenti (a meno che non si fosse diventati megalomani e si dichiarassero assoluti i propri apparati ricettivi soltanto perché sono di nostra proprietà). Se si è più modesti, tuttavia, si trarranno le giuste conclusioni dal confronto tra i limiti di realizzazione e il fatto che i vari strumenti registrano il marrone. La conclusione è che anche le lenti più potenti hanno dei limiti per quel che riguarda la finezza della struttura analizzata, proprio come accade agli apparati più semplici. In un modo metodicamente simile si può imparare molto dalle limitazioni funzionali che hanno tutti i vari apparati per l’organizzazione dell’immagine dell’universo. La lezione così appresa fornisce un’importante prospettiva critica per giudicare i limiti della realizzazione dei più alti apparati esistenti, che oggi non possono essere sottoposti a ricerca dalla torre di osservazione di uno ancora più alto. 188

Guardandolo da un punto di vista psicologico, è evidente che il nostro apparato neurale per organizzare l’immagine del mondo è fondamentalmente come uno schermo da fotocopie che non può riprodurre punti della cosa-in-sé più fini di quelli corrispondenti agli elementi numericamente finiti dello schermo. Proprio come la grana della negativa fotografica non permette ingrandimenti illimitati, ci sono così anche limitazioni nell’immagine dell’universo tracciata dai nostri organi di senso e dall’apparato cognitivo. Neppure questi permettono “ingrandimenti” illimitati, né illimitate esposizioni di dettagli, per quanto chiara e reale possa apparire l’immagine ad una ispezione superficiale. Dove l’immagine fisica dell’universo formata dall’uomo è avanzata a livello atomico, lì emergono imprecisioni nella coordinazione tra le “necessità del pensiero” a priori e la realtà empirica. È come se la “misura di tutte le cose” fosse semplicemente troppo grossolana e troppo approssimativa per queste sfere più sottili di misura e coincidesse soltanto in generale e a livello statistico-probabilistico con ciò che può essere compreso della cosa in sé. Questo è sempre più vero per la fisica atomica le cui idee del tutto impalpabili non possono più essere sperimentate direttamente. Perché noi possiamo soltanto “compitare sotto forma di esperienza” in modo direttamente sperimentabile (per applicare l’espressione di Kant a questo fatto fisiologico) ciò che può essere scritto sulla “tastiera” sommariamente semplificante del nostro sistema nervoso centrale. Ma in organismi diversi, questa tastiera può essere differenziata in modo più semplice o più complesso. Per rappresentarlo con l’analogia dello schermo da fotocopie, il quadro migliore che può essere riprodotto da un apparato di un dato grado di finezza, corrisponde a quelle rappresentazioni che si trovano nei ricami a punto croce, che creano animali e fiori a contorni arrotondati da piccoli elementi rettangolari. La proprietà di “essere composto di quadrati” non appartiene affatto alla cosa-in-sé rappresentata, ma è dovuta ad una peculiarità dell’apparato figurativo, peculiarità che può essere considerata come una limitazione tecnicamente inevitabile. Simili limitazioni accompagnano ogni “apparato dell’immagine del mondo”, se non altro per il suo essere composto di elementi cellulari (come nel caso della visione). Ora se si esamina metodicamente ciò che la rappresentazione a punto croce permette di affermare sulla forma della cosa-in-sé la conclusione è che l’accuratezza dell’affermazione dipende 189

dalla relazione tra la natura del quadro e la grana dello schermo. Se un quadrato non è in linea col contorno diritto del ricamo, si sa che dietro ad esso sta una proiezione reale della cosa rappresentata, ma non si sa se questa riempia esattamente tutto il quadrato dello schermo o soltanto la più piccola parte di esso. Questo problema può essere risolto soltanto con l’aiuto dello schermo successivo più sottile. Ma dietro ad ogni dettaglio che anche lo schermo più rudimentale riproduce, sta certamente qualcosa di reale, semplicemente perché se non fosse così, l’unità di schermo corrispondente non sarebbe stata registrata. Ma non abbiamo nessuno strumento a disposizione per determinare ciò che sta dietro la registrazione della più fine unità di schermo esistente, se molto o poco del contorno di ciò che deve essere riprodotto sporge entro il suo dominio. L’indiscernibilità fondamentale dell’ultimo dettaglio della cosa-in-sé rimane. Siamo soltanto convinti che tutti i dettagli riprodotti dal nostro apparato corrispondono ad attributi reali della cosa-in-sé. Se si diventa sempre più fermamente convinti di questa correlazione del tutto reale e legittima tra il Reale e l’Apparente più ci si occupa del confronto di apparati per l’organizzazione dell’immagine del mondo di animali i più diversi possibile l’uno dall’altro. La continuità della cosa-in-sé, che emerge molto convincentemente da questi confronti, è del tutto incompatibile con la supposizione di una relazione alogica, estrinsecamente determinata tra la cosa in sé e le sue apparenze. Questa ricerca comparata ci porta più vicini al mondo reale che sta dietro ai fenomeni, purché riusciamo a dimostrare che le diverse formazioni a priori della possibile reazione (e quindi della possibile esperienza) delle specie diverse, rende sperimentabile la stessa legittimità delle cose realmente esistenti e porta al suo controllo per preservare le specie. Questi diversi adattamenti ad una sola e identica legge rinforzano la nostra fede nella sua realtà, così come la fede di un giudice nella realtà di un evento è rafforzata da molti testimoni mutuamente indipendenti che ne forniscono descrizioni generalmente in accordo, ancorché non identiche. Organismi ad un livello mentale molto più basso dell’uomo, lottano in modo del tutto evidente con gli stessi dati che sono resi sperimentabili nel nostro mondo dalle forme di percezione di spazio e tempo e dalla categoria concettuale della, causalità; ma lo fanno per mezzo di realizzazioni del tutto diverse e molto più 190

semplici, accessibili all’analisi scientifica. Anche se le forme umane a priori della percezione e del pensiero restano per ora inaccessibili all’analisi causale, noi come studiosi di scienze naturali dobbiamo tuttavia desistere dallo spiegare l’esistenza dell’a priori (o, in generale, della ragion pura) con un principio estraneo alla natura. Dobbiamo invece considerare ogni tentativo di spiegazione di questo tipo come una divisione del tutto arbitraria e dogmatica tra il razionale comprensibile e l’inconoscibile, divisione che ha recato tanti danni nell’arrestare la ricerca quanti ne hanno recati le proibizioni dei vitalisti. Il metodo da usarsi può essere spiegato, per analogia col microscopio, come la scienza degli apparati. Fondamentalmente, possiamo comprendere soltanto i più bassi precursori delle nostre forme di percezione e pensiero. Soltanto quando le leggi rappresentate attraverso questi organi primitivi possono essere identificate con quelle rappresentate sul nostro proprio apparato, possiamo chiarire le proprietà dell’a priori umano usando il più primitivo come punto di partenza. In questo modo possiamo trarre le conclusioni sulla continuità del mondo che sta dietro ai fenomeni. Tale iniziativa ha un buon successo a confronto con la teoria delle forme a priori di percezione dello spazio e della categoria concettuale di causalità. Un gran numero di animali non capisce la strutturazione “spaziale” del mondo allo stesso nostro modo. Possiamo, tuttavia, avere un’idea approssimativa di ciò che rappresenta lo “spaziale” nell’immagine del mondo di tali organismi, perché oltre alla nostra percezione spaziale abbiamo anche la capacità di superare i problemi spaziali a loro modo. La maggior parte dei rettili, uccelli e mammiferi inferiori non superano i problemi di spazio come facciamo noi attraverso una simultanea, chiara indagine sui dati. I problemi spaziali sono invece appresi a memoria. Per esempio, un toporagno d’acqua posto in un ambiente nuovo, impara gradualmente a memoria tutte le possibili vie, strisciando lentamente in giro, guidandosi costantemente col fiuto e con la sensibilità tattile dei baffi, allo stesso modo forse in cui un bambino impara a memoria brani da pianoforte. Nella laboriosa frammentaria sequenza dei movimenti dell’arto, diventano dapprima “movimenti conosciuti” brevi periodi, seguiti da un più armonico collegamento di queste parti. E questi movimenti, appianandosi ed equilibrandosi col divenire cinesteticamente abituali, si estendono sempre di più e alla fine scorrono assieme 191

in un tutto inseparabile che scorrendo velocemente e armonicamente non ha più alcuna somiglianza con gli originali movimenti di ricerca. Queste sequenze di movimento acquisite così faticosamente e fatte scorrere così straordinariamente veloci e armoniche, non prendono la “via più breve”. Al contrario, è il caso a determinare quale schema, spaziale assuma tale via di apprendimento. Accade anche che il sentiero tortuoso si intersechi, senza che l’animale si accorga necessariamente che la fine del sentiero può essere ravvicinata eliminando il pezzo superfluo*. * I topi ed altri mammiferi, a un livello mentale più alto del toporagno d’acqua, notano immediatamente tali possibilità di scorciatoia. Sperimentai un caso altamente interessante con un’oca selvatica in cui fu senza dubbio notata la possibilità di una scorciatoia nell’apprendimento, di una via ma non fu usata. Quand’era un paperino, l’uccello aveva acquisito l’apprendimento di una via che portava attraverso la porta della nostra casa, su per le rampe di una grande scala, fino alla mia stanza, dove l’oca era solita passare la notte. Alla mattina, di solito usciva volando dalla finestra. Imparando la via, la giovane oca selvatica corse prima di tutto verso una grande finestra, sulla scala ancora sconosciuta, dopo il gradino più basso. Molti uccelli, se inquieti, si sforzano di raggiungere la luce, e così anche quest’oca, decise di lasciare la finestra e di venire sul pianerottolo, dove avevo voluto portarla, soltanto dopo essersi quietata un po’. Questa deviazione verso la finestra rimase una volta per tutte, parte indispensabile dell’apprendimento della via per cui l’oca selvatica doveva passare per andare a dormire. Questa difficile deviazione verso la finestra e ritorno, dava un’impressione molto meccanica, quasi come una cerimonia svolta abitualmente, perché la sua motivazione originaria (ansietà e quindi allontanamento dal buio) non sussisteva più. Nel corso dell’apprendimento della via da parte di quest’oca, che richiese quasi due anni, la deviazione gradualmente diminuì, cioè la linea originale che andava quasi fino alla finestra per poi tornare indietro, si ridusse ad un angolo acuto con cui l’oca deviava il suo corso verso la finestra e saliva sul gradino più basso all’estremità rivolta verso la finestra. Questa diminuzione del superfluo avrebbe probabilmente portato alla via realmente più breve in altri due anni e non aveva niente a che vedere con l’intuito. Ma un’oca è, per essere esatti, fondamentalmente capace di trovare una tale semplice soluzione per intuito, benché l’abitudine prevalga sull’intuito o l’impedisca. Una sera accadde questo: avevo dimenticato di lasciar entrare l’oca in casa e quando finalmente me ne ricordai, stava impazientemente in attesa sulla soglia; passò di corsa davanti a me e, con mia gran sorpresa, per la prima volta prese la via più breve su per le scale, Ma quand’era già al terzo gradino si fermò, allungò il collo, lanciò il grido di avvertimento, si girò, ridiscese i tre gradini, fece in fretta e “formalmente” la deviazione fino alla finestra e poi salì tranquillamente le scale al solito modo. Qui ovviamente, la possibilità di una soluzione per intuito fu bloccata soltanto dall’esistenza di quella appresa per addestramento!

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Per un animale, come il toporagno d’acqua, che domina il suo spazio vitale quasi esclusivamente per apprendimento delle vie, non è assolutamente valida la tesi secondo cui la via retta è la congiunzione più breve tra due punti. Se volesse dirigersi secondo una linea retta (cosa che essenzialmente rientra nelle sue possibilità), dovrebbe costantemente avvicinarsi alla meta annusando, tastando con i baffi e usando gli occhi che non sono molto efficienti. In questo procedimento, spenderebbe più tempo ed energia che seguendo la via che conosce a memoria. Se due punti che lungo questa via giacciono molto lontani, sono invece vicini nello spazio, l’animale non lo sa. Anche un essere umano può comportarsi così, per esempio in una città straniera. È vero tuttavia che, in queste circostanze, noi esseri umani riusciamo prima o dopo ad avere un rilievo spaziale che ci apre la possibilità di una scorciatoia in linea retta. Anche il topo di chiavica, che è ad un livello mentale molto più alto del toporagno, trova similmente presto scorciatoie. Anche l’oca selvatica potrebbe, come abbiamo visto, raggiungere lo stesso obiettivo, ma non lo fa per motivi, per così dire, religiosi. Glielo impedisce quella particolare inibizione che lega così tanto i popoli primitivi alle usanze. Il significato biologico di questo rigido aggrapparsi alla “tradizione” è facilmente comprensibile: è sempre consigliabile per un organismo che non ha a sua disposizione una valutazione di spazio-tempo-causa su una determinata situazione di persistere rigidamente in quel comportamento che si è dimostrato di successo e libero da pericolo. Il cosiddetto pensiero magico, che non è affatto presente soltanto nei popoli primitivi, è strettamente in relazione a questo fenomeno. Si deve soltanto pensare al ben noto “tocca ferro!”. Il motivo per cui “dopotutto, non si può mai dire che cosa succederà se ci si dimentica di farlo” è molto chiaro. Per l’animale veramente cinestetico, come il toporagno d’acqua, è letteralmente impossibile trovare una scorciatoia, per quanto concerne il suo modo di pensare. Forse ne impara una se forzato da circostanze esterne, ma ancora soltanto imparando a memoria questa volta un sentiero nuovo. Altrimenti, per il toporagno di acqua c’è un muro impenetrabile tra due anelli del suo sentiero, anche se in realtà quasi si toccano. Quante nuove possibilità di soluzione di questo tipo, in teoria egualmente semplici, noi esseri umani probabilmente tralasciamo, con eguale cecità nella battaglia con i nostri problemi quotidiani! Questo pensiero 193

si impone con forza irresistibile a chiunque, nelle sue dirette associazioni quotidiane con gli animali, sia arrivato a conoscere le loro molte caratteristiche umane e allo stesso tempo i limiti fissi delle loro realizzazioni. Niente può essere più adatto a far sì che lo scienziato dubiti del suo carattere quasi-divino e ad inculcare in lui una benefica modestia. Da un punto di vista psicologico, il controllo dello spazio da parte del toporagno d’acqua è una sequenza di riflessi condizionati e di movimenti cinesteticamente radicati. Reagisce ai punti direzionali conosciuti del suo percorso con riflessi condizionati, che sono meno una guida che un controllo per accertarsi di essere ancora sul giusto percorso, perché il movimento cinestetico conosciuto a memoria è così preciso ed esatto che il processo ha luogo quasi senza guida ottica o tattile, come nel caso di un buon suonatore di pianoforte che non ha quasi bisogno di guardare lo spartito o le chiavi. Questa formazione sequenziale di riflessi condizionati e movimenti conosciuti non è affatto soltanto una formazione spaziate, ma spazio-temporale. Può essere prodotta soltanto in una direzione; il fare il percorso in senso inverso, richiede un addestramento del tutto diverso, correre all’inverso lungo il percorso imparato a memoria è impossibile come recitare l’alfabeto in una sequenza sbagliata. Se si interrompe l’animale mentre corre lungo il percorso di addestramento, portando via un ostacolo che doveva essere saltato, questo si disorienta e cerca di ricongiungere la catena dei collegamenti abituali in un punto precedente. Quindi torna indietro e cerca finché ritrova l’orientamento nei segni del suo percorso e riprova. Proprio come una bambina che venga interrotta mentre recita una poesia. Una relazione molto simile a quella che abbiamo scoperto tra la tendenza all’apprendimento di percorsi a memoria e la forma umana di percezione dello spazio, esiste tra la tendenza allo sviluppo di riflessi condizionati (associazioni) e la categoria concettuale umana della causalità. L’organismo apprende che un certo stimolo, per esempio l’apparire del guardiano, precede sempre un evento biologicamente importante, per esempio il pasto; “associa” questi due eventi e considera il primo come il segnale del verificarsi del secondo cominciando reazioni preparatorie all’inizio del primo stimolo (per esempio il riflesso della salivazione studiato da Pavlov). Questa connessione di un’esperienza con il 194

post hoc che regolarmente le fa seguito, non è affatto correlata ad un pensiero causale. Bisogna ricordare che, per esempio, l’urinare, processo del tutto inconscio, può essere portato a riflesso condizionato. Il motivo per cui il post hoc era ancora equiparato e confuso con il propter hoc è che la tendenza all’associazione e al pensiero causale raggiunge in realtà la stessa cosa biologicamente; sono, per così dire, organi che trattano lo stesso dato reale. Questo dato è senza alcun dubbio la legge naturale contenuta nella prima importante tesi della fisica. Un “riflesso condizionato” nasce quando un certo stimolo esterno, privo di significato per l’organismo come tale, è seguito molte volte da un altro, biologicamente significativo, cioè uno stimolo che libera una reazione. D’ora in poi l’animale si comporta “come se” il primo stimolo fosse un sicuro segnale che precede l’evento biologicamente significativo che si aspetta. Questo comportamento, ovviamente, ha un significato di conservazione della specie soltanto se nella struttura del reale esiste una connessione tra il primo stimolo “condizionato” e il secondo “non condizionato”. Una sequenza temporale, conforme a leggi, di eventi diversi si verifica regolarmente in natura soltanto dove una certa quantità di energia appare sequenzialmente in diverse forme fenomeniche attraverso una trasformazione di energia. Allora la connessione in se stessa significa “connessione causale”; il riflesso condizionato “sostiene l’ipotesi” che due stimoli verificatisi molte volte in una determinata sequenza siano forme fenomeniche della stessa quantità di energia. Se questa supposizione fosse falsa e la sequenza ripetuta che condiziona l’associazione degli stimoli fosse soltanto una sequenza puramente accidentale, un post hoc che probabilmente non si ripeterà mai, allora lo sviluppo della reazione condizionata sarebbe un insuccesso antiteleologico nella realizzazione da parte di una disposizione generalmente e probabilisticamente significativa, nel senso della conservazione della specie. Non conoscendone i fondamenti fisiologici, possiamo esaminare la categoria della causalità soltanto attraverso l’epistemologia critica. Nella sua funzione biologica, è un organo per capire le stesse leggi naturali a cui mira la tendenza ad acquisire riflessi condizionati. Non possiamo definire il concetto di causa ed effetto in alcun altro modo se non stabilendo che l’effetto riceve energia dalla causa in una forma o nell’altra. L’essenza del propter hoc 195

che sola lo differenzia qualitativamente da un post hoc uniforme sta nel fatto che causa ed effetto sono anelli successivi di quella infinita catena di forme fenomeniche che l’energia assume nel corso della sua esistenza eterna. Nel caso della categoria della causalità, il tentativo di spiegarla come un’astrazione secondaria da precedenti esperienze (nel senso di Wundt) è istruttivo. Se uno tenta questo, arriva sempre alla definizione di un “regolare post hoc”, ma mai a quella qualità altamente specifica che sta a priori in ogni uso razionale del “why” (perché?) e del “because” (perché) anche da parte di un bambino. Non ci si può aspettare che un bambino abbia la capacità di comprendere astrattamente un fatto che in una forma oggettiva, cioè puramente fisica, è stato definito solo nel 1842, da J. R. Mayer. Joule, in una conferenza del 1847* dichiarò in un modo sorprendentemente semplice che è “ assurdo” presumere che l’energia vivente possa esser distrutta senza in qualche modo ripristinare un equivalente. Il grande fisico quindi, con tutta semplicità, assume il punto di vista dell’epistemologia critica. In termini di storia delle idee, sarebbe un problema molto interessante se nella sua scoperta dell’equivalente del calore cominciasse con “l’inammissibilità” della distruzione e della creazione dell’energia, come sembrerebbe, giudicando dalla sua precedente osservazione. Non entra nella nostra concezione di causa ed effetto che la categoria della causalità a priori sia in realtà basata su nient’altro che l’inevitabile sequenza di due eventi, e sia possibile che l’evento verificantesi più tardi nel tempo non ricavi la sua energia dal precedente, ma entrambi siano catene laterali, fra loro indipendenti, di una ramificazione della catena della causalità. Può darsi il caso che un evento abbia regolarmente due effetti, di cui uno si verifichi più in fretta dell’altro, precedendolo così sempre nell’esperienza. Così il lampo segue la scarica elettrica più rapidamente del tuono; e tuttavia il fenomeno ottico non è affatto la causa di quello acustico! Si potrebbe forse obiettare qui che questa considerazione è come spaccare un capello in quattro e per molta gente semplice il lampo è ancora la causa del tuono. Ma lo spaccare un capello in quattro ci libera da una concezione primitiva e ci porta un passo più vicini alla vera relazione delle cose. Il genere umano vive oggi della funzione della categoria innata della causalità. *

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On Matter, Living Force and Heat, Londra, 1884, p. 265.

Esamineremo ora metodologicamente le realizzazioni funzionalmente analoghe degli animali dalla più alta torre di osservazione della forma umana di percezione dello spazio e della categoria della causalità; il primo, la tendenza all’apprendimento cinestetico a memoria di percorsi e poi la tendenza all’associazione cieca di eventi sequenziali. È vero che il topo-ragno d’acqua “sa” qualcosa sull’elemento spaziale? Nel caso del topo-ragno d’acqua, l’apprendimento crea un ordo et connectio idearum, visibile anche nella nostra immagine dell’universo: cioè, la condizione per cui zone e organi locomotori sono legati assieme come un filo di perle. Lo schema ordinato del topo-ragno d’acqua è perfettamente esatto, almeno dove arriva! Anche nella nostra percezione la fila di perle è visibile; la sequenza dei collegamenti è vera. Per noi però, esiste (ed è vero) un numero immenso di dati ulteriori che mancano al toporagno: per esempio, la possibilità di prendere una scorciatoia in un percorso. Inoltre, da un punto di vista pragmatico, la nostra percezione è vera ad un grado più alto di quanto non sia l’immagine del mondo degli animali. Qualcosa di molto simile si ha quando confrontiamo la tendenza all’associazione col nostro pensiero causale: anche qui, l’interpretazione più primitiva, più bassa, dell’animale fornisce una connessione tra gli eventi che esiste anche per la nostra forma di pensiero: la relazione temporale tra causa ed effetto. La realtà più profonda, essenziale al nostro pensiero causale, cioè che l’effetto riceve l’energia dalla causa, non è data al pensiero puramente associativo. Anche qui, dunque, la forma inferiore di pensiero corrisponde a priori e adeguatamente alla realtà di un ordine più alto, ma anche qui solo fin dove arriva. Anche qui la forma umana di pensiero è più vera dal punto di vista del pragmatista; si pensi a tutto ciò che si fa e non si può ottenere per pura associazione! Come ho detto, viviamo tutti del lavoro di questo organo importante, quasi come del lavoro delle nostre mani. Con tutto il rilievo su queste differenze nel grado di corrispondenza tra l’immagine del mondo e la realtà, non dobbiamo dimenticare nemmeno per un momento che qualcosa di reale si riflette anche nei più primitivi “schemi” degli apparati che organizzano l’immagine del mondo. È importante sottolineare questo perché noi, esseri umani adoperiamo allo stesso modo questi apparati anche se possono essere molto diversi. Il progresso nella 197

scienza ha sempre una determinata tendenza a disantropomorfizzare la nostra immagine del mondo, come ha giustamente fatto notare Bertalanffy. Dal fenomeno della luce evidente e percettibile, si è sviluppato il concetto di fenomeno ondulatorio non evidente né visualizzato. L’evidente comprensione della causalità è sostituita da considerazioni di probabilità e calcoli matematici ecc. Si può dire in realtà che tra le nostre forme di percezione e le categorie concettuali ce ne sono di più “antropomorfiche” o di meno “antropomorfiche”; o alcune più specializzate ed altre più generali. Senza dubbio un essere razionale, mancante del senso della vista potrebbe capire la teoria ondulatoria della luce, mentre non capisce l’esperienza percettiva specificatamente umana. Il guardare al di là delle strutture specificamente umane come si fa al massimo grado nella scienza matematica, non deve indurre a pensare che le rappresentazioni meno antropomorfiche si avvicinino ad un più alto grado di realtà, cioè che avvicinino la cosa-insé più di quanto non faccia la semplice percezione. La riproduzione più primitiva ha una relazione con l’assolutamente esistente altrettanto reale di quella più alta. Così l’apparato animale per l’organizzazione dell’immagine del mondo riproduce soltanto un dettaglio, ed in modo puramente associativo, dalla realtà della trasformazione dell’energia, cioè che un certo evento precede l’altro nel tempo. Ma non si può in alcun modo sostenere che l’affermazione “una causa precede un effetto” sia meno vera dell’affermazione che un effetto nasca dal precedente fenomeno attraverso la trasformazione dell’energia. Il passaggio dal più semplice al più differenziato proviene dal fatto che nuove, supplementari definizioni si aggiungono a quelle già esistenti. Se in questo passaggio da una riproduzione più primitiva del mondo ad una più alta, certi dati rappresentati nella prima sono trascurati nella seconda, è soltanto un problema di cambiamento del punto di vista, e non di un più stretto approccio all’assolutamente esistente. Le reazioni più primitive dei protozoi riflettono un aspetto del mondo che riguarda analogamente tutti gli organismi esattamente come i calcoli dell’Homo Sapiens che studia fisica teorica. Ma noi non possiamo accertarci di quanto esista nella realtà assoluta oltre ai fatti e alle relazioni tradotte nella nostra immagine del mondo più di quanto il toporagno d’acqua non possa rendersi conto di poter eliminare molte deviazioni nel suo tortuoso apprendimento di un percorso. 198

Per quanto riguarda l’assoluta validità delle nostre “necessità di pensiero”, siamo di conseguenza modesti: crediamo solo che in qualche dettaglio corrispondano alla realtà esistente più di quelle del topo-ragno acquatico. Soprattutto siamo consapevoli del fatto che sicuramente siamo altrettanto ciechi di quell’animale nei riguardi di moltissime altre cose; che anche a noi mancano recettori per un infinito numero di cose reali. Le forme di percezione e le categorie concettuali non sono la mente, ma piuttosto strumenti che la mente adopera. Sono strutture innate che da una parte sostengono ma da un’altra portano alla rigidità. La grande concezione kantiana dell’idea di libertà, cioè che l’essere pensante è responsabile verso la totalità dell’universo, ha il difetto di essere incatenata alle leggi rigidamente meccaniche della ragion pura. L’a priori e il pensiero preformato sono proprio quelli che non sono in alcun modo specificamente umani come tali. Specificamente umana è invece la conscia pulsione a non insabbiarsi, a non diventare un veicolo che corre sulle rotaie, ma piuttosto a conservare una giovanile apertura al mondo e ad avvicinarsi alla realtà attraverso una costante reciproca interazione con esso. Essendo biologi, siamo modesti per quel che riguarda la posizione dell’uomo nella totalità della natura, ma più esigenti per ciò che il futuro ci può ancora portare sotto forma di conoscenza. Dichiarare l’uomo completo, affermare che qualsiasi essere razionale immaginabile, anche gli angeli, dovrebbe essere limitato alle leggi del pensiero dell’Homo Sapiens, ci sembra un’arroganza incomprensibile. Per la perduta illusione di un’unica legittimità per l’uomo, diamo in cambio la convinzione che nella sua apertura al mondo egli sia fondamentalmente capace di sorpassare la sua scienza e le formulazioni a priori del suo pensiero per creare e realizzare cose fondamentalmente nuove che non sono mai esistite prima. Fino a quando egli resta ispirato dalla volontà di non permettere che ogni nuovo pensiero sia soffocato dal velo delle leggi che gli si cristallizzano attorno, come le gocce di lava di Nietzsche, questo sviluppo non incontrerà così presto alcun ostacolo essenziale. In questo si concreta il nostro concetto di libertà; è la grandezza e, almeno sul nostro pianeta, la temporanea unicità del nostro cervello umano che, malgrado tutte le sue gigantesche differenziazioni e strutturazioni, è un organo la cui funzione possiede la trasformabilità simile a quella di Proteo, la capacità simile a quella della lava di sollevarsi contro le restrizioni 199

funzionali impostegli dalla sua struttura fino al punto in cui raggiunge una flessibilità ancor più grande di quella del protoplasma che manca di strutture solide. Che cosa direbbe Kant di tutto ciò? Penserebbe che la nostra interpretazione naturalistica della ragione umana (per lui creata sovrannaturalmente) sia una dissacrazione di ciò che è più sacro? (Ed è così agli occhi della maggior parte dei neo-kantiani). O avrebbe accettato, per i suoi occasionali approcci al pensiero evoluzionistico il nostro concetto che la natura organica non è qualcosa di amorale e dimenticato da Dio, ma è fondamentalmente “sacra” nelle sue creative conquiste evolutive, specialmente in quelle conquiste più alte che sono la ragione umana e la morale umana? Siamo inclini a credere ciò perché crediamo che la scienza non potrebbe mai distruggere una divinità, ma soltanto i piedi di fango di un idolo creato dall’uomo. Chi ci rimprovera di mancanza di rispetto per la grandezza del nostro filosofo lo contraddiciamo citando lo stesso Kant: “Se si comincia con un’idea iniziata ma non realizzata e trasmessaci da un altro, col pensiero continuo si può sperare di progredire oltre il punto raggiunto dall’uomo di genio a cui dobbiamo la scintilla di questa luce”. La scoperta dell’a priori è la scintilla che dobbiamo a Kant e non è certamente arroganza da parte nostra criticare l’interpretazione della scoperta per mezzo di nuovi fatti (come abbiamo fatto nel criticare Kant riguardo alle origini delle forme di percezione e delle categorie concettuali). Questa critica non diminuisce il valore della scoperta più di quanto non diminuisca quello dello scopritore. A chiunque segua l’erroneo principio omnia naturalia sunt turpia e persista nel vedere una dissacrazione nel nostro tentativo di guardare naturalisticamente alla ragione umana opponiamo nuovamente una citazione dello stesso Kant: “Quando parliamo della totalità della natura, dobbiamo inevitabilmente concludere che c’è una regola divina. Ma in ogni fase della natura (poiché nessuna è dapprima offerta semplicemente al nostro mondo sensoriale) dobbiamo cercare, per quanto possibile, le cause che ne stanno alla base e seguire la catena causale, fino a quando sta unita, secondo le leggi che noi conosciamo”.

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6. L’ostilità tra generazioni e le sue probabili cause etologiche* KONRAD LORENZ

L’approccio darwiniano e il problema dell’adattamento “Etologia” è semplicemente l’applicazione al campo della ricerca comportamentale di tutti quei metodi di approccio che, fin dai giorni di Charles Darwin, sono stati considerati obbligati in tutte le altre branche della ricerca biologica. In altre parole, l’etologia riguarda il comportamento come sistema, il quale deve la sua esistenza e la sua forma particolare ad una serie di eventi storici che hanno avuto luogo nel corso della filogenesi. La domanda puramente causale del perché un sistema vivente sia strutturato così com’è e non in altro modo non può avere risposta tranne che attraverso l’indagine della storia della sua evoluzione, in altre parole della sua filogenesi. L’indagine sul comportamento, compreso il comportamento umano, dal punto di vista filogenetico, ha portato l’etologia al centro di una controversia ideologica ancora in corso. La dottrina secondo cui il comportamento umano è completamente determinato da processi di condizionamento causati dall’influenza ambientale, ebbe origine da una eccessiva generalizzazione e semplificazione delle scoperte di I. P. Pavlov. Divenne la teoria di base del behaviorismo americano, e tuttavia sarebbe ingiusto e calunnioso chiamarla dottrina “behaviorista”, perché molti scienziati intelligenti che si considerano “comportamentisti”, non hanno mai creduto in essa. Io quindi suggerisco il termine dottrina * Alcune parti del presente articolo sono state lette a vari incontri del Frensham Group (Iniziati e patrocinati da Oscar van Leer; cfr. Prefazione di Paul A. Weiss, p. 905), Studium General, 23 (1970), pp. 963-997.

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“pesudo-demo-cratica”. Questo è giustificato dal fatto che la dottrina trae la sua diffusione mondiale così come il suo peso morale, da una distorsione piuttosto insidiosa di una verità democratica. È una verità, e senza dubbio un postulato morale, che tutti gli uomini dovrebbero avere pari opportunità di sviluppo. Ma da quella verità si può facilmente trarre un falso dogma (se non altro da coloro che respingono la logica, come ha fatto notare Philip Wylie): che tutti gli uomini sono potenzialmente eguali. La dottrina porta questa premessa un passo più in là, affermando che l’uomo è nato come una tabula rasa e che tutto il suo comportamento è determinato dal condizionamento. L’etologia è entrata in collisione con questa dottrina dimostrando irrefutabilmente che ogni comportamento, esattamente come ogni struttura del corpo, può svilupparsi nell’ontogenesi dell’individuo soltanto lungo le linee ed entro le possibilità di programmi specifici per ogni specie, che sono stati tracciati nel corso della filogenesi e formulati nel codice del genoma. “La biologia – dice Philip Wylie – ha provato che gli uomini non sono eguali, identici, simili o niente altro del genere, dall’istante del concepimento. Il senso comune avrebbe dovuto rendere tutto ciò evidente all’uomo di Giava; non lo fece e non lo fa tuttora, perché il senso comune è ciò a cui l’uomo più appassionatamente desidera di sottrarsi. “Questa passione ha il carattere di un vero zelo religioso. La dottrina pseudo-democratica è realmente diventata una religione mondiale; come molte religioni, è la semplificazione di una verità, come tale facile da comprendere, ed è gradita a coloro che sono interessati alla manipolazione di grandi masse di gente. Sarebbe in realtà di eguale vantaggio ai produttori del capitalismo e ai capi superstalinisti, se gli uomini, con un appropriato condizionamento, potessero essere plasmati in assolutamente uniformi e assolutamente obbedienti consumatori o cittadini comunisti. Questo spiega il fatto, altrimenti sorprendente, che tale pseudo-dottrina domini sovrana in America così come nell’Unione Sovietica e in Cina!”. Come tutti i devoti seguaci di una religione, i fautori della dottrina pseudo-democratica non si fermano davanti a niente se si tratta di ridurre al silenzio un eretico. L’approccio al comportamento umano come ad un sistema filogeneticamente evoluto, è stato respinto per un gran numero di ragioni pseudo-razionali e marchiato come immorale in un gran numero di modi, di cui il li202

bro, L’uomo e l’aggressione, a cura di M. F. Ashley Montagu offre una ricca scelta di esempi, uno dei quali è sufficiente a mostrare la predisposizione quasi-religiosa. “Non c’è – dice Ashley Montagu – la benché minima prova o ragione per affermare che il presunto comportamento “istintivo filogeneticamente adattato” di altri animali, sia in alcun modo attinente alla discussione delle forze motivazionali del comportamento umano. Il fatto è che, con l’eccezione delle reazioni pseudo-istintive dei bambini all’improvvisa mancanza di sostegno o ad improvvisi rumori forti, l’essere umano è del tutto privo di istinti”. Rappresentanti più moderni della dottrina pseudo-democratica, prendono un altro e più indefinibile atteggiamento. Pur concedendo che l’etologia sia, in teoria, nel giusto quando cerca di separare programmi di comportamento filogeneticamente evoluti da quelli ontogeneticamente acquisiti, sostengono che gli etologi attribuiscono un’importanza esagerata a questa distinzione, in altre parole che la domanda “innato o acquisito?” non è che un cavillo. Non lo è e tornerò su questo punto alla fine del saggio. Per il momento è sufficiente dire che la maggior parte delle proprietà che noi incontriamo nella struttura così come nel comportamento degli organismi devono la loro forma specifica al più vecchio e più efficiente dei processi cognitivi che chiamiamo adattamento. Il fatto dell’adattamento comporta una domanda caratteristica della biologia e sconosciuta a chimica e fisica: “A che scopo?” Quando chiediamo: “A che cosa servono le unghie, ricurve e retrattili del gatto?” e rispondiamo “Per prendere i topi”, non guardiamo al finale significato teleologico delle unghie del gatto, ma usiamo soltanto un modo abbreviato per esprimere una vera domanda scientifica causale che, completamente espressa, dovrebbe leggersi: “Qual è la funzione il cui valore di sopravvivenza esercitò la pressione selettiva che fece sì che i gatti evolvessero quella particolare forma di unghie?”. L’arco di una vita speso nel porre questa domanda (a cui d’ora in poi mi riferirò come alla domanda di Charles Darwin), in riferimento a moltissime strutture morfologiche e schemi di comportamento, ha come risultato una notevole conferma delle teorie darwiniane, per il semplice motivo che così spesso si può trovare una risposta precisa e convincente. In realtà ci siamo così abituati a ottenere tale risposta, che troviamo difficile il credere che ci 203

siano schemi o strutture altamente complessi o differenziati che non debbano la loro specifica forma alla pressione selettiva esercitata dalla loro funzione. Più strane esse appaiono in superficie, più sicuri possiamo essere di scoprire tale funzione.

Integrazione creativa e metodo dei sistemi di approccio Prima di spiegare i metodi obbligati nell’approccio di sistemi complessi, bisogna dire qualche parola sul modo in cui proprietà di un sistema senza precedenti nascono quando si uniscono insieme due sistemi preesistenti ma indipendenti; se, per esempio, due sistemi di circuito elettrico, uno che scorre lungo una spirale e l’altro ostruito da un condensatore, vengono collegati assieme, il nuovo sistema avrà la proprietà dell’oscillazione che non si può trovare, in teoria, in alcuno dei due sistemi nel loro stato non collegato. Questo tipo di evento ovviamente si è verificato e si verifica ogni volta che la filogenesi fa un passo avanti. Il termine “evoluzione”, così come il tedesco “Entwicklung”, implica etimologicamente che qualcosa di preformato si è semplicemente rivelato nel processo. Nessuna delle nostre lingue occidentali possiede un verbo per il “nascere” di qualcosa di interamente nuovo perché, al tempo della loro origine l’unico processo di sviluppo conosciuto era quello dell’ontogenesi, per cui questi termini sono in realtà etimologicamente adeguati. Avvertendone l’inadeguatezza rispetto agli eventi creativi della filogenesi, alcuni filosofi usarono il termine “emergenza”, che è ancora peggiore e implica che qualcosa che è ancora invisibile ad una visione letteralmente superficiale, diventa visibile per affioramento. Nel mio saggio Basi innate dell’apprendimento, in cui ho discusso questi problemi nel dettaglio, suggerii l’uso, in un senso nuovo, del termine “folgorazione”, introdotto da mistici medievali per descrivere gli atti creativi, implicando naturalmente che era il lampo di Dio che provocava la nascita di qualcosa di nuovo. Per lo scienziato, il lampo è una scintilla elettrica come un’altra e se egli nota una scintilla inattesa all’interno di un sistema, la prima cosa a cui pensa è un corto circuito. Questa rende il termine folgorazione stranamente appropriato. Ciò che costituisce un passo avanti nella sequenza di avvenimenti filogenetici creativi, consiste regolarmente nella nascita di una nuova proprietà del sistema provoca204

ta dalla nascita di una nuova relazione causale, all’interno del sistema vivente, tra due dei suoi sottosistemi esistenti, integrandoli in uno nuovo di ordine superiore. Poiché rifiutiamo di credere ai miracoli, siamo convinti che sia sempre un cambiamento strutturale che porta a questa nuova integrazione e provoca la nascita di nuove leggi della natura, che prima non esistevano. Le nuove leggi che nascono dalle nuove strutture non aboliscono mai le leggi della natura prevalenti all’interno del sistema vivente prima del verificarsi della nuova integrazione. Nemmeno le proprietà sistemiche dei sottosistemi da poco uniti debbono andare completamente perdute. Ciò è vero per ogni passo compiuto dall’evoluzione, anche il più grande, il passo iniziale dall’inorganico all’organico. È vero in modo particolare di ciò che, con riconosciuto orgoglio, siamo soliti considerare il secondo più grande passo, quello che porta dall’antropoide all’Uomo. I processi vitali sono ancora fisici e chimici, anche se, in virtù della complicata struttura delle molecole a catena, sono anche qualcosa di molto particolare. Sarebbe una grande sciocchezza affermare che “non sono nient’altro che” processi chimici e fisici. Un’analoga relazione esiste tra l’uomo e i suoi antenati pre-umani: l’uomo è certamente un animale, ma è semplicemente falso che non sia nient’altro che un animale.

Tradizione cumulativa come esempio La folgorazione di quelle proprietà essenzialmente umane e che non esistono, almeno non assieme e non in grado apprezzabile, in alcun altro animale, fornisce un esempio eccellente del modo in cui nuove proprietà del sistema nascono con nuove connessioni di sistemi pre-esistenti. Il comportamento esplorativo che porta ad un grado notevole di conoscenza oggettiva degli oggetti esiste in molti animali e così pure il vero tramandare conoscenze individualmente acquisite. Soltanto nell’Uomo sono riuniti in un sistema integrato. L’autoesplorazione, albeggiante negli antropoidi, deve essere progredita con straordinaria rapidità dall’uso degli utensili alla loro fabbricazione. La mano operante, come parte del proprio corpo, assieme all’oggetto manipolato nello stesso campo visivo, non poteva mancare di attirare l’attenzione sul fatto che uno, co205

me soggetto, è anche un oggetto, ed estremamente degno di considerazione! Dalla consapevolezza del proprio io, dalla “riflessione”, una nuova obiettività si impose all’atteggiamento dell’uomo verso gli oggetti del suo ambiente. Originariamente, e per la maggioranza degli animali, lo stesso oggetto possiede significati completamente diversi a seconda del diverso stato psicologico e fisiologico in cui l’organismo si trova in un dato momento. Un potenziale animale da preda ha “valenze” completamente diverse per un leone affamato ed uno sazio. Una volta che ci siamo resi conto che noi stessi siamo “cose reali” e che partecipiamo all’interazione con le altre “cose” del nostro ambiente, abbiamo automaticamente ottenuto un più alto e del tutto nuovo livello di obiettività che trascende di molto quello che era stato fino a quel momento reso possibile in virtù della funzione astraente della percezione della Gestalt e degli effetti del gioco esplorativo. Non essendo affamati, potremmo non avere il minimo interesse per un oggetto-cibo e passargli davanti come fa il leone sazio, ma conoscendoci come ci conosciamo, riusciamo a prendere in considerazione il nostro stato momentaneo e a farne astrazione, prevedendo giustamente che l’oggetto in questione può diventare e diventerà in breve tempo altamente interessante. È soltanto assieme e sulla base di tutte le altre funzioni oggettive già preesistenti negli animali superiori, che la vera riflessione poté venire all’esistenza. L’autoesplorazione non si sarebbe mai verificata se non sulla base di un comportamento esplorativo pre-esistente e altamente sviluppato. La comprensione di un concetto non sarebbe mai stata raggiunta se non per l’osservazione della propria mano prensile che afferrava gli oggetti dell’ambiente e interagiva con essi. La tradizione esisteva prima di ciò; i topi possono trasmettere l’informazione che riguarda gli effetti letali di un veleno per molte generazioni senza che alcun individuo debba ripetere l’esperienza personale che porta a quella conoscenza. Le cornacchie possono trasmettere a individui giovani e inesperti la loro conoscenza dei predatori pericolosi e si sono conosciute scimmie che hanno trasmesso la tradizione di certe capacità motorie acquisite, per esempio quella di lavare le patate dolci nell’acqua di mare. Tuttavia, tutti questi processi, di trasmissione di conoscenze acquisite dipendono dalla presenza del loro oggetto; senza di esso, 206

il topo non può dire ai suoi piccoli quale veleno non mangiare, né la cornacchia insegnare alla sua progenie quale predatore evitare, né la scimmia dimostrare la sua abilità. Anche così non possiamo spiegare del tutto perché la conoscenza tradizionale non tenda ad accumularsi in qualche specie di animale sociale, al di là del grado a cui normalmente la troviamo sviluppata. Così, proprio fino alla folgorazione della trasmissione cumulativa nell’uomo, il genoma restava l’unico meccanismo capace di accumulare, di immagazzinare conoscenza a lungo termine. Col congiungersi del pensiero concettuale e della tradizione nacquero proprietà sistemiche senza precedenti. La continuità della tradizione rese possibile ai concetti di associarsi con il libero simbolo della parola parlata. Fu così reso possibile lo sviluppo della lingua sintattica, il quale a sua volta aprì una nuova via all’accumulo di conoscenza tramandata, in aumento continuo col susseguirsi delle generazioni. Il nuovo sistema è quello che generalmente chiamiamo cultura e la sua proprietà unica come sistema consiste nell’essere in grado, come il genoma, di immagazzinare quantità di informazioni praticamente illimitate e allo stesso tempo di riuscire, diversamente dal genoma, ad acquisire, nell’arco di minuti invece che millenni, una conoscenza degna di essere immagazzinata. Se un uomo inventa o impara come fare un arco e una freccia, non soltanto la sua progenie, ma tutta la sua cultura da quel momento in poi sarà in possesso di quegli arnesi, né la probabilità che possano venire dimenticati è più grande di quella che un organo del corpo, di eguale valore di sopravvivenza, possa ritornare allo stato rudimentale. La nuova proprietà del sistema è né più né meno che la famosa ereditarietà del carattere acquisito e le sue conseguenze biologiche sono di estrema importanza. Fu la pressione selettiva dell’accumulo di informazioni tramandate che provocò la crescita del telencefalo dell’uomo fino alla sua misura attuale. Sono le strutture del corpo come il proencefalo e le varie zone del linguaggio nell’emisfero dominante, che fanno dell’uomo, per natura, un animale di cultura. Senza la tradizione culturale, queste strutture sarebbero vuote di significato come le ali di uno struzzo, soltanto in misura maggiore. E tuttavia, questi enormi cambiamenti che certamente rendono l’uomo qualcosa di molto diverso da ciò che descriveremmo “soltanto un animale”, furono elaborati dalla piuttosto semplice integrazione 207

di due sottosistemi di comportamento, nessuno dei quali è un’esclusiva caratteristica della nostra specie. La nostra conoscenza del modo in cui, durante la filogenesi, i sistemi di integrazione superiore nacquero da una serie di eventi storici unici e imprevedibili, ha conseguenze di grande portata sotto due aspetti senza alcun rapporto fra loro.

La scala assiomatica del valori organismici Il primo concerne la nostra filosofia dei valori. Non possiamo fare a meno di pensare che i sistemi organici abbiano tanto maggior valore quanto più sono altamente integrati; in realtà, il nostro modo abituale di chiamare alcuni animali superiori ed altri inferiori è una conseguenza immediata di questo inevitabile giudizio di valore. La sua natura assiomatica è facilmente dimostrata dal seguente esperimento immaginario. Immaginatevi di fronte al compito di distruggere, uno dopo l’altro, un cavolo, una mosca, un pesce, una lucertola, un porcellino d’India, un gatto, un cane, una scimmia e il piccolo di uno scimpanzè. Nel caso poco probabile che non sentiste inibizioni maggiori nell’uccidere lo scimpanzé che nel distruggere il cavolo o la mosca, il mio consiglio è di suicidarvi alla prima occasione possibile perché siete uno strano mostro e un pericolo pubblico. La scala di valori che si estende tra gli organismi inferiori e quelli superiori, è del tutto indipendente da quella che si snoda tra tutti i gradi di più o meno felice adattamento all’ambiente. Le possibilità di disadattamento e malattia sono più o meno le stesse a tutti i livelli di integrazione creativa; se mai, gli animali superiori sembrano più vulnerabili di quelli inferiori. Un uomo o, diciamo, un’intera cultura può essere in diretto pericolo di distruzione ed essere ancora di valore superiore ad un’altra che si trovi nel miglior stato possibile di salute e sia vitale al massimo. Tendiamo a divenir consapevoli dell’indipendenza dei due parametri di giudizio di valore quando passiamo a considerare la nostra responsabilità morale. L’obbedienza alla legge morale dentro di noi, come l’ha chiamata Kant, può spesso richiedere un comportamento per niente salutare e spesso gli esseri umani devono affrontare l’alternativa o di comportarsi immoralmente o di compiere l’enorme sacrificio del martirio, che può anche essere del tutto vano. 208

Metodi obbligati di approccio ai sistemi integrati La seconda importantissima conseguenza che ci è imposta dalla realizzazione della struttura “stratificata” dei sistemi organici concerne la strategia della loro analisi. Per ovvie ragioni il primo passo verso la comprensione di un sistema che è formato da una intera gerarchia di sottosistemi, integrati l’uno nell’altro, livello per livello, deve essere l’ottenere una qualche temporanea conoscenza generale di quei sottosistemi che al più alto livello d’integrazione sono immediatamente subordinati al tutto. Il cominciare con questo primo compito è tanto più necessario, quanto più complicato e più altamente integrato è realmente il sistema in esame. In altre parole, la possibilità di raggiungere la capacità di osservazione nella struttura di un sistema con metodi atomistici ed operativi, diminuisce proporzionalmente alla sua complicazione e al suo livello integrativo. Dobbiamo aver successo in un certo numero di ipotesi per arrivare anche soltanto a quello stadio pre-ipotetico di vago sospetto che ci permetta di cambiare sufficientemente le nostre osservazioni per arrivare ad un’ipotesi verificabile su quali siano i sottosistemi più grandi e abbraccianti un più vasto campo, a cui avvicinarsi. In questo compito, i metodi più promettenti sono la semplice osservazione e il libero gioco della nostra percezione gestaltica. Vorrei affermare seriamente e vigorosamente che nel nostro primo approccio sperimentale alla comprensione di complicati sistemi viventi, l’approccio immaginario del poeta – che consiste semplicemente nel lasciar governare sovrana la percezione della Gestalt – ci porta molto più in là di qualsiasi misurazione pseudo-scientifica di parametri scelti arbitrariamente. Non voglio dire che un uomo, il quale non sia “nient’altro che” un poeta, abbia migliori possibilità di capire i sistemi integrati di quanto non ne abbia uno scienziato; ciò che voglio dire è che uno scienziato, con tutta la conoscenza metodologica e reale che lo scienziato ha a sua disposizione, non ha alcuna possibilità di capire mai un sistema vivente complesso, come quello che sta alla base del comportamento sociale umano, a meno che non utilizzi al massimo grado la sua percezione gestaltica dandole libero corso in modo assoluto, alimentandola contemporaneamente con tutti i dati di osservazione pertinenti di cui può venire in possesso. Sembra che certuni siano in grado di farlo. Uno di costoro è Erik Erikson, il 209

quale, secondo me, sulle più profonde radici del comportamento umano sa più di chiunque altro io possa nominare.

Disturbi patologici come fonte di conoscenza Anche così, la percezione della Gestalt non ci porterebbe abbastanza avanti, nella comprensione di sistemi realmente complessi come quello del comportamento umano, da rendere possibile il cominciare ad applicare i metodi quantitativi di verifica, se non ci giungesse aiuto da un lato piuttosto insospettato. Ci sono casi in cui la domanda di Charles Darwin “a che scopo?” non ottiene una risposta. Negli animali in cattività e particolarmente negli uomini civilizzati troviamo schemi di comportamento regolarmente ricorrenti, che non sono soltanto privi di valore, ma perfino dimostrabilmente nocivi alla sopravvivenza dell’individuo, così come a quella della specie. Se qualcuno pone la domanda di Darwin riguardo ad una parata militare, ad una cerimonia vudù in Haiti, a un sit-in di studenti all’università di Vienna o alla guerra moderna, si ritroverà incapace di ottenere una risposta, almeno se si pone la domanda nel modo non sofisticato e semplice in cui noi biologi siamo abituati a porla. Quando veniva posto a confronto con uno schema di comportamento così imbarazzante e inquietante, il mio compianto amico Bernhard Hellmann soleva porre un’altra domanda: “È così che il costruttore lo intendeva?”. Anche se questa domanda era fatta in tono quasi scherzoso, implicava una profonda presa di coscienza dell’esistenza di una linea di confine che, anche se estremamente difficile da definire, gioca un ruolo importantissimo nel pensiero biologico e particolarmente in quello medico: il confine tra il normale e il patologico, tra la salute e la malattia. Quando, nei confronti di qualche folle schema di comportamento umano, non riusciamo ad ottenere una risposta alla domanda di Charles Darwin “a che scopo?” così come a quella di Bernhard Hellmann “È così che il costruttore lo intendeva?”, non dobbiamo perdere la fiducia nel normale approccio biologico anche se dobbiamo ricorrere ad ulteriori domande appartenenti ad una diversa via di approccio, quello dell’uomo di medicina. In una delle sue ultime lettere a me dirette, il mio compianto amico Ronald Hargreaves, psichiatra a Leeds, scrisse che si era adde210

strato a porsi due domande simultanee nell’avvicinarsi a qualsiasi disordine mentale. La prima: qual è la normale funzione di sopravvivenza del processo qui disturbato? La seconda: qual è la natura del disturbo e, in particolare, c’è un eccesso o una deficienza della funzione in questione? A prima vista sembrerebbe che l’imprevedibile disturbo patologico di un sistema superlativamente complicato e quindi difficilissimo da capire in ogni caso, debba aggiungere ancora un’altra insormontabile barriera al tentativo di analisi. Ma i fisiologi si sono resi conto da molto tempo che non è così. Ben lontano dall’essere un ulteriore ostacolo all’analisi di un sistema, il suo disturbo patologico è nella maggioranza dei casi la chiave per la sua analisi. In realtà, la storia della fisiologia ha registrato un gran numero di casi in cui la stessa esistenza di un importante meccanismo fisiologico o di un sistema, non era nemmeno sospettato, fino a che una malattia, causata da un suo disturbo, non attirò su di quello l’attenzione dello scienziato. La storia della scoperta delle ghiandole endocrine e del progresso della loro analisi, offre un eccellente esempio del metodo obbligato di approccio ai sistemi. Quando E. T. Kocher, nel tentativo di curare l’ipertiroidismo, rimosse la tiroide, scoprì di aver provocato ciò che definì “cachexia thyropriva”. Da questo dedusse giustamente che la funzione della ghiandola tiroidea era in relazione di antagonismo bilanciato con quella di altre ghiandole endocrine e che il morbo di Basedow, o ipertiroidismo, consisteva nel disturbo di questo equilibrio in favore di un eccesso della funzione tiroidea. La base di questo approccio è più strettamente applicabile alla maggioranza dei disturbi che oggi si osservano nel comportamento sociale degli esseri umani. In realtà moltissimi di questi consistono nella perdita dell’equilibrio tra due o più sistemi comportamentali, dove la parola “sistema” è usata nel senso dell’eccellente definizione che Paul Weiss ha dato nel suo saggio Determinism Stratified: “un sistema è tutto ciò che è abbastanza unitario da meritare un nome”. La doppia domanda di Donald Hargreaves dovrebbe far capire a tutti quanto inutile sia attribuire gli aggettivi “buono” o “cattivo” a qualunque meccanismo di comportamento come amore, aggressione, indottrinamento, ritualizzazione, entusiasmo, ecc. Come ogni ghiandola endocrina, ognuno di questi meccanismi è indispensabile e, ancora come una ghiandola, ognuno, per eccesso della sua funzione, può portare 211

ad uno squilibrio distruttivo. Non c’è alcun vizio umano che sia qualcos’altro che un eccesso di funzione, la quale, in se stessa, è indispensabile per la sopravvivenza della specie. Procederò ora ad illustrare l’applicazione della domanda di Ronald Hargreaves a certi fenomeni che chiaramente minacciano la nostra cultura e che, secondo me, si possono attribuire allo squilibrio di due importanti sistemi comportamentali. Il primo è il meccanismo che assicura ciò che Sigmund Freud descrisse come l’economia equilibrata del piacere e del dispiacere. Il secondo è quel sistema piuttosto complicato la cui funzione è di trasmettere la conoscenza tradizionale da una generazione a quella successiva, assicurando allo stesso tempo che vengano eliminati gli item obsoleti della tradizione e ne vengano acquisiti di nuovi.

Lo squilibrio dell’economia piacere-dispiacere Comincio con la descrizione di alcuni sintomi che credo provocati da disturbi dell’equilibrio piacere-dispiacere. Forse il più chiaro di questi sintomi è il bisogno di una gratificazione immediata. In una percentuale notevole dell’umanità di oggi, e non soltanto tra le più giovani generazioni, c’è una dimostrabile diminuzione nella capacità e nella volontà di lottare per mete che possano essere raggiunte soltanto in futuro. Qualsiasi obiettivo che non possa essere realizzato subito, cessa di avere un valore per cui si possa lottare. Anche grosse ditte commerciali rifiutano di guardare a un futuro che vada più in là di pochissimi anni. In campo scientifico, la riluttanza ad affrontare programmi a lungo termine ha portato ad una deplorevole trascuratezza nelle branche descrittive, in cui è necessario raccogliere informazioni pazienti e protratte nel tempo. Anche se non è chiaro qual sia la causa e quale l’effetto, c’è certamente uno stretto collegamento tra l’attuale mancanza di pazienza e una generale incapacità di sopportare qualsiasi tipo di dolore o dispiacere. L’enorme consumo di calmanti e tranquillanti testimonia questa intolleranza. Vidi una volta mio nipote inghiottire un enorme cucchiaio di polvere di piramidone e gli chiesi con commiserazione se avesse un gran brutto mal di testa. Mi rispose di no, ma che aveva paura che gli venisse. Kurt Hahn racconta la storia di uno scolaro che andava a scuola portando un pacchetto 212

di pastiglie che gli avevano dato i suoi genitori e che erano garantite come cura infallibile contro la nostalgia di casa. Un terzo sintomo strano, della stessa natura degli altri due già descritti, è una generale mancanza di volontà di muoversi. Ogni sforzo della muscolatura striata è diventato fuori moda, fino al punto di cambiare l’espressione del volto di un gran numero di persone: in troppi giovani si può vedere un’espressione stanca, languida, annoiata, di tanto in tanto leggermente gravata da un’aria di rimprovero e di malumore. Tra i ventenni, diciamo del 1920, e quelli del 1969, c’è una considerevolissima differenza comportamentale nella quantità di moto compiuto nel proprio interesse. Nei boschi di Vienna, che nel 1920 formicolavano di giovani, si incontra a mala pena qualcuno che cammina, e quando capita, si tratta di ultra sessantenni. Tra i giovani che si considerano sportivi, ci può essere una certa disponibilità verso il lavoro muscolare, ma solo come tale e non diretto ad altra meta. Questo si considererebbe “lavoro”. Quindi, si possono vedere giovani atletici fare quaranta minuti di coda ad una sciovia invece di camminare in salita per venti. La produzione tecnologica provvede a favorire questa crescente indisponibilità ad eseguire un lavoro muscolare: non ci si può aspettare che un cittadino benestante salga le scale o giri una maniglia per aprire una finestra o il tetto scorrevole dell’automobile ultimo modello; premere un bottone è il massimo che egli sarà disposto a fare. Fu Kurt Hahn ad attirare l’attenzione sull’inquietante fatto che questo tipo di pigrizia fisica è molto spesso correlata con una contemporanea pigrizia emotiva. Una fiacchezza nella capacità di provare compassione è, secondo il grande esperto, un fatto frequentemente concomitante dell’indolenza tipica dei giovani blasé. Non credo ci sia bisogno di esempi; ogni quotidiano è pieno di esempi di gente torturata, uccisa, violentata in strade assai frequentate di grandi città alla presenza di folle inumane che rifiutano di “essere coinvolte” prestando aiuto alla vittima. L’incapacità di provare compassione gioca un ruolo importante anche negli atti di aperta ostilità contro deboli vecchi, di cui gli adolescenti si rendono spesso colpevoli. Poniamo ora, nei riguardi dei fenomeni appena descritti, la prima delle due domande proposte da Ronald Hargreaves. Qual è la funzione normale che vien meno in ciascuno di questi casi e 213

qual è la natura di questo insuccesso? Penso che possiamo tentare una risposta abbastanza probabile a queste domande e, per di più, la stessa si applica a tutti e quattro i fenomeni menzionati. Tutti gli organismi capaci di vero, condizionamento, posseggono un meccanismo interno il cui compito è di distribuire premi e punizioni, premi per un comportamento che raggiunge valori di sopravvivenza per l’individuo o la specie o entrambi, e punizioni per tutto ciò che è contrario a questi interessi. “Premio” e “Punizione” sono termini usati qui soltanto come carattere stenografico per le funzioni di rinforzo o eliminazione del precedente comportamento. Piacere e dispiacere sono esperienze soggettive egualmente reali che accompagnano questi processi di apprendimento. Molte teorie dell’apprendimento, sotto altri aspetti profonde, hanno trascurato il fatto, secondo noi di estrema importanza, che questo meccanismo calcolatore altamente integrato debba avere nel suo programma una informazione filogeneticamente appresa, cioè: la conoscenza di ciò che è bene e di ciò che è male per l’organismo. Questo meccanismo “conosce” tutti i valori di riferimento che i cicli omeostatici all’interno dell’organismo devono mantenere costanti, ci punisce facendoci sentire in uno stato schifoso se qualcosa è fuori posto in uno qualunque di questi circuiti di regolazione, per esempio se abbiamo troppo o troppo poco ossigeno o glucosio o qualunque altra cosa nel sangue, se siamo troppo caldi o troppo freddi ecc. Ci premia facendoci sentir bene ogni volta che il nostro comportamento ha contribuito a correggere questi valori, come facciamo quando ingeriamo il giusto tipo di cibo ecc. Pone un premio per l’attuazione di qualsiasi delle tipiche attività di conservazione della specie nel modo biologicamente “giusto”. Questo grande meccanismo di insegnamento, la “maestra innata” come l’ho scherzosamente chiamata, potrebbe lavorare teoricamente soltanto con la ricompensa (o rinforzo) o con la punizione (estinzione). Abbiamo tuttavia la conoscenza introspettiva che esso adoperi entrambi i principi e ci sono criteri oggettivi a supporto dell’ipotesi che lo stesso sia vero negli animali. Può essere soltanto il caso di una sicurezza resa doppiamente sicura, procedimento di cui nell’evoluzione troviamo molti esempi. Un altro tentativo di risposta, che fino a poco tempo fa credevo sufficiente, sta nel fatto che è difficile far sì che gli organismi si com214

portino in un modo molto specifico con l’uso esclusivo di stimoli ripulsivi. È difficile spingere un uccello in una gabbia, perché per farlo bisognerebbe usare un gran numero di stimoli che premano da tutte le direzioni spaziali, ad eccezione di quella della porta della gabbia. Sembrerebbe allora preferibile mettere qualche premio nella gabbia e attirarvi dentro l’animale. Vediamo che l’evoluzione ha imparato questo trucco e “applica” metodi di estinzione se l’obiettivo biologico è soltanto di mantenere l’animale lontano da influenze ambientali nocive, ma “usa” l’atteggiamento di un premio nei casi in cui l’organismo deve fare qualcosa di più specifico. Un’ulteriore differenza tra i processi di rinforzo e di estinzione, sta nel modo in cui è valutata la stimolazione esterna. Nel comportamento appetitivo, in cui l’organismo tenta di raggiungere la fonte della stimolazione, qualsiasi aumento nella quantità di stimoli in entrata agisce da rinforzo, mentre nel comportamento di fuga qualsiasi diminuzione nella stimolazione rinforza il precedente modo di comportarsi. Queste considerazioni sono perfettamente esatte fino a dove arrivano, e tuttavia non contengono la vera risposta alla domanda perché l’apparato di condizionamento degli animali sia costruito sulla base di due principi opposti. L’effetto antagonista delle due motivazioni indipendentemente variabili, è necessario per sostenere un equilibrio economico tra certi vantaggi biologici ottenuti e i costi che bisogna affrontare per ottenerli. Per mezzo del condizionamento, l’organismo è messo in grado di andare diritto verso la destinazione di qualche obiettivo che abbia un valore di sopravvivenza ed offra una ricompensa futura malgrado il fatto che deve cominciare la sua attività nella morsa di una situazione di stimolo attuale che agisce da arma fortemente repressiva. Questo elemento di previdenza costituisce la funzione più importante del condizionamento. Mette in grado l’organismo di pagare un prezzo per qualche cosa che sarà ottenuta più tardi, prezzo consistente in consumo di energia, nell’incorrere in certi rischi e in altri svantaggi. L’equilibrio tra piacere e dispiacere, tutti i fenomeni che Sigmund Freud chiamava “Lust Ökonomie”, rappresentano il lato soggettivo di questo tipo di accordo. Se questo negoziare deve fruttare, all’organismo o alla sua specie, un netto guadagno in termini di valore di sopravvivenza, il prezzo pagato deve essere in proporzione al guadagno che ap215

porta. Sarebbe cattiva strategia per un lupo andare a caccia, malgrado il freddo, in una notte d’inverno particolarmente cattiva; semplicemente non può permettersi di pagare un pasto con un dito o due congelati. Tuttavia, possono presentarsi delle circostanze, per esempio una terribile carestia, in cui il nostro lupo sarebbe davvero saggio se andasse a caccia senza riguardo per costi o rischi, giocando un’unica, ultima carta. Questo esempio serve a dimostrare che non c’è una relazione costante tra il valore della meta raggiunta e il prezzo pagato per raggiungerla. Esattamente come nell’economia commerciale, il prezzo che si deve considerare equo in una data situazione è determinato dalle leggi dell’offerta e della domanda. La forza variabile delle motivazioni che provocano il comportamento appetitivo, è determinata in gran parte dai bisogni dell’organismo e della specie – molto spesso, in realtà, nel modo più diretto, dai bisogni dell’individuo. L’efficacia che il conseguimento dell’obiettivo possiede, come rinforzo del comportamento precedente, varia in proporzione alla forza di questa motivazione. La disposizione a sopportare una punizione, inevitabile nel superamento degli ostacoli, fa esattamente la stessa cosa. È un sistema immensamente complicato e con precisione regolato in un sistema di meccanismi di rinforzo e di estinzione variabili a seconda dell’adattamento, che raggiungono un equilibrio bilanciato nell’economia dell’individuo. Credo si possa rispondere senza esitazione alla prima domanda di Ronald Hargreaves riguardante la funzione di sopravvivenza del meccanismo disturbato, dicendo che i sintomi fin qui discussi, l’incapacità di aspettare, l’incapacità di sopportare il dispiacere, la mancanza di volontà di muoversi e la debolezza del sentimento di compassione, sono tutti causati da un disturbo nel meccanismo che raggiunge un bilanciato equilibrio nell’economia piacere-dispiacere. Passo alla seconda domanda di Hargreaves: qual è la natura del disturbo? Per rendere comprensibile il mio tentativo di risposta, devo prima dire qualche parola sulle proprietà fisiologiche e su quelle storiche di questo meccanismo equilibrante. Come molte altre funzioni neuro-sensoriali, il meccanismo in discussione è soggetto ad assuefazione o “adattamento sensoriale”. Questo termine, anche se generalmente accettato dai fisiologi sensoriali, non è una scelta felice, perché l’effetto del fenomeno 216

non deve necessariamente essere adattabile, nel senso della sopravvivenza. L’“attenuazione” della reazione ad uno stimolo – o ad una combinazione di stimoli – troppo spesso ripetuti, è vantaggiosa soltanto sulla base della probabilità statistica che uno stimolo ricorrente non abbia la probabilità di denotare qualcosa di realmente importante. Sotto certi aspetti, l’assuefazione può essere simile alla fatica e può anche essersi sviluppata filogeneticamente da certe forme di fatica. La sua funzione, tuttavia, è del tutto diversa. Inoltre, quest’assuefazione non è localizzata nell’organo periferico di senso, ma, come ha sperimentalmente dimostrato Margret Schleidt, nello stesso sistema nervoso centrale. L’assuefazione non è sempre specifica di uno stimolo particolare, ma spesso di una combinazione altamente complicata di stimoli. È soltanto la soglia di questa particolare stimolazione che si è alzata, o, in altre parole, è soltanto la reazione allo stimolo che è diminuita, mentre tutte le altre reazioni e tutte le altre situazioni di stimolo, anche quelle molto simili, restano invariate. La seconda proprietà fisiologica, anche questa comune a molte funzioni nervose, è quella dell’inerzia. Ogni intervallo di tempo in un circuito di regolazione porta agli effetti del rimbalzo e dell’oscillazione. Se una deviazione dal “Soll-Wert” si verifica in un ciclo omeostatico, la restituzione di questo valore è difficilmente raggiunta in una curva diretta smorzata, ma nella maggioranza dei casi va oltre il valore di riferimento e alla fine lo raggiunge con una o più oscillazioni al di sopra o al di sotto del valore. Questo “andare oltre” il segnale posto dal sistema di regolazione costituisce ciò che generalmente si chiama rimbalzo o contrasto. Tra altre più complicate cause, il contrasto è uno dei fattori che fanno sì che le attività compaiano in modo esplosivo o intermittente, invece di “dribblare” costantemente. In costante presenza di cibo, per esempio, un animale non mangia di continuo e molto lentamente, ma mangia finché è sazio e poi smette per un tempo considerevole. Questo perché i cicli regolatori dell’assunzione di cibo passano il limite da entrambe le parti: prima l’animale continua a mangiare per inerzia, un po’ più a lungo di quanto dovrebbe, poi, avendo mangiato un po’ troppo, resta refrattario alla continua presenza del cibo, perché lo stimolo che da questo proviene, “insinuandosi dentro”, sollecita una risposta, anche questa volta un po’ più tardi di quanto esattamente corrisponda alla soglia del valore di riferimento. 217

Infine, per capire il funzionamento dell’apparato equilibrante piacere-dispiacere è necessario considerare le circostanze in cui si è storicamente originato. Al tempo della sua probabile origine, l’umanità trascinava un’esistenza precaria. Per questo porta tutti i segni di una pressione selettiva che lavora nella direzione della massima economia. All’alba dell’umanità, l’uomo non poteva permettersi per alcuna cosa di pagare un prezzo troppo alto. Doveva essere estremamente riluttante a spendere qualsiasi tipo di energia, di rischio o di possesso. Ogni più piccolo guadagno doveva essere afferrato avidamente. La pigrizia, l’ingordigia e qualche altro vizio del giorno d’oggi, erano allora una virtù. Evitare qualunque cosa spiacevole, come il freddo, il pericolo, lo sforzo muscolare e così via, era la cosa più saggia che gli uomini potessero fare. La vita era abbastanza dura da escludere qualunque pericolo di diventare troppo “teneri”. Queste erano le circostanze a cui fu adattato nell’evoluzione il nostro meccanismo di equilibrio piacere-dispiacere. Bisogna ricordarlo per capire il suo presente insuccesso. Per ovvie ragioni, il nostro apparato di economia piacere-dispiacere è incline al cattivo funzionamento nelle condizioni della civiltà moderna. L’uomo ha avuto troppo successo nell’evitare e aggirare tutte le situazioni di stimolo provocanti dispiacere e troppo intelligente nell’inventare sempre più gratificanti attrattive “super-normali”. L’inevitabile conseguenza di ciò è stata una sempre crescente sensibilizzazione a qualsiasi stimolazione che provochi sensazioni di dispiacere accompagnate da una corrispondente diminuzione delle risposte a situazioni di stimolo precedentemente piacevoli. È una vecchia e trita verità che non c’è gioia, per quanto grande, che non diventi stantia con la continua ripetizione, e tuttavia l’umanità moderna sembra averlo dimenticato. Inoltre, in tutta la sua pretesa saggezza, l’uomo non sembra capire che i più alti livelli di felicità a lui accessibili possono essere raggiunti soltanto sfruttando il fenomeno del contrasto. Non c’è sentiero verso le vette della beatitudine se non attraverso la valle del dolore, e l’uomo moderno è così viziato e coccolato che sfugge al pagamento anche del prezzo più modesto di sconfitta e fatica che la natura ha posto come prezzo per ogni gioia terrena. È così semplice! Consumare ogni gioia fino al punto del pieno esaurimento è un’economia del piacere del tutto cattiva e ancor peggio è supe218

rare quel punto della soglia già innalzata, per scoprire la stimolazione super-normale. Questo procedimento è paragonabile al guidare un carretto con un cavallo perennemente stanco, continuando a frustarlo perché non si può farlo andare più in fretta di quanto un animale riposato andrebbe senza la frusta. Oltre ad essere poco salutare per il cavallo, ciò preclude l’optimum della realizzazione che si può occasionalmente ottenere frustando un cavallo ben riposato. Si potrebbe pensare che l’essere umano più stupido sulla terra dovrebbe rendersi conto di quest’errore, e tuttavia la gente non lo vede. Ci sono molti lati della vita civile in cui la gente intelligente commette errori analoghi a quelli d’una madre sciocca, che credesse di poter aumentare l’ingestione di cibo in un bambino debole alimentandolo esclusivamente con squisitezze. Per ciò che riguarda l’economia del piacere, questo è altrettanto stupido di ciò che accade abbastanza frequentemente nell’economia commerciale. L’industria delle balene, per esempio, ha estinto la popolazione delle balene al punto da lasciare a stento qualcosa degno di essere sfruttato, e la mantiene a livello di esaurimento, perché gli sfruttatori mancano di intelligenza e preveggenza così come delle riserve finanziarie necessarie per l’unica strategia ragionevole di lasciare che la popolazione delle balene si ricostituisca al punto da fornire la massima resa. Questo è un modello commerciale perfetto di ciò che accade nell’umana economia del piacere. L’incapacità di aspettare, di trattenersi per il periodo necessario per permettere alla soglia di stimolazione piacevole di recuperare i suoi valori normali, naturalmente ha conseguenze dannose per il ritmo con cui vengono ripetute le attività di consumo. Come ho già spiegato, l’apparato che equilibra il prezzo da pagare contro il vantaggio da ottenere è anche responsabile dell’importante funzione di far sì che le attività compaiano in modo esplosivo o intermittente, invece di “dribblare” costantemente. Questo, tuttavia, è esattamente ciò che accade come conseguenza del disturbo qui in discussione. Il soggetto che ne è afflitto, è incapace di affrontare, anche per un breve periodo, la più piccola privazione. Come il mio nipotino, può aver tanta paura del più leggero dolore per qualsiasi privazione, da anticiparlo anche prima di sentirlo. Il ritmo normale del mangiare con soddisfazione dopo aver provato realmente la fame, la gioia di qualunque realizzazione, dopo aver duramente lottato per essa, la soddisfazio219

ne di raggiungere il successo dopo aver duramente lavorato per esso, quasi alla disperazione, in breve, tutta la gloriosa ampiezza delle onde delle emozioni umane, tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta è smorzato ad una oscillazione appena percettibile tra appena percettibili dispiaceri e piaceri. Il risultato è un’incommensurabile noia. Se avete occhi per vedere, percepirete questa noia in una moltitudine realmente spaventosa di giovani volti. Avete mai guardato i giovani corteggiarsi, baciarsi, accarezzarsi, fare tutto, tranne l’accoppiamento, in pubblico? Non è necessario essere guardoni per vederlo, non si può fare a meno di vederlo se solo si va la sera per lo Hyde Park o si fa un giro in metropolitana a Londra. In questi sfortunati il fuoco dell’amore e il brivido del sesso sono abbassati all’intensità di emozione osservabile in un bambino viziato che succhia, mezzo disgustato, un lecca-lecca che non aveva chiesto. La gioventù annoiata vive in un suo inferno particolare, deve essere oggetto di sincera pietà, e nella nostra commiserazione non dobbiamo essere scoraggiati dal fatto che questa gioventù ci odia più di qualunque altra cosa al mondo. Le cause di questa ostilità sono soltanto in parte costituite dal disturbo del principio del piacere di cui ho prima parlato. In massima parte stanno nella disfunzione del meccanismo che trasmette le norme culturali del comportamento sociale da una generazione all’altra. Di questo parlerò tra poco, ma devo prima discutere il risvegliarsi dell’odio negli effetti già menzionati. Il “rammollirsi” è un processo rapidamente progressivo, quindi la più giovane generazione ne è automaticamente più tormentata di quella più anziana. Perciò i genitori sono facilmente tentati di assumere il ruolo del “padre spartano” e a predicare i meriti di una vita dura e frugale. Questa è naturalmente la cosa peggiore che potrebbero fare. I terapisti che hanno lottato con successo contro il fenomeno del “Werweichlichung” (la parola tedesca è di gran lunga la più descrittiva; “viziare” o “coccolare” sembra applicarsi soprattutto ai bambini, ed “effeminato” è un oltraggio alle donne!) sono unanimi nell’opinione che le circostanze agenti in senso contrario devono provenire da un ambiente impersonale e non da un agente umano. Helmut Schulze, nel suo libro Der progressiv domestizierte Mensch ha sottolineato alcune interessanti possibilità di terapia e molto prima di lui Kurt Hahn aveva applicato lo stesso principio. 220

Il tipo di terapia illumina la fonte principale del disturbo: l’essenza di ogni contromisura consiste nel portare il “paziente” in una difficoltà reale che, se possibile, non riguardi soltanto lui, ma richiami violentemente reazioni sociali. La più efficace terapia per adolescenti “blasé” che Kurt Hahn abbia progettato è di affidare loro il compito di salvare una vita con qualche pericolo della loro. Helmut Schulze arrivò alle stesse identiche conclusioni sulla base della paradossale osservazione che alcuni dei suoi pazienti, i quali avevano vissuto in campo di concentramento e in queste terribili circostanze si erano dimostrati eroi per coraggio e altruismo, erano diventati neurotici o erano andati in altro modo in rovina appena avevano riacquistato la sicurezza di una comoda vita civile. Un’altra dimostrazione dello stesso paradosso è rappresentata dai casi non infrequenti di giovani che trovano le comodità della vita moderna noiose al punto da tentare il suicidio, riuscire a ferirsi in modo grave e poi, sorprendentemente, continuare a vivere felici con la schiena spezzata o i nervi ottici colpiti da un proiettile. Ora che hanno un problema reale da affrontare e superare, trovano la vita degna di essere vissuta. Per riassumere: la causa dei sintomi prima discussi è, almeno in gran misura, da trovarsi nel fatto che i meccanismi di equilibrio di piacere e dispiacere sono sbilanciati perché l’uomo civile è privo di ostacoli che lo forzino ad accettare una giusta quantità di doloroso, penoso dispiacere, o morire.

Squilibrio dei meccanismi di conservazione e adattamento della cultura Passo ora alla descrizione di un altro gruppo di sintomi, quelli che penso causati dallo squilibrio di quel sistema di comportamento il cui compito è trasmettere la tradizione da una generazione all’altra e, contemporaneamente, eliminare le informazioni antiquate e acquisirne di nuove e adattabili. Tutti questi fenomeni portano alla più allarmante ostilità che la giovane generazione porta alla più anziana e che caratteristicamente è ricambiata soltanto a malincuore e in proporzioni minime dagli adulti. Una minima parte di questa ostilità può essere provocata dal tentativo maldestro da parte della più vecchia generazione di impersonare il proverbiale “padre spartano” per ciò che riguarda il processo di 221

rammollimento di cui abbiamo parlato. I giovani possono perdonarci i consigli a fare del moto, possono anche passar sopra al fatto che guadagniamo i soldi di cui essi vivono, ma ci odiano per altre ragioni e temo che ci odino molto profondamente. Non sono soltanto i “rockers” che lo fanno, benché gli altri non arrivino agli estremi di torturare la gente soltanto perché è vecchia. Un elemento ambivalente di odio è riscontrabile, per gli iniziati, anche nel comportamento dei figli, apertamente e consciamente affezionati ai loro genitori. Il loro odio non è “personale”, ma diretto alle proprietà culturali della più vecchia generazione. Odiano il nostro modo di vivere, i nostri atteggiamenti, il modo in cui ci vestiamo, ci laviamo e radiamo, non si fidano di noi e rifiutano di credere a ciò che diciamo. Pensano di essere splendidamente liberi dall’influenza dei genitori, mentre in realtà copiano pedissequamente la precedente generazione, benché con segno negativo. Quando gli hippies indossano sofisticati panciotti di velluto e portano lunghe ciocche ricciute, pantaloni attillatissimi e catene attorno al collo, non lo fanno perché piacciano loro realmente, ma perché non piacciono a noi. Tutto ciò è fatto per contrariarci, e il peggio è che la nostra reazione è esattamente quella che essi si aspettano. Io, almeno devo personalmente confessare il desiderio di prendere a calci i giovani languidamente graziosi e un po’ meno, i tipi barbuti e non lavati. Sono arrabbiato con me stesso perché non posso impedirmi di arrabbiarmi, il che non è affatto degno dell’etologo iniziato, ma così è! Altri vecchi, più dignitosi di quanto io non sia, e meno disposti a sottoporre le loro ragioni ad un’analisi etologica auto-beffante, si infuriano senza inibizioni con la più giovane generazione, e questa mutua ostilità, per un processo di “escalation”, può raggiungere livelli pericolosi ogni volta che la generazione più giovane e quella più vecchia sono spinte l’una contro l’altra, come per esempio, nelle scuole e nelle università. L’ostilità che tanti membri della giovane generazione portano verso i più vecchi, ha molto in comune con quella che si può osservare tra gruppi etnici nemici. Il termine “gruppo etnico” è qui usato per descrivere un concetto molto ampio: quello di qualunque comunità i cui individui sono tenuti assieme dal loro rispetto per simboli comuni più che da un’amicizia personale. Lo svilupparsi di un gruppo etnico comincia col primo verificarsi di norme di comportamento culturalmente ritualizzate specifiche di quel grup222

po. Queste norme ritualizzate possono dapprima consistere in abitudini del tutto insignificanti, in un accento, in fogge di abbigliamento ecc., come si può osservare nelle scuole, in unità militari o in piccole comunità simili. Queste norme ritualizzate, specifiche del gruppo, giocano un ruolo importante nel mantenere il gruppo riunito. Sono considerate un valore da tutti i suoi membri. “Buone maniere” sono naturalmente quelle del proprio gruppo e il suo modo di vestire è quello considerato “elegante”. Le deviazioni dalle regole stabilite da queste ritualizzazioni sono considerate spregevoli e socialmente inferiori. Quindi, due gruppi simili di questo tipo, ciascuno consapevole del disprezzo con cui è considerato dall’altro, evidenzieranno un rapido aumento dell’ostilità. Contatti ostili di questo tipo aumentano il valore che ciascun gruppo attribuisce alle sue specifiche ritualizzazioni. Gli etnologi sanno da lungo tempo che tradizioni e costumi paesani, che stanno altrimenti scomparendo in tutta Europa, conservano tutta la loro forza in località dove gruppi etnici diversi sono in diretto contatto, per esempio in Ungheria, dovunque si trovino villaggi Sloveni e Ungheresi fra loro confinanti. Gruppi etnici che si sviluppano indipendentemente l’uno dall’altro, si differenziano sempre più col passare del tempo. In altre parole, le loro proprietà caratteristiche permettono deduzioni sulla loro età e la loro storia, più o meno allo stesso modo in cui le proprietà geneticamente fissate di specie di animali e piante, permettono la ricostruzione del loro albero genealogico. Il metodo comparato è egualmente applicabile nella spiegazione della storia culturale e filogenetica. Naturalmente si deve essere pratici delle sottigliezze e delle trappole di questo metodo, in particolare si deve sapere come escludere l’adattamento convergente come fonte di errore. Pochi etnologi sembrano consapevoli di queste necessità metodologiche. Uno sviluppo culturale divergente erige barriere tra gruppi etnici proprio come un’evoluzione divergente tende a separare le specie. Fu Erik Erikson ad attirare per primo l’attenzione su questo fenomeno e a coniare per esso il termine di pseudo-speciazione culturale. Per se stesso, è un processo perfettamente normale e perfino auspicabile, perché un certo grado di isolamento tra gruppi confinanti può ben essere un vantaggio per un rapido sviluppo culturale, per motivi analoghi a quelli per cui l’isolamento geografi223

co facilita l’evoluzione delle specie. C’è tuttavia un lato gravemente negativo: la pseudo-speciazione è causa di guerre. La coesione del gruppo creata dal rispetto comune delle norme sociali specifiche del gruppo e dai suoi riti, è inseparabilmente congiunto al disprezzo e perfino all’odio del gruppo rivale simile. Se la divergenza dello sviluppo culturale è stata portata abbastanza avanti, porta inevitabilmente alla sfortunata conseguenza che un gruppo non considera l’altro del tutto umano. In molte tribù primitive, il nome della propria tribù è sinonimo di Uomo – e da questo punto di vista non si può più considerare cannibalismo il mangiare i guerrieri caduti della tribù nemica! La pseudo-speciazione sopprime il meccanismo istintivo che normalmente impedisce l’uccisione di membri della stessa specie mentre, diabolicamente, non inibisce affatto l’aggressione intraspecifica. Non c’è dubbio che la generazione più giovane risponde a quella dei genitori della stessa comunità, con tutti gli schemi tipici del comportamento ostile che sono normalmente sollecitati dall’interazione con un gruppo straniero e ostile. La nostra deplorevole familiarità con questo fenomeno ci impedisce di renderci conto di quale strana distorsione del normale comportamento culturale essa rappresenti realmente. A questo punto, poniamo la prima delle domande di Ronald Hargreaves: qual è il meccanismo che scopriamo disturbato e qual è la sua funzione normale al servizio della sopravvivenza delle specie? Ovviamente, le funzioni interessate sono quelle che normalmente assicurano la continuazione del gruppo etnico nel tempo. Ho già detto che, nell’esistenza ininterrotta di una cultura, tutti quei meccanismi che conservano e trasmettono da una generazione all’altra i riti culturalmente ritualizzati e le norme di comportamento sociale, attuano funzioni strettamente analoghe a quelle che i meccanismi di ereditarietà eseguono per la preservazione di una specie. Immagazzinano conoscenza (non semplice informazione nel senso della teoria dell’informazione) e la passano da una generazione all’altra; nel mio saggio Le basi innate dell’apprendimento ho spiegato che cosa accade ad una specie o ad una cultura quando la conoscenza immagazzinata va perduta, ed ora cercherò di riassumere ciò che ho detto là, il più concisamente possibile. Se i dettagli vanno perduti nella “blueprint ” (riproduzione) genetica della struttura generale su larga scala di un organismo, la conseguenza è una malformazione; se la perdita ri224

guarda la microstruttura dei tessuti, il risultato è molto spesso una regressione ad un tipo di struttura più primitivo da un punto di vista ontogenetico e filogenetico. Tra questi due è possibile qualunque tipo di soluzione intermedia. Se la perdita di conoscenza va tanto in là che, nel corpo di un organismo pluricellulare alcune cellule dimenticano completamente di essere parte di un metazoo adulto, ritorneranno naturalmente al comportamento degli animali unicellulari o delle cellule embrioniche, in altre parole cominceranno a moltiplicarsi senza freno, per divisione. Così si forma un tumore e, per ovvie ragioni, la sua natura maligna è in proporzione diretta all’estensione della regressione, all’immaturità come dice il patologo – dei suoi tessuti. Benché solo incidentalmente, devo qui ricordare una vecchia mia ipotesi secondo la quale alcuni dei fenomeni in discussione hanno una base genetica. In tutti questi sintomi allarmanti non posso non sentire una forte corrente di infantilismo. L’assiduità, lo sforzo a lungo termine per raggiungere mete future, la paziente sopportazione di dure fatiche, il coraggio di assumersi le responsabilità di un rischio calcolato e, soprattutto, la capacità di compassione, sono tutte caratteristiche dell’adulto e sono in realtà così poco caratteristiche dei bambini che, in loro, siamo tutti pronti a perdonare la loro assenza. Sappiamo dal lavoro di Bolk e di altri che l’Uomo deve qualcuna delle sue proprietà specificatamente umane a ciò che ha chiamato ritardo, in termini di comune linguaggio biologico, alla neotenia. Nel mio contributo al libro di Herberer sull’evoluzione io stesso ho cercato di dimostrare che questa ritenzione di caratteri infantili nell’Uomo ha il suo parallelo in molti animali domestici e che uno di questi caratteri, la curiosità infantile è stato uno dei presupposti essenziali per la genesi dell’uomo. Ho il vago sospetto che il genere umano debba pagare per questo dono del cielo esponendosi al pericolo che un ulteriore processo di autoacclimatazione progressiva produca un tipo di uomo la cui costituzione genetica lo renda incapace di piena maturazione e che quindi giochi nel contesto della società umana lo stesso ruolo che le cellule immature, con la loro proliferazione infiltrante, giocano nell’organizzazione del corpo. È un incubo pensare che la disintegrazione della società possa essere causata dalla disintegrazione genetica dei suoi elementi perché l’educazione – che sotto altri aspetti è la nostra speranza, non avrebbe alcun potere contro di essa! 225

E tuttavia io credo che la maggior parte dei fenomeni di disintegrazione, qui in discussione, siano “soltanto” culturali. Una cultura, però, non è che un sistema vivente, per di più altamente complicato e vulnerabile! Come ho già fatto notare, la sua struttura è in molti punti analoga a quella di sistemi di meno alta integrazione. La riproduzione del programma che, in sistemi preculturali, è immagazzinata nel genoma, nel caso della cultura umana è contenuta in tutte le norme ritualizzate di comportamento sociale, in tutti i simboli da cui dipende la coesione di una cultura, nella logica del linguaggio, nell’adesione a certi valori, in breve, in tutto ciò che viene tramandato da una generazione all’altra. Mentre la conoscenza genetica è presente in forma codificata in ogni singolo individuo di una specie, così che in caso di catastrofe un sopravvissuto è, in teoria, in possesso di tutta la conoscenza necessaria per ricostruire la specie, la conoscenza della tradizione culturale dipende da un magazzino molto più vasto e molto più vulnerabile. La conoscenza culturale – e con questa un’intera cultura, può spegnersi nell’intervallo tra una generazione e la successiva. Gli individui che hanno perduto la conoscenza della tradizione culturale da cui traggono origine, molto spesso si comportano in modo analogo a quello delle cellule tumorali. Non riuscendo a provvedere a se stessi, ricadono nel parassitismo. Non è mio compito, qui, convincere i lettori del fatto che la nostra cultura corre l’immediato pericolo di estinzione; posso rimandarli al lavoro di studiosi come Kurt Hahn, Max Born, John Eccles, Paul Weiss e molti altri. Che un improvviso collasso di cultura non si sia verificato nella storia precedente, non è una giustificata rassicurazione. Non c’è niente di più clamorosamente falso della pretesa saggezza di Rabbi Ben Akiba, secondo cui tutto ciò che accade è già accaduto prima. Niente lo è, ed io mi avvio a dimostrare che un’improvvisa frattura nella tradizione culturale ci sta minacciando proprio ora. Con ciò passo alla seconda domanda di Hargreaves che riguarda le cause che provocano un cattivo funzionamento o anche la cessazione di un funzionamento, nel meccanismo di trasmissione della tradizione. Devo cominciare col descrivere alcune proprietà funzionali di questo meccanismo. Anche se l’intelligenza e l’inventiva umana “entrano nei” suoi risultati, la formazione di una cultura umana produce qualcosa che non è “fatto dall’uomo, così come lo è un 226

ponte o un aeroplano”. Nei miei saggi sulla ritualizzazione genetica e culturale ho dettagliatamente spiegato perché è così. Una cultura, come una foresta, ha bisogno di molto tempo per crescere, come una foresta può essere distrutta in un breve olocausto. Ma, diversamente dalla foresta, non lascia dietro a sé suolo fertile, su cui possano rapidamente crescere nuove piante, bensì una landa deserta priva di ogni fertilità. Credere che una cultura possa essere “costruita” cominciando dal nulla, da una generazione di uomini, è uno dei più pericolosi errori, non soltanto dei giovani, ma anche dei vecchi antropologi. Come Karl Popper ha messo in rilievo, la distruzione totale del nostro mondo come cultura, il “terzo mondo” di Popper, ci riporterebbe al paleolitico. Le norme ritualizzate di comportamento sociale, che sono trasmesse per tradizione, rappresentano un complicato scheletro di supporto senza cui la cultura non potrebbe sussistere. Come tutti gli altri elementi dello scheletro, quelli della cultura possono espletare la loro funzione di supporto soltanto a prezzo di escludere certi gradi di libertà. Il verme può piegarsi dovunque voglia, noi possiamo piegare un arto soltanto dove ci sia una giuntura. Qualunque cambiamento di struttura richiede una demolizione e una ricostruzione e un periodo di aumentata vulnerabilità tra i due processi. Un esempio di questa teoria è il crostaceo che deve cambiare il suo involucro scheletrico per poterne avere uno più grande. La specie umana è in possesso di un meccanismo tutto particolare, che offre la possibilità di un cambiamento nella struttura culturale. All’avvicinarsi della pubertà i giovani cominciano ad allentare la loro fedeltà ai riti e alle norme sociali di comportamento trasmesse loro dalla tradizione familiare e, allo stesso tempo, a cercare nuovi ideali da seguire e nuove cause da abbracciare. Questa “muta” di idee e ideali tradizionali, è un periodo di vera crisi nell’ontogenesi dell’uomo, implica rischi altrettanto gravi di quelli che minacciano il granchio con il suo nuovo, morbido scheletro. È in questa fase dell’ontogenesi dell’uomo che vengono elaborati i cambiamenti nella grande eredità della tradizione culturale. La “muta” puberale è la porta aperta attraverso cui le nuove idee guadagnano l’ingresso e vengono integrate in una struttura che sarebbe altrimenti troppo rigida, La funzione di preservazione della cultura e quindi di preservazione della specie, di questo meccanismo adattivo, presuppone un certo equilibrio tra le vec227

chie tradizioni che devono essere mantenute e i cambiamenti adattivi che rendono necessario scartare certe parti dell’eredità tradizionale. Secondo me, è di certo questo meccanismo che vaglia e trasmette la tradizione e la cui perturbazione crea tutti i sintomi appena descritti. Possiamo andare avanti con la seconda domanda di Hargreaves riguardante la natura della perturbazione, prima di porne una terza: quali sono le cause? L’essenza del disturbo sta senza dubbio nel fatto che il processo di identificazione per cui la generazione più giovane normalmente accetta e fa sua la maggior parte dei riti e delle norme di comportamento sociale caratteristiche della più vecchia, è seriamente ostacolato o del tutto impedito. Su questo argomento sono stati scritti bellissimi libri da Erik Erikson, Mitscherlich e altri, quindi non è il caso di dilungarmi. Tuttavia, bisogna sottolineare che questo fallimento nell’identificarsi con le norme sociali della cultura dei genitori è causa diretta di fenomeni realmente patologici. Il bisogno di abbracciare qualche tipo di causa, di garantire obbedienza a qualche tipo di ideale, in breve di appartenere a qualche tipo di gruppo umano, è forte come qualunque altro istinto. Come ogni altra creatura che, sotto la spinta imperiosa di un istinto non riesce a trovare il suo obiettivo adeguato, l’adolescente sradicato cerca e invariabilmente trova un oggetto sostitutivo. Qui, la disfunzione patologica è particolarmente significativa per l’analisi del meccanismo di base filogeneticamente programmato. Il diagramma della situazione sociale cui anela l’istinto non ricompensato, sembra semplice, come tendono ad essere tutte quelle situazioni di stimolo che costituiscono la meta del comportamento appetitivo. L’adolescente deve avere a disposizione un gruppo con cui identificarsi, qualche semplice rito e norma sociale da seguire, e qualche gruppo nemico per liberare l’entusiasmo militante della comunità. Se avete visto il musical West Side Story, psicologicamente eccellente, avete un perfetto esempio di come le virtù sociali del coraggio, dell’altruismo, dell’amicizia e della lealtà raggiungano le vette più alte ed esaltanti in una guerra di bande, completamente priva di ogni più alta meta o valore, in un’orgia di uccisioni reciproche, assolutamente priva di senso. L’arte che rappresenta queste disfunzioni deplorevoli non ci commuoverebbe così profondamente come fa, se non toccasse 228

una corda che ancora risponde nella maggior parte di noi. La stessa semplicità, il carattere quasi diagrammatico dell’abbozzo rappresenta un richiamo a strati molto profondi delle nostre anime, a niente di più o di meno del programma filogenetico della guerra tribale. Quello che osserviamo praticamente in tutti i gruppi giovanili che spezzano la tradizione e assumono un atteggiamento ostile verso la generazione più vecchia, è la più o meno completa realizzazione di questo programma. I rockers di Amburgo, che dichiarano guerra aperta ai più anziani, rappresentano l’esempio più chiaro; ma anche i gruppi più enfaticamente non violenti sono basati essenzialmente sugli stessi principi. Nascono tutti come surrogati per calmare il bruciante bisogno degli adolescenti che, per i processi descritti, sono privati di un gruppo naturale di cui possano abbracciare le cause e per i cui valori possano lottare. Considerando tutto ciò siamo, penso, giustificati nel presupposto che sia soprattutto il fallimento di una normale identificazione a causare l’allarmante rottura del meccanismo la cui importante funzione di sopravvivenza sta nel vagliare così come nel tramandare la tradizione culturale da una generazione alla successiva. Arriviamo ora alla domanda: Quali sono le cause che contribuiscono all’erezione di un ostacolo apparentemente insormontabile alla normale identificazione? Possiamo elencarne un certo numero, ma non possiamo essere sicuri di conoscerle tutte. Gli ottimisti, i quali credono che uomini e donne siano esseri ragionevoli, tendono a pensare che la gioventù ribelle sia spinta da motivi razionali. Ci sono in realtà molte buone ragioni di rivolta verso le generazioni più vecchie. È perfettamente vero che praticamente tutti i “sistemi”, da tutte le parti di tutte le cortine, stanno commettendo peccati imperdonabili contro l’umanità. Non sto parlando soltanto delle crudeltà vere e proprie, della soppressione politica delle minoranze, come i Cecoslovacchi, o dei massacri di Indiani innocenti da parte dei Brasiliani, ma anche dei peccati mortali contro la biologia e l’ecologia del genere umano che sono continuamente perpetrati da tutti i governi: dello sfruttamento, dell’inquinamento e della distruzione finale della biosfera in cui viviamo, della spinta costantemente in aumento della competizione commerciale che priva l’uomo del tempo in cui essere uomo, e di simili fenomeni di disumanizzazione. I gio229

vani hanno realmente delle buone ragioni di porre in discussione le mete per cui sta lottando la maggioranza delle generazioni più anziane e penso che essi realmente riconoscano l’intrinseca mancanza di valore degli scopi utilitaristici. Ci sono molte circostanze che tendono a sollevare la nostra speranza che ci sia un elemento di intelligente razionalità nella ribellione della gioventù. Una è la sua ubiquità; la protesta giovanile contro l’ortodossia stalinista nei paesi comunisti, contro la discriminazione razziale a Berkeley, contro il modo di vita americano utilitaristico e commerciale in tutti gli Stati Uniti, contro l’antiquata tirannia dei professori delle università tedesche ecc. Un’altra ragione di ottimismo è che mai, per quanto io sappia, i giovani hanno esercitato il loro potere in una direzione sbagliata, mai hanno domandato un più efficace sistema commerciale, un armamento migliore, o un atteggiamento più nazionalistico del loro governo. In altre parole sembrano sapere, o almeno sentire, in modo molto esatto ciò che è sbagliato nel mondo. Una terza ragione per presumere che ci sia un notevole elemento razionale nella ribellione della gioventù è una ragione tutta speciale: gli studenti di biologia, che si ribellano sono molto più aperti ad una comunicazione intelligente di quelli di filosofia, filologia e (mi dispiace dirlo) di sociologia. Non sappiamo quanta parte della ribellione dei giovani sia motivata da considerazioni razionali e intelligenti. Devo confessare che temo sia soltanto una piccolissima parte anche in quei giovani che professano e credono onestamente di combattere per motivi puramente razionali. Le radici principali della ribellione dei giovani vanno trovate in cause etologiche, del tutto irrazionali, come spero di dimostrare. Molti adulti hanno scoperto, a spese loro, che è inutile cercare di ragionare con i giovani ribelli. In molti paesi, professori politicamente orientati a sinistra hanno cercato, piuttosto pateticamente, di propiziarsi gli studenti ribelli facendo tutte le possibili concessioni alle loro domande. Come il sociologo tedesco F. Tenbruck ha fatto notare, questo tentativo portò, in ogni caso, al concentrarsi dell’attacco sui pretesi pacificatori che furono insultati con particolare rancore e realmente fischiati, esattamente allo stesso modo in cui viene fischiato in una corrida il toro che rifiuta di combattere. Le opinioni politiche non hanno alcun peso: Herbert Marcuse, estremista di sinistra e patrocinatore della cancellazione completa di ogni tradizione, fu insultato da Cohn-Ben230

dit e dai suoi giovani non perché avesse altre opinioni – il che non è vero – ma perché aveva quasi settanta anni. Chiunque abbia familiarità con i fatti etologici, non ha che da osservare le facce distorte dall’odio dei tipi più primitivi di studenti ribelli per rendersi conto che non soltanto non vogliono, ma sono del tutto incapaci di giungere a un’intesa con i loro antagonisti. In gente che ha sul volto quell’espressione, l’ipotalamo ha assunto il controllo e la corteccia è completamente inibita. Se un loro gruppo vi si avvicina, avete la scelta tra la fuga e il combattimento come il vostro carattere o la situazione possono richiedere. Per evitare spargimento di sangue un uomo responsabile può, essere obbligato a scegliere la prima, ed essere accusato poi di codardia. Se deciderà di combattere, sarà, accusato di brutalità; quindi, qualunque cosa faccia sarà sempre considerata sbagliata. Pure, sembra quasi inutile discuterne, perché pare impossibile raggiungere la corteccia, attraverso la cortina di fumo dell’eccitazione ipotalamica. E che cosa mai dovrebbe fare un vecchio che non sia né un codardo né un bruto? Dobbiamo affrontare il triste e molto allarmante fatto che, qualunque cosa dica il giovane ribelle riguardo ai motivi del rigetto di tutto ciò che la più vecchia generazione sostiene, le sue azioni provano, a chiunque abbia qualche conoscenza di nevrosi, che la loro vera motivazione deve essere cercata in disturbi molto più profondi e antichi. Quando gli studenti ribelli ricorrono al defecare, urinare e masturbarsi pubblicamente nelle aule dell’università, come si sa hanno fatto a Vienna, diventa anche troppo chiaro che non è una protesta ragionata contro la guerra in Vietnam o contro l’ingiustizia sociale, ma una rivolta del tutto inconscia e del tutto infantile contro tutti i precetti dei genitori in generale, fin dai primi insegnamenti igienici. Questo tipo di comportamento può essere spiegato soltanto sulla base di una vera e propria regressione che porta alla recrudescenza di fasi ontogenetiche della prima infanzia o, da un punto di vista storico, a situazioni preculturali molto al di sotto di quelle del paleolitico. Anche soltanto questo è motivo sufficiente per sospettare fortemente che il fondamento di questo tipo di nevrosi sia gettato nel primo periodo di vita. Il fatto allarmante è, non che questo tipo di malattia mentale non si verifichi in realtà, ma che i suoi sintomi più scopertamente evidenti passino inosservati o almeno non biasimati da giovani intelligenti e altrimenti responsabili. 231

Siamo nel giusto nel concludere che una gran parte dei fattori che, impedendo la normale identificazione culturale, provocano l’ostilità dei giovani, sono propriamente non razionali. Possiamo approssimativamente dividere questi fattori in tre gruppi. I primi sono quelli che allargano la spaccatura su cui si dovrebbe gettare un ponte tra le due generazioni; i secondi sono quelli che bloccano i processi che normalmente creano il ponte; i terzi e più interessanti sono quelli che rendono oggi i giovani di diverse culture più simili l’uno all’altro che ai loro stessi genitori. Il rapido cambiamento al quale l’esplosione della tecnologia, spinta da una tecnocrazia irresistibile, costringe l’ecologia e la sociologia umana, ha come inevitabile conseguenza che le norme culturali del comportamento sociale diventano fuori moda ad una velocità sempre crescente. In altre parole, la proporzione tra quelle norme tradizionali ancora valide e quelle che sono passate di moda, sta cambiando con velocità crescente in direzione delle ultime. Thomas Mann, nel suo meraviglioso romanzo storico e psicoanalitico Giuseppe e i suoi fratelli, ha dimostrato molto convincentemente quanto completa poteva essere l’identificazione di un figlio col padre, poteva permettersi di essere, ai tempi biblici, per il semplice motivo che i cambiamenti che avevano bisogno di essere effettuati tra una generazione e l’altra erano piccoli e trascurabili. Credo che l’umanità abbia ormai raggiunto il punto critico in cui i cambiamenti nelle norme sociali di comportamento, richiesti nel periodo di tempo tra due generazioni, hanno cominciato a superare la capacità dei meccanismi di adattamento puberale. La frattura sempre più grande tra le norme sociali, che le circostanze dettano ad ogni generazione, ha improvvisamente raggiunto una misura su cui le forze dell’identificazione filiale non riescono a gettare un ponte. Dal punto di vista dei giovani, i loro genitori sono ipocriti e bugiardi. In una rapida “escalation” di ostilità cominciano già ora a trattarsi l’un l’altro come gruppi nemici. Il divario tra la rapidità del cambiamento ecologico con le forze di sviluppo tecnologico sull’umanità, e la lentezza relativa del cambiamento adattivo, possibile alla cultura tradizionale, sarebbe da solo una spiegazione sufficiente allo spezzarsi della tradizione. Ci sono, però, un certo numero di altre cause che contribuiscono allo stesso effetto. Il processo indispensabile di identificazione è gravemente ostacolato dalla mancanza di contatti tra le 232

generazioni. La mancanza di contatto genitori-figli, perfino durante i primi mesi di vita, può provocare danni insignificanti ma duraturi: sappiamo, dal lavoro di René Spitz, che è nella primissima infanzia che la capacità di sviluppare contatti umani attraversa il suo periodo più critico. È una delle funzioni pericolosamente tendenti all’atrofia se non completamente usata. La deplorevole sindrome che Spitz ha chiamato “ospitalizzazione” consiste in una mancanza di volontà “autistica” di creare contatti umani, accompagnata da una completa cessazione di comportamento esplorativo e da una risposta negativa a qualsiasi stimolazione esterna in generale. Il bambino volge letteralmente le spalle al mondo e giace nel suo lettino col volto girato verso il muro. Questo sfortunato risultato può essere causato da un apparentemente innocuo cambiamento del personale, cosa che ha luogo nella maggior parte degli ospedali. Il bambino comincia, all’età in cui gli è possibile riconoscere le persone, a creare un legame personale con una delle infermiere e sarebbe pronto ad entrare con lei in una quasi normale relazione mamma-figlio. Quando questo legame viene spezzato dal cambio dei turni del personale, il bambino cercherà di formare un secondo legame e, a malincuore, un terzo e forsanche un quarto, ma alla fine si rassegna ad un autismo che nei suoi sintomi esterni è molto simile alla schizofrenia infantile, qualunque cosa questa possa essere. Il far da mamma ad un bambino è un lavoro a tempo pieno; gli stupidi giochi da bambino sono l’inizio dell’educazione culturale, e molto probabilmente ne sono la parte più importante. Non so l’equivalente italiano di “Bocki, bocki stoβ“, o “Hoppe, hoppe Reiter”, “Guck guck-Dada”, che forse corrisponde al “gioco del cucù”. Avete mai visto il volto di un bambino illuminarsi quando è riuscito ad afferrare il carattere comunicativo di questo gioco e comincia a parteciparvi attivamente? Se l’avete notato, avrete anche afferrato l’importanza di questo primo instaurarsi di una mutua comprensione su base culturale. Oggi le giovani mamme troppo spesso non hanno tempo per questo tipo di sciocchezze, molte di loro si vergognerebbero nel fare stupide cose come cozzare gentilmente contro il bambino con la testa o nascondersi dietro una tenda e saltar fuori dicendo “cucù”. Penso abbiano paura di trattare un bambino troppo antropomorficamente. Può sembrare sorprendente a qualcuno, anche se in realtà non lo è, che questa educazione precoce sia ovviamente indispensabi233

le. Rappresenta la prima introduzione del bambino alle forme ritualizzate di comunicazione, e sembrerebbe che, se questo non viene effettuato alla giusta fase sensitiva dell’ontogenesi del bambino, si crei un danno permanente allo sviluppo delle sue facoltà di comunicazione. In altre parole, dobbiamo affrontare il fatto che la maggioranza dei bambini di oggi è leggermente, ma percettibilmente “ospitalizzata”. Parlano più tardi e vengono più tardi educati al controllo degli sfinteri, come testimoniano i sederini, enormi e distorti dai pannolini, di bambini ormai grandi. Sul principio che non bisogna prestar fede a coloro che hanno più di trent’anni, le madri non mi credono affatto quando dico loro l’età a cui i miei figli ottennero questo controllo. I bambini di oggi sono del tutto “diseducati”, non “conoscono affatto le prime cose”. Come potrebbero, se nessuno perde tempo per spiegarglielo? Quindi la base per i fenomeni posteriori di disumanizzazione, è gettata in età precoce, diminuendo la disponibilità al contatto e alla compassione così come smorzando la naturale curiosità dell’uomo. Sono ben consapevole che il concetto secondo il quale le giovani madri dovrebbero tutte passare la maggior parte del loro tempo con i loro bambini non può essere seguito. La scarsità di contatto madre-bambino è una conseguenza della scarsità di tempo, che a sua volta è causata da una competizione intraspecie e infine da affollamento e da altri effetti della sovrappopolazione. Gli stessi mali fondamentali, con egualmente disastrosi risultati, hanno creato profondi cambiamenti nella struttura sociologica della famiglia. La famiglia pre-industriale era fortunata per quel che riguarda parecchi presupposti di un positivo passaggio di tradizioni. La famiglia lavorava assieme lottando per mete comuni comprensibili ai bambini. Questi aiutavano il padre nel suo lavoro e, facendo ciò, non soltanto imparavano il suo mestiere, ma si creava anche in loro un sano rispetto per la sua forza e le sue capacità. L’aiuto reciproco generava non soltanto rispetto ma anche amore. Poche punizioni, e certamente nessuna percossa, erano necessarie per imprimere nei bambini l’idea della posizione superiore di cui i genitori godevano nella successione delle classi sociali del gruppo. Anche il graduale passaggio del ruolo di comando dal padre al figlio era un procedimento ritualizzato senza attriti, che generava la minor ostilità possibile. Tranne in qualche fortunata 234

famiglia di campagna di vecchio stampo, in qualche parte d’Europa, non so dove queste fortunate circostanze si verifichino ancora. Questo è proprio un peccato, perché sono gli indispensabili presupposti perché la nuova generazione sia pronta ad accettare la tradizione di quella precedente! Quanti bambini di oggi vedono mai il padre al lavoro, o lo aiutano in modo da poter essere impressionati dalla difficoltà di ciò che sta facendo e dall’abilità nell’eseguirlo? Uno stanco papà, che torna a casa dall’ufficio, è tutto fuorché impressionante e se c’è qualcosa che egli vuol fare ancor meno che parlare del suo lavoro è insegnare la disciplina a un bambino disubbidiente. Può anche gridare irritato alla madre se lei, pienamente giustificata, crede necessario farlo. Non c’è niente da ammirare neppure in lei, perché in realtà è la creatura di rango più basso nell’orizzonte del bambino, perché è chiaramente inferiore anche alla domestica a ore, i cui favori cerca di accattivarsi in modo spregevolmente sottomesso, per paura che questa troppo importante persona possa licenziarsi. Oltre a questi mali difficilmente evitabili, i genitori possono aver sentito la teoria “ambientalistica” secondo cui l’aggressività umana è creata dalla frustrazione e possono quindi cercar di evitare ai loro poco fortunati figlioli il bisogno di superare qualunque tipo di ostacolo, compresa, naturalmente, qualsiasi specie di contraddizione da parte dei loro genitori. La conseguenza è che i bambini diventano intollerabilmente aggressivi e, allo stesso tempo, neurotici. Non considerando il fatto che il cercar di allevare esseri umani non frustrati è uno dei più crudeli esperimenti possibili di privazione, ciò pone la vittima sfortunata in una posizione di tormentosa insicurezza. Nessuno, neppure un santo, pieno di amore per tutti, potrebbe mai aver simpatia per un bambino della “non-frustrazione” e quest’ultimo, con l’enorme sensibilità che i bambini hanno per l’espressione non-verbale, è estremamente recettivo nei riguardi della repressa ostilità che fa nascere in ogni estraneo con cui venga a contatto. Difesi da due deboli meschini, che non hanno neppure il coraggio di dare uno schiaffo a un bambino quando ne ricevono uno da lui, e circondati da una moltitudine di estranei che molto volentieri li riempirebbero di botte, questi bambini vivono in un’agonia di insicurezza. C’è poco da meravigliarsi se il loro mondo si frantuma ed essi diventano apertamente neurotici quando sono improvvisa235

mente esposti allo stress dell’opinione pubblica, per esempio, entrando in collegio. I giovani possono accettare la tradizione soltanto da una persona o da persone della vecchia generazione che essi rispettino ed amino. È così semplice! Quando l’ambiente familiare non riesce a creare queste condizioni, cosa che molto spesso coincide con un grado di precoce ospitalizzazione, c’è soltanto una piccolissima possibilità che l’adolescente possa trovare in qualche altra persona, per esempio in un insegnante, una figura paterna con cui identificarsi. Se questa tenue possibilità va anch’essa perduta, lo sfortunato giovane, nella fase di ricerca di nuovi ideali, è completamente sperduto, piuttosto demoralizzato e altamente vulnerabile a tutti i pericoli di accettare un oggetto sostitutivo indegno della sua lealtà. Da ciò, ci sono tutte le possibili gradazioni fino all’aperta nevrosi. Un terzo gruppo di fattori che, mentre aumentano la frattura culturale tra generazioni, possono tuttavia dimostrarsi alla fine benefici, sono costituiti da tutto ciò che tende a minimizzare la differenza tra culture. I mass-media, la crescente facilità di trasporti, il generale diffondersi della moda e di altre cose, tutto tende a rendere i rappresentanti della giovane generazione più simili l’uno all’altro di quanto non fossero i loro genitori e, in realtà, più simili l’uno all’altro che ai loro largamente divergenti genitori. Quelli che crebbero dopo l’ultima guerra, furono allevati in circostanze e in un’atmosfera del tutto diversa da quella dell’infanzia dei loro genitori. Sotto questo punto di vista, la loro relazione con i genitori è stata giustamente paragonata a quella esistente tra i figli degli immigrati in un nuovo paese e gli immigranti stessi. Ciò, in realtà, rappresenta un raggio luminoso in una nuvola peraltro molto scura: se lo spezzarsi della conoscenza tradizionale non è così completo da rigettare l’umanità in uno stato pre-culturale, si può almeno accarezzare una debole speranza che i giovani di tutto il mondo, mentre muovono guerra alla vecchia generazione, diventino meno inclini a farlo l’uno contro l’altro.

Conclusioni e prospettive La nostra cultura è in una situazione incredibilmente paradossale. Da una parte abbiamo una cultura costituita che commette 236

continuamente suicidio in sette modi diversi. Prima di tutto c’è l’aumento della popolazione che soffocherà, se non le specie presenti, tutto ciò che c’è in esse di realmente umano. In secondo luogo, la corsa del moderno commercialismo minaccia di accelerare, in un circolo vizioso veramente satanico, fino al punto della pazzia. Terzo, sta progressivamente distruggendo la natura, devastando il biotipo in cui e su cui vive. Quarto, c’è il progressivo “Verweichlichung” “rammollimento” di cui ho parlato, che è la morte dell’emotività umana e, con essa, di tutte le relazioni veramente umane. Quinto, un pericolo imminente di deteriorazione genetica del genere umano è dovuto al fatto che la comune decenza in ogni comunità civilizzata è ad un interesse di sopravvivenza negativo. Il sesto, e il più rapido, è la guerra nucleare, e tuttavia penso sia il meno pericoloso per la sua evidenza. Chiunque capisce il pericolo di una bomba atomica, ma chi si preoccupa della disintegrazione di una cultura o della deteriorazione genetica e chi potrà anche soltanto credere che gli insetticidi possano mettere in pericolo il mondo in cui viviamo? Le autorità costituite ignorano recisamente tutti questi pericoli – tranne quando l’erosione del suolo o altre conseguenze del sovrasfruttamento diventano finanziariamente preoccupanti. E tuttavia, ogni uomo di intelligenza media e di educazione discreta non può fare a meno di vederli. Questa irresponsabilità dei responsabili non è dovuta al loro essere stupidi o immorali, ma al loro indottrinamento. Questo può essere considerato il pericolo pubblico numero sette; fondamentalmente identico alla superstizione, è mimetizzato da una terminologia pseudo-scientifica e cresce velocemente col numero assoluto di persone che possono essere influenzate dai cosiddetti mass-media. La funzione di ogni dottrina, come dice Philip Wylie, è di spiegare ogni cosa. Dove impera una dottrina, se n’è andata ogni possibilità di verità e, con questa, ogni speranza di un consenso intelligente. L’indottrinamento è, io credo, il peggiore dei vizi letali dell’umanità! Dall’altra parte ci sono i giovani in rivolta. Almeno alcuni di loro, e i migliori tra loro, sono splendidamente liberi da ogni indottrinamento e lodevolmente sospettosi di ogni dottrina; sono anche desiderosi di una giusta causa per cui combattere e di veri ostacoli da superare. Per l’umanità non mancano i pericoli da combattere, e il nostro tentativo di salvare il genere umano incontra un gran numero di grossi ostacoli che dovrebbe essere del 237

tutto sufficiente per mantenere felicemente occupato per lungo tempo il più effervescente entusiasmo attivo dei giovani. I giovani dicono di voler salvare il genere umano. Posso essere convinto che siano onesti su questo, e credo anche che alcuni di loro abbiano una vera comprensione della situazione dell’uomo. Ma mostrano essi, collettivamente, qualunque promessa di realizzare mai il loro grande compito? Si stanno, per ora, dedicando all’arcaico e istintivo piacere della guerra tribale. L’istinto dell’entusiasmo militante non è affatto meno seducente di quello del sesso, né meno invalidante. E l’odio è l’emozione più assolutamente invalidante di tutte perché preclude qualunque comunicazione, ogni accettazione del tipo di informazione che potrebbe tendere a ridurlo. Ecco perché l’odio è “cieco” e perché è così pericolosamente incline ad aumentare. Dobbiamo affrontare l’orribile realtà che l’odio, portatoci dai giovani, è della stessa natura dell’odio nazionale o tribale. Ne reca tutti i contrassegni, l’orgoglio di considerare soltanto il proprio partito come pienamente umano, la tendenza a screditare e svilire il nemico (“Non fidatevi mai di un uomo oltre i trent’anni”), l’onesta convinzione che sia un dovere morale annientare il più completamente possibile la cultura del nemico, ecc. ecc. Tutti questi sono atteggiamenti e slogan che noi conosciamo anche troppo bene come strumenti di demagoghi molto abili nella tecnica di sollevare una nazione contro l’altra. Naturalmente c’è il pericolo che la generazione più vecchia possa rispondere nello stesso modo, in altre parole che ci possa essere un’escalation nell’ostilità tra le generazioni. È un fatto che i giovani rivoluzionari stanno attivamente sforzandosi di essere il più possibile rivoltanti per la generazione più vecchia. Conosco un gran numero di vecchi signori, molto intelligenti e del tutto ammirevoli, che non hanno la mente ristretta né si lasciano dominare dall’etichetta, ma che troverebbero del tutto impossibile prendere seriamente ciò che un uomo vestito da hippie o da comunardo ha da dire. Confesso che anch’io troverei difficile ascoltare M. Cohn-Bendit nella sua bella camicia blu o di farmi mettere dei fiori dal potere dei fiori. Penso sinceramente che preferirei dei Papuasici pronti a tirarmi contro delle lance e tutto ciò malgrado il fatto che conosco le mie reazioni istintive e faccio del mio meglio per bloccarle. Abituato professionalmente a non colpire quando vengo colpito dall’oggetto dei miei studi, dubito, mal238

grado ciò, che riuscirei a mantenere la mia prontezza di comunicazione se fossi colpito in piena faccia da un sacco di vernice, com’è recentemente accaduto a un collega ottantenne, in mia presenza, a Gottinga. Tuttavia, penso che non ci sarà mai il pericolo che i vecchi odino i giovani così come questi odiano i vecchi. Noi della vecchia generazione siamo ostacolati nel far ciò dalla più arcaica delle reazioni istintive, quella della cura paterna. Tra i giovani ribelli ci sono i nostri figli o i nostri nipoti e noi troviamo impossibile smettere di amarli, e tanto meno odiarli. Questo crea una situazione di strano squilibrio, in cui si è odiati, ma si è del tutto incapaci di restituire l’odio e sembra faccia parte della natura umana reagire al conflitto così creato in un modo molto specifico e inatteso. Se qualcuno, che noi amiamo molto, improvvisamente si lascia andare ad un’ira chiaramente giustificata contro di noi, automaticamente e nel nostro subconscio supponiamo di avere inavvertitamente fornito un buon motivo per quella rabbia. In altre parole, reagiamo sentendoci colpevoli. Animali altamente sociali, come i cani e certi tipi di oche, presentano una reazione analoga. Se vengono inaspettatamente attaccati da un compagno, altrimenti amichevole, si comportano come se fosse colpa loro o un errore. In altre parole “reagiscono senza reagire”, sottomettendosi all’attacco semplicemente ignorandolo, dopo di che l’attaccante regolarmente smette di essere aggressivo. In termini di comportamento osservabile, la “reazione di colpa” umana è strettamente analoga, qualunque possano essere le emozioni che l’accompagnano. Sono sicuro che una parte del sentimento di colpa che al momento pesa su molti della vecchia generazione, abbia la sua origine nella reazione paradossale appena descritta e che questo sia particolarmente vero della quasi masochistica attitudine assunta da alcuni insegnanti universitari verso i giovani ribelli. Per riassumere: la nostra cultura è minacciata da distruzione immediata per lo spezzarsi della tradizione culturale. Questa minaccia nasce dal pericolo di ciò che equivale ad una guerra tribale tra due generazioni successive. Le cause di questa guerra, dal punto di vista dell’etologo, così come da quello dello psichiatra, sembrano stare in una nevrosi di massa del peggior tipo. Questa diagnosi, è pessimistica solo in apparenza, perché qualunque nevrosi può, in teoria, essere curata, sollevando le sue 239

cause inconscie e subconscie, oltre la soglia della coscienza. Per ciò che riguarda la guerra nevrotica tra le generazioni, non dovrebbe essere troppo difficile fare solamente questo. Dovrebbe essere facile far sì che, tra gli studenti ribelli, quelli che non sono indottrinati senza speranza, né stupidi, capiscano i pochi fatti biologici di cui potrei dare qualche idea anche in una breve presentazione. I giovani, in effetti, hanno già afferrato il fatto fondamentale, cioè che l’umanità sta andando in malora, a tutta velocità, a meno che non vengano arrestati, e presto, l’aumento della popolazione, la distruzione del bio tipo e la crescente competizione commerciale. Devono ancora capire qualche altra verità. Una è questa: anche se tutta la loro generazione fosse costituita soltanto da genii, non potrebbero costruire una cultura dalle macerie, ma, seguendo i precetti di Marcuse di distruggere ogni tradizione, tornerebbero ai tempi dell’uomo di Neanderthal. Un’altra cosa che devono comprendere è che non bisogna aprire la via all’odio. L’odio verso la generazione più vecchia impedisce loro di apprendere da questa tutto quanto c’è ancora da imparare. È l’odio che li rende così stupidamente arroganti, che crea in loro quell’esasperante atteggiamento, invertito, da “la mamma sa tutto” che li rende impermeabili ad ogni consiglio e li rende effettivamente paranoici, perché qualunque cosa si dica loro è automaticamente interpretata come un tentativo di sostenere la cosiddetta autorità costituita (se invece la si critica si è considerati suoi sostenitori particolarmente insidiosi e intelligenti). E infine dovrebbero riuscire a capire, in tutta giustizia, che se noi della vecchia generazione, sentendoci odiati, non rispondiamo con l’odio non è perché ci sentiamo colpevoli di aver commesso contro di loro crimini innominabili, ma perché, essendo loro genitori, non possiamo fare a meno di amarli. Ammetto di essere un ottimista incurabile e credo che si possa far capire ai giovani tutto ciò, e che, una volta che abbiano afferrato i semplici fatti etologici che ne sono alla base, non soltanto riusciranno a salvare e conservare tutto ciò che c’è di valido nella nostra attuale cultura, ma faranno anche di più: come ho detto, stanno perdendo anche oggi il loro diritto sulle varie culture affermate e stanno diventando sempre più simili l’uno all’altro, indipendentemente dalla loro origine. Purché non ritornino a Neanderthal, gettando via la conoscenza accumulata dalla loro 240

cultura, purché raggiungano il potere quando raggiungono la maturità, purché non dimentichino le loro mire attuali e non vengano imprigionati, come probabilmente saranno, nell’ortodossia di questa o quella dottrina (non importa affatto quale), potrebbero realmente riuscire a tirar fuori il genere umano da quell’orribile caos in cui attualmente si trova. Tutte queste grandi speranze dipendono, naturalmente, dall’educazione e se sono sembrato troppo ottimista, sono pronto a cancellare subito questa impressione. Uno dei fatti peggiori nella vita sociale dell’umanità di oggi è che la decisione riguardante ciò che bisogna insegnare o non insegnare ai giovani sta ancora esclusivamente nelle mani del potere politico. Ciò che si deve o non si deve insegnare, dipende quindi soprattutto da ciò che i politici giudicano opportuno nell’interesse delle loro mire politiche di breve vita, senza alcuna considerazione per ciò che i giovani d’oggi dovranno sapere quando, fra qualche anno, dovranno portare la responsabilità della sopravvivenza del genere umano. L’insegnamento delle scoperte di Charles Darwin è ancora legalmente proibito nello stato dell’Indiana, a poche miglia da Chicago. La biologia, e soprattutto l’ecologia e l’etologia, sono considerate in molti posti scienze sovversive e l’insegnamento della biologia nelle scuole medie tedesche è stato ridotto a un minimo ridicolo. Inoltre, la tecnica d’insegnamento, soprattutto negli Stati Uniti, è ancora fondata sulla presunzione che la dottrina pseudo-democratica sia assolutamente vera. Ne deriva un insegnamento del tutto utilitaristico, che non prende per niente in considerazione il fatto che l’uomo possieda certi programmi di comportamento specifici della specie, la cui eliminazione porta inevitabilmente alla nevrosi e contribuisce alla nevrosi di massa che dobbiamo ora affrontare. In altre parole, l’educazione normale, intenzionalmente o no, ignora il fatto che la realizzazione di certi programmi, filogeneticamente evoluti, di comportamento umano costituisce un inalienabile diritto umano. Quindi, ben lontano dall’essere una quisquilia, il problema se un certo schema di comportamento sociale umano sia determinato da un programma filogeneticamente adattato o da ritualizzazione culturale, diventa di suprema importanza nel momento stesso in cui dobbiamo affrontare una disfunzione patologica. La sua correzione richiede passi completamente diversi nei due casi. 241

Se la disfunzione origina soltanto dalla tradizione culturale, solo l’educazione dovrebbe riuscire ad affrontarla. Se la causa centrale del problema sta in un programma filogenetico che, restando inadempiuto, provoca malessere e nevrosi, le misure educative servirebbero soltanto a peggiorare la situazione distruggendo la fiducia che ancora esiste nell’educatore. Non si può insegnare, a un uomo a restare felice, a conservare l’amore per il prossimo, ad evitare nevrosi, pressione alta e attacchi di cuore nelle stressanti condizioni di affannosa vita commerciale di città, il che è esattamente ciò che l’educazione di oggi persistentemente e inutilmente cerca di fare. Anche nel pieno riconoscimento della causa di certi fenomeni patologici, non ne segue automaticamente un mezzo per combatterla. Ci sono molti esempi nella scienza medica che dimostrano tristemente questo fatto. Tuttavia credo che dare maggior peso all’insegnamento della biologia, particolarmente ecologia ed etologia, l’insegnare ai giovani a pensare in termini di sistemi, piuttosto che di atomismo, e una certa quantità di istruzione nel campo della patologia e della psicopatologia, arriverebbero erroneamente a far capire ai giovani il vero problema del genere umano. Questa mia opinione si fonda su ciò che considero un fatto altamente suggestivo. Tra gli studenti ribelli c’è una chiara e positiva correlazione tra le loro conoscenze di biologia e la costruttività delle loro domande. Il malessere più profondo, il maggior dissenso con gli insegnanti, la più profonda confusione tra le intenzioni degli insegnanti e quelle dei politici al potere, in breve la maggior quantità di disorientamento generale, si trovano fra gli studenti di sociologia, di una scienza a cui rimprovero di essere troppo sotto l’influenza della dottrina pseudo-democratica. In una discussione di tre ore, a notte tarda, con gli studenti dell’APO per le strade di Gottinga, discussione che cominciò nell’ostilità e fini nell’amicizia, non potei offrire alcun suggerimento migliore di quanto non abbia offerto ora per la soluzione di problemi dell’educazione. I politici possono esser influenzati dalla pressione dell’opinione pubblica. C’è soltanto un modo per ottenere la loro attenzione per i nostri problemi ed è l’infiltrarsi nell’opinione pubblica con la conoscenza delle cause reali dei problemi dell’uomo, fidando che il pubblico riesca a forzare i politici a fare le cose giuste. È un errore comune tra gli scienziati il sottovalutare l’intelligenza del pubblico, e questo è il motivo per cui troppo pochi con242

siderano loro dovere scrivere libri generalmente comprensibili, lasciando questo compito ai divulgatori che raramente lo fanno in modo soddisfacente. Se la scienza dovrà mai acquistare sulla politica quel tipo di influenza ovviamente necessaria a salvare il genere umano, potrà farlo soltanto educando il pubblico indipendentemente dalle dottrine politiche accettate.

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262

Indice analitico e dei nomi

Abitudine, 217 Aggressione ed aggressività, 3637, 47-58, 67, 235; effetto catartico dell’–, 52,-55; – collettive, 49-51, 57-58, 99100, 213; – e affollamento, 81 – ed ambiente, 36; – e fuga, 64-65, 70; – individuali, 49, 99-100, ; inibizioni verso l’–, 52-54; innate, 14, 50, 99; – all’interno del gruppo, 97-101; – e omicidio, 48, 60, 101; mancanza di –, 49; – e politica, 98; – e rinforzo, 5354; – e ritualizzazione, 133136, 140-144; – e comportamento sessuale, 61-62; – e comportamento sociale, 62, 99-101; spontaneità nell’, 5154; – e suicidio, 60; – e minaccia, 48, 64, 132-134; – e guerra, 56-57, 98-100, 105; – e gioventù, 57-58, 213, 229; v. Violenza Affollamento, 80-81 Akiba, Rabbi Ben, 226 Allport G., 18, 29 Altmann M., 137-138 Ambiente, 14-15, 28, 61-62; adattamento all’–, 42-44, 111-112, 129, 137; – e comportamento, 14-15, 26-28, 70, 129; – ed eredità, 107-108, 113; inquina-

mento dell’–, 56-58, 34, 229, 237, 241 Amore, 52-53, 62-63, 139, 238-240 Anatre, 25-26, 31, 33, 134-135 Animali, 60-61, 78-79, 91, 128; conoscenza acquisita degli–, 43, 205-207, 215; comportamento ad attivo degli –, 4346, 70, 176; – e aggressione, 30, 48-50, 64, 132-133; – e ansia, 137-138; comportamento di legame degli –, 130-134; – e comunicazione, 130-134; metodo comparativo di studio sugli –, 26; riflessi condizionati degli –, 195-196; – e affollamento, 80-82; crudeltà verso gli –, 168-169; e dominio, 70-71, 73-74; – e imprinting, 31-33; comportamento innato degli –, 41-44, 66-69, 89; comportamento istintivo degli –, 36, 38, 41, 62, 84, 93-94, 134135; motivazione negli –, 3637; schemi motori degli –, 130-131; – nell’ambiente naturale, 14-15, 26, 29; – e controllo della popolazione, 76-77; comportamento rinforzato negli –, 67-69, 153-154; comportamento ritualizzato degli –, 92-93, 130-134; – e spazio, 191-193; caratteristiche uni263

che degli –, 29-30; – e violenza, 47-48 Ansia, 137, 138, 193 A priori, 171-200 Apprendimento, 36-39, 42-43, 78, 90-92, 107; v. Intelligenza Approccio teleonomico, 128-129, 160, 163-165 Ardrey R., 73, 82, 84, 129 Atomismo, 97, 163, 209 Autismo, 39, 225 Bandura A., 55 Bateson P., 32 Bergson H., 91 Berkeley G., 94 Berkowitz L., 54, 55, 100 Bernard L. L., 30 Bertalanffy L. von, 94, 198 Biologia, 62, 90, 93-95, 99, 101, 112, 127, 151-153, 159-159, 163-164, 172-175, 192-196, 210-211, 229-231, 241-242 Bischef N., 150, 156 Bolck L., 225 Bölsche W., 26 Born M., 226 Breggin P., 16 Brun Dr., 33 Campbell Dr. D., 19, 28 Carstairs, Prof., 135 Castigo e premio, 154, 214-217 Catatonia, 45 Categorie 95-96, 171-181 Causalità, 95-96, 128, 171-172, 191, 194-198, 203-205 Comunicazione e ritualizzazione, 130-134 Comportamento; 85, 127-128 – adattivo, 42-46, 70, 91, 98, 109-112, 132, 137, 150, 172, 175-177, 203, 207, 242; 264

– appetitivi 41, 214-217; descrizione del –, 157-158; evoluzione del –, 89, 91, 112, 136; – estinto, 214-217; – individuale, 29-31: – nell’ambiente naturale, 26, 28, 70, 129, 201; – osservazione del –, 27-30, 128-129, 136, 209; modelli di –, 30, 37, 50-51, 141, 209; filogenesi del –, 67, 201, 207, 228; – rinforzato, 68-70, 153-154, 214-217 Comportamentismo, 14-15, 6570, 105-107, 156-157; – cibernetico, 90-93, 115 Comportamento di legame: – degli animali, 30-31, 38-39, 133, 135, 158; – e analogie, 158; – dei bambini, 233; – dell’uomo, 81, 134-136, 140-144; – e ritualizzazione, 135-136, 140-142 Comportamento innato 39-44, 50, 65-69, 83-84, 172, 197, 199 Comportamento istintivo 35-42, 59-60, 92-93, 127, 130-131, 144, 155, 202-203, 228-229 Comportamento sessuale, 30-34, 51-55, 60-63, 71, 73 Comportamento sociale, v. Sociale: comportamento – Conoscenza, 89, 93-94, 174, 184187, 205-209, 212-214, 221, 224-227; Cosa in sé, 171-179, 183, 185, 189190 Coser L. A., 100 Cox V., 16 Craig W., 36 Cultura; 207, 225 mutamenti nella –, 227-236; collasso della – 226-227, 241 diversificazione orizzontale

della –, 107, 121-225; – e pseudospeciazione –, 103-105, 143-145; ritualizzazione della –, 135-144, 223-227; e scienza, 148; sovrastruttura della –, 39-40, 62, 220-221; minacce contro la –, 211-212; – e giovani, 103, 119, 226-240 v. Sociale: comportamento –; Tradizione Darwin C., 24, 43, 56, 83, 91, 127, 129, 160, 201, 203, 210, 241 Descrizione, 129, 147, 155, 157160, 168 Determinismo biologico, 62 De Vore E., 80 Differenza individuale, 29-30, 103, 119-120 Disturbo patologico, 45, 165-166 Dottrina pseudodemocratica, 106, 109, 111, 123-124, 202, 240-242 Driesch H., 91 Eccles J., 226 Ecologia, 137, 148, 229, 231 Economia del piacere e dispiacere, 212-221 Educazione, 107, 114-115, 240241; v. Intelligenza Epistemologia; 90, 93-95, 196 – evoluzionistica, 93-97, 112, 115 Egualitarismo, 105-106, 112-114, 202 Erikson E., 18, 23, 34, 101, 141, 144, 209, 223, 228 Esperienza, 177, 185, 189, 190 Etica, 119, 148, 168-170 Etologia, 23-25, 59-60, 82, 89, 111, 127, 129-130, 201-203 analogie in –, 23, 28, 136-138, 197, 239; – e causalità, 128-

129; – e imprinting, 31-34; metodi in, 25-28, 128-129, 147; – e motivazione, 35-46; procedure di verifica in –, 27-28 Eugenetica, 108 Evoluzione, 25, 83, 112, 125, 128131, 172, 173, 179, 184-186, 204-206; – e adattamento, 102, 175-177, 180, 218; – del comportamento, 89-91, 93, 136; – biologica, 93, 95, 97-102, 107-111; – e genetica, 106-123; – e integrazione, 149-152, 203208; – sociale, 99-117, 110, 111; v. Filogenetica Fame, 35-37, 40, 92 Feticismo, 23, 33 Filogenetica: – e comportamento, 15, 201207, 242; – e cultura, 222-226; – e conoscenza, 205-207, 214; – e sistemi organici, 128-129, 150-151; – e ritualizzazione, 130-132, 134-142; v. Genetica Filosofia, 93-96, 127, 155, 172, 184, 230 Fisica, 93-96, 147-151, 178-181, 189, 198 Fisher R. A., 46, 108 Folgorazione, 204-206 Freud S., 47, 59-62, 66, 97, 212, 215 Frey P. W., 114 Freyer H., 148 Frisch K. von, 23, 89 Fromm E., 18, 59, 63-64 Garcia .J., 68, 69, 77-78 Gehlen A., 138, 184 265

Genetica, 15, 42-44, 78-80, 84, 109, 111: deterioramento in, 109-110, 122-125, 225; – e ambiente, 107-108, 113; – evoluzionistica, 107-125; – e razza, 73, 77-78; v. Filogenetica Genoma: programmazione nel –, 43, 48, 65, 130, 202, 206-207, 226, 240 Genocidio, 98, 101, 103 Gestalt: percezione della –, 31, 163164, 168, 206, 209-210 Giovani, 213, 219, 221; – e noia, 240-242; educazione dei –, 118-119; inimicizia fra le generazioni, 118-119, 220-223, 231-243; – e aggressione di gruppo, 57-58, 213-214; – e odio, 220-222, 238-240; motivi di ribellione, 229-231; deviazioni sociali dei –, 119, 222, 238; – e tradizione, 102, 222, 227-235, 239-240 Goethe J., 161 Guerra, 56-57, 98-99, 144, 223 Guthrie E. R., 156 Hahn K., 212-213, 220-221, 226 Haldane J. R. S., 108 Hall C., 36 Hall E., 16 Hargreaves R., 166-167, 210-211, 213, 216, 223-224, 226, 228 Hassenstein B., 113 Harlow H., 35, 45, 46 Heisenberg W., 147 Hellmann B., 164, 167, 210 Herberer J., 225 Heinroth O., 14, 26, 31, 83, 129130, 132, 159 266

Heinz, Prof., 58 Herrnstein R., 77, 108 Hess E. H., 28, 31 Hinde R., 60 Hitler A., 56-57 Horney K., 59, 62-63 Hull C. L., 66, 156 Hume D., 94, 176-177 Huxley A., 121, 155 Huxley J. sir, 52, 130, 133, 135, 152 Huxley T., 83 Idealismo trascendentale, 172175, 177, 178 Imprinting, 14, 23, 31-34 Impulsi, v. Motivazione Insetti, 25, 45, 100 Institute for Comparative Research, 91 Intelligenza, 77-79, 108, 112-116; test di –, 73, 112-115 Intuizione, 164, 171, 173, 177, 179-181, 188 Jacobson A. L., 78 James W., 90 Jensen A., 73, 77 Jones E., 17-18 Joule J., 196 Jung C., 17-18, 59, 64-67 Kant I., 93-95, 171-200 Kelman H. C., 101 Kinsey: rapporto –, 53 Klineberg O., 112 Kocher E. T., 165, 166, 211 Konishi M., 32 Krafft–Ebing R. von, 33 Kropotikn P., 108 Kuhn T. S., 94 Kuo Z. Y., 84

Laing R. D., 45 Lavaggio del cervello, 38 Leadership, 81 Lehrman D., 15, 82, 84 Leyhausen P., 169 Linguaggio, 166-167, 208, 226 Locke J., 94 Loeb J., 162 Lorenz K., 13-17; critica di –, 14-18, 84-84, 9798, 116; influssi su – 83-84 Lorenz M., 14, 71, 169

Morris D., 69 Motivazione; 34-46, 157 – ed impulsi, 35-37, 60, 135, 140; e comportamento innato, 39-44, 50; – e comportamento istintivo, 38-41; – e apprendimento, 3844; – opposta, 213-216; – e comportamento sessuale, 50, 63; – sociale, 35-40, 166-167; forza della –, 215-217; – dei giovani, 229-231

Mallick S. K., 53 Mammiferi, 45, 81, 131-133 Mann T., 232 Marcuse H., 230, 239 Maslov A., 59, 70 Mass media, 236-239; – e violenza, 56, 149 Masters e Johnson, 53 Materia inorganica, 147-149, 168, 237 Matematica, 147, 168, 181-182 Mayèr J. R., 196 McCandless B. R., 53 McConnell J., 78 McDougall J. V.,41 Mead M., 16 Meccanica quantistica, 180 Metodi di misurazione, 27-28, 120-121, 147-148, 157-159, 168-169, 181-182 Metodo di studio comparato, 26, 128-130, 141-144, 179, 223 Metodo statistico, 153-157 Meyer-Holzapfel M., 36 Miller A., 18 Miller N. E., 92 Mitscherlich E., 228 Monismo esplicativo, 162 Monod J., 103 Montagu M. F. Ashley, 203

National Commission on Obscenity and Pornography, 47, 51 National Commission on the Causes and Prevention of Violence, 47, 51 National Science Foundation, 17 Nazionalismo, 49, 56, 103-104, 144 Negri: – e “inferiorità” genetica, 77; test di intelligenza di –, 77, 113-114 Newton I. sir, 94, 151, 156 Nicolai J., 138 Nietzsche F., 183, 199 Oche, 27-30, 46, 69, 74, 135, 192193 Odio, 54-55, 62-63, 238-240 Osservazione del comportamento, 24, 27-28, 136, 137, 239; – e descrizione, 128, 129, 138; verifica dell’–, 107 Pace, 47, 56-57 Packard J., 30 Paleontologia, 25 Pastore N., 107 Pavlov I. P., 83, 154, 194, 201 Pearson K., 108 267

Pensiero, 62, 149, 174, 176-178, 179-188, 198-200, 207 Percezione, 96-97, 175-179, 191, 197-198 Permissivismo e rigorismo, 110111, 124-125 Pesce, 29, 54, 58, 70-71, 73-74, 133, 175-177 Piaget J., 19 Pittendrigh C., 128, 160 Polanyi M., 91, 94 Politica, 16; – e aggressione, 98-100; – ed educazione, 240-243; – ed eredità e ambiente, 107-108; – e razzismo, 109-110; – ed evoluzione sociale, 107 Popper K. R., 94, 227 Popolazione: controllo della –, 76, 234-235, 237, 240 Pornografia, 51-52 Premio Nobel, 13, 17, 23, 77, 89 Procedura di verifica, 27-28, 120, 136, 163-164, 168 Pseudospeciazione, 104-105, 143144 Psicologia, 39-40, 61-62, 79-80, 90-91, 94-95, 95-96, 114, 129, 155-156, 172, 189 Quine W. V., 93 Ragione, 171, 179-180, 185, 199200 Razza: – e comportamento adattivo, 112; e intelligenza, 77-78, 113116; – e politica, 109-113 Realtà, 172-175, 179-180, 190-191, 198-199 Riflessi condizionati, 194-195 Ritualizzazione: 268

processo di -, 92-93, 130-145, 223227, 234-235 Rosenblatt P. C., 100 Roskak T., 118 Santayana G., 185 Schemi motori, 36, 41, 130-135, 142 Schizofrenia, 44-45, 233 Schleidt M., 217 Schneirla T. C., 156 Schultz F., 33 Scienza, 29-31, 95, 129, 177, 185187, 198; – analitica, 121, 150-151; processi cognitivi nella –,148, 150, 153-154, 203 – e cultura, 148, 159; leggi generali della –, 29, 150-153, 155-156; – mondo pseudoscientifico, 121; psicologia della –, 90, 97; approccio riduttivo alla –, 147, 150-153; verifica nella –, 2729, 34, 120, 164, 210; Scienza medica, 123, 159, 165, 211 Scienze del comportamento, 1314, 68-69, 150-153 Scimmie, 45, 81, 206 Sistema nervoso centrale, 40, 5960, 67, 83, 136, 153-154, 175, 189, 204 Sistemi organici; 147-170, 203210 causalità nei -128-129; natura dei –, 128-129, 150-161; struttura dei –, 149-158, 161-164, 177-178, 183, 201-203; sottosistemi di –, 149-150, 161, 165-166, 209 Scott P., 75 Selezione: pressione della –, 113, 128, 133-134, 161, 203, 218

Selous E., 130 Sevensten T., 28 Sheffield F. D., 92 Sherif M. e C. W., 100 Sherrington C. S., 59 Shockley W., 77 Skinner B. F., 18, 59, 66-68, 153 Sociale (comportamento –), 31, 61-62, 92, 211, 241; – e aggressività, 62, 99-101, 185-213; e approvazione, 3541, 69-70; – e affollamento, 8081; deviazioni nel –, 103, 106, 118-119, 222, 238; – ed evoluzione, 90-91, 101-107; – e analogie funzionali, 158; – e deterioramento genetico, 110; – ed ereditarietà, 114; modellizzazione del –, 55; – necessario per il contatto, 38-39; – ritualizzato, 137-144, 224-228; – e comprensione, 164-167 v. Cultura; Motivazione; Tradizione Sociologia, 80, 85, 95, 108, 230232 Spazio, 95-97, 171, 175-177, 191192 Spitz R., 39, 44-45, 233 Storr A., 49 Summer W. G., 100 Tecnocrazia, 119-125 Tempo, 155, 171, 175-176, 191, 197 Tenbruck F., 230 Teoria ondulatoria, 180-181, 198 Terman L., 107 Territorialità, 75, 99-100 Thorpe W. H., 33, 170 Tinbergen N., 23, 28, 41, 83, 89, 129 Tolman E. C., 156 Topi, 78-79, 92, 207

Toulmin S. E., 94 Tradizione; 104, 106, 135-136 mutamenti nella –, 228-229; – cumulativa, 207-208; trasmissione della –, 212, 221, 225227; giovani e –, 226-230 Tryon R. C., 78 Twain M., 48 Uccelli, 30-33, 70-71, 132, 138 Uexkull J. von, 91, 95, 183 Unger G., 78 Uomo, 90, 184, 206; comportamento adattivo dell’–, 44-45, 109-110, 232; – e aggressione, 48-58, 62-64, 96101, 139-142; – e ansia, 137138; comportamento di legame dell’–, 49, 135-136, 140143; – e noia, 213, 220-221; figli, 51-52, 102, 118-119, 139, 232-236; processi cognitivi dell’–, 97, 121, 148, 154, 172, 203; – e comunicazione, 131, 136, 140-141; condizionamento dell’–, 44, 69-70, 144, 154, 155, 161-162, 194-195202, 214215; – affollamento, 80; comportamento culturale dell’–, 38-40, 50-51, 136-145, 212243; – e dominio, 71, 73; emozioni dell’–, 120, 139, 220; abitudini dell’–, 138-139; – e odio, 104, 143, 220-222, 238241; diversificazione dell’–, 107, 121-123; – e imprinting, 33-34; indottrinamento dell’–, 121, 156; infantilismo nell’–, 225; caratteristiche ereditarie dell’–, 137-140, 172, 208; comportamento innato dell’–, 39, 50, 65-67, 80, 178, 269

197, 199, 203; comportamento istintivo dell’–, 38-44, 59, 62, 99, 140, 144, 155, 202, 224, 228-229; – e amore, 52-54, 6263, 238-241; – e modellizzazione, 55-58; comportamento ritualizzato dell’–, 135-145, 224-225, 234-235; esplorazione di sé nell’–, 205-207; comportamento sociale dell’–, 2829, 38-39, 98-107, 137-145, 165-167, 225; – e suicidio, 61; valore della sopravvivenza per l–, 44, 84, 109-110, 165167, 214-216; – e tecnocrazia, 120-125; comprensione nell’–, 69, 164-167, 209-210; valori dell’–, 57-58, 120, 123-124144, 149, 168-170, 208, 226; visualizzazione dell’–, 66-67; ritiro nell’–, 63-64; v. Giovani

270

Urbanizzazione, 110, 119 Veblen T., 108 Violenza; v. 47-48, 52-53 Aggressione Vollmer G., 95 Washburn S. L., 80 Weiss P., 166, 211, 226 Wertham P., 15 Whitman C. O., 26, 31, 36, 83, 130-131, 132, 159 Whyte L. L., 95 Wickler W., 158 Windelband W., 24, 28-29 Women’s Movement, 73 Wundt W., 176-195 Wylie Ph., 202, 237 Wynne-Edwards V. C., 76 Zoologia, 25, 89, 106-107, 127-129