Allegorie impossibili. Storia e strategie della critica melvilliana
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— Volumi pubblicati 1. BIANCAMARIA PISAPIA

L'arte di Sylvia Piath 2. PAOLA COLAIACOMO

Biografia del PIRRO

A nei romanzi di Da-

niel Defoe»

3. NICCOLÒ ZAPPONI L'Italia di Ezra Pound 4. AGOSTINO LOMBARDO

Un rapporto col mondo —Saggio sui raccontidi Nathaniel Hawthorne — 5. MARIO MATERASSI

Il ponte sullo Harlem River Saggi e note sulla cultura e la letteratura afro-americana di oggi

6. MARIA STELLA

Saggi sulla cultura RS a cura di A. PORTELLI 8. ALESSANDRO PORTELLI

Il re nascosto— Saggiosu Washington Irving 9. STEFANIA PICCINATO

Testo e contesto della poesia di Langston

Hughes 10. CAROLE BEEBE FARANTELLI

| Ritratto di ignoto— L'operaio nel romanzo vittoriano

11. DANIELA GUARDAMAGNA

g

Analisi dell’incubo— L'utopia negativa da Swift alla fantascienza 12. ALBA GRAZIANO

Il linguaggio dell'ironia — Saggio sui Gulliver's ‘13. AA.VV.

Settecento senza amore — Studi sulla narrativa

inglese a cura.di R.M. CoromBo 14.AA. VV, Melvilliana a cura di P. CabiBBo 15. ROSAMARIA LORETELLI

Da Picaro a Picaro — Le trasformazioni di un genere letterario dalla Spagna all'Inghilterra 16: AA. VV. Ipiaceri dell'immaginazione a cura di B. Pisapia 17.P.CABIBBO- D.IZZO è Dinamiche testuali in The Great Gatsby 18. MARIO-MARTINO

Ilproblema del'tempo nei sonetti di Shakespeare 19: GIUSEPPE NORI

La scrittura sconfitta — Saggio sul Pierre di Mel ville 20. FRANCA RUGGIERI Maschere deil'artista— Ilgiovane Joyce

21. GIOVANNELUCIANI L'arte della biografia—Saggiosu Lytton Strachey

UNIVERSITÀ DI ROMA «LA SAPIENZA»

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

DIPARTIMENTO DI ANGLISTICA

STUDI E RICERCHE 41

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GIORGIO MARIANI

ALLEGORIE IMPOSSIBILI STORIA E STRATEGIE DELLA CRITICA MELVILLIANA POSTFAZIONE DI AGOSTINO LOMBARDO

BULZONI

EDITORE

Il presente volume è stato pubblicato con un contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche

TUTTI I DIRITTI RISERVATI I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adat-

tamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. ISBN 88-7119-561-2

© 1993 by Bulzoni Editore s.r.l. 00185 Roma - Via dei Liburni, 14

INDICE

INTRODUZIONE: “The infinite entanglement of all social things”: la letteratura come categoria storico-sociale .....................mrrrrrine.

Jie

CAPITOLO I: Dalla critica dei reviewers al “Melville revival”.......................

47

Carrot I L'Ebropa scopre Melville: :........1-ursrrininizzorni irene

103

CAPITOLO III: Moby Dick: da curiosità letteraria ad epica nazionale .........

129

CAPITOLO IV: L’industria Melvilliana

203

POSTFAZIONE di Agostino Lombardo

253

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https://archive.org/details/allegorieimpossi0000mari

per Roberto Falcioni e Caterina Gullî “Wherever those great hearts may now be”

Per avermi suggerito il tema di questo studio, per averne seguito con pazienza tutta l'evoluzione, per la fiducia accordatami in questa, come in tante altre occasioni, desidero innanzitutto ringraziare il professor Agostino Lombardo. Sono stati soprattutto i suoi innumerevoli stimoli e suggerimenti a rendere possibile il mio lavoro. La mia riconoscenza va anche a molte altre persone: alla Professoressa Bianca Maria Tedeschini-Lalli, direttrice del corso di dottorato di ricerca

in Studi Americani presso l’Università di Roma “La Sapienza”, nell’ambito del quale una prima versione di questo studio è stata portata a termine sotto forma di dissertazione dottorale; a Walter Bezanson, col quale ho avuto la fortuna di studiare presso la Rutgers University, e di discorrere a lungo dei testi chiave della critica melvilliana, della quale egli è stato un importante protagonista; a Paola Cabibbo, per la sua minuziosa lettura del manoscritto finale e per tanti altri motivi;

a Donatella Izzo, Enrica Mariani, Cristi-

na Mattiello e Paola Russo, che hanno accettato di buon grado di leggere precedenti versioni di questo studio, formulando

osservazioni,

consigli e

critiche preziose; a Eileen Finan, Jim Kerr e Neil Donahue che mi hanno aiutato, assieme allo staff dell’Alexander Library della Rutgers University, a reperire i materiali bibliografici; a mia madre e mio padre, senza il cui sostegno morale e materiale non avrei mai potuto continuare a studiare le cose che mi appassionano; a Masturah Alatas, per l’affetto col quale ha sostenuto, e sostiene, il mio lavoro.

Due avvertenze: 1) quelli letterari — ove rentesi che seguono pagine dell’edizione

Tutte le traduzioni — tanto dei testi critici quanto di non altrimenti specificato, sono mie. 2) I numeri in pale citazioni presenti nel testo si riferiscono sempre alle menzionata in nota.

All fame is patronage. Let me be infamous: there is no patronage in that. — Herman Melville, lettera a Hawthorne del primo (?) giugno 1851

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di fissare l'immagine del passato come esso si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo.

Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.

— Walter Benjamin, “Tesi di Filosofia della Storia”

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INTRODUZIONE “THE INFINITE ENTANGLEMENT OF ALL SOCIAL THINGS”: LA LETTERATURA COME CATEGORIA STORICO-SOCIALE

the myriad alliances and criss-crossing among mankind, the infinite entanglement of all social things [...] forbid that one thread should fly the general fabric on some new line of duty, without tearing itself and tearing others. Herman Melville, Pierre

Ogni società ha il suo regime di verità, la sua “politica generale” della verità: i tipi di discorsi cioè che accoglie e fa funzionare come veri; i meccanismi e le istanze che permettono di distinguere gli enunciati veri dai falsi, il modo in cui si sanzionano gli uni o gli altri. Michel Foucault

1. Orizzonte sociale e “letteratura”. Il caso melvilliano

Alla base di questo lavoro c’è la convinzione che lo studio di qualunque prodotto culturale, e dunque anche il tentativo di tracciare la cosiddetta “fortuna” di un testo o macrotesto letterario, non può prescindere da una sua contestualizzazione nella formazione sociale in cui esso viene fatto circolare, e da un’analisi dei modi in cui viene consumato. Ta-

le premessa generale deve essere naturalmente qualificata. Cosa significa in concreto fare una storia della letteratura che sappia tenere conto dell’orizzonte sociale in cui l’opera letteraria viene via via a situarsi? Qual è la natura, tanto a livello epistemologico che sociale, del rapporto che le11

ga la critica letteraria ai suoi oggetti d'indagine? Perchè oggi si accendono aspri dibattiti sul valore di termini come “letteratura”, “interpretazione”, “valutazione”, nonchè sulle funzioni sociali e politiche della critica? Come ha recentemente sottolineato Agostino Lombardo, la storia della critica letteraria del nostro tempo “è storia di una perdita di certezze, o di illusioni. Sono finiti i tempi, via via, in cui si poteva presumere di distinguere tra poesia e non poesia; o di trovare nel movimento della società, o della storia, le sole, determinanti ragioni dell’arte; o d’individuare nel testo scientifiche leggi che potessero fornire una rassicurante verità”.

Se dunque nessun critico né alcuna scuola può ormai pretendere di possedere gli strumenti analitici per risolvere con certezza scientifica dubbi e problemi, questa situazione, come

nota lo stesso Lombardo,

presenta

senz'altro degli aspetti positivi. Perchè una critica “totalizzante e carica di certezze [...] mira di necessità alla razionalizzazione [e] a giudicare in base a certezze che l’arte non ha e che la storia dimostra di essere di fatto, criteri relativi e transeunti”.! Non a caso, come vedremo tra breve, sono

stati soprattutto quei critici disposti ad inserire la letteratura — e con essa la critica letteraria stessa — nel mondo sempre relativo e transeunte della storia, a delineare un modo nuovo di affrontare la storia della letteratura,

e a fornire le risposte più convincenti agli interrogativi cui abbiamo appena accennato. Le preoccupazioni di questo studio, peraltro, non sono esclusivamente teoriche, ed è Herman Melville, o meglio il discorso critico che si è sviluppato attorno al suo nome, a costituire lo specifico oggetto d’analisi. Quel che si sviluppa nelle pagine che seguono non è una nuova interpretazione del macrotesto melvilliano, bensì un’indagine tesa a stabilire in base a quali metodologie, e secondo quali pratiche e strategie discorsive, si è venuta a costituire un’entità ideologica, biografica e letteraria di nome Melville. Non ci si propone, perciò, di ricostruire la “fortuna” di

1 Agostino LomBarno, Il testo e la sua performance, ovvero per una critica imperfetta, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 14-21, ed ora ristampato in Per una critica imperfetta, Roma, Editori Riuniti, 1992. Mi sembra che l’ammonimento di Lombardo a non cercare nel movimento della storia o della società “le sole, determinanti ragioni dell’arte”, sia da consi-

derare una critica a certe forme riduttive di sociologismo e storicismo, anche di stampo marxista, e non come una critica all’opportunità di storicizzare le categorie con cui guardiamo alla realtà letteraria.

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Melville, ma piuttosto di tracciare, rendendone conto in termini sociali ed epistemologici, secondo quale logica ed in obbedienza a quali regole si sono via via formati i principali paradigmi di lettura dei suoi testi. In breve, si vuole esplorare quali condizioni hanno consentito che Melville venisse letto come “letteratura”. Perchè, tra le diverse figure della letteratura americana, scegliere proprio Melville? Tre le ragioni principali. In primo luogo Melville costituisce una sorta di scandalo per la storia letteraria degli Stati Uniti, e le vicende della sua reputazione dimostrano palesemente quanto fragili siano certe convinzioni riguardo l’imperitura grandezza o genialità di determinati testi e/o autori. Com’è noto la maggior parte dei contemporanei non considerarono come esempi di grande letteratura le opere che lo scrittore produsse a ritmo serrato tra il 1846 ed il 1857. Nel corso dell’Ottocento, e poi almeno sino al 1919, l'opinione prevalente continuò a confinare Melville ai margini della letteratura, conferendogli lo status di “minore” certamente inferiore a Irving e a Cooper, e da accostare piuttosto ad autori del calibro di Susanna Rowson e James Branch Cabell. Com'è possibile spiegare la drastica rivalutazione di Melville nel corso del Novecento? La seconda ragione è connessa al ruolo cruciale che i testi di Melville, e in particolare Moby Dick, hanno giocato nella tradizione letteraria statunitense. L’ascesa di Melville si accompagna a una radicale revisione del profilo della letteratura americana, nella quale egli viene, passo dopo passo, ad assumere una posizione così importante da divenire, specie agli occhi di alcuni critici europei, una specie di archetipo dello scrittore americano. Descrivere l’ascesa di Melville vorrà dire perciò occuparsi più in generale della ridefinizione del concetto stesso di “letteratura americana”, e di come tale ridefinizione dipenda dall’emergere e dal consolidarsi di specifiche metodologie critiche. Infine, data la statura di classico della letteratura occidentale assunta da Melville, sarà interessante stabilire quali strategie discorsive permettano di rintracciare in un testo come Moby Dick un’opera d’arte “maggiore”, soprattutto alla luce del fatto che molti critici, nonostante ne riconoscano la grandezza, continuano a nutrire perplessità sul linguaggio, gli stili, l’organizzazione dell’opera. Cos'è in definitiva che rende grande un’opera letteraria? È qualcosa di trascendentale, una qualità estetica che non conosce confini storici —f come hanno suggerito non solo T. S. Eliot o Benedetto Croce ma addirittura alcuni critici marxisti (e in certa misura lo

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stesso Marx) — o non piuttosto una complessa rete di rapporti linguistici, ideologici, politici? Tali questioni sono troppo spesso dimenticate perchè la critica ama in genere presentarsi come impresa scientifica volta alla spiegazione, ma non alla valutazione del testo. Tacere sulla questione del valore, e sui meccanismi sociali che ne governano la produzione,

vuol dire però rafforzare — magari involontariamente — convinzioni idealiste e conservatrici sull’indipendenza dell’estetica dal sociale, o sull’eternità del valore di determinate opere letterarie. Sarà peraltro opportuno chiarire subito che non è mia intenzione contestare la posizione privilegiata di Melville nel canone letterario americano, o sostenere che Moby Dick non sia un testo maggiore. Certamente Melville è un grande autore non in assoluto, ma in virtù di un’ideologia

estetico-letteraria storicamente prodotta. Il che non equivale a dire che Melville, o Shakespeare, o Dante, essendo stati eletti come maggiori dalla

critica borghese, debbano essere rifiutati a priori da una critica materiali sta. Porre il problema in questi termini sarebbe non solo fuorviante; equivarrebbe semplicemente a sostituire un dogmatismo con uno di segno diverso, ma altrettanto antistorico. Tornerò più avanti sulla questione del valore dell’opera letteraria, limitandomi per il momento a sottolineare che tale categoria può essere compresa solo storicizzandola e, quindi, ammettendone la relatività e la precarietà. Prima però di affrontare come diversi ordini del discorso critico hanno di volta in volta mutato il valore dei testi melvilliani, occupiamoci del quadro teorico alla base della ricerca.

2. L'’ambiguo fascino dell’arte greca “Da dove viene il fascino eterno dell’arte greca?”, si chiedeva Marx con un certo imbarazzo in Per una critica dell'economia politica, se le condizioni storiche che ne avevano favorito la nascita e lo sviluppo erano ormai da lungo tempo tramontate? Oltre cinquant'anni più tardi, affrontando l’identico problema, ma cercando anche di rintuzzare le posizioni dogmatiche del proletkult, Trockij scriveva: Se dico che il significato della Divina Commedia è quello di permettermi di capire lo stato d’animo di determinate classi in un'epoca determinata, io la trasformo in un documento storico soltanto, poichè come

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opera d’arte la Divina Commedia deve dire qualcosa ai miei propri sentimenti e stati d’animol...]. Naturalmente, nulla proibisce al lettore di presentarsi in veste di ricercatore e di trattare la Divina Commedia soltanto come un documento

storico. È chiaro, tuttavia, che questi due

punti di vista si trovano su due piani diversi che sono, sì, legati tra loro ma che non si coprono reciprocamente. In che modo è pensabile un rapporto non storico, ma immediatamente estetico tra noi e quest'opera

medievale italiana [...] Che cosa si richiede perchè questo avvenga? Non molto: che quei sentimenti e stati d'animo raggiungano un’espressione così vasta, intensa e possente che li sollevi sopra la limitatezza della vita del tempo. Naturalmente, anche Dante era il prodotto di un determinato ambiente sociale. Ma Dante è un genio. Egli solleva le esperienze interiori della sua epoca ad un’altezza poetica enorme.?

Passi come questo dimostrerebbero, secondo alcuni, che la teoria marxista si è sempre dimostrata pronta a riconoscere uno spazio specifico, e in qualche modo autonomo, all’estetica. La duttilità dei padri fondatori del marxismo viene così contrapposta al riduzionismo e il materialismo “volgare” che hanno molto spesso caratterizzato gli approcci marxisti all’arte e alla cultura. Solo di recente, e in particolare negli ultimi venti anni, si è iniziato a gettare le basi di una metodologia in grado di aggredire la cosiddetta sfera estetica in maniera radicalmente diversa.3 Rifiutando la vecchia imposta-

? Lev Trocxy, Letteratura e Rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, tr. di Vittorio Strada, pp. 495-6. Per il brano di Marx si veda l'introduzione a Per la critica dell'economia politica, tr. di Emma Cantimori Mazzamonti, Roma, Editori Riuniti, 1957, pp. 198 sgg.

3 Penso soprattutto al lavoro svolto da Pierre Macherey, Etienne e Renée Balibar,

Raymond Williams, Tony Bennett, Terry Eagleton, Fredric Jameson. Non voglio però suggerire che i critici qui citati appartengano tutti ad una stessa scuola. Al contrario, essi si sono spessi trovati in disaccordo tra loro: si pensi alle critiche mosse a Williams da Eacieron in Criticism and Ideology, o a quelle che Tony Bennett rivolge all’Eagleton più strettamente althusseriano (su questo problema vedi più sotto). Resta il fatto che, pur tra differenze e contrasti, questi studiosi hanno finalmente mosso obiezioni convincenti ed efficaci a concetti quali “estetica”, “letteratura”, “autore”, ecc. A proposito della nazionalità dei critici neomarxisti menzionati, Perry Anperson ha giustamente osservato che negli ultimi venti anni i maggiori centri di produzione del marxismo teorico sono da localizzare più nel mondo angiosassone che in quello latino o tedesco; sulla sua spiegazione del fenomeno si può però discutere (vedi In tbe Tracks of Historical Materialism, London, Verso, 1983, soprattutto pp. 19-31, e, per importanti osservazioni critiche sul libro di Anderson, Terry Eacteron, “Marxism,

Structuralism and Post-Structuralism”, Against the Grain, London, Verso, 1986, pp. 89-98). Un critico marxista italiano certamente recettivo nei confronti delle tematiche al cen-

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zione, Raymond Williams ha messo in luce come osservazioni del tipo di quella di Marx sull’arte greca, “spesso citate in un'ottica difensiva come esempio della flessibilità in senso umanistico del marxismo [...] andrebbero al contrario citate — senza con questo volerle svalutare — quali esempi di come, in questo campo, Marx sia rimasto ben all’interno delle categorie convenzionali del suo tempo”.4 Lo stesso può dirsi di Trockij. Quando quest'ultimo si domanda come sia possibile che un’opera del medioevo italiano possa ancora esercitare su di noi una forte attrazione, egli si pone la stessa domanda che già Marx s’era posto nei confronti dell’arte dell’antica Grecia. E, cosa importante, Trockij cerca di risolvere il proble-

ma in modo molto simile — riferendosi cioè al genio universale di Dante così come Marx aveva parlato di fascino eterno a proposito del mondo greco. La grande arte e la grande letteratura sono per Trockij quei prodotti culturali che riescono ad elevarsi al di sopra delle limitazioni di un dato periodo storico, divenendo in tal modo “universali”. Tale tentazione “universalistica”, come ha sottolineato Terry Eagleton, resta una costante dell'estetica marxista sino a Lukacs, il quale considerava l’arte come sospensione della vita “eterogenea” dell’uomo, e via di accesso a una sia pur momentanea esperienza autentica e “omogenea”. Insistere sulla matrice idealista di tale posizione non basta, e si deve aggiungere che “dichiarare

che la Divina Commedia sopravvive al suo momento storico grazie al suo effetto ‘estetico’ è in ultima analisi una tautologia: vuol dire, in effetti, sostenere che un’opera d’arte sopravvive perchè è un’opera d’arte”.5 Eppure non erano mancati, già nei primi decenni del Novecento, i tentativi — sia in campo marxista che in quello formalista — di elaborare una critica della concezione idealista dell’estetica come sfera indipendente ed indifferente alla realtà storica e sociale. Sul finire degli anni ‘20,

tro di questa introduzione è Romano Luperini. Si veda a tale proposito “Per un’ ermeneutica materialista” in L’allegoria del moderno, Roma, Editori Riuniti, 1990, nonché i molti articoli

— di LOpsnna ed altri — apparsi nella rivista A/legoria (già L'ombra di Argo). Raymonp Wiruiams, Marxismo e Letteratura, Bari, Laterza, 1978, tr. di Mario Stretema,

pp. 69-70. Naturalmente non si vuole disconoscere l’importante contributo dato allo studio dei fenomeni culturali in un’ottica marxista dalla scuola di Francoforte, ma, in particolare

nel campo critico-letterario, la tendenza dei francofortesi a vedere nella “grande” arte la coscienza critica della civiltà di massa è difficilmente conciliabile con la demisitificazione del concetto di letteratura che si vuole qui proporre. ? Terky Facteron, Criticism and Ideology, London, New Left Books, 1976, p. 179.

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Michail Bachtin e il suo gruppo (Paul Medvedev e Valentin Volosinov) avevano non solo insistito sulla natura sociale e ideologica del segno linguistico, ma dimostrato che ciò che si definiva “letteratura” era nei fatti

una forma di scrittura storicamente determinata. Le caratteristiche strutturali e formali del testo non solo non erano indifferenti alla sua dimensione sociale ed ideologica, ma le prime erano un complesso prodotto di quest’ultima.° Pochi anni più tardi un noto esponente della scuola di Praga, Jan Mukarovsky, avrebbe sostenuto in un libro importante che nessun oggetto poteva possedere una funzione estetica a prescindere dal tempo, dal luogo, e dalla persona che conferivano a quel particolare 0ggetto lo status di “artistico”. La realtà “materiale” di un quadro, una scultura o un testo, spiegava Mukarovsky, non andava confusa con la sua dimensione “estetica”, che era viceversa un prodotto inevitabilmente umano, e perciò né eterna né universale, ma contingente e locale.” Questi sforzi per articolare una teoria dell’arte e della letteratura che — senza cadere nella trappola idealista dell’estetica, né in forme di esasperato sociologismo — fosse in grado di tenere conto tanto della specifica configurazione formale dell’oggetto artistico quanto della sua natura ideologica e sociale, avrebbero però avuto una eco molto flebile nel campo delle di-

scipline letterarie. Basterà pensare a come Bachtin e il suo gruppo, a lungo perseguitati in patria dalla controrivoluzione staliniana, siano stati riscoperti in occidente solo a partire dagli anni ‘60; o a come la linguistica e lo strutturalismo abbiano sovente ignorato l’esempio di Mukarovsky. Solo a partire dagli anni ‘60 — quando nuovi fermenti sociali giungevano a scuotere lo stesso mondo accademico incrinando le sue cer-

6 Cfr. Micra Bacumn, Dostoevsky. Poetica e stilistica (1929), Torino, Einaudi, 1968; em, L’opera di Rabelais e la cultura popolare nel medioevo e nel rinascimento (1965), Torino, Einaudi, 1980; nem, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979 ; Bacumin-V.N. VoLosnov,

Marxismo e filosofia del linguaggio, (1929), Bari, Dedalo, 1977; nem, Il linguaggio come pratica sociale, Bari, Dedalo, 1980 (che raccoglie saggi del periodo 1926-30); Bacnmn-P. Mepvenev, I! metodo formale nella scienza della letteratura, (1928), Bari, Dedalo, 1978.

7 Cfr. Jan Muxarovsky, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali, introduzione e tr. di S. Corduas, Torino, Einaudi, 1971.

8 Per un’ottima analisi sia dell’impossibilità di prescindere da categorie sociologiche in qualunque discorso sul valore dell’arte, che della necessità di riconoscere la specificità storica e materiale dell'oggetto artistico, vedi Janet Wotrr, Aestbetics and the Sociology of Art, London, George Allen & Unwin, 1983.

pd

tezze e l’incontro-scontro tra marxismo e strutturalismo gettava le pre-

messe per una teoria materialista della letteratura che non sprofondasse il testo in un generico retroterra culturale — la critica dell'ideologia dell’estetica riusciva a compiere significativi passi in avanti e, soprattutto, a OCcu-

pare una posizione sempre più importante nel dibattito critico-letterario.? Neppure per i critici marxisti più attenti risultava però facile liberarsi completamente dalla tradizione idealista, come dimostrato ad esempio da Criticism and Ideology (1976) di Eagleton. Secondo il critico inglese la letteratura e l’arte sopravvivono non già evitando miracolosamente di restare invischiate nella storia ma, al contrario, proprio in virtù della particolare relazione che esse stabiliscono con quest’ultima — in virtù, cioè,

di una “particolare curvatura dello spazio ideologico nel quale i testi [letterari] si dispongono”.!° La letteratura appartiene pienamente alla storia e al sociale, ma occupa una posizione particolare, che la rende non assimilabile all'ideologia vera e propria (ideologia nel senso marxiano, 0, più precisamente, althusseriano del termine). Tutto questo, insiste Eagleton, non ha nulla a che vedere con la posizione ideologica dichiarata o nascosta del singolo autore; ciò che conta è invece una sorta di proprietà intrinseca al testo letterario che “nel produrre i suoi significati [...] produce la curvatura ideologica [...] iscrivendola nella sua stessa sostanza”.!! Tipico prodotto della fusione tra categorie marxiste e strutturaliste, l’opera di Eagleton ha evidenti debiti nei confronti di Althusser. Schematizzando, per Althusser, come per l’Eagleton della metà degli anni settanta, l’arte occupa una posizione intermedia tra scienza ed ideologia. L’arte non consente di “conoscere” — in senso scientifico — il mondo, ma non è

neppure semplice ideologia o mera “rappresentazione del rapporto immaginario degli individui con le proprie condizioni di esistenza reali” .!2

? A questo proposito si deve ricordare La critica del gusto di Garvano pELLA Votre (Milano, Feltrinelli, 1964), un tentativo pionieristico, coraggioso e intelligente, di superare i residui di “misticismo” estetico del pensiero lukacsiano e di sfruttare al contempo le intuizioni più felici della linguistica strutturale per un’analisi razionale e materialista del testo lette-

rario. 10 EacLETON, Cit., p. 180. 11 EacLeTON, cit., p. 181.

12 Louis ALrHusser, “Ideologia ed apparati ideologici di stato”, Freud e Lacan, a cura di Claudia Mancina, Roma, Editori Riuniti, 1977, p. 99.

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Piuttosto, la “grande” letteratura mette in moto un “effetto estetico” che “rende visibile, ponendosi ad una certa distanza da essa, la realtà dell'ideologia operante”.!3 Fedele a questa posizione, in Criticism and Ideology Eagleton esamina l’opera di George Eliot, Dickens, Conrad e altri scrittori dell'Ottocento e del primo Novecento inglese, ponendo i loro testi a metà strada tra le forme ideologiche dominanti dell’epoca, da un

lato, e lo smascheramento scientifico di tali forme reso possibile dal materialismo storico, dall’altro. L’ “universalismo” che Eagleton caccia dalla porta rischia dunque di rientrare dalla finestra. Dopo aver attaccato l’estetica tautologica di Trockij, Eagleton sembra far sua una visione tutto sommato altrettanto tautologica: le grandi opere d’arte si inseriscono tra scienza e ideologia in virtù di proprietà “intrinseche” che, pur se definite diversamente, richiamano alla mente le qualità “universali” rintracciate da Trockij nella grande arte. I limiti di tale posizione sono messi in luce da Tony Bennett: sostenere che la letteratura occupa, per sua natura, una posizione intermedia tra le categorie althusseriane di scienza e ideologia vuol dire credere nell’esistenza di un corpus stabile di testi che, indipendentemente dal contesto storico-sociale, occuperebbero uno spazio oggettivamente disponibile tra scienza ed ideologia — categorie, quest'ultime, considerate anch’esse “naturali” e già costituite al di qua di qualunque concreta attività cognitivo-interpretativa. La formulazione che i testi letterari elaborano e trasformano le forme ideologiche dominanti così da “rivelarle” o “distanziarle” [è] impossibile da sostenere. È piuttosto la critica marxista che, attraverso un attivo intervento critico, “elabora” i testi in questione così da far loro “rivelare” o “distanziare” le forme ideologiche dominanti a cui essi vengono fatti “alludere”. La significazione ideologica che ad essi viene così attribuita non è in qualche modo “naturale” ad essi; essa non è una significazione già data che la critica rispecchia passivamente ma una significazione che essi vengono fatti assumere dalle operazioni compiute su di essi

dalla critica marxista.!4

13 Lours ArrHusser, Lenin and Philosophy, citato in Tony Bennert, Marxism and Formalism, London, Methuen and Co., 1979, p. 122. 14 BENNETT, Ci£, p. 141.

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3. Che cos'è la letteratura?

Le osservazioni di Bennett mettono in discussione lo status stesso della “letteratura” concepita come entità autonoma e preesistente le operazioni che la critica svolge su di essa. Bennett, che si riallaccia esplicitamente agli studi di Bachtin ma anche, sia pure criticamente, al formalismo russo, considera tutte le teorie della letteratura che hanno dominato

la tradizione marxista da Lukacs fino ad Althusser gravemente compromesse — per un insieme di ragioni storiche ed epistemologiche su cui si deve qui sorvolare — con le teorie dell’estetica borghese. Parlare difatti di “fascino eterno”, “genio universale” o “effetto estetico” vuol dire capitolare all’ideologia dell’estetica; alla convinzione idealista che l’arte e la let-

teratura posseggano qualità speciali che garantiscono la loro natura trascendente. Al contrario, come spiega il critico statunitense James Kavanagh, un testo non diviene letteratura “in virtù di una qualche qualità intrinseca che ne garantisca la propria natura estetica ma in virtù del suo rapporto con un’ideologia estetico-letteraria che lo rende tale. L'estetica è un effetto dell’ideologia dell’estetica, e il testo estetico-letterario è l’effetto di un’operazione che una pratica letterario-ideologica compie su un’opera scritta” .!5 Alla stessa conclusione giungono anche, in un saggio che è oramai divenuto un classico della nuova critica marxista, i francesi

Macherey e Balibar: “letterario è il testo che è riconosciuto come tale, ed è riconosciuto come tale precisamente nel momento e nella misura in cui mette in moto interpretazioni, critica, ‘letture’”.16 Le tesi di Bennett, Kavanagh, Macherey e Balibar rappresentano un momento di rottura radicale nella storia della critica letteraria, marxista e

non. A venir messo in discussione in modo esplicito è l'oggetto stesso della critica: la “letteratura”. Ciò avviene su un terreno certamente marxista poiché, come nota Bennet, Marx non si stanca di sottolineare che so-

lo attraverso il consumo il processo di produzione completa il suo ciclo.

15 James H. KavanacH, “To the Same Defect : Toward a Critique of the Ideology of the Aesthetic”, Bucknell Review, 27 (1983),pp. 102-23, (105).

16 Pierre MacHerEY e RENÉE Batisar, “Literature as an Ideological Form: Some Marxist Hypotheses”, Praxis 5 (1980), pp. 43-58, (56).

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[...] Il processo di consumo dei testi letterari è necessariamente quello della loro ri-produzione, cioè del loro essere prodotti come diversi 0ggetti di consumo. Questo non vuol dire semplicemente che la storia della critica è una storia di “tradimenti creativi” grazie ai quali gli stessi testi vengono successivamente saccheggiati in cerca di diversi significati. Il modo in cui il testo letterario viene appropriato è determinato non solo dalle operazioni che la critica compie su di esso ma anche, cosa più importante, dall'intero contesto materiale, istituzionale, politico e

ideologico nel quale tali operazioni hanno luogo.!7

La letteratura non è dunque un’entità indipendente dalle appropriazioni critiche, una realtà oggettiva e naturale, ma un campo del sapere interamente creato da particolari attività ideologiche; un corpus di testi eterogenei e variegati privi di tratti distintivi comuni, isolabili scientificamente. È certamente sintomatico che, parallelamente alle critiche sviluppatesi sul piano storico-sociale, un attacco particolarmente efficace al concetto di letteratura sia venuto negli ultimi anni anche dalla linguistica. In un'analisi serrata dei vari tentativi fatti — dai formalisti russi in poi — di stabilire criteri obiettivi per determinare la natura specifica dei testi letterari, Mary Louise Pratt dimostra che “lo stesso concetto di letteratura è normativo [...e anche quei] critici che cercano di definire la letteratura senza far riferimento a certi valori e preferenze finiscono facilmente col presupporre valori e preferenze — inevitabilmente le proprie. Ma è chiaro che non c’è un’insieme di valori in base ai quali si possa definire la letteratura. Tutti sappiamo che i valori letterari, e la selezione che essi riflettono, differiscono da cultura a cultura, da periodo a periodo, da genere a genere”.!8 Poichè è impossibile isolare peculiarità tecniche unicamente “letterarie”, come viene dimostrato anche dal raffronto tra narrativa orale

e scritta proposto dalla Pratt, non si può fare a meno di ammettere che “la maggior parte delle caratteristiche che gli studiosi di poetica pensavano costituissero la ‘letterarietà’ dei romanzi non sono assolutamente

17 Bennett, cit, pp. 134-35. Wiuam Can osserva d’altra parte che la formulazione “sino ad un certo punto” è ambigua. Per questa e altre interessanti osservazioni sul libro di Bennett cfr. be Crisis in Criticism, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1985, pp. 202-5.

18 Mary Louise Pratt, 7oward a Speech Act Theory of Literary Discourse, Blooming-

ton, Indiana University Press, 1977, p. 123.

Di

‘letterarie’. Esse si trovano nel romanzo non perchè questo è romanzo (cioè letteratura) ma perchè queste appartengono alla categoria più ge.!9Per cercare di rispondere, o, meglio, per fornerale degli atti di parola” mulare su nuove basi la domanda “cos'è la letteratura ?”, non basta scru-

tare minuziosamente i testi che la tradizione ci consegna già confezionati sotto l’etichetta di “letterari”. Occorrerà invece volgere l’analisi critica verso la tradizione stessa, i concreti processi sociali e istituzionali che hanno dato vita all’oggetto letteratura.

4. Power to the reader

Preoccupazioni analoghe a quelle che animano la più recente generazione di critici marxisti stanno alla base di un’altra tendenza critica, an-

ch’essa sviluppatasi a partire dai tardi anni ‘60: la Rezeptionsasthetik ( nella sua versione tedesca) o reader-response criticism (nella sua versione americana ).2° Anche in questo caso, come per i critici marxisti sinora menzionati, non ci troviamo di fronte a una vera e propria scuola o a un gruppo fortemente omogeneo di studiosi, ma piuttosto dinanzi a una serie d’interventi che pongono l’accento sull'importanza del lettore e sulle dinamiche del processo di lettura; su come si risponde a, e si consuma, il

testo letterario. Tutte le teorie della ricezione spostano dunque l’attenzione dall’esame del testo a quello del lettore, visto come la fonte e il produttore dei significati assunti dal testo. La storia della letteratura deve di conseguenza essere formulata su nuove basi. Nelle parole di uno dei fondatori dell'estetica della ricezione: “la storicità della letteratura non riposa su un nesso di ‘fatti’ letterari stabilito post-festum, ma sul processo di esperienza dell’opera letteraria nel suo lettore. Questa relazione dialogica è anche il punto di partenza per la storia della letteratura”.2! Hans Robert

19 Pratt, cit., p. 69. 20 Per un’ottima introduzione alla Rezeptionsastbetik si veda Roserr C. Horus, Reception Theory. A Critical Introduction, London and New York, Methuen, 1984. Ma per notazioni critiche cfr. anche Peter Uwe HoHenpaHi, “Beyond Reception Aesthetics”, New Ger-

man Critique, 28 (1983), pp. 108-46. 21 Hans Rosert Jauss, Perché la storia della letteratura? tr. e cura di A. Varvaro, Napoli, Guida, 1969, p. 49.

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Jauss insiste sul “carattere dialogico” del testo, il cui significato non è proprietà esclusiva dell'autore, ma muta incessantemente a seconda del contesto storico e culturale nel quale il testo viene di volta in volta fruito. La convinzione di Jauss che “l’opera letteraria non è un oggetto che stia a sé, che offra lo stesso aspetto ad ogni osservatore in ogni tempo [...] o un monumento che manifesti attraverso un monologo la sua natura atemporale”, parrebbe offrire un valido punto di partenza per un riesame critico della questione del valore dell’opera d’arte, nonché dei problemi relativi alla specificità della sfera estetica.?22 Si deve però osservare che Jauss, pur riconoscendo lo spessore storico e ideologico delle qualità estetiche del testo, concepisce la storia non come un’arena dove si affrontano forze sociali, bisogni e desideri tra loro in conflitto; ma come un

fluire senza drammatiche rotture tra momenti diversi. Ciò che manca in Jauss è proprio un ripensamento critico della “grande tradizione” della letteratura occidentale che sappia tener conto dei processi extraletterari che influenzano il gusto estetico, e dei legami di quest’ultimo con i rapporti di potere di una data epoca. Anche gli altri critici (Roman Ingarden, Hans-Georg Gadamer, Wolfgang Iser) che, parallelamente a, o sulla scia di Jauss, hanno contribuito alle fortune dell’estetica della ricezione, non

sono sembrati particolarmente interessati a esplorare le dinamiche politiche e istituzionali che danno corpo a una particolare formazione estetico-ideologica come quella letteraria. Simile discorso si dovrà fare a proposito del reader-response criticism statunitense. Come ha notato Jane Tompkins, tale metodologia ha senz'altro. delle potenzialità di natura squisitamente storico-politica: “rintracciare i significati innanzitutto nell’io del lettore e poi nelle strategie interpretative che lo costituiscono, vuol dire affermare che i significati derivano dal trovarsi in una particolare posizione nel mondo. Il risultato finale di questa rivoluzione epistemologica è di ripoliticizzare la letteratura e la critica letteraria. Quand'è il discorso a costituire la realtà, invece di essere un suo semplice riflesso, tutto sta in quale discorso finisce col prevalere”. Nei fatti però — come nota la stessa Tompkins — la maggior par-

22 Ibidem. 23 Jane Tompxins (a cura di), Reader-Response Criticism: From Formalism to Poststructuralism, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1980, p. xxv. L'antologia racco-

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te dei critici statunitensi continua a porsi come obiettivo principale l’interpretazione più che l’analisi di cos'è che, a monte di qualunque explication de texte, rende un testo visibile e degno di attenzione — di cosa lo costituisce in quanto testo letterario. I vari Norman Holland, Jonathan Culler, Stanley Fish — i più noti esponenti del reader response criticism — sfiorano costantemente, senza mai affrontarla apertamente e adeguatamente, la dimensione sociale e politica di ogni atto interpretativo.

5. Contro l’interpretazione? L'estetica della ricezione, oltre a vantare indiscutibili meriti, soprat-

tutto sotto il profilo pedagogico, ha senza dubbio contribuito a mettere fortemente in crisi l’idea che il testo possieda un significato obiettivo, pre-esistente le interpretazioni prodotte dai suoi diversi lettori. Ciò nonostante il reader-response criticism non respinge del tutto alcuni principi della critica tradizionale, insistendo — si pensi a quanto scrive Iser in The Implied Readero The Act of Reading — che il testo possiede comunque una sua struttura autonoma in grado di falsificare le nostre strategie di lettura. Molto più sovversivo nei confronti di qualunque autorità del testo si dichiara viceversa il decostruzionismo, un’ “anti-metodologia” che ama presentarsi come nemica implacabile di tutti i concetti della critica tradizionale, e come propugnatrice di una posizione radicalmente anti-interpretativa. Pur non essendo qui possibile tentare un bilancio sia pur approssimativo della critica decostruzionista francese ed americana, o un esame esauriente di alcuni dei suoi principi, si dovrà ricordare che, sulla scia di Jacques Derrida, i decostruzionisti cercano di spingere lo strutturalismo di De Saussure e Lévi-Strauss sino alle ultime conseguenze per dimostrare che, se è vero come sostiene De Saussure che nel lin-

glie saggi di critici sia europei che americani, ma tanto nell’introduzione che nel saggio che chiude il volume Tompkins mette in luce i limiti del reader response criticism. Per ulteriogi note critiche vedi anche Mary Lousse Pratt, “Interpretive Strategies, Strategic Interpretations:

on sog -American Reader-Response Criticism”, Boundary 2, XI (1982-83), pp. 201-31. 4 Cfr. Wotrcanc Iser, he Implied Reader, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1974; The Act of Reading, tr. italiana, L'atto della lettura: una teoria della risposta estetica, Bologna, Il Mulino, 1987.

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guaggio ci sono solo differenze senza termini positivi, qualunque concetto di positività può essere solo frutto di un trucco concettuale. Soprattutto in ambito statunitense, dove sino all’inizio degli anni ‘60 il vecchio “New Criticism” manteneva salda la sua posizione di prestigio nei maggiori centri accademici del paese, i decostruzionisti si scagliano contro l’idea dell’opera letteraria come totalità, come oggetto organico e autosufficiente. Attaccando i capisaldi del pensiero di Cleanth Brooks e W. K. Wimsatt, i decostruzionisti dichiarano che tutte le interpretazioni, nono-

stante si mascherino da prodotti naturali — descrizioni innocenti della particolare configurazione di un testo letterario, concepite da un punto di osservazione neutrale — sono in realtà delle costruzioni arbitrarie. Per i decostruzionisti nessun punto di vista può essere oggettivo e naturalmente dato, così come nel linguaggio nessuna parola può avere un significato che non rimandi necessariamente al rapporto differenziale che essa ha con altre parole.? L’attacco mosso da Derrida al “logocentrismo” si propone di smascherare la logica caratteristica del cosiddetto pensiero “metafisico” occidentale — logica che privilegia un termine assoluto, elevandolo al rango di “significante trascendentale” e facendone una pietra di paragone cui ricondurre tutti i segni. Per Derrida occorre invece insistere sul carattere

“indecidibile” di qualunque segno e fare emergere nel testo — sia esso filosofico, letterario o altro — degli “indecidibili”, “e cioè delle unita® di si-

mulacro, delle ‘false’ proprietà verbali, nominali o sintattiche, che non si lasciano più comprendere nell’opposizione filosofica (binaria) e tuttavia la abitano, la resistono, la disorganizzano, senza però mai costituire un

terzo termine, cioè senza mai dar luogo a una soluzione nella forma della dialettica speculativa”.?6 Il critico decostruzionista, consapevole del fatto che ogni terreno epistemologico è minato, dovrebbe in teoria non cercare d’interpretare il testo, ma rendere conto dell’impossibilità d’interpretarlo. Il significato di un testo è sempre indecidibile, e quest'ultimo

25 L'esempio esplicativo classico è quello del dizionario: chiunque cerchi di stabilire il significato di un significante consultando un dizionario si troverà sempre di fronte altri significanti. Il significato di qualunque termine non è dunque mai completamente “presente”; esso sfugge continuamente. Sul decostruzionismo americano si veda più avanti, capitolo IV. 20 Jacques Derrina, Posizioni, a cura e con un'introduzione di Giuseppe Sertoli, Verona, Bertani, 1974, p. 77.

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può solo disseminare i suoi molteplici significati resistendo irriducibilmente ad ogni definitiva chiusura. Per Derrida non si tratta di opporre alle certezze del pensiero logocentrico, desideroso di ricomporre il testo sotto il segno di un significato assoluto, un relativismo esasperato perché, così facendo, si continuerebbe

ad operare all’interno di concetti tradizionali. Derrida sembra piuttosto suggerire che ciò che appare al critico tradizionale come l’inesauribilità del testo si fonda in realtà su un vuoto — tutte le positività create ad boc dalla critica nascondono una qualche radicale assenza, e tutte le interpretazioni sono perciò decostruibili, comprese quelle decostruzioniste.?7 In pratica però, se da un lato i critici decostruzionisti — e si pensi soprattutto al lavoro svolto dalla cosiddetta “scuola di Yale” — si sono dimostrati incapaci di astenersi dall’interpretare i testi letterari, dall’altro sarebbe possibile stendere un elenco dei nuovi termini ermeneutici — cioè di nuovi termini positivi — che di frequente orientano le loro analisi. E questo non solo perchè “sino a quando le pagine bianche non conteranno come titoli accademici” 2? per i decostruzionisti pare non esservi altra scelta che costruire interpretazioni viziate naturalmente da qualche positività che toccherà al critico successivo smontare, ma perchè l’impresa

27 Si veda a tale proposito il saggio di Derripa “The Purveyor of Truth” in Yale French Studies, 48 (1973), pp. 38- 72, una decostruzione della lettura che Jacques Lacan propone del racconto di Epcar Autan Poe “La lettera rubata” (in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, pp. 758), e quello di Barsara JoHnson “The Frame of Reference: Poe, Lacan, Derrida”, Yale French

Studies, 55-56 (1977), pp. 457-505, una decostruzione della decostruzione di Derrida. Una puntuale denuncia degli eccessi della critica decostruzionista viene offerta da UmserTo Eco in / limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1991. Va comunque notato che Eco considera esempi di “fanatismo epistemologico” tanto l’asserzione che un testo è potenzialmente aperto a qualunque significato quanto quella, opposta, che ascriverebbe a un testo un solo, e obiettivo, significato. 28 Come nota Frepric Jameson sono numerose le posizioni “anti-interpretative” del post-strutturalismo francese che finiscono col proporre nuove ermeneutiche: “l’archeologia del sapere, ma anche, più recentemente, la ‘tecnologia politica del corpo’ (Foucault), la ‘grammatologia’ e la decostruzione (Derrida), lo ‘scambio simbolico’ (Baudrillard), |’ ‘economia libidinale’ (Lyotard) e la ‘semanalisi’ (Kristeva)”. (7be Political Unconscious: Narrative as a Socially Symbolic Act, Ithaca, Cornell University Press, 1981, p. 23n). Per un’ot-

tima introduzione critica alla “scuola di Yale” vediJ.Arac, W. Gopzica, W. Martin (a cura di), The dre, Critics: Deconstruction in America, Minneapolis, University of Minnesota, 1983. ? Terry Eacieton, The Function of Criticism: From the Spectator to Post-structuralism, London, New Left Books, 1984, p. 105.

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decostruzionista sembra sin dal suo sorgere legata al paradosso che è inutile interpretare, pur nella consapevolezza che non si può non interpretare. Quello che si presenta a prima vista come un progetto rivoluzionario di enorme portata, rischia di ripiegarsi su se stesso e di lasciare nei fatti le cose come stanno.

6. Linguaggio e potere Se da un lato è necessario superare le secche cui spesso conduce il decostruzionismo, specie nella sua versione statunitense, alcune intuizioni derridiane non solo meritano di essere attentamente meditate, ma

svolgono un ruolo importante nelle riflessioni più recenti di Bennett, Eagleton, Jameson ed altri teorici marxisti della letteratura. Derrida, e altri a

lui più o meno vicini, hanno difatti lanciato una sfida almeno in parte utile a una troppo spesso sclerotica critica di sinistra. In particolare, per i fini che questo studio si propone, merita attenzione la ridefinizione del concetto di letteratura — un termine che, come

tutti i termini, non può

per Derrida avere alcuno status naturale od assoluto. Per Derrida qualunque fenomeno di “scrittura”, ivi compresa la stessa critica letteraria, va decostruito dal grammatologo, e quindi anche la stessa letteratura — l’insieme di testi canonicamente adottati dalla tradizione letteraria di un dato paese — andrebbe posta in discussione. Nei fatti le cose sono però andate diversamente. Tranne rare eccezioni, i santoni della critica decostruzionista hanno dato per scontata e naturale la tradizione, giungendo in certi casi a sostenere che i grandi testi sono quelli che hanno la capacità di auto-decostruirsi, tenendo bene aperte dinanzi al lettore le proprie aporie.5° Che cosa ha reso però un te-

30 J. Hiuus Mur scrive testualmente: “le grandi opere letterarie sono probabilmente più avanti dei loro stessi critici [...]. Esse precedono, anticipandola, qualunque decostruzione che il critico possa operare” (“Deconstructing the Deconstructors”, citato in Vincent B. Lerrcn, Deconstructive Criticism. An Advanced Introduction, New York, Columbia Univer-

sity Press, 1983, p. 92). Più salutare, viceversa, è stata l’influenza del pensiero decostruzionista e post-strutturalista sul cosiddetto “New Historicism”, una tendenza critica statunitense di recente co-

stituzione che si propone di articolare il testo letterario con il “testo” storico, che nutre scar-

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sto grande o un autore importante è una domanda che i Geoffrey Hartman e gli Hillis Miller non sembrano interessati a porsi. Se per i derridiani statunitensi è difficile confutare la legittimità dell'accusa di essere antistorici e incapaci di rendere conto dello spessore sociale della letteratura, bisogna d’altra parte ammettere che lo stesso Derrida appare particolar mente vulnerabile sul terreno della storia e dei rapporti di potere. Come ha osservato Giuseppe Sertoli, “la decostruzione della metafisica attuata da Derrida sembra arrestarsi al livello della metafisica stessa [...]. La ‘riapertura’ dei testi di Platone, Rousseau, Hegel, Husserl, Heidegger ecc. che

Derrida compie, non giunge mai alle loro determinazioni storiche, reali; mai una volta ci viene detta qual è la base concreta [...] su cui questi testi si sono costituiti come ‘forme culturali’ storicamente determinate’ 5 È anche alla luce di considerazioni critiche come queste che possono essere meglio comprese le posizioni polemiche assunte da Michel Foucault verso certe glorificazioni decostruzioniste della testualità. Secondo Foucault il concetto decostruzionista di écriture può servire a trasferire alla scrittura stessa la trascendentalità tradizionalmente attribuita al soggetto: “questo concetto, così come viene correntemente impiegato,

ha semplicemente trasposto le caratteristiche empiriche di un autore ad un’anonimità trascendentel...]. Garantendo alla scrittura uno status primordiale non finiamo, in effetti, col reinscrivere in termini trascendenta-

li l'affermazione teologica sulla sua origine sacra o la convinzione critica nella sua natura creativa?”5? Poichè il linguaggio si intreccia ai rapporti di

si timori reverenziali nei confronti della tradizione, e studia con lo stesso rigore sia i capolavori che le opere cosiddette “minori”. Sul “New Historicism” si veda la raccolta di saggi a cura di H. Aram Verser, 7hbe New Historicism, London e New York, Routledge, 1989. 31 Posizioni, cit., p.32. Un’entusiastica “articolazione” tra Marx e Derrida viene in-

vece proposta da Micart Ryan in Marxism and Deconstruction, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1982. E questo forse il momento di notare che, per quanto sia possibile evidenziare un’influenza del decostruzionismo sul lavoro teorico svolto in America dal femminismo, e, più in generale, sul pensiero accademico di sinistra, in cosa possa consistere una “politica della decostruzione” è ancora questione piuttosto nebulosa. Uno dei rarissimi tentativi di sviluppare una teoria politica basata in buona parte sul pensiero decostruzioni-

sta e post-strutturalista è quello di Ernesto Lactau e CrantaL Mourre in Hegemony and Socialist Strategy, London, Verso, 1985. Ma in Discourses of Extremity: Radical Ethics and PostMarxist Extravagances, London, Verso, 1990, Norman Grras ha sottoposto tale tentativo a

una lucida e puntuale critica.

32. MicHri Foucautr, “Che cos'è un autore?”, Scritti Letterari, tr. di C. Milanese, Milano,

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potere, per Foucault il rapporto volontà di potere/volontà di sapere non è assolutamente spiegabile all’interno di un'ottica soggettivistica. Lo chiarisce egli stesso: “se c'è un approccio che rifiuto [...] è quello (potremmo definirlo, genericamente, l'approccio fenomenologico) che assegna una priorità assoluta all'oggetto osservante, che attribuisce un ruolo costitutivo ad un atto, che pone il proprio punto di vista all'origine di ogni storicità — che, in breve, porta ad una coscienza trascendentale” .33 Per Foucault, dunque, la testualità non è uno spazio bianco sul quale l’interprete proietta liberamente la propria soggettività. È proprio perché, come hanno mostrato Nietzsche e Derrida, non si danno interpretazioni naturali o innocenti, puro riflesso di una realtà obiettiva, che occorre volgere lo

sguardo verso i meccanismi che regolano la produzione di specifiche regole e pratiche interpretative. L'interesse di Foucault per il discorso 0, più precisamente, per i discorsi delle scienze umane e non, nasce quindi dalla consapevolezza che tali discorsi possono essere visti non tanto come tentativi di arrivare alla “verità” delle cose, quanto come strategie interpretative che creano via via gli oggetti specifici delle proprie indagini in base a precise regole. Ciò che permette di individuare un discorso come quello dell’economia politica o della grammatica generale, non è l’unità di un oggetto, non è una struttura formale; nemmeno è una coerente architettura concettua-

le; non è una scelta filosofica fondamentale; è piuttosto l’esistenza di regole di formazione per tutti i suoi oggetti (per quanto dispersi essi siano), per tutte le sue operazioni (che spesso non possono ne’ sovrapporsi neÈ concatenarsi), per tutti i suoi concetti (che possono benissimo essere incompatibili), per tutte le sue opzioni teoriche (che spesso si escludono le une con le altre). Vi è formazione discorsiva ogni volta

che possiamo definire un tale gioco di regole.34

Feltrinelli, 1971, p. 6. Parlare della letteratura in termini di écriture vuol dire considerare il testo come qualcosa che il lettore non deve limitarsi a leggere passivamente, ma che deve

egli stesso produrre, cioè scrivere combinandoi segni che il testo gli offre. 33 Dalla prefazione all’edizione in lingua inglese di Ze parole e le cose (The Order of Things), citato in Frank LentriccHIA, After tbe New Criticism, Chicago, The University of Chicago Press, 1980, p. 192. 34 MicHÒsi Foucault, Due risposte sull’epistemologia, tr. di M. de Stefanis, Milano, Lampugnani-Nigri, 1971, p. 72.

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Uno dei primi a intuire la possibilità di estendere l'approccio foucauldiano al campo letterario è stato Frank Lentricchia, notando appunto come la categoria di formazione discorsiva “sia una sfida all’idea metafisica del vecchio storicismo secondo il quale il discorso di una disciplina, diciamo della psichiatria, o della critica letteraria, è unificato in virtù del-

la sua abilità a confrontare un oggetto essenziale, la ‘pazzia’ o la ‘letteratura’, il cui carattere è ideale, naturalmente e universalmente dato, tem-

poralmente e culturalmente immodificabile”.35 Si tratta perciò di estendere il metodo delle analisi compiute da Foucault sulle scienze naturali, la medicina, il sistema carcerario, e così via, anche alla letteratura e alla

critica — una critica i cui oggetti d'indagine andrebbero definiti “rapportandoli all'insieme delle regole che permettono di formarli come oggetti di un discorso e costituiscono in tal modo le loro condizioni di apparenza storica. [Occorre] fare una storia degli oggetti discorsivi che non li sprofondi nel comune abisso di un suolo originario, ma metta in luce il nesso delle regolarità che presiedono alla loro dispersione”8% Come si vede, la letteratura si delinea finalmente come un insieme di testi tenuti assieme non da una loro intrinseca natura “estetica”, ma

dalle regole e dalle pratiche specifiche che le “società di discorso” — come le definisce Foucault — successivamente operanti hanno stabilito. Per citare ancora una volta Lentricchia, “non esiste alcun oggetto essenziale e platonico — ad esempio una ‘poesia’ — di fronte al quale la pratica discorsiva della critica letteraria debba (nel definire una sua poetica e i tipi di procedure che tale poetica legittimerebbe) rendersi trasparente. Come coloro che vorrebbero essere definiti ‘razionali’ piuttosto che pazzi, o psichiatri portatori di verità piuttosto che guaritori, coloro che non vogliono restare esclusi dal campo dei poeti e dei critici di poesia non avranno

35 LentRICcHIA, Cif., p. 194. Un’interessante applicazione delle teorie foucauldiane al campo della critica letteraria si può trovare in uno studio che ha come oggetto proprio il discorso critico melvilliano: James Crsarano, Jr., “The Emergence of Moby Dick. An Archaeology of Its Critical Value”, Ph. D. Dissertation, State University of New York at Binghamton, 1984. Cesarano, che concentra la sua attenzione sulla critica dei reviewers ottocenteschi e

sul “Melville revival” degli anni ‘20, illustra l’importanza del pensiero di Foucault per chi voglia occuparsi della “fortuna” di un autore o un’opera letteraria, soprattutto nel capitolo introduttivo della sua tesi, dove sottolinea che “la storia di un oggetto letterario è la storia delle sue contestualizzazioni”(p.11).

36. MicHsi Foucautt, L ‘archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, p. 65.

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scelta, confinati come sono dalle definizioni storiche di cos'è verità, ra-

zionalità, poesia”.57 Secondo Lentricchia, non vi è nulla di apocalittico o riduttivo nel concetto foucauldiano di pratica discorsiva — un certo ordine può essere limitante o repressivo, ma è pur sempre un ordine storico e non eterno. Una pratica discorsiva è sempre una realtà storicamente determinata, e proprio in quanto tale può mutare radicalmente o anche scomparire. Per accennare all’utilità di questo modello analitico rispetto al tema di questo studio — che può essere individuato in quelle pratiche discorsive della critica letteraria che hanno creato e quadrettato l’oggetto “Melville” — mi sia consentita una lunga ma esemplare citazione da L’ordre du discours, dove Foucault esamina la cruciale differenza tra il “dire la ve-

rità” e l'essere dans le vrai. Ci si è spesso chiesti come mai sia stato possibile che i botanici e i biologi del XIX secolo non abbiano visto che quel che Mendel diceva era vero. Il fatto è che Mendel parlava di oggetti, metteva in opera metodi, si poneva su un orizzonte teorico che erano estranei alla biologia del suo tempo. Naudin aveva, certo, prima di lui affermato la tesi che i caratteri ereditari sono discreti; tuttavia, per quanto nuovo o strano fosse,

questo principio poteva far parte — almeno a titolo di enigma — del discorso biologico. Mendel, dal canto suo, costituisce il carattere ereditario come oggetto biologico assolutamente nuovo, grazie ad una filiazione mai utilizzata sino allora: lo svincola dalla specie, lo svincola dal sesso che lo trasmette; e il campo ove l’osserva è la serie indefinitamente aperta delle generazioni in cui appare e scompare secondo regole caratteristiche. Nuovo oggetto che invoca nuovi strumenti concettuali, e nuovi fondamenti teorici. Mendel diceva il vero, ma non era

nel vero del discorso biologico del suo tempo: con simili regole non si formavano oggetti e concetti biologici; è occorso tutto un mutamento di scala, il dispiegamento di tutto un nuovo piano d’oggetti nella biologia, perchè Mendel entrasse nel vero e le sue proposizioni apparissero allora (in buona parte) esatte. Mendel era un mostro vero, e per questo la scienza non poteva parlarne [...]. È sempre possibile dire il vero nello spazio di un’esteriorità selvaggia; ma non si è nel vero se non ottemperando alle regole di una “polizia” discorsiva che si deve riattivare in ciascuno dei suoi discorsi. La disciplina è un principio di controllo della

37 LentRIccHIA, cît., p. 196.

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produzione del discorso. Essa gli fissa dei limiti col gioco d’una identità che ha la forma di una permanente riattualizzazione delle regole.5*

Fatte naturalmente salve le debite distinzioni tra biologia e letteratura, si può parafrasare Foucault e notare che, così come le “verità” delle

teorie di Mendel risuonavano negli anni 1865-66 in un vuoto, i testi di Melville da Moby Dick in poi sono confinati nello spazio dell’esteriorità letteraria sino agli anni venti e trenta. Solo chi si rifiuta di considerare lo spessore storico-sociale del discorso letterario e critico-letterario può restare perplesso se nel secolo precedente la grandezza di Melville non fu capita. Potremmo dire che, come Mendel, anche Melville “parlava di 0ggetti, metteva in opera metodi, si poneva su un orizzonte teorico che erano estranei alla letteratura del suo tempo”. Non è un caso se nel 1949 Pierre appariva al critico-psicoanalista Henry Murray, il più grande dei libri di Melville, mentre all’anonimo recensore del Boston Post esso apparve, nel 1852, “la più pazza opera di fiction esistente [...che] pare emergere da un manicomio piuttosto che dalle tranquille località del Berkshire”.3° Il Melville di Pierre “era un mostro vero” (furono tanti i recensori che si chiesero se egli fosse divenuto letteralmente pazzo) e per questo non poteva far parte della letteratura del suo tempo. La “polizia discorsiva” dell’epoca, un'istituzione che Melville conosceva bene, proprio a giudicare da Pierre, non poteva che confinarlo nell’esteriorità. Solo grazie al nuovo ordine del discorso dell’epoca moderna Melville sarebbe entrato a far parte della Letteratura.

38. MicWei Foucautt, L'ordine del discorso, tr. di Alessandro Fontana, Torino, Einaudi,

1972, pp. 27-29. ? Si veda la lunga introduzione di Henry Murray all'edizione Hendricks House di Pierre (New York, 1949). La review del Boston Post è ristampata in HersHeL PARKER (a cura di), The Recognition of Herman Melville, Ann Arbor, Michigan, 1967, pp. 92-4. Naturalmente non è che Murray abbia finalmente scoperto la “verità” di Pierre. Egli ha piuttosto trasferito il testo in un nuovo ordine del discorso, o se vogliamo, lo ha “sistematizzato” grazie a una “polizia discorsiva” di marca psicoanalitica. Ma occorre aggiungere che, se qualunque “regime di verità” ha le sue regole e la sua “polizia discorsiva”, ciò non vuol dire che tutti i regimi discorsivi siano uguali. Per fare un esempio extra-letterario, sia il sistema legislativo italiano che quello del Sudafrica razzista sono “regimi di verità” come tutti i sistemi legislativi. Questo non vuol dire che essi siano /a stessa cosa.

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7. Critica, storia, politica

Senza entrare nella questione dei complessi rapporti tra Foucault e il marxismo,

sarà sufficiente

rilevare una

sostanziale

coincidenza

tra

quanto Foucault scrive sulla materialità e la storicità delle pratiche discorsive, e quanto hanno elaborato in un’analoga direzione, sia pure limitatamente alla letteratura e alla critica letteraria, vari critici marxisti.40

Per Balibar e Macherey “letteratura” e “letterarietà” sono termini che non si sono magicamente autogenerati, ma costituiscono in primo luogo il

prodotto delle istituzioni storiche della critica letteraria: L'ideologia della letteratura — essa stessa parte della letteratura, [cerca] continuamente di negare questa base oggettiva — per rappresentare la letteratura supremamente come “stile”, genio individuale [...] creatività,

etc.[...] Ciò che è in gioco in questa negazione costitutiva è lo status oggettivo della letteratura come forma storico-ideologica — la sua specifica relazione alla lotta di classe. Ed il primo e l’ultimo comandamento dell'ideologia letteraria è “Tu descriverai tutte le forme della lotta di classe, salvo quella che determina il tuo stesso essere” .f!

Riconoscere la storicità troppo spesso repressa della letteratura non vuol dire semplicemente ammettere che nelle opere letterarie sono riflesse o comunque presenti problematiche e preoccupazioni di un determinato periodo storico (cosa senz’altro vera), ma, più radicalmente, concepire la letteratura stessa come categoria storico-sociale. Come ci ricorda Raymond Williams, “nella sua forma moderna, il concetto di ‘lette-

ratura’ anche do fin di una

nasce col XVIII secolo e giunge a completo sviluppo solo nel XIX, se le vere condizioni del suo delinearsi s'erano andate sviluppandal Rinascimento [...]. La letteratura come nuova categoria fu quinspecializzazione dell’area precedentemente definita dalla catego-

40 Un elenco degli interventi sul rapporto Marx-Foucault sarebbe molto lungo, ed in pratica tutti i lavori su Foucault devono affrontare questo nodo. Brevi studi che mi sembrano particolarmente interessanti sono quelli di: Franco Retta, // mito dell'altro: Deleuze, Lacan, Foucault, Milano, Feltrinelli, 1978; Francois Ewalp, Anatomia e corpi politici in Foucault, Milano, Feltrinelli, 1979; Frank LenTRICcHIA, “Reading Foucault (Punishment, Labour,

Resistance), Rarîtan, 1 (Spring 1982), pp. 5-32, e Raritan, 2 (Summer 1982), pp. 41-70. 41 MacWerey e Bauar, Cît., p.48.

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ria della lettura e, stampata, Williams,

retorica e della grammatica: una specializzazione riferita alla nel contesto materiale dello sviluppo della stampa, alla parola e in particolare al libro”.42 Non deve stupire che, come spiega Shakespeare stesso non appartenesse in origine alla “letteratu-

ra” visto che, come gli autori di teatro del suo tempo, non aveva alcun

particolare interesse per il dramma come scrittura, né, per quel che sappiamo, cercò mai di pubblicare i propri lavori. “Fino al XVIII secolo letteratura era innanzitutto la generalizzazione di un concetto sociale che stava a esprimere un certo livello raggiunto (minoritario) d’istruzione”, e solo dopo la rivoluzione romantica il termine assumerà quel significato che in genere oggi gli attribuiamo. Parlare dunque della “letteratura occidentale” come di un continuum che unirebbe Omero a James Joyce, vuol dire riferirsi non a una realtà oggettiva, indiscutibile, autosufficiente, ma piuttosto confrontarsi con una particolare ricostruzione storica, frutto di particolari elaborazioni intellettuali legate a particolari realtà politico-sociali. Il tono di sicurezza con cui T. S. Eliot si riferiva alla “Tradizione” come se si trattasse di un qualcosa di obiettivo e trasparente, visibile a tutti, è sicuramente un segno della straordinaria fiducia riposta nelle proprie convinzioni intellettuali, non

certo una dimostrazione di scientificità. Bisogna però ammettere che un atteggiamento in fin dei conti non

dissimile animava i commenti dello stesso Marx sul fascino dell’arte greca, cui si è accennato nelle prime pagine di questa introduzione. Varrà quindi la pena osservare come Macherey cerchi di rimettere a fuoco il problema in termini storici e prospettici: “Da dove viene il fascino eterno dell’arte greca?” Non c’è una risposta adeguata ad una tale domanda perché il fascino eterno dell’arte greca non esiste. L’Iliade, un’opera della letteratura universale [...] non è as-

solutamente quella che la vita materiale dei greci produsse; quest’ultima non era un “libro”, e nemmeno un “mito” nel senso che noi gli attribuiamo e che ci piacerebbe applicare retrospettivamente. L’ Iliade di Omero, cioè l’ “opera” di un “autore”, esiste solo per noi, in relazione

alle nuove condizioni materiali nella quale è stata riscritta e reinvestita con un nuovo significato: per strano che possa sembrare, l’/liade non

42 Wyuaws, cit., p.62. 43 Wiuams, Cit., p. 63.

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esisteva per i greci, e perciò il problema di conservarla non si presenta. Ma spingiamoci più in là: è tutto come se noi l’avessimo composto o perlomeno riscritto noi stessi. Le opere d’arte sono dei processi, non delle cose, perché esse non sono mai prodotte una volta per tutte ma sono sempre soggette ad essere “riprodotte”: esse non trovano un’identità o un contenuto eccetto che in quest’incessante trasformazione. Non c’è alcuna arte eterna, né vi sono opere d’arte immutabili.44

Proprio perchè “il testo non può mai essere ‘se stesso’, ed è sempre qualcosa di diverso da sé”,4 non basta osservare che lo “stesso” testo

viene interpretato diversamente da lettori differenti o in differenti epoche storiche. Può benissimo accadere che un testo ritenuto un tempo “letteratura” venga un giorno ricacciato al di fuori della categoria. Questo è quanto, ad esempio, è più o meno avvenuto ai vari Bryant, Longfellow e Whittier, figure chiave nella letteratura americana dell’Ottocento per l’Ottocento, ma relegati nel Novecento sempre più ai margini mentre Melville, per i suoi contemporanei non più di un minore, è divenuto ormai un classico. Tirando le somme, perciò: Qualunque convinzione che lo studio della letteratura sia lo studio di un'entità stabile e ben definita, così come l’entomologia è lo studio degli insetti, può essere abbandonata come una chimera. Alcuni tipi di fiction sono letteratura mentre altri non lo sono; certa letteratura è fiction e altra no; certa letteratura è consapevole della propria letterarietà mentre esempi di elaboratissima retorica non sono letteratura. La letteratura, nel senso di un insieme di opere di sicuro ed immodificabile valore, distinti da comuni proprietà intrinseche, non esiste [...]. Il cosiddetto “canone letterario”, l’indiscutibile “grande tradizione” di una “letteratura nazionale”, dev'essere riconosciuto come una costruzione, ideata da

persone particolari, in un certo periodo. Dovrebbe essere a questo punto chiaro non solo che termini come “letteratura” ed “estetica” sono termini funzionali e non ontologici, ma

44 Pierre MacHerey, “The Problem of Reflection”, Sub-stance, 15 (1976), p. 10.

45 KavanaGH, cît., p. 106. 46 Terky Eaceron, Literary Theory, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1983, pp. 10-11. Si può qui misurare quanto Eagleton abbia criticamente rivisto le posizioni precedentemente espresse negli anni ‘70.

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che la letterarietà è una categoria sempre ideologica. Come si vedrà nel caso melvilliano, non è che nel Novecento la critica abbia tutto d’un trat-

to messo a punto strumenti analitici in grado di riportare alla luce l’obiettiva grandezza di Melville. Tutt'altro: è solo perché nuove ideologie sono emerse — e prima tra tutte l'ideologia del modernismo — che un testo come Moby Dick è stato elevato al rango di “letterario”. Nuove ideologie dell’estetica, sviluppatesi a fronte di mutamenti sociali ed istituzionali, hanno rimosso mano a mano il macrotesto melvilliano “tramite una certa pratica ermeneutica, dal suo contesto pragmatico e [lo hanno] sottoposto ad una riscrizione generalizzata” rendendolo finalmente ‘letterario’.47

8. La materialità del testo e degli interpreti Nella prospettiva radicalmente “contestualistica” che si è sin qui illustrata sussiste certamente un potenziale rischio, e cioè che il testo finisca con l’essere concepito come semplice cera incessantemente plasmata da operazioni interpretative assolutamente arbitrarie. Il testo, non potendo mai essere se stesso, diverrebbe uno spazio bianco senza alcuna difesa dalla violenza interpretativa del soggetto. Si tratta di un rischio reale, e occorre notare che sia Bennett che Balibar e Macherey, pur non facendo propria tale tesi, non chiariscono sino in fondo la loro posizione. Bennett, come s'è visto, nota che “il testo letterario può, in virtù di sue proprietà intrinseche, determinare fino ad un certo punto il modo nel quale viene ‘consumato’ o letto”, ma una formulazione del genere è vaga: quali proprietà di un testo sono da considerare intrinseche? E cosa vuol dire che queste limitano fino ad un certo punto le possibili letture? Questi problemi restano aperti, col risultato però che l’invito rivolto da Bennett alla critica marxista ad “agire sul testo” può anche essere letto come un’esplicita ammissione di come, essendo in ultima analisi il testo privo di un suo significato autonomo, al critico marxista non resta che accettare le regole del gioco costruendo interpretazioni arbitrarie, ma di sinistra.

47 Sono questi i termini nei quali EacLeton affronta in Walter Benjamin, or Towards a Revolutionary Criticism (London, Verso, 1986, p. 123) la questione della “fortuna” di un

altro autore assai problematico: Thomas Hardy.

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Da quando la critica letteraria si è venuta organizzando, nel corso del Novecento, in istituzione accademica, in molti hanno tentato di dare

alla disciplina regole “scientifiche” che governassero le pratiche interpretative. Il lavoro svolto da E. D. Hirsch, Jr. in Validity in Interpretation è solo uno dei più noti tentativi miranti a stabilire regole “obiettive” che consentano di stabilire quali interpretazioni sono valide e quali no; di distinguere insomma tra letture “giuste” e letture “sbagliate”48 Il fatto è che tali distinzioni assolute non sono sempre facili da mantenere nella realtà e L'asserzione secondo la quale noi possiamo far assumere ad un testo letterario il significato che più ci piace è in un certo senso giustificata. Cos'è, dopo tutto, che può fermarci? Non c’è letteralmente fine al numero di contesti che possiamo inventare per le parole d’un testo al fine di far loro assumere diversi significati. Ma in un altro senso l’idea è una semplice fantasia coltivata nelle menti di coloro che hanno speso troppo tempo nelle aule universitarie. Perchè questi testi appartengono al linguaggio nel suo complesso, hanno intricate relazioni con altre pratiche linguistiche, per quanto essi possano sovvertirle e violarle; e il linguaggio non è qualcosa che possiamo manipolare a nostro piacimento ...]. Il linguaggio è un campo di forze sociali che ci modellano sino in fondo, ed è un'illusione accademica credere che un’opera letteraria sia un’arena di possibilità infinite che gli si sottrae.4?

Non sbaglia dunque Stanley Fish a muovere un deciso attacco a “Hirsch, Abrams ed altri sostenitori dell’interpretazione oggettiva”. Costoro, secondo Fish, “temono che in mancanza dei controlli assicurati da

un sistema normativo di significati, l’io sostituirà semplicemente i propri significati ai significati [...] che i testi ‘possiedono’; ma se l’io viene concepito non come un'entità indipendente ma piuttosto come una costruzione sociale le cui operazioni sono delimitate dai sistemi d’intelligibilità che lo costituiscono, allora i significati che esso attribuisce al testo non sono di quest’ultimo ma hanno origine nelle comunità interpretative di cui esso è una funzione”.5° Per Fish il concetto di validità è una questione

48 Cfr. D. H. Hiscn, Validity in Interpretation, New Haven, Yale University Press, 1967.

4 Facieton, Literary Theory, cit., p. 87. 50 Srantey Fisu, Is There a Text In This Class?, Cambridge, Massachussetts, Harvard

University Press, 1980, p. 335. Per una critica puntuale ai limiti delle teorie di Fish si veda

Can, cit., pp. 51-64.

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di consenso, e la correttezza di una data interpretazione è in ultima analisi da ricondurre all'accordo che si crea — o non si crea — attorno ai valori e le convinzioni che stanno alla base dell’interpretazione stessa.?! Un esempio può contribuire a chiarire questo punto. Nel 1693 Thomas Rymer pubblicava il suo A Short View of Tragey, definito da Dryden “the best piece of criticism of the age”. Il libro di Rymer contiene un saggio, divenuto famoso, dove si attacca violentemente l’Otello e si sostiene,

tra l’altro, che la tragedia potrebbe essere letta come “un monito rivolto a tutte le buone mogli affinchè abbiano buona cura della propria biancheria” .52 Il riferimento è qui naturalmente al fazzoletto che Desdemona perde e che Iago userà come prova della sua supposta infedeltà. “Perchè questa non è stata chiamata la Tragedia del Fazzoletto?”, ironizza Rymer. Nessuno nell’interpretare Otello si esprimerebbe oggi in modo così irriverente; eppure, per quanto il tono di Rymer sia certamente sarcastico, la sua critica è tutt'altro che uno scherzo. Come testimonia Dryden, Rymer era un serissimo uomo di cultura del tempo, e nel ridurre Ote/lo ad una paradossale (per noi) favola morale, egli cerca di sostenere la propria battaglia in favore di un teatro “classico” inglese in grado di rivaleggiare con quello francese. Di qui l’attacco a Shakespeare, autore troppo “rozzo” per quei tempi; un attacco che non si può semplicemente definire un esempio di “monumental wrongheadedness” .53 L’interpretazione di Rymer appare risibile a noi, ma, per usare i termini di Fish, essa s’inseriva benissimo almeno in una “comunità interpretativa” della sua epoca i cui membri non dovevano necessariamente condividere la specifica interpretazione di

51 Pensare che il singolo lettore possa determinare in modo del tutto arbitrario il significato di un testo vorrebbe dire non solo dimenticare che anche egli è un prodotto sociale, ma porterebbe anche verso un “pluralismo” assai pericoloso. “Sostenere che un dato testo è ‘differente per tutti’ significa certamente la fine di qualunque analisi e prassi politica conseguente così come sostenere che è ‘uguale per tutti’ “ (da un articolo di SterHEN HeatH su Screen citato in EacLeron, Walter Benjamin, cit., p. 122). In quest'ultimo caso si dovrebbe concludere che è possibile stabilire a priori il significato di un testo, senza tener conto della specifica situazione storica nella quale viene ad essere fruito. Nel primo caso, viceversa, si finirebbe col conferire tutto il potere alle inclinazioni individuali abbracciando così l’altrettanto assurda idea che tutti i testi sono uguali, e vanificando ogni tentativo di sostenere, attraverso battaglie politico-culturali, il valore di un testo rispetto ad un altro.

°2 Curt A. Zimansky (a cura di), The Critical Works of Thomas Rymer, New Haven, Yale University Press, 1956, p. 1 53. Come fa Jorn Wan nell’introduzione al “Casebook” su Othello, London, Macmil-

lan, 1971, p. 28.

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Otello fornita da Rymer, ma condividevano senza meno le convinzioni e i valori che la presupponevano. Non si può dimostrare scientificamente che l’analisi di Rymer sia errata; si può solo dire che, per le comunità in-

terpretative odierne, una lettura di tale tenore appare priva di senso.

9. Interpretazione e allegoria Il concetto di “comunità interpretative”, come quello foucauldiano di “società di discorso”, ha il grosso merito di riformulare le dinamiche dell’atto interpretativo in un’ottica socio-culturale, al riparo da impostazioni soggettiviste. L’interpretazione non deve essere concepita come un'attività mirante a portare alla luce i significati “nascosti” del testo, né come la più o meno stravagante improvvisazione di un soggetto isolato,

bensì come una strategia di “riscrittura” del testo in base a regole, necessità e modalità proprie dei discorsi critico-letterari di un dato periodo storico. Nell’impadronirsi di un testo, nell’inserirlo cioè in una formazione discorsiva, una comunità interpretativa ne rielabora natura e significato alla luce di preoccupazioni ideologiche storicamente determinate. Si pensi, ad esempio, a quegli studiosi del medioevo che, nel leggere Omero, si trovavano a confrontare un materiale marcato da una diversità imbarazzante da collegarsi al diverso mondo nel quale i suoi “testi” erano stati prodotti — un mondo socio-culturale radicalmente estraneo a quello medioevale. Per questa ragione il testo omerico, come d’altra parte anche il Vecchio Testamento, doveva venire allegorizzato per essere leggibile e avere diritto di cittadinanza all’interno del nuovo contesto sociale e culturale del medioevo. Omero e il Vecchio Testamento dovevano essere ripensati dal punto di vista del Nuovo Testamento e dell’ideologia cristiana dell’epoca. In questa prospettiva l’interpretazione può dunque essere descritta come l’operazione necessaria ad assegnare un significato al testo.

Nel rispondere alla domanda “che cosa significa?” la critica mette in moto “un’operazione allegorica in base alla quale un testo viene sistematicamente riscritto nei termini di qualche codice (master code) fondamentale o di un’ ‘ultima istanza determinante”.54 E infatti tutte le metodologie cri-

54 Jameson, cit., p. 58, ma, più in generale, si vedano le pp. 58-74, nonché il saggio

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tiche che si sono date battaglia nel corso del Novecento — dalla critica etica a quella psicoanalitica, dal formalismo allo strutturalismo — hanno costantemente tradotto il linguaggio del testo in un codice fondamentale che starebbe alla base di quanto, “in superficie”, il testo pare comunicare. Concepire l’interpretazione come un’operazione allegorica vuol dire non solo liquidare come un miraggio il sogno di un’interpretazione puramente immanente, ma soprattutto riconoscere che tutti i metodi in-

terpretativi hanno una loro precisa dimensione ideologica. Non si danno paradigmi interpretativi “neutrali”: scopo della critica è, in un modo o nell’altro, trasformare il testo in un “pezzo” dell’ideologia di cui una data metodologia è espressione. E si deve sottolineare che ciò non accade solo quando le preoccupazioni ideologiche del critico — come nei casi opposti di T. S. Eliot o Lukacs — sono ben evidenti e lo portano ad assegnare O rifiutare l’etichetta di “letterario” a determinati testi. Come avremo modo di vedere nel corso della nostra analisi delle strategie della critica melvilliana, anche metodologie apparentemente neutrali come quella del “New Criticism” mirano, in ultima analisi, a veicolare attraverso l’interpretazione concreti messaggi ideologici. È interessante notare che lo stesso Melville, nella sua opera maggiore, ha qualcosa da dire a tale riguardo. Nel capitolo 45 di Moby Dick leggiamo: “So ignorant are most landsmen of some of the plainest and most palpable wonders of the world, that without some hints touching the plain facts, historical and otherwise, of the fishery, they might scout at Moby Dick as a monstrous fable, or still worse and more detestable, a hideous and intolerable allegory”. Ishmael descrive qui in un certo senso quanto accadrà al testo Moby Dick. Puntualmente, dalla riscoperta di Melville durante gli anni ‘20 in poi, la critica si sforzerà di rintracciare un tema, un codice o un’ideologia dominante che innervi l’intera opera — di tradurre, cioè, il testo in allegorie più o meno “tollerabili”. Eppure tutte le

“Metacommentary”, PMLA, 86 (1971), pp. 9-18. Sull’interpretazione come operazione allegorica si vedano anche le importanti e suggestive osservazioni di Luperini, in L’allegoria del

moderno, cit., soprattutto le pp. 57-65. ? Jameson ha inequivocabilmente dimostrato che persino una critica indifferente ai giudizi di valore come quella strutturalista si serve di un suo master code— un master code che ha lo scopo dichiarato di esaltare l’autoreferenzialità del testo e di leggere il suo “contenuto” come meditazione sul Linguaggio (cfr. be Prison-House of Language, Princeton, Princeton University Press, 1972, pp. 195-205).

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allegorizzazioni — anche le più flessibili — finiscono col rivelarsi intollerabili. Il progetto di tradurre il testo in un linguaggio totale si dimostra impossibile per due ordini di motivi. Il primo è di carattere generale: il continuo procedere della Storia nonché la frantumazione dell’universo sociale fa sì che tutte le interpretazioni di Moby Dick, come di qualunque testo, siano in qualche modo parziali. Il secondo è invece specifico: è caratteristico non solo di Moby Dick, ma della maggior parte dei testi melvilliani, sfilacciarsi in una pluralità di discorsi che rendono assai instabile — in pratica impossibile — qualunque definitiva allegorizzazione. Spesso, come si vedrà, i discorsi che una data interpretazione esclude o reprime sono proprio quelli che mettono in crisi i presupposti del metodo prescelto, svelandone appunto la specifica impalcatura ideologica. È evidente che uno studio della critica melvilliana che parte da tali premesse non si propone tanto di dibattere la legittimità o l'accuratezza di una data interpretazione di Pierre o di Moby Dick, quanto piuttosto di definire quale situazione l’abbia richiesta e resa possibile, in base a quali regole essa si sia costituita, in quale quadro ideologico sia stato prodotto un “nuovo” Pierre o un “nuovo” Moby Dick. Non sarà importante stabilire se un’interpretazione sia più vera di un’altra: come l’isola di Kokovoko — il “true place” dei Mari del Sud dove Melville fa nascere Queequeg — ”it is not down in any map”, così anche la vera interpretazione dei testi melvilliani non è rintracciabile in alcun libro o in alcun articolo. La verità di un’interpretazione è una funzione del particolare contesto culturale ed ideologico nel quale essa viene concepita. Perciò non si cercherà di dimostrare che critici e lettori nell'Ottocento furono incapaci di comprendere la vera natura di Moby Dick, che sarebbe poi emersa solo nel corso del Novecento. Poichè nessun testo è leggibile al di fuori di determinati contesti, la critica del Novecento non scopre cosa sia “realmente” Moby Dick, ma lo percepisce piuttosto in circostanze diverse che consentono di ricostruirlo come “classico”, cosa impossibile nell’ordine del discorso letterario ottocentesco. Guardare le cose in questo modo non vuol dire accettare l’idea che il testo sia uno spazio vuoto e, nel caso di Melville, questo si può dimostrare empiricamente. Materialmente un testo come

Moby Dick offriva nell'Ottocento una resistenza tale sia al modo di leggere del pubblico che ai principi critici dei recensori da non permettere, o quantomeno da non rendere troppo facile, una sua riproduzione, cioè una sua lettura/riscrittura, nei termini dell’ideologia dell'estetica coeva. 41

10. Valore

Una volta riconosciuta pienamente la dimensione ideologica di qualunque atto interpretativo, anche la questione del valore dell’opera letteraria può essere ricollocata su un diverso terreno. Interpretare un testo vuol dire al tempo stesso investirlo di certi valori: “il valore di un’opera letteraria è continuamente prodotto e riprodotto proprio da quelle valutazioni implicite o esplicite che vengono frequentemente invocate come ‘riflessi’ del suo valore e quindi come prove del valore stesso”.59 Anche la semplice quantità di libri e articoli dedicati a Melville negli ultimi cinquant'anni gioca un ruolo importante nella riproduzione del valore culturale dei suoi testi. Il fascino dell'estetica è però tale che la posizione che ho sin qui cercato di difendere risulterà per molti non facile da accettare. Ad esempio, in un recente dibattito sul problema del valore estetico tra Peter Fuller e Terry Eagleton, il primo obietta che una prospettiva radicalmente materialista potrebbe portare a posizioni limite, come ad esempio a sostenere che, “quando si tirano le somme, la differenza tra Michelangelo e David Wynne sarebbe semplicemente un prodotto sociale e potrebbe mutare” .57 Tutto questo, secondo Fuller, non avrebbe senso. Una trattazione ade-

guata della questione della “irriducibilità” dell'esperienza estetica invocata da Fuller è qui impossibile, ma occorre ricordare che qualunque critico assumesse la sua posizione sul caso melvilliano verrebbe a trovarsi in una situazione imbarazzante. Il nostro ipotetico critico dovrebbe da un lato sostenere che è una stupidaggine descrivere la differenza tra, poniamo, William Gilmore Simms e Melville in termini storico-sociali, e dall’altro fare i conti col fatto che, in realtà, ancora nel 1917 Simms era ritenuto pari,

se non superiore, a Melville. Per aggirare questo ostacolo non vi sarebbe altra soluzione che bollare lettori e critici ottocenteschi come puerili o addirittura sub-umani, ma così facendo si aggraverebbe la situazione am-

56 BarBarA HERRNSTEIN SMITH, “Contingencies of Value”, Critical Inquiry, 10 (1983), pp. 153570):

57 Terky Eacteton, Terry Fuuer, “An Exchange on Value”, New Left Review, 142 (1983),

pp. 76-80, (89). Per una trattazione tanto del problema del valore quanto di quello della specificità della sfera estetica si rimanda al già citato testo di Janet Wotrr, Aestbetics and the Sociology of Art.

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mettendo implicitamente che non esiste alcuna eterna natura umana che l’Arte o la Letteratura rifletterebbero. In sostanza, voler definire il valore di

un testo letterario in astratto è impossibile come definire il valore di una merce a prescindere dal mercato, e il solo risultato sicuro di tale operazione consiste per l'appunto nel trasformare il testo in un geroglifico, un’essenza misteriosa, una realtà metafisica. * **

Nonostante le resistenze opposte da diverse forze all'approccio che si è venuto sin qui proponendo, anche nel campo specifico degli studi americani, oltre che in quello più strettamente teorico, qualcosa comincia a muoversi. William Spengeman e Alan Ward, ad esempio, hanno sviluppato una critica del concetto di “letteratura americana” simile a quella mossa all'idea di letteratura da Macherey, Balibar, Bennett, ed altri.58 Nina Baym, da posizioni femministe, ha cercato invece di dimostrare che le

varie “teorie” della letteratura americana conferiscono particolare valore a quei testi caratterizzati da un alto tasso di “americanità”, pur essendo quest’ultima qualità tutt'altro che meramente “estetica”. Non solo le diverse teorie della letteratura americana (da Feidelson a Fiedler a Sundquist) marginalizzano le scrittrici - ma giudicano la letteratura in base a un “mito americano” di marca nettamente maschilista. La fuga paradigmatica dell’eroe (maschio) da un mondo conformista e civilizzato, associato invariabilmente alla sfera femminile, verso una natura anch’essa femminile ma ora pura e materna, e ora selvaggia e pericolosamente ses-

suale, può essere reinterpretata — e smascherata — come messa in scena del “melodramma di una mascolinità minacciata” piuttosto che come esperienza necessariamente “creativa” o “di maturazione” .5?

58 Wiriiam SPENGEMAN, “What is American Literature?”, Centennial Review, 22 (1978), pp. 119-28; Aran Warp, “Hegemony and Literary Tradition in America”, Humanities in So-

ciey, 4 (1981), pp. 419-30. Ma si veda anche quanto scrive Russe Rersnc sulle diverse teorie della letteratura americana in 7be Unusable Past, London, Methuen, 1986. Sul piano più di-

rettamente pratico-pedagogico il tentativo di ripensare il canone letterario statunitense è culminato nella pubblicazione della Heath Anthology of American Literature, a cura di Pau Laurer et al., Lexington, Massachusetts e Toronto, 1990, 2 volumi.

59 Nina Bayw, “Melodramas of Beset Manhood”, American Quarterly, 33 (1981), pp. 123-39. Un altro ottimo saggio su questi temi è quello di Jane P. Tompkms, “Sentimental

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Un altro giovane critico statunitense, William Cain, ha proposto che la questione del valore del testo letterario non venga ignorata ma, al contrario, posta al centro del dibattito. Se certi testi vengono canonizzati e raggruppati in una “tradizione americana”, spiega Cain in 7be Crisis in Criticism, non è perchè questi posseggano tratti peculiari che naturalmente li apparentino l’uno all’altro, ma perchè alcuni critici li hanno sistematizzati in un canone

omogeneo.

Per l’Ottocento, ad esempio, la

grande tradizione del Rinascimento Americano era semplicemente inesistente, e questo fatto, invece d’essere ignorato o accantonato, meritereb-

be di divenire tema di riflessione: perchè solo nel nuovo secolo si è “riconosciuta” la grandezza di certi autori? Perchè gli autori importanti per l’Ottocento americano sono stati esclusi dal canone per fare posto ad altri? In nome di quali valori? In conseguenza di quali mutamenti sociali, culturali, istituzionali? È interessante che Cain dedichi un’osservazione

particolare proprio al caso melvilliano, chiedendosi: “Quale processo ha innalzato Moby Dick ad una posizione tanto privilegiata? A quali argomentazioni si è fatto ricorso per sminuire altri testi e mettere in luce Melville? Quali strategie interpretative sono state escogitate per ‘scoprire’ la

ricchezza e la complessità di Moby Dick, e quali gruppi di testi queste strategie non sono state in grado d’illuminare?” Per Cain interrogarsi sulla fama di Melville dovrebbe voler dire descrivere “i termini critici, le tat-

tiche, i valori” che l'hanno resa possibile. È soprattutto questo che le pagine che seguono cercheranno di fare. Un simile desiderio di storicizzare la fama delle grandi figure letterarie anima anche un recente saggio di Jane Tompkins sullo spessore socio-politico della fortuna di Nathaniel Hawthorne.8! In esso Tompkins dimostra prima di tutto che un autore la cui posizione nel canone letterario americano, al contrario di Melville, è sempre apparsa sicura, è stato però apprezzato dai suoi contemporanei per motivi assolutamente diversi da

Power: Uncle Tom's Cabin and the Politics of Literary History”, Glypb: Textual Studies, 8 (1981), PRI 79-102.

60 Can, cit., p. 261.

61. Jane TomPKINS, “Masterpiece Theater. The Politics of Hawthorne's Literary Reputation”, American Quarterly, 36 (1984), pp. 617-42. Il saggio è ristampato in Sensational Designs. The Cultural Work of American Fiction, New York, Oxford University Press, 1985.

Molti saggi del libro ruotano attorno ai temi discussi in questa introduzione.

da

quelli che ne fanno oggi un autore maggiore. Nell'Ottocento, infatti, racconti oggi considerati memorabili — "Young Goodman Brown” o “The Minister’s Black Veil” — erano ritenuti decisamente inferiori a “sketches” come “A Rill from the Town Pump” o “Little Annie’ sRamble”, oggi in genere dimenticati. Inoltre i recensori del tempo consideravano 7be Marble Faun il miglior romanzo hawthorniano e includevano regolarmente l’autore nella tradizione del “sentimental novel”. A nessuno veniva in mente di leggere i testi di Hawthorne accostandoli a quelli di Melville, e non solo i due scrittori erano ritenuti differenti, ma addirittura inconciliabili.

Uno dei principali meriti di Tompkins sta nel chiarire che, se si riconduce la “classicità” di una grande opera letteraria alla sua irriducibile dimensione storica, non è perché si voglia buttarla a mare o dimostrarne il nonvalore. Una tale prospettiva sarebbe assurda, e il critico che indaga sulle dinamiche di produzione del valore di determinati testi classici non può essere visto come il pazzo che scaglia il martello contro la Pietà di Michelangelo. Piuttosto: Identificare le partigianerie che conducono a canonizzare un autore o un’autrice come classico non vuol dire revocare il loro diritto ad essere considerati grandi, ma semplicemente far notare che quel diritto può venir contestato in base ad altre posizioni, da altri gruppi che rappresentano interessi egualmente partigiani. Vuol dire far notare che se certe opere letterarie compongono in questo momento il canone è perchè i gruppi che hanno un investimento in esse sono quelli culturalmente più influenti. [....Ma] il fatto che la reputazione di un autore dipenda dal contesto in cui esso viene letto non svuota un’opera del suo valore; è il contesto — che in ultima analisi include l’opera stessa — che crea il valo-

re che i lettori “trovano” nell’opera.92

Se l'approccio adottato e lo spirito della mia ricerca dovrebbero essere a tal punto sufficientemente chiari, un’ultima precisazione si rende necessaria. La scelta del materiale critico discusso nei capitoli che seguono è basata su alcuni criteri il più possibile “obiettivi”, anche se ovviamente contestabili. Il primo è quello dell'importanza: non tutti i libri e gli articoli su Melville hanno contribuito in misura eguale alla reputazione o all’interpretazione delle sue opere. “Importanti” sono per me quei testi

62 Tompkins, cît., pp. 618, 639.

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che il discorso critico melvilliano cita costantemente e che più hanno esercitato un'influenza sulla critica successiva; o quei testi che in un particolare contesto storico o storico-geografico hanno rivestito una funzione significativa (come è accaduto con le biografie degli anni ‘20), anche se poi sono stati in certa misura accantonati. Date le dimensioni impressionanti che, a partire dal secondo dopoguerra, ha assunto la bibliografia degli studi melvilliani, la mia indagine diviene sempre più selettiva man mano che ci si avvicina alla scena contemporanea. Sarà perciò bene ricordare che l’analisi mira a ricostruire i paradigmi epistemologici nonché i contorni ideologici che hanno dominato le diverse fasi della critica melvilliana, e non a menzionare o recensire i testi di tutti i critici — più o me-

no illustri — che si sono occupati dello scrittore. Se, soprattutto a partire dagli anni ‘50, sono numerose le letture dei testi che non vengono neppure menzionate, sarebbe dimostrabile che tali interpretazioni rappresentano in larghissima parte solo minime variazioni di alcune “strutture profonde” che governano la produzione dei discorsi critici su Melville in un particolare contesto storico-sociale. “Scrivere la storia di un partito”, notava Gramsci, “vuol dire scrivere

la storia di un paese da un punto di vista monografico”.93Analogamente, scrivere la storia della critica melvilliana vorrà dire scrivere la storia della critica letteraria del Novecento (soprattutto in America) dal punto di vista di Melville. In particolare, sarà importante osservare perché alcuni tipi di critica emergono in specifiche fasi storiche e particolari contesti istituzionali, e come diversi approcci siano responsabili della creazione di diversi Melville. Per i recensori dell’Ottocento non v'era dubbio che Melville fosse soprattutto l’autore di 7ypee e Omoo. Tra gli anni ‘20 e gli anni ‘60 egli viene invece valorizzato come l’autore di Moby Dick, mentre il Melville dei nostri tempi è ancora l’autore di Moby Dick, ma sempre più anche quello di Pierre e The Confidence-Man, testi che solo in tempi piuttosto recenti sono divenuti canonici. Questo quadro, ovviamente, conferma che gli strumenti metodologici che guidano l’interpretazione non sono in alcun modo estranei al valore che si rintraccia nel testo, e che il nostro sapere è sempre un sapere storico e prospettico.

63 La frase di Gramsci è nei Quaderni dal Carcere; ad attirare la mia attenzione su di

essa è stato Francis MutHern, 7be Moment of Scrutiny, London, New Left Books, 1979, PI3i

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CAPITOLO I DALLA CRITICA DEI REVIEWERS AL “MELVILLE REVIVAL”

All the ruies which have been hitherto understood to regulate the composition of works of fiction are despised and set at naught. Of narrative, properly so called, there is little or none, of love, or sentiment, or tenderness, of any sort, there is not a particle whatever; and

yet, with all these glaring defects, it would be in vain to deny that the work has interest. - Il Dublin University Magazine su Moby Dick, febbraio 1852

This Pequod, ship of the American soul... - D. H. Lawrence, Studies in Classic American Literature, 1923

Nel 1917, a cura di W. P. Trent, John Erskine, Stuart P. Sherman e

Carl Van Doren, usciva la Cambridge History of American Literature, un’opera che sarebbe restata per un lungo tempo il più autorevole tentativo di inquadramento del materiale letterario statunitense. Non per nulla, trent'anni più tardi, nella prefazione alla Literary History of the United States (1946), gli autori della nuova storia della letteratura americana riconoscevano nella Cambridge History un punto di riferimento obbligato, Un’ocnonostante la ritenessero sotto diversi aspetti un lavoro superato.!

THomas H. 1 La prima edizione della LHUS, a cura di Rosert E. Seuuer, Wiutarn THorp, . La Macmillan da 1946 nel a pubblicat venne Lupwic M, Ricraro E Canpy Jornson, Henry Selmer CoStates (New York, recente pubblicazione della Columbia Literary History of the United

Emory ELuotT, nonchè l’uscita lumbia University Press, 1988), sotto la direzione generale di

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chiata anche superficiale alle due diverse opere dà subito il senso di quanto muti radicalmente il profilo della “letteratura americana” tra il primo ed il secondo dopoguerra. Per limitarci a come viene trattato l’Ottocento, basterà notare che la Cambridge History dedica a E. A. Poe quindici pagine, di cui meno di tre a una discussione dei racconti. Nove pagine vengono spese per H. W. Longfellow, dodici perJ.G. Whittier e diciotto per W. C. Bryant. Su Emily Dickinson ci sono viceversa solo quattro pagine, nelle quali viene criticata per il suo “defective sense of form” e lodata perché le sue poesie “are remarkable for their condensation, their vividness of image [...] their childlike responsiveness to experience”.? Anche a Melville vengono dedicate quattro pagine, all’interno del capitolo “Contemporaries of Cooper”, dove William Gilmore Simms ne riceve però cinque. Nella LHUS, trent'anni più tardi, Poe sale a ventidue pagine, ed è ora non più soprattutto critico e poeta, ma anche l’autore di racconti memorabili. Longfellow scende invece a sette pagine, Whittier a otto, Bryant a undici e nessuno dei tre, contrariamente a quel che accadeva nella Cambridge History, merita più un capitolo a sé. Emily Dickinson viene affrontata in dieci pagine, e se oggi possono apparire poche, va notato che già nella LHUS la “childlike responsiveness to experience” ha lasciato _ il campo a una “terrible, beautiful intensity” frutto della “most aspiring experience of the Puritan soul”.3 Melville, infine, riceve trenta pagine — quante Emerson e più di Thoreau e Hawthorne - all’interno di una sezione dal titolo “Literary Fulfillment”, mentre Simms è liquidato in quattro pagine. Tra le due guerre mondiali, e ben al di là di quanto possa indicare un mero calcolo di pagine, la mappa della letteratura americana viene drasticamente ridisegnata. Solo tenendo bene a mente questo mutamento globale, che consiste in qualcosa di più complesso e radicale di una semplice evoluzione del gusto, diviene possibile spiegare la “riscoperta” di Herman Melville nel Novecento.

imminente di una New Cambridge History of American Literature, sotto la direzione gene-

rale di Sacvan BercovitcH, segnano ovviamente il passaggio a una nuova era e una nuova

“letteratura americana”. 2 The Cambridge History of American Literature, New York, Macmillan e Cambridge, Cambridge University Press, 1917, vol. II, p. 34.

3 LHUS, cit., p. 907.

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1. Storia di una “borrible reputation”, o “the man who lived among the cannibals” Prima di affrontare il cosiddetto “Melville revival” degli anni ‘20 è però necessario volgere lo sguardo al secolo precedente per esaminare i travagliati rapporti di Melville con l’istituzione letteraria dell’epoca, e verificare quale Melville il diciannovesimo secolo avesse lasciato in eredità al ventesimo. Dopo circa cinquant'anni di ricerche sulla reputazione ottocentesca di Melville, i fatti appaiono oggi sufficientemente chiari. Quella che segue è una discussione sintetica delle risposte accordate dai recensori americani e britannici alle opere melvilliane che non può, ovviamente, rendere giustizia a numerosi e importanti dettagli, ma che vuole offrire gli elementi necessari a capire per quali ragioni, per l’Ottocento, lo scrittore rimase sostanzialmente “the author of Typee and Omoo”, “South Seas Melville”, “a man who lived among the cannibals”.4 Con i suoi due romanzi di “avventure polinesiane”, apparsi rispettivamente nel 1846 e nel 1847, Melville ottenne un certo successo di pubblico e critica. Ci fu chi dubitò che un semplice marinaio potesse essere il vero autore dei due testi, e chi mise in discussione la stessa pretesa veridicità delle avventure narrate. L’ironia o gli attacchi espliciti riservati da Melville ai missionari cristiani nei mari del Sud — accusati di essere troppo spesso portatori di corruzione e violenza invece che messaggeri di pace e civiltà — sollevarono anch'essi alcune critiche ma, per la maggior parte,

4 Sulla reputazione di Melville nell’Ottocento si vedano : Hun H. HetHERINGTON, Melville’s Reviewers: Britisb and American, 1846-1891, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1961; HersHet Parker (a cura di), 7be Recognition of Herman Melville, Ann Arbor,

University of Michigan Press, 1967, pp. 3-145; Harrison HayrForp e HersHeL Parker (a cura di), Moby Dick as Doubloon, New York, Norton, 1970, pp. 1-119; G. Warson BrancHÒ (a cura di),

Melville: tbe Critical Heritage, London and Boston, Routledge and Kegan Paul, 1974; e infine le eccellenti “Historical Notes” in appendice ai volumi della Northwestern-Newberry Library di Chicago che, sotto la direzione di Harrison Hayford, Hershel Parker e Thomas G. Tanselle, sta curando l’edizione definitiva delle opere complete di Melville. Un'ottima discussione dei meccanismi formali e delle strutture ideologiche alla base della percezione ottocentesca di Melville si può trovare in James Cesarano, Jr., “The Emergence of ‘Moby Dick”. An Archaeology of its Critical Value”, Ph. D. Dissertation, State University of New York at

Binghamton, 1984. Per ulteriori osservazioni sulla reputazione ottocentesca di Melville si vedano anche molti dei saggi raccolti nell’utile Jonn Bryant (a cura di), A Companion to Melville Studies, New York, Greenwood Press, 1986.

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i recensori reagirono favorevolmente ai due libri lodandone soprattutto lo stile semplice e vivace, e la grazia della narrazione. 7ypee venne descritto come “fresh”, “pleasant”, “entertaining”; Omoo come “dreamy”, “picturesque”, “poetic” 5 Nel marzo del 1848, però, Melville annunciò di voler mutare rotta e scrisse a Murray, il suo editore inglese: “My instinct is to out with the Romance”.6 Tale istinto si sarebbe concretizzato in Mardi (1849), un testo

col quale egli intendeva lasciarsi alle spalle il recente passato delle avventure “realistiche”. I reviewers risposero negativamente a questa mossa inattesa. Evert Duyckinck e William Alfred Jones, membri del circolo letterario della “Young America” che Melville stesso aveva di recente iniziato a frequentare, si dichiararono per lo più soddisfatti del libro, e Jones arrivò a scrivere che, a confronto di Mardi, Tybee e Omoo erano “as

seven-by-nine sketches of a sylvan lake [...] compared with the cartoons of Raphael”.8 Il tono generale delle reazioni nei confronti di Mardi fu però di ben diverso tenore, e può forse essere riassunto da questa frase

5 Typee ,"Historical Note”, Northwestern-Newberry Edition, Chicago and Evanston,

1968,p. 294; Omoo, “Historical Note”, Northwestern-Newberry Edition, Chicago and Evanston, 1968,p. 335. 6 Merkel R. Davis e Wim H. Giuman (a cura di), The Letters of Herman Melville, New Haven and London, Yale University Press, 1960, p. 71. Murray rifiutò di pubblicare Mardi, che venne invece stampato in Inghilterra da Richard Bentley. La distinzione canonica tra novel (romanzo realistico) e romance (romanzo dove le convenzioni realistiche possono essere infrante) è offerta da Nathaniel Hawthorne nella prefazione alla House of the Seven Gables, ed è senza dubbio uno dei concetti chiave sui cui si sono basate numerose, e in-

fluenti, teorie della letteratura americana. Per un recente articolo sull’importanza del termine romance nella critica americana presente e passata si veda JoHn Mc Wiuams, “The Rationale for ‘The American Romance”, Boundary 2, 17 (Spring 1990), pp. 71-82. 7 Si veda la prefazione a Mardi dove Melville scrive: “Not long ago, having published two narratives of voyages in the Pacific, which, in many quarters, were received with incredulity, the thought occurred to me, of indeed writing a romance of Polynesian adventure, and publishing it as such; to see whether, the fiction might not, possibly, be received fo a verity: This thought was the germ of others, which have resulted in Mard?. Vedi anche la lettera a Murray del 28 gennaio 1849 dove Melville scrive: “Unless you should deem it very desirable do not put me down on the title page as ‘the author of 7ypee and Omoo'. I wish toI go Mardi as much as possible from those books” (Letters, cit., p. 76). 8 Il commento è ristampato in BranckÙ, ci, p. 178. Sul gruppo della “Young America” vedi Jorn StarForD, The Literary Criticism of Young America, New York, Russell and Russell, 1967. Le recensioni di Duyckinck e Jones, come la stragrande maggioranza delle recensioni dell’epoca, apparvero non firmate, ma la loro attribuzione è praticamente certa.

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del Boston Post: “He [Melville] had better stick to his ‘fact’ which is received as ‘fiction’, but which puts money in his pocket, than fly to ‘fiction’ which is not received at all”.9 In Inghilterra il libro venne bocciato e addirittura liquidato da alcuni come “rubbishing rhapsody”. Per la Literary Gazette di Londra più che opera letteraria Mardi era un disordinato “caleidoscopio”, mentre in America il libro venne attaccato come “indigested mass of rambling metaphysics” e “fathomless sea of Allegory”, o persino come “mere bodge-podge”.!0 Fu in particolare la molteplicità dei registri del testo — in parte avventura realistica, in parte satira politico-sociale, in parte allegoria — a irritare i recensori, incapaci di determinare a quale categoria letteraria appartenesse l’opera. Né migliore fu la risposta dei lettori: negli Stati Uniti, nel periodo 1849-91, Mardi vendette appena 2.900 copie.!! Per recuperare un rapporto col pubblico e ottenere più lusinghieri giudizi critici Melville dovette, sia pure controvoglia, tornare allo stile più sobrio e realistico delle prime opere. I risultati di questo compromesso col mercato letterario furono Redburn (1849) e Wbite-Jacket (1850), salutati in genere dai reviewers americani e d'oltreoceano come un felice ritorno a quella che essi consideravano la migliore qualità di Melville, e cioè la sua abilità a narrare la “common and real life”. Come notava il Knickerbocker,

dopo l’errore commesso con Mardi — definito a “pseudo-philosophical rifacciamento of Carlyle and Emerson” — “we are glad to find the author of Typee on the right ground at last” .!2 Melville non era però disposto a reprimere completamente l’impulso a seguire una strada molto diversa da quella che lettori e recensori gli chiedevano di percorrere e, spronato probabilmente dall’incontro con Hawthorne, dall’appassionata lettura di Shakespeare, e dall’influenza di alcune idee emersoniane, egli produsse quello che il ventesimo secolo avrebbe consacrato come il suo capolavoro: Moby Dick(1851). Che il libro venisse apprezzato da alcuni sin dal suo apparire è fuori discussione. È

? Commento citato in Branc4Ò, cit., p. 156. Il recensore si riferisce naturalmente alla

prefazione di Melville a Mardi citata alla nota 7. 10 Mardi, “Historical Note”, Northwestern-Newberry Edition, Chicago and Evanston,

1970, p. 668; Branck, cit, p. 156.

11 Mardi, “Historical Note”, cit., p. 671.

12 Commento citato in BrancH, cit., p. 235.

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però altrettanto certo che, in generale, la critica contemporanea fu estremamente severa. Per lo Spectator di Londra ci si trovava di fronte a “a singular medley of naval observation, magazine article writing, satiric reflection upon the conventionalism of civilized life, and rhapsody run mad”, mentre il Britannia lamentava “so much eccentricity in its style” e si dichiarava “at a loss in what category of works of amusement to place it”. Per l’Atbenaeum Melville andava condannato perché chiedeva al lettore di “endure monstrosities, carelessness, and other such harassing manifesta-

tions of bad taste as daring or disordered ingenuity can devise”. Moby Dick era pertanto da annoverare tra la “worst school of Bedlam literature” .!5 Persino Duyckinck, sul New York Literary World, pur mantenendo un tono molto più pacato e imparziale, e pur trovando di che lodare Melville, apparì perplesso e insoddisfatto dinanzi a questo “intellectual chowder of romance, philosophy, natural history, fine writing, good feelings,

bad sayings [...] reckless at times of taste and propriety”. L'organizzazione del libro gli sembrò poi incerta: “there are evidently three if not two books in Moby Dick rolled into one”. Il primo libro — la narrazione “realistica” della caccia alla balena — andava lodato, mentre il secondo “the ro-

mance of Captain Ahab, Queequeg, Tashtego, Pip & Co.” — era un misto di buono e meno buono. Il terzo libro, “half essay, half rhapsody”, centrato sulle “extravagant, daring speculations” di Ishmael, andava condannato senza appello: “this practical running down of creeds and opinions, the conceited indifferentism of Emerson, or the run-a-muck style of Carlyle” rischiavano di distruggere un testo che, per “acuteness of observation” e “freshness of perception”, avrebbe meritato maggior plauso.!4 Se (come sostiene Hershel Parker) furono le reazioni negative all'opera in cui tanto aveva investito a spingere Melville verso un attacco diretto contro pubblico e critica in Pierre (1852), non può essere provato con certezza; ciò che è indubitabile è che questo libro cancellò le residue possibilità che lo scrittore aveva di ottenere un sia pur relativo successo. Già la forma e lo stile di Mardi avevano riscosso scarsi consensi;

13 BrancH, cit., pp. 257, 260, 254, rispettivamente.

14 Branck, cit., pp. 265-68. 15 Herswri Parker, “Why Pierre Went Wrong”, Studies in the Novel, 8 (1976), pp. 7-23,

soprattutto pp. 14-17.

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Pierre, aggiungendo di suo un contenuto “proibito”, si pose assolutamente al di fuori del discorso letterario dell’epoca. Il New York Day Book intitolò una breve segnalazione “Herman Melville Crazy” ed epiteti simili- “deranged”, “unnatural”, “indecent”, “repulsive”, “lunatic” — vennero

indirizzati sia all'autore che al testo dalla maggioranza dei recensori. Anche il reviewer di Grabam's— uno dei pochi a non limitarsi a sciorinare insulti — pur notando che “many of the scenes are wrought out with great splendor and vigour”, si premurava di precisare che “the whole book is intolerably unhealthy”.!9 Ancora una volta è importante osservare con attenzione quanto scritto da Duyckinck sul Literary World per avere un senso di come l’attacco nei confronti di Melville fosse totale. Il letterato che pochi anni prima aveva salutato nel giovane autore di 7ypee e Omoo, e anche di Mardi, una speranza della nascente letteratura americana, e che aveva poi cercato di mantenere una posizione ron troppo ostile nei confronti di Moby Dick, non aveva ora più dubbi sulla definitiva involuzione di Melville. “The most immoral mora! of the story”, scrisse Duyckinck di Pierre, “if it has any moral at all, seems to be the impracticability of virtue [...]. Virtue and religion are only for gods and not to be attempted by men”. Quello che era stato “the jovial and hearty narrator of the traveller’s tale of incident and adventure” si era improvvisamente

trasformato in un propagatore di “loathsome suggestion[s]” e, concludeva Duyckinck, Pierre non era altro che “a confused phantasmagoria of distorted fancies and conceits, ghostly abstractions and fitful shadows”.! Una discussione più approfondita della “fortuna” ottocentesca di Melville richiederebbe anche un’analisi delle risposte suscitate dalle opere successive al 1852; qui basterà notare che, pur ricevendo alcune lodi

per Israel Potter (1855) e, soprattutto in Inghilterra, per 7be Confidence Man (1857), Melville era destinato a restare ai margini della letteratura del suo tempo. I suoi esperimenti in poesia non ebbero sorte migliore

delle opere in prosa: Battle Pieces and Aspects of the War (1866) solle-

16 “Historical Note”, Pierre, Northwestern-Newberry Edition, Chicago and Evanston, 1971, pp.379 e sgg. 17 Citato in Branca, cit, pp. 300-2. Curiosamente il tono di questa, come di tante altre recensioni, ricorda quello della lettera che, nel romanzo melvilliano, gli editori “Steel, Flint and Asbestos” indirizzano a Pierre dopo aver letto la sua “blasphemous rhapsody, filched from the vile Atheists, Lucian and Voltaire”.

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citò scarse e tiepide risposte, mentre di Clare/(1876) Melville stesso notò come l’opera fosse “eminently adapted for unpopularity”. Ciò su cui occorre riflettere è comunque soprattutto il quadro storico-culturale in cui il fallimento di Melville maturò, e, in particolare, in

quale modo si ponessero all’epoca i rapporti tra scrittore, da un lato, e pubblico e istituzione letteraria, dall’altro. Innanzitutto bisogna sottoli neare che, per valutare il successo o meno di qualunque opera letteraria prodotta nell'Ottocento americano, un’analisi anche accurata delle recensioni da essa ricevute può non essere sufficiente, o risultare in alcuni casi addirittura fuorviante. Come spiega Nina Baym, numerosi romanzi venivano attaccati dai reviewers per la loro “immoralità”, ma spesso, contrariamente a quanto capitato con Pierre, ottenevano un succès de scan-

dale.:8 D'altro canto una ricezione critica favorevole non comportava automaticamente un successo in termini di vendite: 7ypee ed Omoo ricevettero giudizi lusinghieri, ma nessuno dei due divenne un vero e proprio best-seller.!9 Il rapporto tra critici e scrittori e critici e pubblico era senz'altro importante, ma non tanto quanto quello tra scrittore e pubblico. Era soprattutto quest'ultimo a porsi in termini non facili, e certamente non solo negli Stati Uniti.?0 Se lì la situazione era particolarmente complessa per i noti fattori — mancanza di una cospicua leisure class, di una significativa tradizione letteraria autoctona, di una legislazione che garantisse i diritti d'autore — ciò

non vuol dire che l’ambiente fosse necessariamente ostile alla produzione e al consumo di letteratura, e in particolare di romanzi.?! Piuttosto, per

18 Secondo Nina Bavm non furono le recensioni che accusavano Pierre di immoralità a determinarne il fallimento commerciale. I reviewers dell’epoca si lamentavano sovente di non riuscire a impedire, con le loro recensioni negative, il successo di numerosi romanzi “scabrosi”.(Novels, Readers, and Reviewers: Response to Fiction in Antebellum America,

Ithaca, Cornell University Press, 1984, p. 8). Per Baym “fu molto probabilmente lo stile più che il soggetto o la sua moralità che misero Melville in difficoltà col pubblico sia nel caso di Mardi che di Pierre’(p. 132).

19 Cfr. Wiuuam Charvar, The Profession of Autborship in America:1800-1870, Ohio State University Press, 1968, pp. 181 e 291. 20 Sul rapporto “triangolare” scrittori-critici-pubblico si veda Huc® D. Duncan, “Literature as a Social Institution”, Language and Literature in Society, Chicago, Chicago University Press, 1953, pp. 58-74. 21 Il libro di Baym citato sopra (nota 18) vuole proprio dimostrare che “moltissimi romanzi vennero scritti e pubblicati in America” e che è “impossibile continuare a sostene-

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uno scrittore come Melville, il problema era un altro: quello che Raymond Williams ha descritto come caratteristico dell’’artista romantico”.?2 La mercificazione della letteratura era ormai un fatto compiuto, e se certo mai era esistito un artista “indipendente” — non è forse il mecenatismo la forma di controllo della produzione e circolazione del prodotto artistico che precede quella del libero mercato? — la Rivoluzione Industriale aveva inaugurato un’epoca in cui lo scrittore si caratterizzava sempre più come produttore di un tipo particolare di merci alla caccia di un pubblico di

consumatori. Che Melville fosse più che cosciente di tale situazione è dimostrabile al di là di ogni dubbio. Come ha notato William Charvat, al suo esordio letterario Melville si considerava più un “practical writer” che un “artista”.25 Non solo. Il giovane Melville era desideroso di ottenere i consensi del maggior numero di lettori possibile. Nel preparare l’edizione americana di 7ypee, in risposta alle reazioni di alcuni reviewers britannici insoddisfatti per le critiche rivolte nel libro al ruolo dei missionari in Polinesia, Melville accettò, apparentemente senza problemi, di modi-

ficare il testo originale per renderlo più vendibile. “The book is certainly calculated for popular reading, or for none at all” — scriveva Melville illustrando la situazione a Murray. “If the first, why then, all passages which are calculated to offend the tastes, or offer violance to the feelings of any large class of readers are certainly objectionable”.?* Qualche cosa però, a partire da Mardi, o forse più probabilmente durante la stesura della prima parte di Mardi, spinse Melville in una direzione del tutto diversa: il desiderio di “out with the Romance”, di rompere il tacito patto stabilito col suo pubblico e di offrire un prodotto diverso che lasciò scontenti non solo molti reviewers, ma soprattutto i lettori.

re che il clima letterario nell’America dell’anteguerra era ostile alla fiction” (pp. 13 e 276). Sulle connessioni tra la notevole produzione di “letteratura di massa” dell’epoca e le grandi figure dell’Ottocento letterario americano si veda Daw $. Revnotps, Beneath the American

Renaissance: the Subversive Imagination in the Age of Emerson and Melville, New York, Knopf, 1988, studio che conferma la grande disponibilità del pubblico dell’epoca verso temi scabrosi e scandalistici.

22 Cfr. Raymonp Wiuams, Cultura e Rivoluzione Industriale, tr. di MariaTeresa Grendi,

Torino, Einaudi, 1972, pp. 58-78.

3. Charvar, Cit., p. 208

24 Letters, cit., p. 39.

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È da Mardi in poi che Melville si trova a combattere tra i propri “istinti” e le richieste del pubblico, e questa contraddizione continuerà a segnare il suo lavoro ora apertamente, ora sotterraneamente, sino alla fi-

ne. I romanzi, le poesie, le lettere, i marginalia di Melville sono ricchi di commenti a riguardo, ma basterà considerare qui il breve periodo 184951. Prima di dare inizio al progetto di Moby Dick, con Redburn e WhiteJacket Melville aveva cercato di riallacciare un rapporto col pubblico dopo il passo falso di Mardi. Qualunque sia oggi la nostra opinione su questi due romanzi, i sentimenti di Melville nei confronti del “beggarly” Redburn e di Wbite-Jacket erano chiarissimi. Egli riteneva di aver cercato, riproponendosi nelle vesti di sobrio narratore realista, di elemosinare consensi. “No reputation that is gratifying to me, can possibly be achieved by either of these books. They are two jobs, which I have done for money — being forced to it, as other men are to sawing wood”, scriveva Melville al suocero Lemuel Shaw, ribadendo poi gli stessi concetti in una lettera a Evert Duyckinck: “I hope I shall never write such a book [Redburn] again”. E in effetti Melville non scrisse più libri del genere (con la possibile eccezione di Israel Potter) assecondando piuttosto il suo “earnest desire to write those sort of books which are said to ‘fail’”.25 Melville era dunque consapevole di essere, per dirla con Williams, “nient'altro che un produttore in più di generi di necessità per il mercato”, ed è questa consapevolezza che rende il caso melvilliano particolarmente interessante.?° Melville si assume in prima persona la responsabilità di descrivere l’attività di scrittore in termini di produzione per il mercato, presentando tale situazione come un’insormontabile limitazione materiale che è semplicemente impossibile ignorare. Si veda ad esempio la lettera a Hawthorne dove, illustrando la sensazione di enorme diffi-

coltà da lui provata nei confronti della “tribe of ‘general readers”, delinea

25 Letters, cit., pp. 91 e 95, rispettivamente. Vedi anche la lettera a Richard Henry Dana, Jr., del primo maggio 1850 (pp. 106-8). Per un'analisi di Wbite-Jacket dal punto di vista del difficile rapporto tra Melville e i suoi lettori si veda War-cnee Dimock, “Wbite-Jacket: Authors and Audiences”, Nineteenth Century Fiction, 36 (1981), pp. 296-317. Il saggio è ristampato nel recente libro di Dimock, Empire for Liberty: Melville and tbe Politics of Individualism (Princeton, Princeton University Press, 1989), uno studio che contiene numero-

se osservazioni sul rapporto tra Melville e i suoi lettori.

26 Wiuaws, cit., p.64.

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lucidamente il proprio dilemma: “Dollars damn me [...] What I feel most moved to write, that is banned, — it will not pay. Yet, altogether, write the

other way I cannot, so the product is a final hash, and all my books are botches”. I desideri del proprio cuore, aveva già scritto Melville a Lemuel Shaw, erano diametralmente opposti a quelli della propria tasca.?? Di fronte a tale impasse lo scrittore cerca di reagire abbracciando un tema

caro ai romantici,

e rivendicando

all’artista il favoloso ruolo di

“Truth teller”. Non limitandosi a collocare idealmente l’artista in una sfera tutta particolare, assegnandogli compiti altissimi e persino mitici, Melville tinge la missione dello scrittore di tonalità decisamente calviniste. Se per Wordsworth il Poeta è “the rock of defence for human nature; an upholder and a preserver”, e per Shelley addirittura lo “unacknowledged legislator of the universe”, Melville stabilisce un nesso ancor più diretto tra divinità e scrittore, tra religione e letteratura. “We that write & print have all our books predestinated”, scriveva nel 1849 a Evert Duyckinck, “& for

me I shall write such things as the Great Publisher of Mankind ordained ages before he published ‘The World' — this planet, I mean — not the Literary Globe”. Sempre scrivendo a Duyckinck, riferendosi al “divino” William, Melville aveva notato che “he [Shakespeare] full of sermons-onthe-mount, and gentle, aye, almost as Jesus [...]. And if another Messiah ever comes twill be in Shakesper's person [sic]”.28 Se si può speculare su sino a che punto Melville pensasse di essere lui stesso il nuovo Messia letterario, nel celebre saggio “Hawthorne and His Mosses” egli definì l’ami-

27 Letters, cit., pp. 128 e 92. Charvat è tra i pochi a prestare seria attenzione ai problemi incontrati da Melville nel suo rapporto con i lettori. Cfr. Charvar, “Melville and the Common Reader”, pp. 262-82, ma anche pp. 181-243 e, in particolare, pp. 240-41 dove si legge: “Moby Dick non è mai stato accuratamente interpretato come l’opera di uno scrittore che si trovava in uno stato di tensione creativa con un pubblico di lettori le cui limitazioni egli aveva finalmente definito. Molti dei mezzi espressivi dell’opera, e in una certa misura la sua forma e la sua grandezza, possono essere spiegate alla luce di tale tensione”. Secondo Nina Baym (vedi sotto, nota 30), viceversa, affermando di non riuscire a scrivere “the other

way” Melville mentirebbe, avendo sino a quel punto scritto “the other way” non solo in 7y-

pee e Omoo, ma anche in Redburn e White-Jacket. L'affermazione sarebbe perciò accurata solo se riferita a Mardi. Occorre però notare che per quanto Melville detestasse Redburn e Wbhite-Jacket tali testi possono anche essere letti come soluzioni di compromesso tra i due modi di scrivere piuttosto che come complete capitolazioni di fronte a quanto richiesto dal pubblico. La stessa Baym considera Moby Dick in questa prospettiva.

28. Letters, cit., pp. 96 e 97.

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co “the literary Shiloh of America”. Nel periodo che precedette e accompagnò la composizione di Moby Dick, Melville insistette ripetutamente sul ruolo messianico dell'artista, pur confrontando sempre tale rivendicazione con la situazione oggettiva, con “this world of lies [where] Truth is forced to fly like a scared white doe in the woodlands” e dove un rapporto trasparente col pubblico appare impossibile: “What a madness & anguish it is” — aveva scritto a Duyckinck — “that an author can never, under no conceivable circumstances — be at all frank with his readers”. Per questo il saggio su Hawthorne non va letto semplicemente come l’esaltata celebrazione di un “Master Genius”, ma come un invito pressante rivolto al pubblico dei lettori affinché riconoscesse e sostenesse non solo Hawthorne, ma “the whole brotherhood” degli scrittori contemporanei: “Let America then prize and cherish her writers; yea, let her glorify them [...] let America first praise mediocrity in her own children, before she praises [...] the best excellence in the children of any other land”.?? Ciò che caratterizza il ragionamento melvilliano non è però solo la consapevolezza di quanto il desiderio di rendere la letteratura “the Great Art of Telling the Truth” sia difficilmente conciliabile con le richieste dei lettori. Diversamente da numerosi artisti romantici, Melville cerca di fare

dello scrivere una professione e, cosa molto importante, al contrario di uno Wordsworth o di uno Shelley, o degli stessi Emerson e Whitman, lo strumento scelto da Melville per comunicare col pubblico non è la poesia o il saggio, ma la fiction. Stando a Nina Baym sarebbe proprio “Melville’s quarrel with fiction”, l’impazienza mostrata dallo scrittore di fronte a un mezzo ritenuto inadatto a comunicare l’ultima, assoluta Verità, a costitui-

re il tratto distintivo della sua difficile carriera letteraria. Secondo tale teoria, Melville avrebbe cercato, a partire da Mardi, di fare dei suoi testi dei veicoli di Verità metafisiche, ma, già in Mardi, e poi via via più seria-

mente e tragicamente in Moby Dick e Pierre, avrebbe preso “a disperare che la letteratura fosse in grado di affermare alcuna verità”.3°

? “Hawthorne and His Mosses” ristampato nell’edizione di Moby Dicka cura di Har-

RISON Mo e HersHeL Parker, New York, Norton, 1967, pp. 535-51. La citazione è da p. 544. 0 Nina Bay, “Melville’s Quarrel with Fiction”, PMLA, 94 (1979), pp. 909-23, (910). Per una trattazione della “teoria del romanzo” melvilliana vedi anche Sergio Perosa, American Theories of the Novel, New York University Press, 1983, pp. 60-70.

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Melville avrebbe quindi subito il fascino delle dottrine trascendentaliste, che trovavano però tradizionalmente sbocco in mezzi espressivi non-fictional. I problemi sarebbero nati proprio dalla sua insofferenza verso le limitazioni canoniche della forma romanzo che richiedeva allo scrittore coerenza in termini di temi, personaggi, stile, punto di vista narrativo e ambientazione. Melville, in breve, avrebbe finito con l’accettare

una visione emersoniana del linguaggio — una visione simile a quella illustrata da Ahab nel celebre discorso sulle “pasteboard masks”3!, ma poiché una tale concezione era basata sulla fede nell'esistenza di un Assoluto, di un Autore divino del linguaggio umano, una volta venuta a cadere questa fede il linguaggio stesso, lungi dall’offrire alcuna possibilità per dare voce alla Verità, diveniva un assurdo labirinto, un mezzo che finiva

con l’allontanare dalla Verità. Il fine principale di 7be Confidence-Man (l’ultimo romanzo melvilliano) sarebbe appunto quello di esporre l’assurdità di qualunque fiction, dimostrando anzi che il linguaggio stesso non sarebbe che un'ulteriore finzione, un ultimo inganno. La tesi di Baym sugli sforzi esercitati da Melville per cercare di piegare il romanzo a fini ad esso tradizionalmente estranei, almeno per l’Ottocento, è certamente una delle esposizioni più lucide e meno stravaganti di un approccio ai testi melvilliani che si è andato sempre più affermando in questi ultimi anni. Il punto debole della tesi sta nel voler dare delle cause della disillusione provata da Melville nei confronti della forma romanzo prima, e del linguaggio stesso poi, una spiegazione tutta psicologica e filosofica. Per la Baym lo smascheramento delle pretese di verità della letteratura, che viene portato a compimento con 7he Confidence-Man, è unicamente, o principalmente, conseguenza inevitabile di una sorta di uso sovversivo dell’ideologia emersoniana. Se è giusto da un lato sospettare di frettolose spiegazioni meccaniciste delle realtà cosiddette “sovrastrutturali” come quella letteraria, non si può passare sotto silenzio il fatto che Moby Dick è un punto di svolta nella carriera di Melville anche perchè il suo tentativo di conquistare un pubblico per il tipo di letteratura che gli sta a cuore fa miseramente naufragio. Ammesso che Melville finisca con l’accettare che per la Verità non c’è spazio nella lette-

31 Cfr. Moby Dick, cit., p. 144.

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ratura, varrebbe la pena ricordare che i tentativi di rendere il romanzo mezzo di comunicazione della Verità si scontrano con la bocciatura simultanea di lettori e critici.32 Se poi Melville credeva che scrivere fosse sostanzialmente inutile, perché avrebbe continuato a farlo anche dopo Pierre e The Confidence-Man ? Da un lato non basta dire che, dopo quest’ultimo libro, Melville si astiene dallo scrivere “storie” perchè Clarel, pur

essendo poesia, è anche una “storia” con tanto di trama e personaggi elaborati. Dall'altro, in cerca della Verità

o meno, Melville continua a scrive-

re sino alla fine: ciò che muta radicalmente, soprattutto dopo 7be Confidence-Man, è il suo atteggiamento verso i lettori. Egli scrive ormai quasi solo per se stesso; non cerca più di ottenere alcun riconoscimento pubblico e accetta la propria sconfitta. Perché Melville fallì nel tentativo di trovare un pubblico interessato alle sue opere e, al tempo stesso, nell’assicurarsi, se non il consenso popolare, almeno quello critico? Su questo punto Baym ha senz'altro ragione nel sostenere che il maggior motivo d’insoddisfazione, per i reviewers, e, presumibilmente, per gli stessi lettori, era rappresentato dall’impossibilità d’inserire i testi melvilliani che a noi paiono oggi più interessanti, in un preciso genere letterario; dalla impossibilità, cioè, di assegnare loro una collocazione nell’ordine della letteratura contemporanea. Non a caso i libri che nell’Ottocento vennero accolti favorevolmente furono quelli chiaramente classificabili. Yybee e Omoo appartenevano al-

32 Si veda a tale proposito quanto scrive Frepric Jameson sulla “validità locale” della categoria di “causalità meccanica”. “Non serve a molto [...] bandire categorie ‘estrinseche’ dal nostro modo di pensare quando queste continuano ad avere presa sulle realtà oggettive che desideriamo esaminare. Sembra, ad esempio, che vi sia stata un’indiscutibile relazione

causale tra il fatto eminentemente estrinseco della crisi del mercato editoriale della fine dell'Ottocento, periodo in cui il tradizionale romanzo in tre volumi venne rimpiazzato da quello, più economico, in un solo volume. La conseguente trasformazione della produzione romanzesca di uno scrittore come Gissing è quindi necessariamente mistificata dai tentativi degli studiosi di letteratura d’interpretare la nuova forma in termini di evoluzione personale o di dinamiche interne di cambiamento puramente formali” (7be Political Unconscious, Ithaca, Cornell University Press, 1981, pp.25-26). Per tornare a Melville, sembra dun-

que una mistificazione sostenere che Melville dopo Pierre sarebbe passato alle “short stories” perché, disilluso dalla possibilità di fare della fiction un veicolo di Verità, si sarebbe accontentato di lavorare a racconti brevi che richiedevano una disponibilità molto limitata allo “story telling”. Considerata l’abituale attenzione prestata da Baym alle coordinate storicosociali dei fatti letterari, il suo errore su questo punto appare sorprendente.

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la narrativa di viaggio, a quel genere destinato a fornire al pubblico avventure ed esotismo. Redburn e Wbite-Jacket, a loro volta, per stile e

contenuto erano catalogabili come “sea novels” realistiche. pe però l’invisibile, ma non per questo meno importante, ciale tra lettori, critici ed autori, producendo opere che non sere adeguatamente classificate in alcun genere esistente.

Melville rupcontratto sopotevano esPer i contem-

poranei Moby Dick era uno “strange, wild, weird book”, un “odd book”,

a “strange conglomeration”. L’eterogeneità del materiale narrativo — che oggi siamo abituati a lodare in nome dell’ “intertestualità” — appariva a lettori e recensori un atto d’indisciplina da parte dell’autore, un rifiuto di sottomettersi alle regole del discorso letterario dominante. Nelle parole del Britannia, “we are at a loss in what category of works of amusement to place it”. Anche chi, come Horace Greeley sulla New York Tribune, scorgeva in Moby Dick una “truly thrilling story”, non poteva astenersi dal restare perplesso dinanzi ai suoi “lawless flights, which put all regular criticism at defiance” 33 Se Hawthorne, l’altro romanziere che il Novecento ha sistemato al

centro del “Rinascimento Americano”, sentiva il bisogno nelle sue prefazioni di chiedere quasi scusa al lettore per le infrazioni commesse contro le regole generalmente seguite nel comporre un novel, Melville le ignorava senza presentare troppe giustificazioni. Si potrebbe concludere perciò che, paradossalmente, Melville fallì come scrittore perchè incriticabile, perchè i suoi testi ‘maggiori’ (per il Novecento, naturalmente) non erano collocabili all’interno dei confini della letteratura ottocentesca. Su questo occorre insistere: come vedremo tra breve, il notevole imbarazzo provato dai critici nel nostro secolo di fronte all’ “inspiegabile” insuccesso melvilliano nel secolo scorso ha fatto sì che, specie durante il cosiddetto “Melville revival”, lo scrittore venisse visto come archetipica vittima innocente della gretta cultura “puritana” e materialista della sua epoca. I fatti stanno diversamente, e il punto non è tanto se Melville fosse, come uomo e/o scrittore, un ribelle oppure no. I grandi (per noi) testi melvil-

33 Commenti ristampati in Branca, cit., pp. 260, 273. È istruttivo ricordare che le re-

views di Typee dibatterono spesso in quale dei due generi della letteratura di viaggio andasse annoverata l’opera: era davvero una narrativa tutta veritiera, come l’aveva presentata Murray, 0 un libro “realistico”, frutto almeno in parte della fantasia dell’autore?

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liani non ottennero il riconoscimento desiderato dal loro autore perché carenti da un punto di vista formale e strutturale. Certamente sia i testi “maggiori” che quelli “minori” contenevano spesso temi e posizioni anticonformiste o apertamente sovversive. Ma occorre aggiungere che libri come 7ypee e Omoo, o Redburn e White-Jacket-che pure vennero letti nell’Ottocento anche come documenti di protesta sociale — furono in genere bene accetti ai reviewers pur se in essi Melville attaccò esplicitamente mentalità e convenzioni dell’epoca. In 7ypee definì l’uomo bianco “the most ferocious animal on the face of the earth”; in Israel Potter, altro

libro che non suscitò l’astio dei critici, parlò dell'America come “civilized in externals, but a savage at heart”. Infine in Redburn, e soprattutto in Wbite-Jacket, denunciò povertà, violenza, autoritarismo. Melville, però, non fu represso per lo spirito che spesso animava la sua narrativa. Piut-

tosto, fu emarginato per questioni squisitamente formali. Il contenuto di alcuni suoi testi, ed è questo sicuramente il caso di Pierre dove egli toccò il tema tabù dell’incesto, poteva risultare a volte

34 Questo non vuol dire che le obiezioni “formali” sollevate dai reviewers non fossero, in ultima analisi, storicamente determinate, e quindi “politiche”. Le loro idee su quali fossero le forme di scrittura accettabili derivavano da un modo di concepire il discorso letterario strettamente connesso alla realtà del mercato editoriale ed erano improntate ad un’ideologia utilitaristica e conservatrice. Ma, se non i recensori, certamente i lettori appa-

rivano disposti ad accettare contenuti “scandalosi” o anticonformisti purché fossero presentati in forme tradizionali. Come scrive Bavm in Novels, Readers, and Reviewers iproblemi

di scrittori come Hawthorne e Melville “potrebbero essere stati causati dalle loro decisioni di non scrivere, o dalla loro incapacità di scrivere novels in un’era che avrebbe accettato qualunque cosa purché fosse presentata in quella forma tanto amata” (p. 276). Occupandosi del rapporto critici-lettori, Perer Uwe HoHenpaHL ha scritto che in Europa, “sul finire del settecento l’idea che il pubblico letterario consistesse di un circolo omogeneo di lettori veniva denunciata come una finzione”. “Il frammentarsi del pubblico di lettori nelle grandi masse da un lato, e nella ‘classe colta’ dall’altro, impedisce al critico di identificarsi con il consenso generale”. D'altra parte il romanticismo “poteva disprezzare l’industria letteraria, poteva rinchiudersi in circoli estetici rifiutando il contatto con le masse, ma non era in una posizione tale da mutare il sistema letterario nel suo complesso” (7be Institution of Criticism, Ithaca, Cornell University Press, 1982, pp. 53, 55, 61). Per quel che concerne gli Stati Uniti basta leggere i saggi di Emerson o lo stesso “Hawthorne and His Mosses” per avere un senso della medesima posizione isolata del critico romantico americano. Per i reviewers il discorso è però alquanto diverso. Essi sembrano, nei loro giudizi, riferirsi a una “sfera pubblica” sentita ancora come piuttosto omogenea. Questo dato conforta l'ipotesi formulata da Myra Jehlen circa il prevalere, nella società americana dell'Ottocento (a differenza dell’Europa), di un’omogenea “middle class culture” (Cfr. Myra JeHten, “New World Epics: The Novel and the Middle Class in America”, Salmagundi, 36 [1977], pp.49-68).

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sgradevole, ma non tanto per motivi direttamente politico-culturali. Ad esempio Duyckinck aveva protestato per il tono troppo spesso irriveren-

te di Ishmael nei confronti della religione cristiana — “why dislodge from heaven, with contumely, ‘long pampered Gabriel, Michael, and Raphael” — ma non aveva obiettato quando, come in Wbite-Jacket, la protesta aveva assunto le forme di una “sound humanitarian lesson”.35 Solo quando il ribellismo melvilliano non si limita ad usare il messaggio cristiano in chiave progressista, ma comincia a sollevare dubbi sulla natura, le ragioni, le possibilità di successo dell’ideologia cristiana stessa, la chiusura di Duyckinck, e della grande maggioranza dei reviewers, si fa totale. È quando Melville specula apertamente sulla possibilità che la religione stessa sia un’ideologia che i suoi contenuti vengono attaccati come scandalosi. Appare comunque più logico spiegare perché Melville fallì nel tentativo di conquistare una fetta consistente di pubblico, notando che quest'ultimo era un pubblico in maggioranza femminile abituato a testi molto standardizzati e facilmente riconoscibili sul piano strutturale e tematico come i “sentimental novels” di Susan Warner. Né, d’altra parte, si può affermare che non esistessero assolutamente lettori disposti a consumare letteratura ‘di valore’. Come ricorda William Charvat, nei primi cinque an-

ni di vita 7be Scarlet Letter vendette 10.800 copie e, nei primi venti, un totale di 25.200. Non molte, certo, ma le cifre corrispondenti per Moby Dick sono, rispettivamente, 2.500 e 3.000.356 In conclusione, una lettura

delle reviews ottocentesche dei libri melvilliani dimostra che l’insoddisfazione per certi temi sovversivi è molto limitata (fatta eccezione per Pierre) se paragonata ali’insoddisfazione dimostrata per la materialità — organizzazione, stile, linguaggio — di testi quali Mardi, Moby Dick, The Confidence Man. D'altro canto, a parte un noto commento di Hawthorne su Moby Dick, non risulta che alcuna figura intellettuale di rilievo mostrasse di avere particolare interesse per lo scrittore.57 Dato il concetto di

35 Commenti ristampati in BrancH, cit., pp. 267 e 227. 36 CHarvar, cit, p. 262. 37 “What a book Melville has written! It gives me an idea of much greater power than his preceeding ones. It hardly seemed to me that the review of it, in the Literary World, did justice to its best points”. Citato in Branc®, “Introduction”, p. 28. Un altro com-

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letteratura dominante nell'Ottocento americano, Melville non poteva essere considerato un autore “vero”; le sue opere potevano risultare interessanti, ma il disprezzo in esse espresso per le regole che governavano la composizione di romanzi appariva ingiustificabile. La nostra discussione sui problematici rapporti di Melville con l’istituzione letteraria del suo tempo non può chiudersi senza alcune osservazioni sulla natura delle reviews di cui si è parlato sinora. Qualunque pretesa di presentarle come esempi delle prime valutazioni critiche dei testi melvilliani sarebbe fuorviante e storicamente falsa se il termine “critica” viene assunto nel suo significato moderno e contemporaneo. Antologie o studi sulla fama di questo o quell’autore commettono troppo spesso l’errore di passare in rassegna le opinioni di un lettore dopo l’altro trattandole tutte alla stessa stregua. Al contrario, va sottolineato che nell’Ottocento l’istituzione critica era ben diversa da quella che si sarebbe costituita sul finire del secolo, e consolidata poi nel Novecento. Le recensioni ottocentesche dei testi melvilliani, sia americane che britanni-

che, erano, come tutte le reviews del tempo, pezzi brevi — da un paragrafo a qualche pagina — e nella stragrande maggioranza anonime. Questo vuol dire che la responsabilità delle opinioni espresse era assunta non dal singolo ma dalla testata per cui questi scriveva, ma soprattutto che il “critico” si presentava come uno dei tanti possibili lettori dell’opera in esame e non necessariamente come un “esperto”. Il recensore si preoccupava soprattutto di stabilire se il pubblico avrebbe gradito il testo e se, in effetti, valesse la pena di comprarlo. La distinzione forse fondamentale tra il critico accademico del Novecento e il reviewer dell’Ottocento non è quindi tanto da rintracciare nella maggiore o minore scientificità dei rispettivi approcci, ma nei diversi scopi che le due categorie di critici si propongono: quelli moderni cercano di interpretare il testo; i reviewers ottocenteschi di dare un esplicito giudizio di valore, di determinare se il testo è, o non è, interessante.

mento (anch’esso però “privato”) degno di nota è quello di James Russer Loweu su “The Encantadas”, citato in una lettera di Charles F. Briggs, del Putnam Montbly Magazine, a Melville: “the figure of the cross in the ;i»»° neck brought tears into his [Lowell's] eyes, and he thought it the finest touch of geniu» he had seen in prose” (Jay Leva, 7be Melville Log, New York, Harcourt, Brace and Co., 1951, vol. I, pp. 487-88).

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In generale non ha molto senso accusare i reviewers di superficialità, dilettantismo, ingenuità, miopia — accuse analoghe potrebbero comunque venir mosse anche ad alcuni critici accademici del Novecento. Al contrario, se si eccettuano gli insulti personali all'indirizzo dell’autore di Pierre, le critiche sia positive che negative dei reviewers nei confronti di Melville sono tutte documentate e sorrette da una loro precisa logica. Ma non basta. Occorre riconoscere che i recensori si basavano su una serie di principi largamente accettati e per nulla casuali. Il genere letterario di più largo consumo era il romanzo e, nel recensire qualunque opera di fiction, primo compito del critico era accertare sino a che punto essa appartenes-

se a quel genere letterario. Il secondo passo consisteva nel vedere in che misura, se di romanzo si trattava, le sue caratteristiche formali erano ben

elaborate. Una trama ben congegnata era il tratto distintivo di un buon libro poiché la trama aveva il compito di cucire assieme le diverse componenti di una storia in un tutto unitario, e al tempo stesso di sostenere l’interesse psicologico ed emotivo del lettore.38 Melville però — e qui Baym ha senz'altro ragione — non amava scrivere romanzi unitari e coerenti.3°

Non accettando la disciplina formale e strutturale del romanzo, quale esso era concepito nel discorso letterario dell’epoca, Melville fallì nell’ottenere riconoscimenti sia critici che di pubblico. Egli aveva prodotto con Mardi, Moby Dick, Pierre e The Confidence-Man testi che oggi possiamo acclamare — più o meno legittimamente — come moderni o addirittura post-moderni, ma tali definizioni non erano certo a disposizione dei reviewers. Nel valutare le vicende dei testi melvilliani nell'Ottocento sarà quindi bene astenersi dal credere in una qualche congiura perpetrata da critici e lettori ai danni di un genio che non riuscivano a capire. I contemporanei vedevano i testi di Melville chiarissimamente; tuttavia quello che essi vedevano non aveva per loro particolare valore.‘ D'altra

38 Il mio debito è qui a Novels, Readers, and Reviewers, cit., soprattutto pp. 270-76. 39 Di qui anche l’impazienza dei lettori dell'Ottocento di fronte a trame e personaggi non realistici, di fronte alle “tipizzazioni allegoriche” o alle “fantasiose speculazioni” di Mardi, Moby Dick, ecc. Il pubblico ottocentesco non riusciva a identificarsi con, o interessarsi a, pre e/o ambienti troppo poco realistici. Occorre ribadire che anche quei recensori che si pronunciarono favorevolmente su Moby Dick, difesero l’opera con giudizi assolutamente diversi da quelli pronunciati settanta o cento anni più tardi da altri critici.

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parte, anche quando Melville verrà accettato come “letteratura”, la materialità — la struttura “bizzarra”, “caotica”, “moderna” o “enciclopedica” di

un testo come Moby Dick continuerà a essere fonte di problemi per la critica, e sarà istruttivo osservare come quel “minestrone” di diversi materiali letterari, che tanto aveva disturbato i recensori, non sia poi sempre così facile da digerire neanche per i critici del Novecento.

2. Verso l’istituzionalizzazione degli studi letterari Gli autori delle reviews di cui ci siamo sinora occupati non erano, tranne rare eccezioni, accademici. Ad essi spettava di esercitare quella che, a partire dal tardo Ottocento, i tedeschi chiamano Literaturkritik— la

‘critica della letteratura contemporanea — mentre agli accademici erano lasciati i compiti più impegnativi della Literaturwissenschaft— lo studio della letteratura del passato. Oggi il critico accademico può collaborare più o meno occasionalmente come recensore con un quotidiano o una rivista; nell'Ottocento i due ruoli erano molto raramente intercambiabili.

Inoltre, non solo nell’accademia il professore si occupava principalmente della letteratura del passato (dove passato significava generalmente i classici greci e latini), ma la “critica letteraria”, come la concepiamo modernamente, non esisteva. La critica come viene praticata oggi nelle università è un’invenzione

piuttosto recente, una disciplina che solo a partire dagli anni venti e trenta inizia a ritagliarsi un suo spazio autonomo. La critica romantica (ad

41 Vedi HoHENDAHL, Cif, pp. 13-14 e René Wettek, “Literary History, Criticism, Theory”, in StePHEN J. NicHots, Jr.(a cura di), Concepts of Criticism, New Haven and London, Yale Uni-

versity Press, 1963, pp. 2-3. 42 Da questo punto di vista quelle storie della critica che tracciano lo sviluppo di concetti estetici da Aristotele ai nostri giorni come un ininterrotto continuum, adottano un

approccio fuorviante perchè restano al livello delle idee senza prestare attenzione alle istituzioni materiali che hanno via via reso possibile, creato, disseminato, un certo ordine del discorso letterario. CreantA Brooks e Wiruam K. Wimsart, ad esempio, affermano nell’introdu-

zione a Literary Criticism: A Short History, di aver scritto “la storia di un modo di pensare i valori [e] in una storia di questo tipo l’idea critica ha la precedenza su materiali di ogni altro tipo”

(New York, Alfred Knopf, 1969, pp. vii-viii). AI contrario, qualunque tentativo di trac-

ciare una storia della critica letteraria andrebbe quanto meno corredato da indagini di tipo

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esempio le Lectures on the English Poets di Hazlitt), considerata spesso come punto di origine della critica contemporanea, era in larga misura una critica impressionistica senza credenziali scientifiche e che, in quanto tale, non aveva spazio nell’accademia. I critici erano comunque rari giacché, all’epoca, “si riteneva in genere che gli studenti potessero /egge-

re la ‘letteratura’ — ma non studiarla in modo scientifico — da soli”83 In cosa consisteva dunque lo studio scientifico dei fatti letterari? Principalmente, e in America soprattutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, nel sottoporli a indagini filologiche modellate sull'esempio della prestigiosa scuola tedesca. Gli studi letterari erano pragmatici e cercavano di rivaleggiare con il rigore delle discipline scientifiche aderendo al più stretto positivismo e limitando la appreciation — comunque assai diversa dalle moderne explications de texte — ai monumenti letterari del passato. Solo sul finire dell'Ottocento le università americane iniziano a creare dipartimenti d’Inglese, e solo nel Novecento lo studio della letteratura contemporanea o del recente passato assume dignità accademica. Ma procediamo con ordine, cercando di stabilire quali fattori sociali portano alla creazione di una nuova disciplina denominata “English”. Al termine della Guerra Civile ha inizio negli Stati Uniti una fase di grossa espansione economica e industriale, e quindi di sviluppo tecnologico e scientifico. Come ha scritto Alberto Martinelli “le esigenze dell'industria e del commercio unitamente alla forza delle istituzioni rappresentative locali e alle richieste popolari di mobilità sociale e di eguaglianza delle opportunità posero le condizioni per una trasformazione del sistema educativo”. Di qui l'esigenza di una nuova politica dell’istruzione: più democratica, moderna, pragmatica. È dunque ovvio che nel campo umanistico il tradizionale prestigio dei classici andasse diminuendo, e che viceversa lo studio delle lingue moderne apparisse più na-

genealogico che, fedeli al progetto foucauldiano di marcare differenze e fratture, tracciassero quali differenti ordini del discorso e quali istituzioni hanno consentito la produzione di particolari regimi di verità letteraria. Per queste ragioni sarà necessario sottolineare le dif-

ferenze che separano il discorso critico su Melville elaborato dai reviewers da quello che stiamo Ne: affrontare ora. Wi.uam Can, The Crisis in Criticism, Baltimore, Johns Hopkins University Press,

1984, DI89, ma si vedano più in generale le pp. 86-91. 44 Arserro Marmi, Università e società negli Stati Uniti, Torino, Einaudi, 1978, p. 67.

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turale. Le cose, certo, non cambiarono nello spazio di un giorno: prima del 1860 pochissime università offrivano corsi di lingua e letteratura inglese, e solo nel 1876 Francis James Child, già professore di Retorica e Oratoria ad Harvard dal 1851, ebbe la prima cattedra di letteratura inglese. Nel 1883, quando venne fondata la Modern Language Association of America, i professori d’inglese erano ancora pochi, e corsi in questa disciplina erano offerti da professori di be/les-lettres che insegnavano anche storia, retorica, oratoria, logica, filosofia morale, ecc.

Il 1883 segnò un punto di svolta decisivo e, sotto la pressione crescente dell'esempio delle discipline scientifiche, del nuovo spirito utilitaristico, e delle aspirazioni verso una educazione democratico-popolare, nacquero e si consolidarono gli “English Departments”. Al tempo stesso, in un periodo di rivoluzioni tecnologico-scientifiche in cui il prestigio della religione entrava in crisi, lo studio della letteratura divenne uno strumento utile a inculcare nella crescente popolazione studentesca valori etici e morali.4 Fu d’altra parte proprio il prestigio delle discipline scientifiche nella società dell’epoca, e nel mondo accademico in particolare, a spingere inizialmente gli studi inglesi verso la filologia germanica e l'approccio storico-linguistico; “la filologia poteva fornire quella retorica scientifica necessaria a giustificare gli studi letterari e linguistici davanti al resto della comunità accademica”4°Così, per circa cinquant'anni, e negli Stati Uniti ancor più che in Gran Bretagna, gli studi filologici dominarono la neonata disciplina, rendendone possibile l’istituzionalizzazione. Anche a causa dell’egemonia dell’approccio filologico, la diffusione degli studi di letteratura moderna e contemporanea richiese del tempo, e ancora nei primi decenni del Novecento era il passato remoto (il Medio

45 Il quadro qui offerto si basa sui seguenti materiali: Wiuam RiLey Parker, “Where Do English Departments Come From?”, College English, 28 (1967), pp. 339-51; PHyLus FRANKUN, “English Studies in America: Reflections on the Development of a Discipline”, AMERICAN QuarterLy, 30 (1978), pp. 21-38 e nem, “English Studies: the World of Scholarship in 1883”, PMLA, 99 (1984), pp. 356-69; Steven Manoux, “Rhetorical Hermeneutics”, Critical Inquiry, 11 (1985), pp. 620-41. Per una analisi degli studi letterari come alternativa all'educazione religiosa si veda Terry EacieTon, Literary Theory, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1983, pp. 22-30, basato sull’ottimo studio di Cris BaLpick, 7be Social Mission of English Cri-

n Oxford University Press, 1983, cui si rimanda per una più dettagliata analisi del prolema.

46 Mantoux, cit., p. 633.

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Evo, Chaucer, Shakespeare, gli Elisabettiani), più che quello prossimo a costituire il campo d’indagine privilegiato.4? Lo studio accademico della letteratura americana, nonostante questa fosse già nella seconda metà dell'Ottocento oggetto di sporadici corsi universitari, tardò ad affermarsi; si deve attendere il 1921 perchè gli americanisti si costituiscano in un gruppo indipendente all’interno della Modern Language Association. Malgrado i ripetuti proclami d'indipendenza letteraria dall'Inghilterra degli Emerson e dei Whitman, la soggezione nei confronti delle tradizioni culturali dell'antica madrepatria restava così forte da far credere a molti che la letteratura americana sino a quel punto non fosse stata nulla più di un ramo minore della letteratura inglese. Ancora nel 1900 Barrett Wendell scriveva in apertura alla sua Literary History of America: “our chief business concerns only the question of what contributions America has made during its three centuries, to the literature of the English language”. La stessa idea che esistessero dei testi significativi da comporre in una tradizione americana indipendente da quella inglese era di là da venire, e probabilmente nessuno prima di D. H. Lawrence adopera seriamente l'aggettivo “classico” in riferimento a un’opera americana. George Woodberry, ad esempio, sosteneva che “the complete failure of [American] literature to establish an American tradition [...] indicates something parasitical in it”.48 Nessuna delle numerose storie della letteratura degli Stati Uniti pubblicate prima del 1917 è sistematica, o ha ambizioni polemiche, come invece, già dal titolo che echeggia la Cambridge History of English Literature, accade con la Cambridge History of American Literature. Nelle storie letterarie del periodo pre-bellico sono Bryant, Lowell, Longfellow, e Whittier a primeggiare. E questo principalmente per due motivi. Si tratta di figure che avevano conosciuto nell'Ottocento una

47 “Più della metà delle ventuno dissertazioni approvate [ad Harvard] tra il 1876 ed il 1889 si occupavano di Medio Evo. Un esame delle dissertazioni scritte a Harvard durante gli anni ‘90, quando diciotto delle ventuno vennero completate, dimostra che il sessantatré per cento erano studi di fonti e influenze letterarie, un approccio destinato a rimanere importante negli studi letterari sino a Novecento inoltrato. Ancora, più del novanta per cento di tali dissertazioni analizzavano uno o più testi dal punto di vista di una particolare categoria letteraria. Questo tipo di studi dominò le dissertazioni di Harvard sino al 1920 circa” (Pimus Frankun, “English Studies: The World of Scolarship in 1883”, cit., p. 366). 48 Barrett Wenpel, A Literary History of America, New York, Charles Scribner’s Sons, 1900, p. 9; Grorce E. Woopserry, America in Literature, New York, Harper's, 1903, p. 244.

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grossa popolarità, anche perché il loro raggio d’azione era spesso andato al di là dei confini strettamente letterari.‘ Inoltre la poesia era ancora considerata il supremo genere letterario: “Poetry is the rythmical expression of beauty or imagination, the verbal utterance of the ideal, and the-

refore the highest and most permanent form of literature”, scriveva Charles Richardson nella sua American Literature del 1889. I cosiddetti “Fireside Poets” beneficiano di questo clima, pur essendo i Bryant e i Longfellow, come notava Woodberry nel 1903, “a second class in comparison with the English or French authors of the century”. Non diversa la situazione nel campo del romanzo dove Cooper e Hawthorne ricevono dei riconoscimenti anche se le opere di quest’ultimo, secondo Wendell, sono marcate da “unmistakable rusticity [...] monotony, provincialism, a certain thinness”. Per quanto degni d’attenzione Cooper e Hawthorne non possono reggere il confronto coi contemporanei inglesi.5 Queste storie della letteratura americana non si distinguono per originalità di giudizi, limitandosi in genere a confermare interpretazioni e gerarchie consolidate. Non è dunque sorprendente se Melville sovente non sia neppure menzionato, o riceva al massimo due o tre pagine dove sono ripetute le vecchie lodi per lo stile “charmingly easy” di Typee, e le vecchie condanne per i suoi frequenti “lapses into mysticism” in altri testi. Wendell colloca Melville tra i minori — accanto a Mrs. Kirkland,

Bayard Taylor, George William Curtis — spiegando che lo scrittore “began a career of literary promise, which never came to fruition”, mentre Julian Abernethy si limita, nella sua American Literature, a una sola frase ricordando, con un po’ di esagerazione, che Tybee e Omoo “were once the sensation of two continents”.51 Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma è

49 CÒarva ha sottolineato che l’attenzione sempre minore dedicata a questi scrittori “può essere giustificata da un punto di vista critico ma non certo da quello storico. Sbagliamo, come storici, nel lasciare che il gusto del lettore moderno annulli il gusto di quello dell’Ottocento. È come se gli storici della politica dovessero ignorare l’amministrazione Grant perchè e è in accordo coi principi sociali di Franklin Delano Roosevelt” (cit., p. 290). 0 CHartes F. Ricarnson, American Literature 1607-1885, New York and London, G. P. Putnam's Sons, II vol., p. 1; WoopBerry, cit, p. 244; Wenpett, cit., p. 434. Lo stesso Wiruam Dean Howetis, “literary dictator” dell’epoca, scriveva che “if we put aside the romances of Hawthorne and the romantic novels of Cooper” non è dato di trovare alcuna fiction “of scope and import before the Civil War” (citato in HETHERINGTON, cit., p. 288). 1 WENDELL, Cit., p. 229; Juuian W. AsernETHY, American Literature, New York, Merrill,

1902, p. 456.

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più importante sottolineare che non c’è nulla di strano in questo pressoché totale disinteresse della nascente comunità accademico-letteraria nei confronti di Melville. Troppo spesso le poche frasi dedicate a Melville nel periodo 1880-1920 vengono antologizzate senza spiegare che, se altri autori ritenuti ancora oggi maggiori vengono senz'altro trattati con più riguardo, in generale la letteratura americana tutta gode di scarso prestigio e ancora non è concepita come possibile oggetto di serie indagini accademiche. Perché Melville possa emergere come il genio letterario dimenticato dell’Ottocento bisogna ancora attendere alcuni mutamenti politici ed istituzionali.

3. Quanti “Melville revivals” ? Secondo alcuni il revival degli anni ‘20 non rappresenterebbe il primo tentativo degno di nota di suscitare un nuovo interesse per Melville. Viene fatto osservare che tra la sua morte, avvenuta nel 1891, e il 1919,

centenario della sua nascita e anno d’inizio del cosiddeto “Melville revival”, numerosi romanzi vengono ristampati e giudizi lusinghieri espressi in articoli e introduzioni.5? Anche Michael Zimmerman, autore di uno dei rari studi del problema, individua due “mini-revivals” — uno tra il 1891 e i primi del novecento, l’altro tra il 1913 e il 1918 — pur ricordando che questi non furono certo sufficienti a trasformare Melville in un autore classico.53 Riuscirono però, secondo Zimmerman, a determinare una situazione favorevole, creando un pubblico interessato allo scrittore. È innegabile che la ristampa nel 1892 di 7ypee, Omoo, Wbite-Jacket e Moby Dick, a cura di Arthur Stedman, o saggi come quelli di Henry Salt, W. Clark Russell e Archibald MacMechan — apparsi anch’essi sul finire del secolo —

52 Cfr. O. W. Riecel, “The Anatomy of Melville’»s Fame”, American Literature, 3 (1931), pp. 195-203, ma anche le critiche sollevate nei suoi confronti da Wiuam Braswelr in “A Note on ‘The Anatomy of Melville’»s Fame”, American Literature, 5 (1934), pp. 360-64. 53 Vedi MicÒart P. Zimmerman, “Herman Melville in the 1920’s. A Study in the Origins of the Melville Revival”, Ph. D. Dissertation, Columbia University, 1963; nem, “Herman Melvil-

le in the 1920’s. An Annotated Bibliography”, Bullettin of Bibliography, XXIV (Sept.-Dec.

1964; Jan.-Apr. 1965), pp. 117-20, 139-44; nem, “Literary Revivalism in America: Some Notes Toward a Hypothesis”, American Quarterly, 19 (1967), pp. 71-85.

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contribuirono a mantenere vivo un certo interesse per Melville. Per molti versi, però, le posizioni espresse da questi commentatori — con l’eccezione di MacMechan - restano abbastanza tradizionali. Salt, ad esempio,

in un articolo del 1889 sulla Scottish Art Review, ribadisce che 7ypee “takes precedence of all his other writings, in merit no less than in date”. Melville “is at his best [...] when the mystic element is kept in check” e non per nulla Pierre è forse “the ne plus ultra in the way of metaphysical absurdity “. Il giudizio su Moby Dick è contradditorio: si tratta di “a curious compound”, di un’opera “wild”, “less shapely and artistic than 7Ypee’, pur sorpassando quest’ultimo per “immensity of scope and triumphant energy of execution”. Anche per Stedman Melville resta soprattutto “Marquesan Melville”, mentre W. Clark Russell, nell’introduzione a una ristampa inglese di 7ypee, giudica Moby Dick “Melville’s finest performance”, ma difende tale affermazione lodando solo i capitoli introduttivi e deplorando “the frequent interpolation of a trascendental mysticism”. Il pezzo più anticonformista è senza dubbio quello di MacMechan sul Queen's Quarterly. Moby Dick vi è presentato come “a monument overgrown with the lichen of neglect” pur essendo in effetti “the best sea story ever written”, “at once the epic and the encyclopedia of whaling”. Certamente lo stile non è perfetto — “some mannerisms become tedious, like the constant moral turn [...] occasionally there is more than a hint of bombast” — ma l’opera è interessante proprio per lo scarso riguardo dimostrato verso “all scholastic rules and conventions”.5i MacMechan ha un gusto quasi moderno ma non abbandona completamente la visione ottocentesca e — pur inquadrando il testo in una categoria a sé stante, quella del “monument” — continua a percepirlo entro i confini tradizionali. “The best sea story ever written”, “the epic of whaling”, non è ancora l’epica americana dei Mumford e dei Lawrence. In ogni caso né MacMechan né Russell né Stedman impongono Melville all'attenzione della nascente critica accademica statunitense. Come ha dimostrato James Cesarano l’importanza del “mini-revival” melvilliano dell’ultimo scorcio del secolo scorso va rintracciata piuttosto

54 L'articolo di Salt è ristampato in BrancH, cit., pp. 413-17; per Stedman vedi “Introduction to the Edition of 1892”, in 7ypee, New York, U. S. Book Co., 1892, pp. xv-xaxvi; i pezzi di MacMechan e Russell sono parzialmente ristampati in Moby Dick As Doubloon, cit., pp. 115-18 e 122, rispettivamente.

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nella creazione ad opera di Stedman, Russell e altri, di un nuovo paradigma critico che costruisce lo scrittore come genio prima incompreso e poi rapidamente dimenticato dai contemporanei. Il revival degli anni ‘20 avrebbe fatto suo, con qualche lieve modifica, tale paradigma.5 Fu il poeta britannico Robert Buchanan, nella poesia “Socrates in Camden, with a look around” a proporre per primo un'immagine di Melville come grande artista emarginato da una società gretta: While Melville, sea-compelling man, Before whose wand Leviathan

Rose hoary white upon the Deep, With awful sounds that stirred its sleep, Melville whose magic drew Typee, Radiant as Venus, from the sea,

Sits all forgotten or ignored, While haberdashers are adored!5

Gli articoli pubblicati durante gli ultimi anni di vita di Melville, o quelli apparsi all'indomani della sua scomparsa, riprenderanno e svilupperanno, sino a farne una vera e propria “moral parable”, quest'idea di Melville in parte vittima di un mondo filisteo, in parte artista che preferisce eroicamente l'isolamento ai tentativi di comunicare coi suoi ottusi contemporanei. Se, come scrive Salt in un pezzo del 1892, “the decay of his fame was partly due to circumstances of his own making”, ciò non modifica, ma semmai rafforza, la percezione di Melville come scrittore oscuro e ribelle che, dopo un inizio promettente, raggiunge rapidamente l'apice per poi cadere tragicamente.?7

55 Cfr. Cesarano, cit, pp. 155-98. 56 La poesia di Buchanan è ristampata in be Recognition of Herman Melville, cit., p. 121. Cesarano suggerisce che la poesia di Buchanan, citando un autore sconosciuto, dà anche il via a una visione di Melville come “cult figure”: “la conoscenza di Melville diviene un fatto esclusivo; chiunque ritenga che l’elevazione di uno scrittore a celebrità sia una questione insignificante per la sua valutazione critica, ignora del tutto le dinamiche politiche della critica del ventesimo secolo” (Cesarano, cit., p. 158). Vale la pena di sottolineare che Buchanan contrappone l’oscurità di Melville alla celebrità di alcuni “merciai”, anticipando così l'opposizione tra Arte e mercato sulla quale l’intero “Melville revival” costruirà le sue fortune. 57 L'articolo di Salt, apparso originariamente sul Gentleman's Magazine, è ora reperibile in Branca, cit., pp. 430-33 (con tagli).

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Nonostante queste importanti premesse, Melville continuerà a veleggiare ai margini della letteratura americana per altri venti anni. Cos'è che rende possibile tutto d’un tratto la brusca inversione di tendenza determinata dal “revival” degli anni ‘20? Secondo G. Watson Branch, “tutto mutò grazie a un solo uomo”: Carl Van Doren, autore delle quattro pagine dedicate a Melville nella Cambridge History of American Literature. Per O. W. Riegel, la spiegazione è da ricercarsi soprattutto nell’entusiasmo che trionfa negli anni ‘20 per la psicologia, tant'è che il rinnovato interesse per Melville “is not so much belletristic as biographical”. Zimmerman propone una tesi più elaborata: Surely, one of the final answers as to why America took to Melville with such enthusiasm after the War lies in the special critical “spirit” of the times which provided the matrix for his rehabilitation — an insurgent, intransigent spirit that was receptive to extremes of experience,

sought out radical values and positions, and delighted in the spectacle of alienation — in a phrase, an “avant-garde” spirit.58

Per Zimmerman, che riconosce il proprio debito a Richard Chase, caratteristica della letteratura americana è oscillare tra altissime tensioni intellettuali e spirituali, da un lato, e le più basse, rozze esperienze materiali dall’altro — tra “highbrowism” e “lowbrowism”. Il problema è che però in genere — e Zimmerman sceglie il Van Wyck Brooks di America’ Coming of Age come esempio lampante —i critici americani propugnano una via intermedia tra i “lowbrows” alla Benjamin Franklin e gli “highbrows” alla Jonathan Edwards, celebrando moderazione, equilibrio, mo-

ralità. I maggiori storici della letteratura americana pre-1917 come Wendell e W. P. Trent, accettando una visione di tale tenore, non potevano

apprezzare quei testi che, come Moby Dick, mescolano brani lirici e filosofici a descrizioni prosaiche. È solo grazie all'opera di “insurgent critics” (come Van Doren o Raymond Weaver nel caso di Melville )che figure letterarie importanti, da Emily Dickinson a Henry James a William Faulkner, sarebbero state mano a mano “recuperate”.59

58. BrancH, cit., p. 43; RiecrL, cit, p. 200; Zimmerman, “A Study in the Origins of the Melville Revival”, cît., p. 94.

? Zimmerman, “Literary Revivalism in America”, cit, soprattutto pp. 72-75 e 84-85.

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Zimmerman, in sostanza, documenta la tesi secondo la quale è il nuovo “spirito” dei tempi, il clima culturale polemico e disincantato del primo dopoguerra, a stimolare la lettura di Melville. Si tratta in apparenza di una spiegazione che tiene conto del contesto storico-sociale in cui viene a situarsi un dato testo, ma a ben guardare di una spiegazione non del tutto convincente. Prima di tutto la definizione di “insurgent critics” scelta da Zimmerman lascia perplessi: i critici americani hanno sempre amato — da Van Wyck Brooks, i cui giudizi su Melville sono più contraddittori di quanto spesso si creda, sino agli odierni decostruzionisti — presentarsi come “insurgent” anche se nei fatti essi rappresentano le istituzioni ufficiali che regolamentano cos'è e cosa non è letteratura. Caratterizzarli esclusivamente

in senso sovversivo appare dunque fuorviante. Certa-

mente il clima intellettuale post-bellico è animato dal desiderio di ribellione contro convenzioni e tradizionalismi ereditati da un passato spesso bollato (da H.L. Mencken e tanti altri) come “puritano” e quindi repressivo, ipocrita, filisteo. Ma se tutto ciò è vero, com'è vero che dalla critica

degli anni ‘20, e, in parte, degli anni ‘30, Melville sarà visto soprattutto come vittima del materialismo e della mentalità ristretta dell'Ottocento, il di-

scorso va approfondito, analizzando attentamente i diversi livelli di questo pezzo di storia culturale. Più specificamente, gli anni del “Melville revival” non segnano tanto un generico entusiasmo per Melville, o la riscoperta di un capolavoro come Moby Dick, ma l’avvio di un processo di istituzionalizzazione di una nuova figura letteraria, assolutamente diversa da quella ottocentesca. In un senso limitato, ma significativo, ha ra-

gione Branch; egli ha torto a credere che il giudizio di un solo uomo, per quanto lungimirante, avrebbe potuto mutare radicalmente la situazione, — ma è vero altresì che l’uomo in questione era Carl Van Doren, professore di letteratura inglese e comparata alla Columbia University, e futuro direttore di The Nation e The Century. Con lui Melville fece il suo ingresso nell’università.

4. Gli inizi del revival Il periodo che va dalla guerra civile alla prima guerra mondiale vede un continuo rafforzarsi ed espandersi delle strutture universitarie statunitensi: le iscrizioni vanno aumentando a ritmo incalzante mentre i le-

Eb)

gami tra potere economico e università si fanno talmente stretti che, nel

noto 7be Higher Learning in America, il sociologo Thornstein Veblen è costretto a denunciare la trasformazione di molti co/leges in una sorta di aziende commerciali che pregiudicano la libertà accademica dei professori. Al tempo stesso si consolida l'orientamento a fare dei valori umanistici un sostituto delle dottrine religiose così che i Dipartimenti d’Inglese vedono confermata la loro importanza e possono dedicarsi, in special modo al termine di un conflitto mondiale dal quale gli Stati Uniti emergono come grande potenza e paese leader del mondo capitalista, a delineare una cultura e una letteratura nazionali. Sul versante istituzionale,

una più adeguata organizzazione del patrimonio culturale e letterario del paese è richiesta proprio dalla posizione di preminenza assunta dagli Stati Uniti sulla scena mondiale. Non per nulla, alcuni anni più tardi, presentando una collezione di saggi che consolida la posizione dell’ “American Literature Group” all’interno della Modern Language Association, Norman Foerster scriverà che “our increasing awareness of our world supremacy in material force has more and more evoked a sense of need of self-knowledge” 90 Le preoccupazioni patriottiche, e talvolta francamente scioviniste, del mondo accademico statunitense si inseriscono nel più generale irrigidimento conservatore della società americana cui il movimento progressista non riesce a opporsi con successo. Le divisioni all’interno della sinistra, nonostante gli entusiasmi suscitati dalla rivoluzione d’ottobre, aumentano; il movimento sindacale è sempre più prigioniero delle proprie ambiguità; un crescente pessimismo si diffonde non solo tra gli artisti della cosiddetta “lost generation”, ma anche tra intellettuali di spicco come Veblen, lo storico Charles Beard, il filosofo John Dewey. In una si-

tuazione del genere il ministro Palmer non ha difficoltà a orchestrare la sua repressione e nel 1919, anno in cui escono gli articoli di Raymond Weaver, Frank J. Mather e F. C. Owlett per il centenario della nascita di Melville, 249 cittadini di simpatie socialiste tra cui Emma Goldman e Alexander Berkman vengono arrestati e, usando a pretesto le loro origini russe, espulsi dal paese e imbarcati su un piroscafo diretto in Unione So-

60 “Introduction”, in The Reinterpretation of American Literature, a cura e con un'introduzione di Norman Forrsrer, New York, Harcourt, Brace and Co., 1928, p. vii.

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vietica. Un anno più tardi, mentre Weaver è al lavoro sulla prima biogra-

fia di Melville, Sacco e Vanzetti vengono arrestati. Alla svolta conservatrice a livello politico generale — che riflette una realtà assai diversa dal cosiddetto spirito d'avanguardia di cui parla Zimmerman — fa riscontro un mondo letterario dove, a prescindere dal versante politico cui più si sentono vicini i suoi singoli componenti, tutti sono d’accordo nel denunciare l'inadeguatezza dei valori tradizionali, e convinti della necessità di portare a fondo l’attacco che, già nel 1911, Santayana aveva mosso alla “genteel tradition”. La vecchia cultura ottocentesca, malata di moralismo e provincialismo, da qualsivoglia punto di vista la si considerasse, appariva assolutamente inadatta come base su cui costruire una cultura adeguata al nuovo secolo. In un celebre saggio apparso sul Dia/ dell’11 aprile 1918, Van Wyck Brooks — conscio del fatto che il modo in cui si rappresenta il passato ha conseguenze importanti su come si concepisce il presente — dichiara avviata la ricerca di uno “usable past”: “ Wbat is important for us? What, out of all multifarious achievements and impulses, ought we to elect to remember ?” Nel reinterpretare il passato occorre, secondo Brocoks, selezionare quei momenti della sto-

ria culturale del paese che sembrano avere un significato per il presente, e accantonare l’eredità di valori ed ideologie non più in grado di offrire stimoli o che, peggio ancora, hanno sempre assolto una funzione oppressiva. Forte di questa nuova convinzione, un gruppo di critici ameri-

cani polemico verso gli Wendell e iWoodberry, ma desideroso al tempo stesso di preservare uno spazio autonomo per l’arte in un mondo giudi-

cato sempre più materialista e tecnologico, inizierà un’opera di demolizione della “literature of genteel platitude”61 Per essere compreso appieno il discorso di Brooks va inserito all’interno di un mondo accademico dove la insoddisfazione verso le vecchie metodologie critiche è non meno forte di quella verso la tradizione letteraria ereditata dall’Ottocento. Se tutto d’un tratto la nuova situazione determinata dalla grande guerra non può non contribuire a intaccare note-

volmente il prestigio della vecchia filologia di stampo teutonico (i tedeschi sono ora dipinti come i nemici della civiltà), nel mondo letterario il

61 Su questi temi si veda Warren I. Susman, “History and the American Intellectual:

Uses of a Usable Past”, American Quarterly, 16 (1964), pp. 243-63.

DE

declino del positivismo e dell'approccio filologico è un fenomeno di portata internazionale, da cui non è esente la stessa Germania. In Europa la

reazione al positivismo è marcatamente neo-idealista: basti pensare alla posizione di preminenza assunta da T.S. Eliot e F. R. Leavis in Inghilterra, da Benedetto Croce in Italia, dalla Geistesgeschichte in Germania. Il neoidealismo, sia pure in una versione più pragmatista e meno filosofica, finirà col prevalere (negli anni ‘30) anche negli Stati Uniti con l'avvento del “New Criticism”. Nel frattempo è lo “aesthetic impressionism” di Joel Spingarn prima, e il Neoumanesimo e la critica “liberal” poi, a condurre la battaglia contro il predominio del metodo filologico e positivista votato all’accumulazione di una grande quantità di “materiale”, ma scarsamente interessato alla sua valutazione e interpretazione.2 Pur essendo il fronte di opposizione alla vecchia tradizione tutt'altro che omogeneo e chiaro nei suoi scopi, la crisi del positivismo, assieme a una nuova coscienza dell'importanza della cultura nazionale fa sì che si rompa per sempre la sudditanza nei confronti della cultura letteraria britannica e si creino così le premesse indispensabili per l'attacco che eliminerà gli Holmes e i Lowell dalla letteratura americana canonica. Questo processo di demolizione/ricostruzione del canone letterario americano avviene parallelamente a quello che, negli anni ‘20 e ‘30, vede impegnati Eliot e Leavis a tracciare la “Grande Tradizione” della letteratura inglese. Gli sforzi di questi ultimi sono animati sia da un disincanto nei confronti del vecchio liberalismo che dall’orrore verso l'avvento della cultura di massa e di un’ “arida” società industriale, esatto contrario di

quella società “organica” vagheggiata tanto da Eliot che dal gruppo di Scrutiny. La loro critica del capitalismo industriale è naturalmente eretta su posizioni conservatrici, ma non sfocia in una proposta politica esplicita e preferisce battersi per dimostrare che l’organicità del mitico passato pre-industriale è rintracciabile solo nella letteratura, o meglio, in una certa letteratura (ad esempio in John Donne, ma non in John Milton, in Keats, ma non in Shelley). La Letteratura, con la L maiuscola ovviamente, è costruita come l’ultima barriera culturale contro l’imbarbarimento, l’uni-

62 Cfr. René Weux, “Literary Scholarship”, in Merue Curm (a cura di), American Sco-

larship in the Twentieth Century, Cambridge, Harvard University Press, 1953, pp. 111- 45, soprattutto pp. 113-23.

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co spazio dove il contatto con la Tradizione (Eliot) e la Vita (Leavis) è ancora garantito.93 Nel corso della nostra analisi avremo modo di vedere come un nuovo modo di concepire la letteratura americana si intersechi con alcuni paradigmi stabiliti da questi due “dittatori culturali” della prima metà del secolo. Per il momento si dovrà notare che, diversamente da Eliot e

Leavis, i critici che più contribuiscono in questa fase alla ricostruzione della letteratura americana e, specificamente, alla riscoperta di Melville,

sono “liberal”, e a volte con simpatie per la sinistra. Ybe Nation, la rivista di arte, politica e letteratura per cui Carl Van Doren lavora a lungo e che dirigerà nel periodo 1919-22, è schierata su posizioni democratiche, anche se non rivoluzionarie. Protesta per la caccia alle streghe di Palmer, insiste affinchè gli Stati Uniti riconoscano il governo sovietico, si batte in nome di ideali umanitari. Detto questo si deve però aggiungere che, a prescindere dalle loro posizioni politiche dichiarate, tutti i critici letterari accettano una serie di presupposti sulla natura dell’arte e sul rapporto arte-società assolutamente in linea con la tradizione culturale borghese. L’avanguardia critico-letteraria statunitense, nonostante la retorica radicaleggiante, condivide con Eliot e Leavis l’idea che, in una civiltà di mas-

sa dove ia ricerca del profitto rappresenta il sommo valore, l’arte è oramai l’ultima trincea dello spirito. Pur se con diverse sfumature, anche i “liberals” accettano un paradigma secondo il quale spetta a un’elite culturale erigersi a difesa dell’estetica poichè lo stato d’imbarbarimento delle masse è oramai troppo avanzato. I critici più progressisti magari sperano, a differenza dei conservatori, che il loro ruolo di guardiani della

cultura e dello spirito non sia eterno ma transitorio, e che essi riescano infine a educare le masse. Nessuno però dubita che il processo sia a senso unico e che alle masse spetti semplicemente il compito di ricevere passivamente la cultura calatagli dall’alto dai “judicious few” .6 Parados-

63 Mi rifaccio qui alla ricostruzione di Eacieton, Literary Theory, cit., pp. 27-43. o L’espressione si trova nel già citato saggio su Moby Dick di MacMechan. Sul fatto che certi paradigmi epistemologici siano accettati praticamente da tutti i critici, quali che siano le loro dichiarate convinzioni politiche, insiste Cesarano nell’ultimo capitolo del suo studio più volte citato. Ma si veda anche quanto, già molti anni fa, scriveva Jonn H. RateicH: “L'America è ipocrita, anti-intellettuale, puritana, materialista, timida, massificata, dominata dalle macchine, atomizzata, senza nerbo, senza cultura, senza gioia — così viene descritta in

no

salmente, tale ideologia si presenta come sovversiva e trasforma qualunque oggetto definito artistico o letterario in un atto di opposizione al presente che, per i critici americani, è al tempo stesso materialista e purita-

no. Il mito di un’ininterrotta volontà cospiratoria ai danni dell’artista, che i Brooks e i Mencken etichettano appunto come puritana, lega presente

e passato in un tutto omogeneo e fa da contraltare all'idea che la creazione letteraria sia sempre e comunque un atto d’insubordinazione. Melville, l'eroe tormentato dal puritanesimo del secolo precedente, verrà

perciò rivalutato e trasformato in simbolo polemico contro il nuovo moralismo degli anni ‘20.

5. Un Prometeo Yankee

La nostra indagine sul “Melville revival” prende il via dai due pezzi che Carl Van Doren dedica allo scrittore: il primo nella Cambridge History (1917), il secondo in The American Novel (1921). Per quanto importanti, le pagine della Cambridge History non contengono giudizi così rivoluzionari come alcuni credono.9 Certamente Van Doren marca una netta inversione di tendenza quando dichiara Moby Dick “the best of his, and one of the best of American romances”, ma continua d’altra parte a credere che “7)ypee, indeed, is Melville at all but his best”. Moby Dick è una “extraordinary mixture [...] of vivid adventure, minute detail, cloudy

symbolism, thrilling pictures of the sea in every mood, sly mirth and cosmic ironies, real and incredible characters, wit, speculation, humour, cox lor” il cui stile è “mannered but often felicitous”. Van Doren non azzarda

un modo o nell’altro praticamente da tutti i critici del periodo, con la sola importante eccezione di Stuart Sherman, con le sue incerte e mutevoli concezioni del puritanesimo. Perfino un marxista e un umanista potevano, con pochi attriti, condividere una valutazione così negativa. Senza eccezioni, tutti i critici concordavano nel ritenere che l'America avesse biso-

gno di una cultura centrale e di una classe di uomini che amministrasse tale cultura. Brooks, Mencken, Babbitt, More, Sherman, Lewisohn e Eliot, nonostante le differenze, accettavano questa visione”. (“Revolt and Reevaluation in Criticism: 1900-1930”, in FLoyp Sto-

vai (a cura di), 7he Development of American Literary Criticism, Chapel Hill, The Univer-

sity of North Carolina Press, 1955, pp. 159-98, [178-79). 65 Tutte le citazioni che seguono sono dalle pp. 320-23 della Cambridge History of American Literature, cit.

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di più. “Too irregular, too bizarre, perhaps, ever to win the widest suffrage”, Moby Dick è senz'altro uno dei “greatest sea romances in the whole literature of the world” (si noti la retorica tortuosa di questa definizione),

ma non un capolavoro e nemmeno una vera epica. La conclusione di Van Doren è un piccolo gioiello di diplomazia critica: Melville è, nel panorama della letteratura americana, “one of its most promising and disappointing figures. Of late his fame has shown a tendency to revive”. Più che un innovatore, quindi, Van Doren è una figura di transizione: suggerisce che Moby Dick è un’opera di valore, ma non ci dice esattamente se sia un testo “maggiore” limitandosi a lasciar intendere che potrebbe esserlo. Melville è qualcosa di più del romanziere dei Mari del Sud, ma un testo come 7ypee è da ritenersi pur sempre di molto superiore a tutto ciò che viene dopo Moby Dick. se Pierre è “hopelessly frantic” anche gli altri testi non sono “markedly original”. La fama di Melville sembra dar segni di ripresa, ma Van Doren non chiarisce sino a che punto questa tendenza sia da sostenere o meno. Incoraggiato probabilmente dagli articoli apparsi in occasione del centenario melvilliano, uno dei quali era stato commissionato da lui stesso a Raymond Weaver per 7be Nation, pochi anni dopo Van Doren si spinge più in là. Raddoppiando lo spazio precedentemente dedicato a Melville nella Cambridge History, in The American Novel Van Doren modifica in parte il suo precedente giudizio. Basti notare che, riferendosi a Moby Dick, nel suo primo pezzo aveva scritto: “the time was propitious for such a book”. Ora scrive: “the time was propitious for such an epic”. Il testo è ora un “masterpiece”: “the epic of the ocean [...] the epic of America’s unquiet mind”, una “great story” il cui protagonista è uno ‘Yankee Lucifer” che inizia ad assumere i contorni dell’eroe tragico. Ciò nonostante Melville resta pur sempre “promising and disappointing”, e la stessa collocazione di queste osservazioni in un capitolo dal titolo “Romances of Adventure” è eloquente. Se il maestro non poteva o non voleva sbilanciarsi di più, l’allievo Weaver, cui Van Doren assegna il compito di stendere la prima biografia di Melville, è senza dubbio più spregiudicato. “Melville is one of the chief

66 Cari Van Doren, The American Novel, New York, The Macmillan Co., 1921, pp. 68-

76. Soltanto nella riedizione del 1940 Van Doren dedicherà a Melville un capitolo a sé stante.

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and most unusual figures in our native literature”, scrive Weaver nelle pagine di apertura del suo Herman Melville: Mariner and Mystic, una biografia che, come indica il titolo, traccia il percorso tragico seguito da un “marinaio” dotato di sensibilità e intelligenza non comuni, e conclusosi con un naufragio sulle sponde del misticismo e della disperazione. Trattando i testi melvilliani alla stregua di documenti autobiografici, e concentrando l’attenzione sui primi trentatré anni di vita dello scrittore, Weaver struttura la vita di Melville nei termini di un’allegoria che illustra l’effimera ascesa e l’inevitabile crollo di uno scrittore in rivolta contro il materialismo della sua epoca, cui egli oppone una sfera spirituale che troverà in Moby Dick la sua più alta espressione. Weaver consacra un mito critico che resisterà a lungo: il mito di un artista crocifisso dall’intemperanza e la grettezza dei suoi contemporanei;

di un Titano che “sinned

blackly against the orthodoxy of his time”(18). Dal punto di vista strettamente letterario sono tre i motivi per i quali, secondo Weaver, Melville merita di essere considerato un autore mag-

giore dell’Ottocento americano. In primo luogo, si deve a lui se i Mari del Sud sono divenuti materiale letterario e, in secondo luogo, se la vita ma-

rinara stessa è assurta a oggetto degno d’attenzione artistica. Infine, Melville è l’autore di Moby Dick, che Weaver non esita a definire “his undoubted masterpiece”. Molto più che un libro di avventure marinare, il testo è piuttosto una “fabulous allegory”, una “history of a soul’s adventure”

67 Raymonp Weaver, Herman Melville, Mariner and Mystic, New York, Doran, 1921, p. 24. Anche Weaver era membro del Dipartimento d’Inglese della Columbia University. Tanto su Weaver quanto più in generale sull’intero “Melville revival” si dovrà vedere quello che promette di essere lo studio definitivo del fenomeno: la Ph. D. Dissertation che CLarre Spark sta terminando per il Dipartimento di Storia della U.C.L.A., dal suggestivo titolo “Call Me Isabel: Herman Melville, ‘Melvillains,’ and the Bounded Quest for ‘American Identity,’ 1919-1990”. La Spark, che mi ha gentilmente concesso di leggere una “working draft” della sua tesi, e che desidero ringraziare qui pubblicamente, ha svolto un’affascinante ricerca,

prima di tutto a livello di archivi, sulle maggiori figure del “Melville revival”, dimostrando tra l’altro che sia Weaver che altri critici erano a conoscenza, ma decisero di sopprimere, particolari della biografia di Melville che avrebbero potuto gettare una luce sinistra sulla sua figura (le violenze perpetrate contro la moglie Lizzie, ad esempio). Purtroppo ho potuto leggere il manoscritto della Spark solo dopo aver ultimato la stesura dell’intero libro; peraltro, essendo il suo studio ancora “in progress”, non mi sarebbe stato possibile utilizzarlo sistematicamente. E comunque certo che, una volta ultimato e pubblicato, il testo della Spark è destinato a far molto discutere.

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nella quale primeggia Ahab, “the atheistical captain of the tormented soul”(332). Weaver poggia gran parte della sua interpretazione di Moby Dick su un saggio di E. L. Grant Watson, che era apparso sul London Mercury— la prima di una lunghissima serie di interpretazioni allegoriche del testo. Watson vede nel Pequod un’incarnazione del genio melvilliano e in Ahab “the incarnation of the active and courageous madness, that lies brooding and fierce, ever ready to spring to command, within the man of genius”(332). Dinanzi alla bianchezza della balena, simbolo del pallore della pazzia, “Ahab’s courage is never broken”. L’eroe è certamente folle, ma la sua è una follia terrificante e ammirevole al tempo stesso. Due cose sono comunque chiare sia per Watson che per Weaver: l’espressione più genuina dell’angoscia melvilliana è incarnata in Ahab, e Moby Dick è un

grande testo perchè l'avventura marinara è elevata a un altissimo piano spirituale e, quindi, interpretabile allegoricamente. Dopo Moby Dick Melville ha esaurito tutte le sue risorse, e se Pierre conserva un certo interesse quale “anatomy of despair”, “after Pierre, any

further writing from Melville was both an impertinence and an irrelevancy”(343). Melville, per Weaver come per Van Doren, è soprattutto un “undisciplined genius” il cui stile è “extravagant, capricious, vigorous, and ‘unliterary’’ e i suoi testi, in definitiva, non sono altro che “a long effort towards the creation of one of the most complex, and massive, and original characters in literature: the character known in life as Herman Melville”(29). Dieci anni dopo la pubblicazione di Mariner and Mystic, O. W. Riegel sottolineava che il rinnovato interesse per Melville era soprattutto un interesse più per l’ uomo che per l’artista. Se questo è vero degli anni ‘20 in generale, lo è in particolare della biografia di Weaver, critico più che incline ad accettare il concetto romantico di “genio originale” che gli consente di trattare i testi melvilliani come materiale autobiografico. Lo stesso Riegel aggiunge una testimoniananza che, vera o meno, è certamente sostanziata dalla lettura di Mariner and Mystic: “Professor Weaver seems to be doubtful, as he revealed in private conversation, of Melville’s claim

as a literary artist”.68Senza dubbio Weaver, che a partire dal 1922 cura la

68 RieczL, cit., p. 200.

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Constable Edition delle opere complete di Melville, è convinto della necessità di riportare alla attenzione generale un personaggio la cui vita “is the record of an attempt to escape from an inexorable world of reality”, ma scopo principale della sua biografia è innanzitutto dimostrare la validità della tesi di Van Wyck Brooks secondo cui l’artista americano è costretto, per il perdurare di valori “puritani”, a una “tragica Odissea” di alienazione e isolamento, nel presente come già nel passato.9 Prima di vedere come questi temi della nascente critica istituzionale americana partecipino al nuovo ordine del discorso critico-letterario che si va delineando anche altrove, è però opportuno esaminare le altre due monografie melvilliane degli anni ‘20: quella di John Freeman, del ‘26, e quella di Lewis Mumford, del ‘29.

6. Un’ epica dell'età moderna Il libro di Freeman è il primo di un critico inglese su Melville, ed esce nella prestigiosa collana degli “English Men of Letters” che aveva ospitato nel 1879 lo Hawthorne di Henry James.” Freeman vede in Melville “the most powerful of all great American writers”, una definizione

interessante perché mette l’accento sull’energia dello scrittore più che sulle sue qualità tecniche. Freeman, che nella parte biografica del suo libro segue da vicino Weaver, accetta con entusiasmo l’idea che sia Moby Dicka costituire l’apice dell’arte melvilliana, ma aggiunge: “it is strength that survives as the dominant impression of Moby Dick’(126). “Digressions” e “delays” sono frequenti, come in tanti altri suoi testi, e se Melville “must be called a prose writer”, Freeman deve aggiungere che,

too often he is at the mercy of a bad genius, who tempts him to use all gifts save one — restraint, and thus his lavish latinisms, his fond

69 Come nota anche Cesarano, tanto Brooks quanto altri critici che scrivono su Melville in questi anni giungono a falsificare i fatti pur di dimostrare che Melville era stato represso da una cultura puritana, sostenendo, ad esempio, che 7ypee era stato ferocemente

attaccato per il suo contenuto “scandaloso”. Trasformando il passato in uno specchio del presente Brooks e gli altri riscrivono la storia letteraria per fini prettamente ideologici. 0 JoHn Freeman, Herman Melville, London, Macmillan and Company, 1926.

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compound words, his Biblical allusions, his large metaphors and easy movements — all may be used, but restraint is lacking and the result is ornate, or heavy, or slow, or extravagant, and merely unreadable.

(176-77)

Ancora una volta Melville viene descritto come un talento naturale che riesce ad esprimersi in “ordinary and wholly accurate prose”(186) in un testo come Redburn, ma che, in opere impegnative come Moby Dick, pur raggiungendo livelli di alta intensità poetica, è incapace di contenere la sua energia creativa entro limiti appropriati. Freeman è stato lodato perché, rispetto a Weaver, non considera Melville un autore finito dopo Moby Dick, e esamina il periodo 1851-1891 prestando attenzione anche alla poesia. La sua opinione sul valore di opere quali Pierreo The Confidence-Man è però assolutamente tradizionale per l’epoca, e pur sottolineando che Melville non cessa mai di scrivere, Freeman insiste che, con l'eccezione di “Benito Cereno” e Billy Budd, niente di successivo a Moby

Dick è davvero notevole. Il primo a riconoscere i meriti di Freeman è proprio Lewis Mumford, pur dichiarandosi d’altra parte insoddisfatto perché Freeman, nonostante la sua ammirazione per Melville, e in particolare per Moby Dick, appare impaziente di fronte alle “digressions and delays” e solleva antichi dubbi sulla forma e lo stile dell’opera. Uno dei maggior motivi d’interesse del libro di Mumford è proprio da rintracciare nella nuova strategia in esso adottata per rivendicare lo status di “classico” di Moby Dick”! Già in apertura Mumford dichiara Moby Dick un’epica — “one of the supreme poetic monuments of the English language” — e aggiunge che “in depth of experience and religious insight there is scarcely any one in the nineteenth century, with the exception of Dostoyevsky, who can be placed beside [Melville]” (4). Se critici e lettori nutrono ancora dubbi sull’effettivo valore di un capolavoro come Moby Dick è perché essi insistono a leggerlo come un romanzo quando invece “it is not a novel at all”. Citando con approvazione Croce sull’autonomia dell’opera d’arte, Mumford sostiene che solo riconoscendo che “Moby Dick stands by itself

71 Lewis Mumrorn, Herman Melville: a Study of His Life and Vision, New York, Harcourt, Brace and Company, 1929.

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as complete as the Divine Comedy or the Odyssey stands by itself’(178) possiamo comprenderne la grandezza. Il libro fa storia a sé e muovere obiezioni alla sua forma, oppure al modo in cui esso rompe con le convenzioni del romanzo realista mettendo in bocca ad Ahab liriche da tragedia elisabettiana, vuol dire interpretarlo in base a “false categories”. Moby Dick è piuttosto una “poetic epic” le cui qualità epiche e mitiche non sono state ben comprese: “those who have examined the book have thought of the epic in terms of Homer, and the myth itself in relation to some obvious hero of antiquity, or some modern folk hero”(190). Moby Dick, al contrario, “is one of the first great mythologies to be created in the modern world” (193). Mumford cerca di dimostrare, con una metafora musicale, che la

struttura dell’opera non è frammentaria. In genere i romanzi sono come melodie interpretate da un unico strumento; Moby Dick è, viceversa, una

sinfonia dove “every resource of language and thought, fantasy, description, philosophy, natural history, drama, broken rythms, blank verse, imagery, symbol, are utilized to sustain and expand the grand theme”(182). Mumford sostiene che l’organizzazione caotica del testo è solo apparente; dietro quella che può sembrare confusione o mancanza di unitarietà c’è in realtà una mente ordinatrice i cui poteri creativi si dispiegano, come nella migliore tradizione romantica, organicamente. Mumford non cerca di minare la concezione che vuole una grande opera d’arte unitaria e coerente; piuttosto, egli cerca di vedere in Moby Dick un capolavoro la cui “unità d’effetto” è semplicemente costruita con materiali tra loro diversi, ma pur sempre rispettata. Per Mumford al centro del dramma c’è la balena bianca, simbolo

dell'universo e di un’energia vitale che eccita e frustra al tempo stesso lo spirito dell’uomo che, naturalmente, trova la sua somma espressione in Ahab. L’ammirazione per l’eroe del Pequod è consentita solo sino ad un certo punto poiché alla fine Ahab si trasforma in ciò che egli più odia, perdendo la propria umanità proprio nel tentativo di rivendicarla. Curiosamente però, tanto il conflitto al centro del libro, quanto la sua organizzazione artistica sono riassorbiti da Mumford in una visione armonica. Moby Dick “is part of a new integration of thought” perché “the best handbook of whaling is also [...] the best tragic epic of modern times”. Il capolavoro melvilliano realizza una sintesi tra modernità ed umanesimo: “Moby Dick brings together the two dissevered halves of the modern

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world and the modern self, bent on conquest and knowledge, and its imaginative, ideal half, bent on the transposition of conflict into art, and

power into humanity” (193). Esattamente in che modo queste due metà del mondo moderno siano riconciliate Mumford non lo spiega: forse egli sente che è Moby Dick in quanto capolavoro artistico a ricostituire la pienezza di una organica

visione umana. In tal modo Mumford riecheggia la tesi esposta tre anni prima in 7be Golden Day. Melville, assieme a Thoreau, Emerson e Whit-

man, avrebbe vissuto in un’età felice ed eroica, precedente la frattura della Guerra Civile, quando “Elizabethan daring on the sea” e uno “well-balanced adjustement of farm and factory in the Fast” si traducevano in una cultura “unitaria” dove interessi materiali e visione spirituale erano magicamente riunificati.”? Il discorso di Mumford è però contradditorio: se la società americana della prima metà dell'Ottocento era una mitica età dell’oro, perché sarebbe stata così ottusa e conformista nel perseguitare il “Titano” Melville? Se la società americana è organica sino alla Guerra Civile, perchè non si riconosce nelle opere di Melville, dove la visione mo-

rale di una cultura unitaria sarebbe espressa al meglio? Conscio forse di tale problema, Mumford presenta Melville come una figura scandalosa per un “comfortable bourgeois world” che non si capisce esattamente sino a che punto sia quello contemporaneo di Melville o di Mumford, ed evidenziando in tal modo ancora una volta le preoccupazioni ideologiche che sottendono il suo lavoro. I problemi creati dalla tesi mumfordiana sono una spia rivelatrice di come la tragedia di Melville, descritta per la prima volta in dettaglio da Weaver, sia in genere accettata negli anni ‘20 non in quanto basata su

una documentata visione storica, ma perché risponde all’esigenza di descrivere l’artista come colui che è sospinto ai margini della comunità da un mondo sempre più disumano ed alienante. Rispetto a Weaver e Freeman, Mumford, che scrive con maggiore vigore e passione, elabora però una teoria che gli consente di definire Melville non solo un genio dimenticato ma anche un grande artista, e Moby Dick un monumento letterario. La critica di Mumford è quella che meglio si inserisce nel nuovo

72 Lewis Mumrorn, be Golden Day, New York, Dover, 1968 [1926], p. 79.

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ordine del discorso critico-letterario di cui Eliot e Leavis, tra gli altri, sono impegnati a tracciare i confini. Per Leavis, come per Eliot, la condanna della civiltà di massa passa attraverso la visione di un passato mitico in cui la società era “integrata” e ordinata, cioè fortemente gerarchizzata. Ma mentre

Eliot sembra, sia pure a tratti, intravedere in uno stato ed una

chiesa autoritari l'alternativa politica alla disarmante situazione del mondo contemporaneo, per Leavis e il suo gruppo la sola “società” organica che può ancora esistere è rintracciabile “in certi modi d’usare la lingua inglese”, o, più precisamente, nei capolavori letterari della “Great Tradition”.73 Lo “organic humanism” di Mumford rappresenta una versione yankee del quadro buio dipinto da Eliot e Leavis che, pur condannando il presente, lascia intatte le speranze nel futuro. La visione mumfordiana del mondo americano post-1865 è affine a quella del mondo moderno proposta da Eliot; il materialismo, la volgarità, la brutalità della società industriale trionfano a fronte di un passato felice che, in mancanza del Medio Evo o dei poeti metafisici, è rappresentato per Mumford dalla società agraria e artigianale dove fioriva l’arte di Melville e Whitman. In un certo senso Mumford non fa che anticipare la nostalgia per il passato pre-industriale del vecchio Sud che sta dietro alla visione estetica dei New Critics; per Mumford, però, è ancora possibile riconciliare progresso scientifico e valori umanistici pur non essendo chiaro come, concretamente,

questa possibilità teorica si possa tradurre in realtà. Non che Mumford aspetti semplicemente il ritorno dell’età dell’oro, tant'è che nel corso de-

73 Tain Wright ha notato che il gruppo di Scrutiny sembra a più riprese suggerire che il declino dell'occidente può essere arrestato solo diffondendo i “reading skills” necessari ad apprendere la grande tradizione letteraria occidentale. Di fronte alla Terra Desolata del mondo moderno, solo i valori incarnati nella Grande Letteratura offrono un’ancora di salvezza: “La minoranza in grado non solo di apprezzare Dante, Shakespeare, Donne, Bau-

delaire, Hardy (per prendere degli esempi maggiori) ma di riconoscere i loro più recenti successori costituisce la coscienza della razza (o di un ramo di essa) in un certo periodo [.... Da essa dipendono gli standard impliciti che danno ordine al migliore modo di vivere di quell'epoca, l’idea che una certa cosa è migliore di un’altra, che questa e non un’altra è la via da prendere, che il centro è qui piuttosto che lì”. (F.R. Lavis, Mass Civilization and Minority Culture, citato in Ian WxricHT, “F. R. Leavis, the Scrutiny Movement and the Crisis”, in Jon Ctark et al. (a cura di), Culture and Crisis in Britain in the Thirties, London, Lawrence

and Wishart, 1979, pp.37-66, [38]).

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gli anni egli diverrà sempre più critico nei confronti della nostalgia e del sentimentalismo.7* È però certo che dalle roboanti pagine di Mumford su Melville, pubblicate nello stesso anno del crollo di Wall Street, si ricava

l'impressione che la lettura dei capolavori artistici sia un'esperienza taumaturgica, e che il mondo potrebbe essere migliore se tutti consultassero Moby Dick più assiduamente. L'esperienza vissuta da Mumford, come da altri intellettuali del periodo, va vista come il prodotto di una impasse storica: secondo i critici d'avanguardia la cultura americana doveva essere ricostruita su nuove basi, ma non era chiaro per chi, né per quali fini. Le polemiche criticoletterarie finirono così con l’esaurirsi all’interno della accademia e, mancando l’articolazione con un referente sociale esterno, sfociarono in

un’ennesima spiritualizzazione dell’opera d’arte, unica ancora di salvezza per un’elite di intellettuali illuminati. Per Mumford come per Leavis e, prima ancora, per Matthew Arnold, la letteratura diviene la “soluzione” alla

scomparsa della supposta organicità della civiltà pre-industriale. Per Mumford, come per Eliot, non è tanto importante quello che uno specifico testo effettivamente dica, quanto la qualità del suo linguaggio, o l'emozione che una certa immagine suscita. Lo Herman Melville di Mumford è infatti un susseguirsi di pezzi lirici e giudizi impressionistici con ricorsi occasionali a una psicoanalisi rudimentale (nell’analisi di Pierre, ad esempio) il cui risultato strategico maggiore è senz'altro rappresentato dall’elevazione di Moby Dick a classico. Anche sotto questo aspetto Mumford dimostra un’inaspettata affinità con Eliot. Se per quest'ultimo un classico è “un’opera che ha origine da un insieme di convinzioni condivise da più persone, ma quali siano queste convinzioni è meno importante del fatto che esse sono condivise da una comunità”??, per Mumford Moby Dick, “like every great work of art [...] summons up thoughts and feelings profounder than those to which it gives expression [...] the book is greater than the fable it embodies, it foreshadows more than

74 Sulla figura di Mumford si veda il numero speciale di Sa/magundi, 49 (1980), interamente a lui dedicato, e in particolare i saggi di CrusropHer LascH (“Lewis Mumford and the Myth of the Machine”) e Aran TrackHtensero (“Mumford in the Twenties: the Historian as Artist”).

75 FAGLETON, cit., p. 51.

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it actually reflects”(194-95). Per entrambi un classico deve funzionare come un mito. Questo ricorso al mito non può però non suonare ironico:

nel momento in cui si invoca la parola risanatrice di un discorso universale quest'ultimo è nei fatti indirizzato a una ristretta cerchia di accademici ed intellettuali. Per come viene costruito da Mumford, Moby Dick è certamente una delle prime grandi mitologie della modernità, ma una mitologia che, come quella della Waste Land, è riservata agli eruditi, agli ancora scarsi adepti di quello che, con tono sarcastico, O. W. Riegel avrebbe definito nel ‘31 il “Melville culte”. Si deve peraltro ricordare a questo punto che Mumford o Weaver 0 Van Doren (come d’altra parte Eliot e Leavis) sono critici d'avanguardia i cui nemici sono da un lato la civiltà di massa, ma dall’altro i professori della vecchia scuola. Le battaglie condotte nel campo critico-letterario dell’epoca acquistano senza dubbio un significato più chiaro se viste nel contesto di uno scontro tra la vecchia guardia fedele al metodo filologico-positivista,

e un nuovo gruppo, non omogeneo ma senz'altro deciso a

scalzare il predominio degli antichi maestri, a ridefinire il concetto stesso di letteratura, e a rivendicare agli studi letterari una missione “civilizzatrice” — cosa che, all’interno del vecchio quadro istituzionale, sarebbe stata

impossibile. Certamente non è un caso se, in Inghilterra come negli Stati Uniti, lo sforzo maggiore in cui sono impegnati tra le due guerre i critici della nuova generazione è quello di reinventare una tradizione letteraria composta da un numero drasticamente limitato di figure degne di essere conosciute e studiate a fondo. L’entusiasmo, l’intransigenza, il tono oracolare della nuova critica di questa particolare fase storica è senz'altro da mettere in relazione alla duplice battaglia che essa deve condurre contro un nemico interno e uno esterno. Perché, se per i critici d'avanguardia la civiltà di massa rischia di rendere obsoleti gli studi letterari, “il monotono fattualismo, la pseudoscienza frammista a uno scetticismo anarchico e alla mancanza soprattutto di gusto critico” dei vecchi studiosi, che ancora occupano posizioni di potere, sono non meno pericolosi e condannano inevitabilmente letteratura e critica a una posizione assai marginale nel

mondo accademico.7%

76 René Week, “Literary Scholarship”, cit., p. 113.

90

7. “The Captain of the Soul” Con l’eccezione di Mumford, i nomi dei critici sin qui citati sono 0ggi ricordati solo dai melvilliani di professione. Quelli di E. M. Forster e D. H. Lawrence sono viceversa noti a un pubblico ben più vasto, e notevole è anche l’influenza che le pagine da essi dedicate a Melville hanno avuto sui critici successivi. Forster limita il suo intervento ad alcune stringatissime osservazioni su Moby Dick e, en passant, su Billy Budd, ma all’inter-

no di un libro importante e influente come Aspects of the Novel (1927), un classico della critica del Novecento.” Forster, prima ancora dello studio di Mumford, include Melville tra i grandi artisti della modernità come Dostoevsky e Lawrence e, con l’eccezione dell’espatriato Henry James, descrive Melville come il solo degno rappresentante del romanzo americano. Significativo anche il fatto che Forster discuta Melville nel capitolo “Prophecy”, presentando Moby Dick come un classico esempio di “prophetic fiction”, un genere che “demands humility and the absence of the sense of humour”. In un periodo in cui il libro veniva ancora visto da molti come

avvincente storia marinara, Forster lascia subito intendere

quanto carente sia tale identificazione. Moby Dick non può essere considerato uno “easy book” [...] a yarn or an account interspersed with snatches of poetry”. Se si sa prestare ascolto alla “song” del romanzo, questo diventa subito “difficult and important”. “Narrowed and hardened into words the spiritual theme of Moby Dick is as follows: a battle against evil conducted too long or in the wrong way” — anche se accettando questa, come altre letture, si rischia di ossificare la storia, di perdere di vista “the essential in Moby Dick, its prophetic song” che “flows athwart the action and the surface morality like an undercurrent [and] lies outside words”. La conclusione di Forster è memorabile: “Moby Dick is full of meanings: its meaning is a different problem [...]. Nothing can be stated about Moby Dick except that it is a contest. The rest is song”. Presentando il testo come un enigma che trabocca di possibili e inesauribili significati, Forster si unisce a Mumford e agli altri critici melvil-

77 E. M. Forster, Aspects of the Novel, New York, Harcourt, Brace and Company, 1927. Tutte le citazioni sono dalle pp. 197-206 di questa edizione.

dI

liani degli anni ‘20 che inseriscono Moby Dick in una classe speciale. Sia esso “favolosa allegoria” (Weaver), “parabola di uno scontro eterno” (Freeman), o “epica poetica” (Mumford) è chiaro che il testo è concepito come avente qualità più affini al mito che al romanzo, e comunque come qualcosa d’incontenibile e sempre sfuggente. Tutto questo dovrebbe aiutarci a capire come un testo possa venir trasformato in capolavoro: dichiarando l'impossibilità di situare la sua “grandezza” entro confini precisi e definitivi, i critici descrivono l’opera letteraria come una realtà più spirituale che materiale, come una fonte inesauribile di significati che si vorrebbero intrinsechi all'opera stessa e non il prodotto dell’incontro tra i linguaggi di quest’ultima e quelli del lettore. Un tale processo di “infinitizzazione” sacralizza di fatto il testo tramite il cancellamento di qualunque dimensione storica e l’esaltazione di una “universalità” che trascenderebbe i contesti sociali e ideologici nei quali il testo viene recepito.’8 Per trasformare Moby Dick da (più o meno grande) storia marinara in capolavoro si rende dunque necessario insistere sulle sue qualità di avventura spirituale e simbolica. Sino a quando l’opera continua ad essere contestualizzata nel genere delle “sea novels” lo status di classico le è precluso; quando la dimensione simbolica, grazie a una particolare strategia discorsiva caratteristica del modernismo, viene fatta emergere, Moby Dick straripa al di là dei confini di un genere preciso e diviene “mito”. Anche per Lawrence Moby Dick fa storia a sé ed è necessario spingersi oltre la superfice del testo per portarne alla luce le inesauribili valenze simboliche. Studies in Classic American Literature, pubblicato nel 1923 e definito da Edmund Wilson “one of the few first-rate books that have ever been written on the subject”, è senza dubbio il primo e il più spregiudicato tentativo di definire una tradizione letteraria americana radicalmente diversa da quella degli Wendell e dei Trent, o dello stesso Van Doren.??

78. Vale la pena di notare che questa infinitizzazione del testo non ha nulla a che vedere, almeno sul piano strettamente epistemologico, con l’infinitizzazione del testo in ambito decostruzionista. Per il decostruzionismo qualunque significato che viene fatto assumere al testo va denunciato come precario; per i critici di cui ci stiamo occupando ora, vi-

ceversa, il capolavoro letterario pare in grado di accogliere, o meglio di generare, innumerevoli significati “pieni”. 79 Epmunp Wirson, 7be Shock of Recognition, New York, Farrar, Straus and Cudahy,

1953 [1943], p.906. Alcuni dei saggi di Lawrence erano apparsi sulla Erglisb Review e su

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La polemicità dell'impresa è evidente sin dal titolo del volume — anche l’America ha i suoi classici — e i saggi di Lawrence si propongono in effetti di elaborare una teoria della letteratura americana che, in un primo mo-

mento, apparve a molti improbabile o addirittura stravagante: “perversity”, “nonsense”, “hysterical” sono i termini usati in alcune recensioni del libro. Ma Leavis avrebbe chiamato di lì a poco Lawrence “il miglior critico letterario del nostro tempo”, e già nel 1928 F. Lewis Pattee giudicava Studies in Classic American Literature un “volume sorprendente e sbalorditivo” 8° Il testo partecipa a suo modo alla lotta tra vecchie e nuove metodologie, avanzando per di più una tesi scandalosa: l'immaginazione americana è, secondo Lawrence, “duplicitous” perchè i suoi maggiori esponenti “give tight mental allegiance to a morality which all their passion goes to destroy”.81 Già nel primo dei due saggi di Lawrence su Melville, quello su 7ypee e Omoo, lo scrittore è definito “a mystic and an idealist [who] hated human life, our human life as we have it” (133) perché incapace di rinunciare al proprio idealismo, pur cosciente dell’inevitabile fallimento cui va incontro. Questa la contraddizione al centro dell’opera di Melville, una contraddizione tipicamente americana perché “America soon killed the beliefin the spirit. But not the practice”(87). Moby Dick è l’espressione suprema di questa scissione tragica. La lotta al centro del libro oppone Moby Dick “the deepest blood being of the white race [...] our deepest blood nature [...] the last phallic being of the white man”: un simbolo cioè di tutte le energie represse dalla “civiltà” — al “maniacal fanaticism of our white mental consciousness” incarnata dal monomaniaco Ahab, “the

captain of the soul”. Moby Dick è un’allegoria della separazione creatasi nel mondo occidentale tra spirito e materia, tra l’idealismo della coscien-

The Nation and the Athenaeum. Vedi a questo proposito The Symbolic Meaning : the Uncollected Versions of “Studies in Classic American Literature”, a cura di Armin Arnotp e con una prefazione di Harry T. Moore, London, Centaur, 1962. Per un’analisi del modo in cui

Melville è stato successivamente inserito nelle teorie della letteratura americana elaborate, sulla scia di Lawrence e Matthiessen, da Feidelson, Lewis, Chase, ecc. si veda più avanti, ca-

pitolo III. 80 Sulla ricezione del volume di Lawrence cfr. The Symbolic Meaning, pp. 7-8; il commento di F. Lewis PatteE è in “A Call for a Literary Historian”, in The Reinterpretation of

American Literature, cit., p. 4.

81 D. H. Lawrence, Studies in Classic American Literature, New York, Viking, 1923.

9%

za e l'energia pulsante della Vita. Anche per Lawrence, dunque, se Moby Dick è “one of the strangest and most wonderful books in the world”, lo deve alle sue qualità mitiche e simboliche. “Book of esoteric symbolism of profound significance”, “epic of the sea”, “a piece of deep mysticism” — questi i termini chiave adoperati da Lawrence per giustificare la grandezza di Moby Dick, un’opera dove la realtà si trasfigura continuamente in qualcosa di più grande: “there is something really overwhelming in these whale-hunts, almost superhuman or inhuman, bigger than life, mo-

re terrific than human activity”(156). Lawrence concorda con Mumford nel leggere il testo come meditazione su una sorta di dissociazione della sensibilità prodottasi con l’avvento della civiltà meccanica e industriale ma, almeno da un punto di vista, la sua interpretazione è in disaccordo con quella di Mumford. Lawrence non è interamente soddisfatto dallo stile di Moby Dick, “at first you are put off by the style. It seems spurious. You feel Melville is trying to put something over you. [...He] really is a bit sententious. [...] Nobody can be more clownish, more clumsy and sententiously in bad taste, than

Herman Melville, even in a great book like Moby Dick'(145-46). Sembrerebbe, tutto d’un tratto, di leggere uno dei vecchi articoli del Britannia o del Dublin University Magazine, ma queste critiche sono in realtà ben diverse da quelle dei reviewers ottocenteschi. Questi ultimi protestavano perché Melville ignorava le convenzioni strutturali e stilistiche del romanzo dell’epoca, le quali non proibivano al narratore d’intervenire direttamente e prendere posizione in favore di un personaggio o contro un

altro — si pensi per esempio ad Uncle Tom's Cabin — a patto che il punto di vista restasse coerente, cosa che naturalmente non avviene nel caso di Ishmael. Per Lawrence, viceversa, la coerenza o la “artistry” non c’entrano affatto (e infatti egli non protesta, come fa invece Freeman, contro “ritardi” e “digressioni”); al contrario, secondo Lawrence “the artist was so

much greater than the man. The man is rather a tiresome New Englander of the ethical mystical-transcendental sort” (146). Quella artistica è una produzione inconscia che obbedisce a una logica del tutto indipendente da quella ufficiale dell’uomo Melville, definito da Lawrence un “solemn ass”. Qui sta evidentemente la distanza maggiore, e una delle ragioni della loro grande influenza, tra le osservazioni di Lawrence e quelle dei biografi/critici degli anni ‘20: per il primo non è solo possibile, ma necessario, distinguere tra l’uomo e l’artista, e la scissione della psiche americana

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va cercata più nello stile di Moby Dick che nelle particolari vicissitudini della vita privata di Melville. Lawrence è anche, con Mumford, il critico che più insiste sulle riso-

nanze mitiche della “grande caccia” alla Balena Bianca. In particolare lo scrittore inglese non si limita a leggere il testo come epica, precisando che si tratta di un'epica americana: This Pequod, ship of the American soul, has three mates ... America! A maniac captain of the soul, and three eminently practical mates... America! Then such a crew. Renegades, castaways, cannibals: Ishmael, Quakers. America! There

you

have

them,

three

savage

races,

under

the American

flag....(149-50) Nonostante lo stile di Lawrence sia personalissimo e ben poco accademico, l'influenza dei suoi Studies sarà enorme. Negli anni in cui l’americanistica muoveva i primi passi si era invocata “a history of American literature [...] detached from class-room thinking”; il libro di Lawrence è senza dubbio il primo dove, in ogni pagina, quasi ossessivamente, l’autore insiste sull’ “americanità” dei testi trattati senza alcun riguardo per le vecchie opinioni, e senza timori reverenziali per la tradizione inglese.82 Qualcuno ha persino scritto che gli Studies sembrano un libro americano, ma è senz’altro possibile sostenere esattamente il contrario. Lawrence è più libero nei suoi giudizi perché guarda la letteratura americana da europeo, e, per quanto il suo atteggiamento verso il mito dell'America sia tormentato e contraddittorio, questo agisce senza dubbio da catalizzatore, come avviene in genere con buona parte della critica europea su Melville.

82. ParteE, cit., p. 6. Sull’influenza di Lawrence sulla critica americana più recente si veda MicÒart J. Coracurcio, “The Symbolic and the Symptomatic: D. H. Lawrence in Recent

American Criticism”, American Quarterly, 27 (1975), pp. 486- 501.

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8.L’unicità del Melville degli anni ‘20 Prima di spostare il nostro campo d’indagine all'Europa, alcune ultime osservazioni sulla critica del “Melville revival”. Le sue caratteristiche principali sono due. In primo luogo essa crea con Weaver, Freeman e Mumford un caso letterario esemplare. “Failure is the true test of greatness”, si legge in una lettera di Melville a Hawthorne, e questa frase può servire da epigrafe alle biografie melvilliane degli anni ‘20. La grandezza di Melville è per queste ultime da rintracciarsi essenzialmente nel destino tragico dell’uomo. Nelle parole di Mumford: “in a great degree, Herman Melville’s life and works were one”(4). In secondo luogo, la critica degli anni ‘20 costruisce un Melville assolutamente diverso da quello dell’Ottocento innanzitutto perché, se quest’ultimo è soprattutto l’autore di 7)pee e Omoo, il primo è senz'altro l’autore di Moby Dick. L'importanza di questo rovesciamento è enorme: i reviewers ottocenteschi leggevano Moby Dick prendendo a modello di giudizio il realismo che aveva reso possibile la felice riuscita di 7ybee mentre, per i critici degli anni ‘20, 7ypee è piuttosto un momento di apprendistato, un esperimento sulla strada che porta al capolavoro. Quando, ad esempio, Evert Duyckinck e Mumford scrivono su Moby Dick si riferiscono solo apparentemente allo stesso testo. Materialmente, è ovvio, l’opera è identica, ma le condizioni

di lettura e i contesti in cui viene letta sono così diversi che è impossibile sostenere che il Moby Dick di Duyckinck e quello di Mumford siano la stessa cosa. Colin MacCabe ha notato che “ogni testo è sempre già in rapporto con altri testi che ne determinano il possibile significato e nessun testo può sfuggire ai discorsi della critica letteraria nei quali ci si riferisce ad esso, lo si nomina, lo si identifica”.83Questo vale naturalmente anche per

Moby Dick, e chiunque consulti la recensione del Literary World del novembre 1851, o qualunque altra recensione del tempo, si accorgerà che i testi con cui Moby Dick viene costantemente messo in relazione sono 7ypee, Omoo, Mardi e Wbite Jacket, sia che questi venissero ritenuti ad esso

superiori o inferiori. Più in generale, se c’è una tradizione in cui i re-

83 Coun MacCase, James Joyce and the Revolution of the Word, New York, Barnes

and Noble, 1979, p. 3.

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viewers inserivano Melville costantemente è quella delle “sea novels”, e infatti un autore citato frequentemente come pietra di paragone era l’allora popolare Frederick Marryat. Anche chi cercava di mettere l'accento sulla dimensione tragica dell’opera era dunque limitato dal contesto in cui i testi di Melville venivano “naturalmente” percepiti. Quando nell’Ottocento Moby Dick era visto come testo tragico ciò avveniva perché i recensori notavano che la storia non aveva un lieto fine; ovviamente quando Weaver, Freeman e soprattutto Mumford battono sull’aspetto tragico dell’opera, la loro idea di tragedia è assolutamente diversa. Mumford per illustrare “the tragic sense of life” che ascrive a Melville mette in campo la filosofia cristiana e quella buddista, così come per dimostrare la grandezza di Moby Dick l’accosta alla Divina Commedia e all’ Odissea, tutti riferimenti inammissibili, o semplicemente inconcepibili, tanto per gli ammiratori quanto per i detrattori ottocenteschi di Moby Dick. È senz’altro difficile fare di Moby Dick un capolavoro se ci si limita a osservare, come faceva ad esempio lo Springfield Republican, che “this book, and all hitherto written by the author, are [...] much superior to the sea books of Marryat”.84 Quando — in conseguenza di profondi mutamenti strutturali che portano un ristretto gruppo di esperti a dover reinventare per fini professionali e istituzionali il concetto di letteratura e, in particolare, quello di “letteratura americana” — diviene legittimo leggerlo tenendo a mente / Fratelli Karamazov o Guerra e Pace, come fa Mumford, la situazione

cambia drasticamente.85 Anche quando i commenti dei reviewers possono apparire simili a quelli degli anni ‘20, essi hanno valenze del tutto diverse. Si prenda ad esempio quanto scritto dal Britannia: “The Whale is a most extraordinary work [...]. It is certainly neither a novel nor a romance [...]. The story has merit, but it is a merit sui generis. Anche Mumford, come tutti i protagonisti del “revival”, è d’accordo con l’idea che Moby Dick non sia un romanzo “normale”, e invoca l’autorità di Benedetto Croce per giustificare le

84 Commento ristampato in Branca, cit., p. 268. 85 Quest'ultima contestualizzazione è non meno “forzata” di quelle dell’Ottocento, che escludevano in genere punti di riferimento diversi dai “sea novels” del periodo. Se gli accostamenti dei reviewers possono oggi apparire arbitrari, lo sono non meno di quelli proposti dai commentatori del Novecento.

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[9

peculiarità estetiche del testo. Per il Britannia, invece, la sua unicità “does

not consist in the work either when viewed as a whole or with reference to the arrangement of its separate parts” #9; questa è da ritrovare piuttosto nella “acuteness of observation and powers of discrimination” mostrati dall’autore. Per il Britannia l'unicità di Moby Dick sta nel realismo del testo, per Mumford nella sua essenza metafisica di grande opera d’arte. Non ha dunque senso sostenere che nell’Ottocento ci fu qualcuno che in effetti comprese la “grandezza” dell’opera, perché in ogni caso la grandezza del 1851 non ha assolutamente nulla a che vedere con quella del 1921. Ad esempio il Morning Advertiser di Londra, in un pezzo piuttosto elogiativo, aveva lodato Moby Dick come una storia avvincente: “bustle, adventure, battle and the breeze [...] the interest never palls”.87 Quando Weaver nel ‘21 vuole mettere in risalto il valore del testo non lo fa sostenendo che è basato su un’avventura emozionante, ma insistendo sulla sua natura di “allegory of the demonism at the cankered heart of nature”(24), “an allegory designed to teach woeful wisdom”(332). Solo un lettore superficiale, secondo Weaver, “may skip the more transcendental passages and classify it as a book of adventure”(331-32) senza rendersi conto che l’avventura è tutta spirituale. La distanza tra chi, come MacMechan o Van Doren, riconosce in Moby Dick un grande testo scrivendo che l’opera è “the best sea story ever written”, o che “[it] belongs to the greatest sea romances in the whole literature of the world”, e chi, come Mumford o Forster, lo identifica come un classico, è essenzialmente una questione di contestualizzazione. Inserendo Moby Dick nella tradizione delle avventure marinare si può appunto farne una grande storia marinara; inserendolo nella tradizione del grande romanzo europeo accanto alle opere di Dostoevsky e George Eliot si può metterne in risalto la classicità “universale”. Ponendo l’accento sulla dimensione spirituale, simbolica, mitica ed epica di Moby Dick, i critici del “revival” gettano le basi per una diversa, e interamente nuova, percezione del testo. Ma così come è netta la differenza tra la critica dei reviewers e quella degli anni ‘20, grande è la distanza tra quest'ultima e quella dei decenni a venire. Basterà un esempio

86 Commento ristampato in BrancH, cît., p. 261.

87 BrancH, cit., p. 251.

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significativo per evidenziare lo scarto. Moby Dick è percepito da Van Doren, Weaver, Freeman, Mumford

e Lawrence come opera “simbolica” o

“epica” essenzialmente perché, a fronte del mistero della Balena Bianca, si staglia come eroe tragico, odiato e/o ammirato, il capitano Ahab. Anche chi, come Mumford, sostiene che al centro del dramma c'è la balena,

non ha dubbi su chi sia il protagonista umano dell’avventura. Pagine e pagine vengono dedicate sia da Mumford che dagli altri ad Ahab — una figura di Prometeo che è agevole assumere come simbolo dell’uomo che si ribella a un mondo in cui non crede e che non riesce a soddisfare i suoi desideri più profondi — tant'è che in certi momenti difficilmente ci si ricorda che l’intera storia è narrata da un certo Ishmael. Weaver non lo nomina affatto; Freeman una volta come “the chronicler on board”; Mumford diverse volte ma senza dedicargli alcun commento particolare; per Lawrence, infine, Ishmael è sì “the only human who really enters into the book”(147), ma più che altro egli è “Ishmael the hunter”, un’appendice di Ahab. Il celebre incipit del libro è citato solo da Mumford, che peraltro non ne sembra in alcun modo colpito. È evidente che se i critici non vedono Ishmael non è per disattenzione; è perché nello schema interpretativo che essi adoperano non c’è uno spazio o una funzione particolare da assegnare al narratore. Anche in un'epica dell’era moderna come Moby Dick è indispensabile un eroe, e quest’eroe, negli anni ‘20, può essere solo Ahab. Sarebbe possibile sostenere che il caso di Ishmael è solo una delle sviste della critica del periodo. Quest'ultima appare, specie se paragonata agli studi del secondo dopoguerra, ben poco rigorosa. Ancora largamente impressionista, essa poggia più sull’intuito del critico che sull’applicazione di precise metodologie, offrendo in genere scarso sostegno per una particolare interpretazione, proponendo ampie generalizzazioni,

spargendo qua e là affermazioni criptiche. inoltre virtù del limitato materiale sulla vita gono quello a disposizione, pur di riscrivere chiave di allegoria socio-politica.88 Essi sono

I critici del “revival” fanno di Melville, e spesso stravolla biografia dello scrittore in sì rigorosi e coerenti nel de-

88 Il mito di un Melville sempre inviso ai contemporanei e anticonformista al punto di divenire misantropo verrà in parte accantonato nei decenni successivi non solo perché muteranno i paradigmi epistemologici della critica, ma anche perché la ricerca “sul campo”

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lineare una nuova entità biografica ed ideologica di nome “Herman Melville” e nel riscrivere Moby Dick come testo inseribile nell’ideologia estetico-letteraria degli anni ‘20, ma il discorso critico dell’epoca non possiede categorie come quella del punto di vista narrativo che permetteranno, più in là, di rendere visibile Ishmael. Questo dimostra chiaramente che tutte le letture di un testo — cioè tutte le operazioni che portano a “riscriverlo” — sono storicamente determinate: praticabili in un dato contesto storico, sociale, istituzionale; impossibili in un contesto diverso.

Non basta però notare il nesso che unisce determinate interpretazioni a particolari situazioni storiche, e si deve sottolineare anche la funzione politico-ideologica assolta dalla critica letteraria. Macherey e Balibar sostengono a questo proposito che la “letterarietà” è un particolare effetto ideologico, la cui funzione principale sta nel riscrivere insanabili contraddizioni sociali in un linguaggio estetico-letterario — e cioè in termini di “stile”, “unità d’effetto”, “valore artistico” ecc. — che ne prefigura

la risoluzione immaginaria.8° Per quanto tale formula possa essere discutibile se assunta a valore universale, essa descrive assai bene l'ideologia letteraria che si afferma tra le due guerre mondiali tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, e che concepisce appunto la letteratura come “soluzione” a implacabili contraddizioni politiche — come baluardo culturale .contro l’imbarbarimento prodotto dalla società industrializzata, la lotta di classe, il frantumarsi dei vecchi ideali e dei vecchi modelli sociali. Se in

America mancano figure del peso di Eliot e Leavis, i critici che si propongono di reinterpretare la letteratura americana si muovono in una direzione analoga. Protestando contro il vecchio approccio positivista dei manuali tradizionali, Pattee scriveva: “always the same list of biographical facts with emphasis upon the picturesque, always the repetition of a standard series of well worn myths”. Per battersi contro l’idea che gli stu-

renderà disponibili materiali sconosciuti ai critici del “Melville revival” (merita a questo proposito di essere ricordato il lavoro svolto da Howard P. Vincent, Jay Leyda, Hershel Parker). Questa situazione può servire da esempio di come la volontà di potenza dell’interprete si trovi a dover fare i conti con una realtà testuale che, concretamente, gli si oppone. Resta peraltro da notare che lo studio sul “Melville revival” della Spark, citato sopra alla nota 67, solleva dubbi sulla buona fede tanto dei critici degli anni ‘20 che di quelli successivi. 9 “Literature as an Ideological Form: Some Marxist Hypothesis”, Praxiîs, 5 (1980),

pp. 43-58.

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di letterari si dovessero accontentare di enciclopediche classificazioni a imitazione della botanica o della zoologia, occorreva concepire la letteratura stessa in modo diverso, come chiedeva Harry Hayden Clark: the student of American letters is engaged primarily in interpreting American letters, and [...] while one admits that his field is but a part of a larger whole, and has meaning only in relation to the current trends of human society, yet the literature itself remains the true subject, and the proper focal center is finally the acknowledged masterpieces.... We are truly concerned primarily with the history of a selection of what, judged by the timeless and international canons of art, can be called literature.90

Ecco dunque che un oggetto nuovo viene a costituirsi — la “letteratura americana” — che non deve comprendere indistintamente tutti i testi sino ad allora prodotti, ma solo quei “capolavori” la cui grandezza sarebbe non relativa ma assoluta. La classicità di un dato testo sarebbe perciò non storicamente prodotta, ma calcolata in base a parametri “eterni” e “internazionali”. Questa è la posizione caratteristica dell’ideologia dell’estetica, ed è in suo nome che Moby Dick viene rivendicato come testo “maggiore”, e cioè come testo “profetico”, “allegorico”, “epico”. Sia che il conflitto al centro dell’opera sia descritto come metafora della frattura tra scienza

e umanesimo (Mumford), della contraddizione tra idea-

lismo e sanguigna realtà materiale (Lawrence), o della lotta tra l'umanità e il fato (Freeman), l’effetto estetico del testo è sempre quello di proporsi come riconciliazione di tali spaccature. Paradossalmente, proprio quando si caratterizza il testo letterario come risposta a un disagio che è, in ultima analisi, di natura sociale, i critici negano al testo una dimensio-

ne storica per celebrarlo in nome di una grandezza estetica astrattamente simbolica. Persino Mumford e Lawrence, che pure partono da tesi esplicitamente socio-culturali sulla natura della realtà americana, quando si addentrano nell’analisi del testo negano che esso abbia alcuna valenza che non sia quella “artistica”. Così, quando Lawrence propone una lettura di Moby Dick come profezia dell’inevitabile disastro cui va incontro

90. PATTEE, Cît., p. 6; Harry Haypen Crark, “American Literary History and American Li-

terature”, in The Reinterpretation of American Literature, cit., pp. 193, 195.

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“our white mental consciousness”,

e come ammonimento a una civiltà

fanatica e maniacale sull’orlo dell’autodistruzione, non spiega mai, concretamente, in cosa consista tale fanatismo — da dove e come si produca,

perché Melville sia spinto a denunciarlo, o perchè minacci di portare il mondo alla distruzione. Eppure questi sono gli anni in cui in Europa un preciso “fanatismo maniacale” si accinge a trionfare, e proprio nel mezzo della tempesta nazifascista Melville inizierà a essere letto nel Vecchio Mondo. E appunto di questa scoperta europea di Melville ci occuperemo nel prossimo capitolo.

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CAPITOLO I L'EUROPA SCOPRE MELVILLE

Homme libre, toujours tu chériras la mer! La mer est ton miroir; tu contemples ton àme Dans le déroulement infini de sa lame,

Et ton esprit n’est pas un gouffre moins amer. Tu Tu Se Au

te plais à plonger au sein de ton image; l’embrasses des yeux et des bras, et ton coeur distrait quelquefois de sa propre rumeur bruit de cette plainte indomptable et sauvage.

Vous étes tous les deux ténébreux et discrets: Homme, nul n’a sondé le fond de tes abîmes; O mer, nul ne connait tes richesses intimes,

Tant vous étes jaloux de garder vos secrets! Et cependant voilà des siècles innombrables Que vous vous combattez sans pitié ni remord, Tellement vous aimez la carnage et la mort, O lutteurs éternels, o frères implacables! — Baudelaire, “Lhomme et la mer”

Poiché non è sembrato opportuno discutere della critica britannica separatamente da quella anglo-americana, nell’ambito di questo capitolo la Gran Bretagna non verrà considerata parte dell'Europa. Pur essendo l'atteggiamento inglese verso i testi melvilliani marcato sin dal principio da differenze interessanti rispetto a quello americano, i due discorsi procedono in qualche modo sempre di pari passo. Non solo tutti i libri di Melville, sino a Moby Dick incluso, videro la luce in Inghilterra prima che 103

in patria, ma lo stesso “revival” degli anni ‘20, come s'è visto, si avvalse di

importanti interventi inglesi come quelli di Freeman e Lawrence. Secondo alcuni l'Inghilterra avrebbe anzi sempre riservato una migliore accoglienza, sin dai tempi di 7ypee, alle opere di Melville e, alla fine dell’Ottocento — quando questi era pressoché ignorato in America — i britannici Henry Salt, William Clark Russell e Archibald Mac Mechan ne sottolineavano il valore. Bisogna però aggiungere che 7hbe Whale, questo il titolo della prima edizione inglese di Moby Dick, forse anche perché venne pubblicato senza l’epilogo che ci spiega come Ishmael scampi alla catastrofe finale, fu giudicato più severamente in Inghilterra che negli Stati Uniti. Inoltre, del più clamoroso insuccesso melvilliano — Pierre — non uscì un’edizione inglese, e la reazione d'oltreoceano all'opera si limitò ad una sola recensione (ostile) sull’ Athenaeum di Londra.! In ogni caso, la lingua comune, nonché i molteplici collegamenti tra le due realtà culturali, non paiono giustificare una trattazione separata della critica britannica nonostante essa vanti — nel caso di Lawrence, ad esempio — una sua indiscutibile originalità. Inghilterra a parte, già nell'Ottocento s’era discusso di Melville in Europa. Il francese Philarète Chasles, nel maggio del 1849, aveva dedicato un lungo saggio sulla Revue des deux mondes a Tybee e Omoo, ma soprattutto al “Rabelais americano” autore di Mardi. Nell’agosto dello stesso anno il saggio venne tradotto in inglese e pubblicato sul Literary World di New York. In Francia, però, la prima traduzione di un testo melvilliano non apparve fino al 1926, quando Theo Varlet tradusse 7ypee, mentre proprio questo stesso testo era stato tradotto in tedesco e in olandese già nel 1847 e, più tardi, in danese (1852), svedese (1879), e po-

1 Steven Manoux in Interpretive Conventions: The Reader in the Study of American Fiction (Ithaca, Cornell University Press, 1982, pp. 170-79) insiste sul maggior “professionalismo” e i criteri più sofisticati alla base delle reviews britanniche di Moby Dick rispetto a quelle statunitensi. Se però certe tradizioni letterarie erano maggiormente radicate in Gran Bretagna, non mi sembra che in America le violazioni formali e strutturali perpetrate dal testo vennero accolte con favore. Soprattutto alla luce di quanto scritto di recente da Nina Baym sui criteri di giudizio peculiari ai reviewers americani dell'Ottocento, piuttosto che “meno preoccupati da tradizioni letterarie” (come scrive Mailloux) questi si direbbero semmai interessati a tradizioni in parte diverse da quelle canoniche in Gran Bretagna (cfr. Nina Baym, Novels, Readers, Reviewers: Response to Fiction in Ante Bellum America, Ithaca, Cor-

nell University Press, 1984).

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lacco (1882). Traduzioni tedesche di Omoo e Redburn vennero pubblicate invece nel 1847 e nel 1850, rispettivamente. Non è sorprendente, na-

turalmente, che sia soprattutto il Melville esotico ad attirare inizialmente l'immaginazione europea, e anche in Italia è 7ypee il primo testo a essere tradotto (nel 1931). Di lì a un anno, però, Pavese darà alle stampe la sua memorabile traduzione di Moby Dick, e va sottolineato che versioni integrali di questo testo in francese e tedesco non appariranno che nel 1941 e nel 1946, rispettivamente. Negli anni ‘30 e ‘40, nonostante la tutt'altro che tranquilla situazione politico-sociale di Francia, Germania e Italia, altri testi melvilliani — in particolare “Benito Cereno”, Billy Budd e Pierre— vengono tradotti e commentati, ed è in questo periodo che possiamo situare la scoperta europea di Melville. Cosa spinge alcuni critici europei a interessarsi allo scrittore? In che modo lo fanno? A quali strategie discorsive fanno ricorso e in quale rapporto stanno queste ultime con quelle anglo-americane di cui si è sinora discusso? Cercheremo di rispondere a tali interrogativi per quanto riguarda la critica tedesca, francese ed italiana, cominciando da quest’ultima che, prima delle altre, af-

fronta subito il Melville di Moby Dick.

1. “Barbaro” e “greco”: Melville in Italia tra il 1931 ed il 1943 Già un anno prima che si rendesse disponibile la traduzione di Pavese, Emilio Cecchi pubblicava un breve saggio su Moby Dick, imitato a distanza di qualche mese da Carlo Linati. I loro giudizi su Melville non sono separabili da certe immagini dell'America che prevalgono tra gli intellettuali italiani negli anni ‘30 e ‘40. Occupandosi del “mito” dell’America coltivato in questo periodo da una buona parte dell’intellighenzia italiana, Dominique

Fernandez ha scritto che, tanto per Cecchi e Linati,

quanto per Pavese e Vittorini, “l’ America fu un pretesto, un laboratorio, quasi un’invenzione”.? La letteratura americana, nelle parole spesso citate di Pavese, fu “il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che

2 Dominique Fernanpez, // mito dell'America negli intellettuali italiani dal 1930 al 1950, Caltanissetta, Salvatore Sciascia, 1969, p. 9.

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altrove veniva recitato il dramma di tutti”.3 Ma se, nell’atmosfera asfis-

siante prodotta dal fascismo, l'America è per tanti oppositori del regime “un altrove, un antidoto contro la dittatura”, mentre Pavese e Vittorini

sono attirati (pur avendo spesso opinioni diverse su questioni specifiche) dalla vitalità, dal vigore e persino dalla “rozzezza” dell'esperimento americano, un uomo come Cecchi non riesce a condividere il loro entusia-

smo. Come ha notato Agostino Lombardo, “Cecchi tende a vedere tutta la letteratura americana sotto il segno di una barbarie sia pure geniale, e poi della reazione, della protesta, della violenza”, diversamente da Pavese e

Vittorini che pure trovano nell'America e nella sua letteratura qualcosa di “primitivo” e selvaggio, ma considerano questa barbarie “un fatto positivo [...) una nuova linfa da immettere nel corpo malato ed esangue della letteratura italiana”.5 Quanto scrivono Cecchi e Linati su Melville, e in particolare su Moby Dick, è comunque interessante. Il primo muove familiari obiezioni formali al testo — "capolavoro del Melville, ma opera caotica, che faticosamente dirama per una quantità di piani eterogenei ed è lumeggiata d’un misticismo convulsionario” ° — pur considerandolo come tipica espressione di una cultura americana dai risvolti mitici: “il Melville [...] diguazza in quella che fu l’idea madre dell'America nello scorso secolo: l’idea del contrasto fra l’uomo e la natura, continuamente assoggettata, e

pur invitta. [...] La vicenda forsennata del capitano Ahab [...] viene a corrispondere ai miti che stanno all’inizio della storia”. Molto simile è la posizione di Linati, che vede in Melville uno “strano vagabondo”, “un biz-

3 Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1953, p. 195. In questo volume è da leggere la bella prefazione di Italo Calvino (pp.xi-xxxiii). FERNANDEZ, Cit., p. 7.

5 Agostino Lomsarpo, “L'America e la cultura letteraria italiana”, Quaderni dell’Istitu-

to di Studi Nordamericani di Bologna, 3 (1981), pp. 21 e 24. Il saggio è una continuazione e un ampliamento di due scritti originariamente apparsi in Za ricerca del vero, e costituisce un’indispensabile introduzione al tema dei rapporti letterari tra Stati Uniti ed Italia. Sempre su questi temi vanno ricordati i seguenti contributi, tutti pubblicati sulla rivista Studi Americani: Ricuarp Chase, “Cesare Pavese and the American Novel”, 3 (1957), pp. 347-70; Nemi p’Acostno, “Pavese e l’America”, 4 (1958), pp. 399-413; Vito Amoruso, “Cecchi, Vittorini, Pa-

vese e la letteratura americana”, 6 (1960), pp. 9-71; e infine il saggio bibliografico di MariaLUISA Bicruiae “La letteratura americana in Italia”, 10 (1964), pp. 443-95. 6 Emio Ceccri, “Moby Dick’, saggio del 1931 poi raccolto in Scrittori Inglesi ed Americani, Lanciano, Carabba, 1935. Tutte le citazioni sono dalle pp. 24-29 di questa edizione.

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zarro Viaggiatore”, “un coraggioso predecessore dello Stevenson”.? Nonostante ciò, Moby Dick non è semplice documento esotico: è un “libro potente”, “allucinante, fuori classe, che unisce alla scientifica limpidezza, cara all’oppiomane De Quincey, una fastosità pittorica e rappresentativa che ricorda l’Apocalisse”. E ancora: “pare di essere trasportati, scorrendo queste pagine, in una natura diabolica di lemuri, in un inferno acquatico di fantasmi”. Tutto il terrore e l’angoscia di cui è carico il testo provengono da una visione non tanto simbolica, quanto primitivo-naturalistica, dell’universo, e Melville è visto come una sorta di Omero americano che celebra i misteri di una natura ancora primordiale e oramai persa per l’uomo moderno: “il mondo, così prodigo oggi di scienza e di audacie umane, purtroppo non ha più i suoi poeti a cantarlo” e sono scomparse per sempre quelle navi che, come il Pequod, “recavano la fede ingenua dei cuori nel mistero e nella profonda bellezza dell’universo”. Anche un altro grande protagonista del dibattito italiano sulla letteratura americana — Vittorini — recensendo la traduzione di Pavese, tende

a esaltare il realismo dell’opera, la “facoltà d’incanto dinanzi alla natura che fa [del testo...] anzitutto un ‘documento lirico’ dell’esistenza della caccia sull’oceano”.8 Il lettore, per Vittorini, crede sul serio al Pequod che incrocia pei tre oceani Atlantico, Indiano e Pacifico alla caccia dei capodogli, al meraviglioso e al tragico di questa crociera; e non crede che poco, o con molto meno intensità, e non perchè sia falso alla vita, al tetro accanimento di Achab contro il demone bianco Moby Dick nel quale sente un “di più” di meraviglioso e tragico che lo disturba, un di più cerebrale.

Anche per Vittorini, dunque, c’è qualcosa di “barbaro” e elementare in Melville, un atteggiamento “che è veramente omerico o biblico, insomma, primitivo”, che non è però da osservare con l'ammirazione un

po’ distaccata di chi, come Cecchi o Linati, ne lamenta l’ingenuità, ma va ricondotto a una dirompente modernità melvilliana. Come lo stesso Vittorini avrebbe scritto più in là sul Politecnico, “la letteratura americana è

7 Carto Lmam, “Melville”, Scrittori Anglo-Americani d'oggi, Milano, Corticelli, 1932. Tutte le citazioni sono dalle pp. 131-38 di questa edizione.

8 Euo Virrorni, “Moby Dick di Herman Melville”, Pegaso, 5 (1933), pp. 126-28.

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l’unica che coincida, dalla sua nascita, con l’età moderna e possa chiamarsi completamente moderna. Tutte le altre letterature conservano, pur nei loro aspetti contemporanei, caratteri umanistici e medievali”.? Cecchi e Linati ricordano, da un lato, quei critici che non riescono a fare a meno del “Marquesan Melville” — com'è evidente nell’idea di Linati che Melville sia un predecessore di Stevenson, ma soprattutto nella convinzione che i tratti “barbari” presenti anche in Moby Dick siano il portato di una sensibilità non sofisticata e primitiva che riesce ancora a stupirsi dinanzi ai misteri della natura. Dall’altro lato anch’essi mettono l’accento sulla dimensione quasi mitica di Moby Dick, ma la mitologia che vi vedono all’opera è una mitologia dal sapore antico e non — com'è invece per Mumford o Lawrence, o, in parte, per lo stesso Vittorini — una mitologia dell’era moderna. Cecchi e Linati guardano a Melville, e alla cultura americana tutta, fermamente convinti della superiore maturità della cultura europea. Qui la loro affinità con un critico come Eliot è indiscutibile, e basterà ricordare quanto quest’ultimo scrive nel saggio “Cos'è un classico?”: “se c'è una parola che può fissare, che meglio suggerirà ciò che intendo col termine ‘classico’, questa è la parola maturità [...]. Un classico può nascere solo quando una civiltà è matura; quando il linguaggio e la letteratura sono maturi; e deve essere l’opera di una mente matura”.!° Come può la non sofisticata immaginazione americana esprimere più di un interessante, ma pur sempre infantile, vigore primitivo? Val la pena di notare, a proposito dell’aggettivo “omerico” adoperato da Vittorini, che Eliot aveva appunto insistito sulla superiorità della cultura romana classica dell’età augustea rispetto a quella del mondo omerico. La prima è frutto di “un mondo di dignità, ragione e ordine più civilizzato” del secondo, ancora marcato da tratti “adolescenziali”, e la cui “immaturità” è forse riassunta dall’incerto errare del “vagabondo” Ulisse.!!

La modernità di cui parla Eliot deve assolvere i compiti restauratori di

? Citato in Fernanpez, cif., p. 53. Si tratta del numero 33-34 (1946) del Politecnico. 10 T. S. Fuor, “What is a Classic?”, On Poetry and Poets, London, Faber and Faber,

1957, pp. 54-55. Come vedremo nel corso del prossimo capitolo, Matthiessen insisterà in modo particolare sulla “maturità” dell'Ottocento americano, impiegando in parte l’ideologia eliotiana nei confronti di una letteratura che Eliot stesso non sembra invece considerare “matura”.

!! Si veda a tale proposito il saggio di Euor “Virgil and the Christian World” e, per

un'interessante critica, la lettura “distruttiva” di Wixuam V. Spanos, “The Apollonian Invest-

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una cultura “classica”,

e non certo sovvertirla, come desidererebbe Vitto-

rini. Eliot non nega al mondo omerico un suo fascino “primitivo”, e anche Cecchi e Linati scorgono qualcosa d’interessante nel vagabondo Melville: una rozzezza che può anche avere effetti positivi nello scuotere una cultura letteraria italiana su cui grava il peso della dittatura e del préziosismo simbolista e decadente, ma che, in sé, non può essere assunta a valore e andrà poi necessariamente superata. Come scrive Linati, in una

pagina che esalta eliotianamente la “tradizione”: La civiltà europea [...] ha dietro di sé millenni di storia, masse di trasformazioni politiche e morali, rivoluzioni, lotte nazionali, crolli e ri-

nascite d’imperi, immensi travagli di religioni, di costumanze, di ideologie e tutto un passato di creazioni estetiche meravigliose [e...] ha raggiunto un suo tipo di civiltà perfettal...). L'anima dell’europeo [...aspira] alla grazia della cultura, alla dolcezza dell’emozione. Vive di pensieri, di aneliti, di passioni; del suo genio artistico, musicale e poetico, non solo si gloria ma si nutre, la tradizione è la sua seconda natural...]. L’americano, invece, è di natura sprovvisto di radici.!2

Quanto “perfetta” si dovesse rivelare la civiltà europea sarebbe risultato chiaro nell’orribile carnaio del conflitto mondiale, ed è proprio da chi, come Pavese, è molto più scettico sulle “magnifiche sorti e progressive” della cultura europea, che scaturiscono i giudizi più originali su Melville. Linati aveva definito Melville un “erudito selvaggio”, e gli aggettivi erano da intendersi uno in contrapposizione all’altro. Quando Pavese parla di Melville come “baleniere letterato”, “barbaro” e “greco”, non è per offrircelo come esempio di uomo in contraddizione con se stesso, ma come figura quasi ideale in grado di riconciliare ciò che la cultura dominante percepisce come esperienze divaricate.!5 Pavese contrappone

ment of Modern Humanist Education: The Example of Matthew Arnold, Irving Babbit, and I. A. Richards”, Cultural Critique, 2 (1985-86), pp. 104-34, in particolare pp. 123-29.

12 Citato in Lomsarpo, cit., p. 23. 13 Tutte le citazioni sono dalle pp. 77-97 di Pavese, cit., che raccoglie i tre pezzi scritti su Melville da Pavese tra il ‘32 e il ‘41. “Melville è soprattutto per Pavese l'esempio di come si possa fare grande arte senza rifiutare letteratura e cultura, di come poesia sia intelligenza e fantasia, di come si possa essere artisti moderni tuffandosi nella vita barbara e non per amore dei paradisi artificiali dei decadenti, ma per razionalizzare questa ‘fuga’ dal reale, per sanare la divisione tra letteratura e vita” (Amoruso, cit., p.55)

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Melville a Stevenson (e a Gauguin e Rimbaud) — eroi di una cultura “decadente” e “malata di civiltà” — perché Melville “ha vissuto prima le avventure reali, il primitivo, è stato barbaro prima e nel mondo del pensiero e della cultura è entrato in seguito portandovi la sanità e l'equilibrio acquisiti nella vita vissuta”. Pavese, che pure non nomina esplicitamente Cecchi e Linati, pensa quasi certamente a loro quando insiste che, in Melville, il selvaggio e l’uomo di cultura convivono senza problemi, almeno

per quanto riguarda Moby Dick. “l'ideale di Melville culmina in Ismaele, un marinaio che può remare coi colleghi illetterati mezza giornata dietro ad un capodoglio e che poi si ritira sulla testa d’albero a meditare Platone”. E Pavese è, non a caso, il primo tra gli italiani a insistere sullo spessore culturale del maggior testo melvilliano, sottolinenando — ancora prima degli studi di F. O. Matthiessen e Charles Olson — le influenze bibliche e elisabettiane. Un greco veramente è Melville [...], che nén si vergogna di cominciare Moby Dick, il poema della vita barbara, con otto pagine di citazioni, e di andare innanzi discutendo, citando ancora, facendo il letterato, e vi si allargano i polmoni, vi si magnifica il cervello, vi sentite più vivo e

più uomo. E, come nei greci, la tragedia (Moby Dick) ha un bell’essere fosca, è tanta la serenità e la schiettezza del coro (Ismaele) che dal

teatro si esce sempre esaltati nella propria capacità vitale.

Pavese, spesso considerato come intellettuale che guarda all’ America con gli occhi del mito, è qui più realista di Cecchi o Linati perché ben comprende che la cultura americana non parte da un mitico grado zero ma dal seicento inglese e dal puritanesimo, e che Melville è un barbaro che ha letto e meditato non solo la Bibbia, ma Sir Thomas Browne.

Per questo Pavese (come Forster, Lawrence e altri) ricorda al lettore che Moby Dick non va considerato “un curioso romanzo d’avventure”. “Benché si tratti di un’opera ispirata da esperienze di vita quasi barbarica, ai confini della terra, Melville non è mai un pagliaccio che si metta a fingere anche lui il barbaro e il primitivo, ma, dignitoso, coraggioso, non si spa-

venta di rielaborare quella vita vergine attraverso lo scibile di tutta la terra”. La grandezza di Moby Dick non sta solo nel suo elevare un materiale in sé “rozzo” a dignità estetica. Come rappresentante più degno della letteratura americana dello scorso secolo il testo è testimone di quel “desiderio di una cultura propria, di una tradizione” che caratterizza la storia 110

americana, e che non si può non ammirare. “Poiché avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla”. Quando una tradizione non viene “cercata”, non viene cioè messa al servizio del presente per fini davvero degni, essa può trasformarsi in un ostacolo, una zavorra di cui è meglio liberarsi. Viceversa, una tradizione apparentemente “povera” come quella puritana, se usata intelligentemente, può fornire quell’ “ispirazione biblica” che pervade Moby Dick e ne fa “un vero e proprio poema sacro cui non sono mancati né il cielo né la terra a por mano”.

Seguendo l’esempio di Forster, anche Pavese non cerca di decifrare il mistero di Moby Dick. “Non c’è nulla da scoprire sotto la Balena Bianca. Il suo pauroso significato sta appunto in questo che significa un vuoto, un nulla, una forza bruta, oppure un agente inconoscibile (che viene ad essere lo stesso)”. Come Pavese scriverà nel ‘41, ritoccando il suo saggio, “Moby Dick rappresenta un antagonismo puro” il cui mistero è prima di tutto “il sacro mistero del Male”. Non ultimo dei meriti melvilliani è aver lasciato “indefinito il senso della sua allegoria” e a questo proposito Pavese, quasi anticipando un’interpretazione decostruzionista del testo, nota l’affinità che verrebbe a saldare l’investigatore ansioso di svelare il mistero della Balena al monomaniaco Ahab, dato che il “furore conosci-

tivo” di quest'ultimo è tutt'uno col suo desiderio di arpionare Moby Dick. AI di là della genialità delle intuizioni di Pavese, occorre ricordare che le sue parole acquistano particolari risonanze se inserite nel contesto culturale determinato in Italia dalla dittatura, dove lodare un autore ame-

ricano e polemizzare con la “tradizione” voleva dire sfidare il conformismo fascista. Nella critica pavesiana la celebrazione di Melville è anche questo: un momento di insubordinazione intellettuale. Certo, si tratta di una trasgressione che non manca di tratti idealistici e Pavese, come ci ricorda Italo Calvino, non è assolutamente immune da influenze crociane

che lo portano a volte a contrapporre i valori “poetici” e “universali” del testo alla loro dimensione storico-sociale. È significativo però che Melville, assieme ad altri scrittori americani, venga visto come momento di rottura della presunta unitarietà della cultura occidentale che Pavese, diversamente da Eliot, non ricompone nel segno della “European mind”, ma neppure contrappone al suo semplice rovescio, cioè ad un barbarismo puro. Moby Dick è un libro “enorme” perchè si serve della cultura e delle tradizioni letterarie da un punto di vista nu0v0, innestandole su una 111

realtà semplice, primordiale, satura di vita vera.!4 Non è casuale in fin dei conti che quel che Pavese ammira di più in Moby Dick è il genio melvilliano in grado di concepire una tale sintesi. Eppure, di lì a poco (9 maggio 1947), Pavese dichiarerà “finiti i tempi in cui scoprivamo l'America”, e proprio nel momento in cui “la presenza della letteratura americana si fa straripante”, cesserà di occuparsene con regolarità.!5 La fase in cui l’America e la sua letteratura erano state strumento di una battaglia culturale contro la dittatura era conclusa. Nell’immediato dopoguerra ha inizio un processo di “americanizzazione” della vita e dei costumi italiani che è quanto di più distante si possa immaginare da quel “bisogno d’America” che avevano manifestato i Vittorini e i Pavese, mentre la letteratura americana perderà mano a mano la sua patina di barbarie e assurgerà, nel dopoguerra, a disciplina accademica. Melville verrà tradotto, studiato, esaminato sempre più da vicino

divenendo, col passare degli anni, sempre meno “baleniere” e sempre più “letterato”.

2. Melville filosofo: la critica tedesca tra il 1937 ed il 1946 Un altro paese in cui la letteratura americana venne recepita in un contesto dominato, ancor più che in Italia, da una cultura totalitaria, fu la

Germania. Ciò che può risultare in parte sorprendente non è tanto che in

14 A un'elaborazione di diversi spunti presenti nei saggi di Pavese su Moby Dick dedica la sua tesi di laurea del ‘41 Fernanpa Prvano — tesi poi pubblicata sulla rivista Convivium nel ‘43. Pivano insiste soprattutto sullo spessore simbolico del linguaggio di Melville e sul corposo retroterra culturale del testo, chiarendo anche il senso in cui il materiale dell’opera ha qualcosa di mitico. “Raccontare la crociera del Peguod è un po’ come raccontare quella degli Argonauti o le imprese di Prometeo o di un Ercole [...]. Messe da parte [...] sia l’arte del costruttore che la sua stupenda ricchezza espressiva, resta pur sempre nella favola di Moby Dick un nucleo di meri ‘fatti’ semplici e grandiosi, che hanno tutta la suggestione di quei miti” (“Moby Dick di Herman Melville”, La Balena Bianca e altri miti, Verona, Mondadori,

1961, pp. 9-69). La parte più originale del saggio è forse quella dove Ahab viene analizzato come “una delle più convincenti incarnazioni del dissidio romantico”, personaggio legato da un lato al “titanismo idealistico ed eroico” e dall’altro alla “limitata razionalità positivistica”. Ahab resterebbe comunque un personaggio credibile e non una figura allegorica o una caricatura com'è invece il caso del “melodrammatico” profeta Fedallah. 15 Lomarpo, cit., pp. 30-31.

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pieno nazismo si sviluppasse una vera e propria voga dei libri stranieri, e, in particolare, americani, quanto che le autorità di censura non cercas-

sero di ostacolare, oltre un certo limite, il loro afflusso in Germania.!6 Va

ricordato, in primo luogo, che nell'Ottocento le traduzioni di libri americani e inglesi erano state sempre accolte con favore dal pubblico tedesco, e che quest'ultimo era tradizionalmente ben disposto verso le letterature straniere. Le autorità naziste, ovviamente, non potevano essere en-

tusiaste di tale situazione ma, di fronte a una sorta di resistenza passiva o di semplice noia del pubblico nei confronti della letteratura propagandistica del regime, preferirono allentare la morsa dei controlli e lasciare aperta la valvola di sfogo dei libri stranieri. Secondo alcuni, paradossalmente, fu addirittura il programma politico-culturale nazista a incoraggiare in una certa misura l’interesse verso le letterature di altri paesi. “Poichè il programma razziale del movimento sottolineva la comunità dei tedeschi sparsi per tutto il mondo, l’attenzione era costantemente rivolta verso i tedeschi residenti all’estero”, e tale situazione favoriva la circola-

zione di libri stranieri.!” Naturalmente, quando un’opera straniera veniva recensita, i critici dovevano sforzarsi di rendere omaggio al punto di vista del regime, ma la lode di un testo non tedesco non era da interpretarsi automaticamente come un’atto di ribellione culturale. Quando nel 1938 apparvero in Germania le traduzioni di “Benito Cereno” e Billy Budd, i testi piacquero anche al fervente critico nazista Will Vesper. Questa particolare situazione contribuisce a chiarire per quali ragioni, in Germania, Melville o altri scrittori stranieri non furono appropriati da una critica militante simile a quella pavesiana. Il che non vuol dire che il consumo di letteratura straniera in Germania negli anni ‘30 e ‘40 non avesse valenze politiche; è fin troppo chiaro che, di fronte al programma culturale nazista, la letteratura di altri paesi rappresentava una boccata d’ossigeno. Del resto non è probabilmente casuale se furono

16 Questa sezione si avvale dei seguenti lavori: Harro H. Kurnetr, “The Reception of Herman Melville’s works in Germany and Austria”, Innsbrucker Beitrage zur Kulturwissenschafî, 4 (1956), pp. 111-121; Crariorte Weiss Mancotp, “Herman Melville in German Criticism from 1950 to 1955”, Ph. D. dissertation, University of Maryland, 1959; Lawrence Mar-

spen Price, The Reception of US Literature in Germany, Chapel Hill, North Carolina Univer-

sity Press, 1966, soprattutto pp. 127-130. 17 Manconp, cit., p. 80.

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proprio “Benito Cereno” e Billy Budd, storie tragiche di uomini messi nella situazione di non potersi esprimere perché costretti a recitare una parte che altri hanno deciso per loro, a essere tradotte e ben accolte nella Germania nazista. Secondo Leland Phelps, letture in chiave di allegoria politica di questi due testi si fanno esplicite solo nella critica del dopoguerra, ad esempio in /m Umbruch der Zeit di Herman Pongs — dove la situazione a bordo della San Dominique è paragonata a quella della Germania nazista — o in Ex Captivitate Salus— dove il filosofo e politologo Carl Schmidt vede riflessa nella condizione di Don Benito nelle mani di Babo quella degli intellettuali tedeschi nelle mani del totalitarismo nazista.!8 In ogni caso anche la definizione di “Benito Cereno” proposta da Erman Stresau nell’anno della sua pubblicazione in Germania (1938) come “la più grandiosa incarnazione della natura inquietante e ambigua dell'essere” sembra suscettibile di interpretazioni politiche. Ècomunque vero che sia Stresau sia un altro critico, Adolf Heckel, propongono più una lettura simbolico-filosofica che politica tanto di “Benito Cereno” che di Billy Budd. Per entrambi Melville è innanzitutto un uomo affascinato dai misteri dell’esistenza umana, un uomo dolorosamente cosciente degli incerti confini che separano il bene dal male, e che per questo non prova a svelare direttamente quello che Stresau definisce il Mysterium tremendum, ma vuole solo ricordarcene l’esistenza.!? Melville non crede nel

progresso e, confermando un approccio che in ambito germanico già s’era manifestato negli accenni al “Kultur-pessimismus” melvilliano dello svizzero Henri Ludecke, anche Stresau vede in Melville l'esponente di un “Ur-conservatorismo tipico di una fase pre-culturale e pre-civilizzata”, e

18 Leranp R. PHÒrts, “The Reaction to Benito Cereno and Billy Bud in Germany”, Symposium, 13 (1959), pp. 294-99. Interessante anche quanto scrive lo stesso Phelps in un altro saggio: “Non è forse un caso che le tre opere di Melville che hanno maggiormente suscitato interesse in Germania hanno a che fare con dei prigionieri. Billy Budd viene trasferito a forza dalla sua nave ‘The Rights of Man’, a una nave da guerra dove diviene un vero prigioniero colpevole di omicidio e quindi giustiziato. In Benito Cereno, il capitano spagnolo diventa un prigioniero degli schiavi della sua stessa nave negriera. In Moby Dicki membri dell'equipaggio del Pequod non sono prigionieri nello stesso senso in cui lo sono Billy Budd e Benito Cereno, ma essi sono pur sempre legati a una nave dalla quale non hanno la

possibilità di fuggire” (‘Moby Dick in Germany”, Comparative Literature, 10 [1958], p. 355). 19 Mangorn, cit., pp. 84-93, e 94-99. Il saggio di Stresau era apparso sulla Europaische Revue; quello di Heckel su Der Buckerwurm.

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accosta Melville a Kleist.?° Forse soprattutto nelle reazioni nei confronti di Billy Budd è evidente quanto in Germania, diversamente da quello che accadeva all’epoca in ambito anglo-sassone, o in Italia, ci si interessi soprattutto al Melville “filosofo” e “metafisico” — e c’è chi scorge paralleli tra la vicenda di Billy Budd e quella del principe di Homburg di Kleist. Quando finalmente crollerà la dittatura, in Germania come in Italia l'esigenza di un rinnovamento culturale si farà immedatamente sentire. Se da un lato si può pensare che in un paese distrutto economicamente, politicamente e moralmente i tempi non fossero propizi per avventurarsi in imprese editoriali, le forze di occupazione statunitensi avevano tutto l'interesse a propagandare la propria cultura nazionale. Inoltre, il vuoto intellettuale ereditato dal nazismo favorì notevolmente lo straordinario interesse per gli autori americani, come dimostrato dall’entusiastica reazione di pubblico e critica alla prima traduzione integrale di Moby Dick?! Già nel 1930 Carl Jung aveva richiamato l’attenzione su Moby Dick, definendolo non solo il più grande romanzo americano, ma anche un testo suscettibile di interessanti indagini psicoanalitiche. A giudicare dalle reazioni suscitate dalla prima edizione tedesca, di Moby Dick colpì però soprattutto la dimensione speculativa, le digressioni metafisiche, il suo spessore simbolico. Egon Vietta, uno dei critici più influenti della Germania post-bellica, accosta per esempio Melville a Dostoevskj, e si sofferma poi sulla “metafisica” del primo, mentre Hubert Greifender avanza l'ipotesi che i testi melvilliani, e in particolare Moby Dick, possano essere visti come paradossi nel senso che tale termine ha per Kierkegaard: “Si potrebbe interpretare la poesia di Herman Melville come un paradosso nel senso kierkegaardiano del termine. Essa non rappresenta tanto la testimonianza di una bravura artistica — per notevole che sia questa bravura — quanto una metafora dell’essere”.?22 Hein Gunter Oliass affianca in-

20 Manconp, cit., pp. 64-65 (su Ludecke) e pp. 91-93 (su Stresau). 21 Circa le ragioni dell’insuccesso della versione ridotta di Moby Dick, pubblicata in Germania nel 1927, vedi Preis, “Moby Dick in Germany”, cit., pp. 349-52. La Mangold, a proposito del successo della versione integrale del ‘46 scrive: “l'atmosfera post-bellica indubbiamente rese i critici più pronti a recepire lo spirito pessimistico e l’idea del male che pervadono Moby Dick"Manconp, cit., p. 381). 22 Per il primo studio articolato del rapporto Kierkegaard-Melville si deve attendere A Reading of Moby Dick di M. O. Percivat, New York, Octagon, 1950.

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vece Moby Dick alle Affinità Elettive, Il Rosso e il Nero, Guerra e Pace, ma soprattutto nota importanti somglianze tra Melville e Kafka. Melville, per la critica tedesca, non va inquadrato nel romanticismo ottocentesco ma piuttosto nella corrente filosofico-letteraria dell’esistenzialismo.# Se certamente un tale approccio veniva incoraggiato dal fatto che Melville era per i tedeschi soprattutto l’autore di Moby Dick, “Benito Cereno” e Billy Budd, merita di essere notato che anche il primo studio accademico su Melville che appare in Germania — e si tratta in assoluto del primo libro straniero su Melville — lo considera innanzitutto un “pensatore”. In Melvilles Gedankengut, K. H. Sundermann distingue tre categorie principali di idee rintracciabili nei diversi testi — quelle di natura religiosa, di natura filosofica, di natura storica — che suddivide poi in numerose categorie secondarie. L’intero progetto è alquanto paradossale. Prima Sundermann ammette — e ne rimane perplesso — che Melville non costruisce un “sistema di pensiero” coerente; poi cerca di tracciare diligentemente una mappa della visione del mondo dello scrittore, e cioè delle sue “idee fondamentali”. In una divertente recensione del libro di Sundermann, Charles Olson nota che l’autore, nello sforzo di considerare Melville “un

poeta-filosofo” dimostra “una pazienza da Ph. D. e una precisione da macchina calcolatrice” che non lasciano spazio per il Melville artista. È chiaro che uno scrittore affascinato dalle ambiguità e dalle contraddizioni dell’esistenza umana non poteva essere facilmente “catalogato”, e lo stesso Sundermann definisce Melville un “universaler Eklektiker” la cui visione del mondo è fondamentalmente pessimista.?4 Al di là dei suoi meriti specifici il lavoro di Sundermann conferma l'interesse sollevato in Germania dal Melville filosofo, tragico, “esistenzialista”. Come s’è visto, prima “Benito Cereno” e Billy Budd, poi lo stesso Moby Dick, sono spesso letti come testi direttamente rilevanti per l’atmosfera politico-culturale del momento non solo quando vengono interpretati come allegorie politiche, ma anche quando l’interesse si appunta

23 H. G. Ouass, “Herman Melville”, Welt und Wort, 6 (1951), pp.221-24. Oliass nota in particolare una similarità tra la lotta di “K” nel Castello e quella di Ahab. 24 K. H. Sunperman, Herman Melvilles Gedankengut: Eine kritische Untersuchung seiner weltanschaulichen Grundideen, Berlino, 1937. Per la recensione di Orson si veda il

New England Quarterly, 12 (1939), pp. 154-56.

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sui loro risvolti simbolici e filosofici. Melville viene perciò ad essere visto prima di tutto come un contemporaneo, uno scrittore la cui sfortuna ottocentesca pare qualificarlo come degno di essere riabilitato nel nuovo secolo. La critica tedesca su Melville tra la fine degli anni ‘30 e l’inizio degli anni ‘50 esalta prima di tutto la dimensione filosofica (e pessimista) di alcuni suoi testi, tracciando la via per le indagini più approfondite che, non solo in Germania, si orienteranno in tale direzione. In secondo luogo si impegna a elevare il prestigio internazionale di Melville, attirandolo sempre di più nell’orbita della “grande” letteratura mondiale, contestualizzando la sua opera in un ambito ben più ampio e “di valore” (si pensi agli accostamenti a Kafka, Kleist, ecc.) di quanto, eccezion fatta per Mumford e Forster, tanti critici americani ed inglesi avessero sino ad allora fatto.

3. Melville in Francia da Jean Giono ad Albert Camus

Come accennato in precedenza, Moby Dick diviene accessibile al pubblico francese solo nel 1941 con la traduzione dello scrittore Jean Giono, alla quale collaborano Lucien Jacques e Joan Smith. Ma già nel ‘39 Jean Simon, professore d’Inglese all’università di Lille prima, e di letteratura e civiltà americana alla Sorbona, poi, aveva pubblicato Herman Melville, marin, métaphysicien et poéte, un imponente volume di oltre seicento pagine, diviso in tre parti dedicate rispettivamente alla vita, le opere e l’’originalità” dello scrittore.?° Se Simon contribuisce a far decollare il nome di Melville nell’accademia francese, la traduzione di Moby Dick, assieme a un volumetto dal titolo Pour saluer Melville, dello stesso

Giono, lo fa conoscere ad un pubblico più vasto. Secondo alcuni quel che Giono ha fatto per Melville è da paragonarsi a quanto Baudelaire ha

25 La traduzione esce presso Gallimard. Sulle circostanze che accompagnarono la traduzione si veda Maxwelt A. Sita, Jean Giono, New York, Twaine Publishers, Inc., 1966, pp. 109-11. Alcune critiche alla qualità della traduzione sono sollevate da Henry YraceRr, La Fortune Littéraire d'Herman Melville en France, Presses Universitaire de Liège, 1978, pp.

66-67. 26 Su Simon si veda Yracrr, cit., pp. 58-63. Del libro di Simon rimangono pochissime copie: la maggior parte andarono distrutte durante la guerra.

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fatto per Poe, e se francamente il parallelo appare un po’ esagerato, si deve riconoscere che è proprio il lavoro svolto da Giono ad attirare l’attenzione di Sartre, di Blanchot e di Camus su Melville.?7

Pour saluer Melville, per esplicita ammissione del suo autore, non è un lavoro animato da preoccupazioni di rigore scientifico, ma principal mente un’opera di fantasia; una sorta di novella che trae spunto dal viaggio compiuto in Europa da Melville nel 1849-50, alla vigilia della stesura di Moby Dick. Nel libro si narra come lo scrittore americano, dopo aver discusso col suo editore londinese i dettagli riguardanti la pubblicazione di Wbite-Jacket, decida di recarsi a Woodcut, nei pressi di Bristol, per ingannare il tempo in attesa di rimbarcarsi per New York. Indossato un vestito da marinaio, “Melville” sale su una diligenza a bordo della quale incontra Adelina White, una militante impegnata a sostenere i ribelli irlandesi nella lotta contro la tirannia inglese. Tra i due si crea un rapporto di stima e affetto, e lo scrittore rimane colpito in particolare dalla personalità romantica e idealista di Adelina. Tornato in America, e in qualche misura stimolato dall'incontro con questa donna affascinante, con la quale mantiene una regolare corrispondenza, “Melville” compone il suo capolavoro. Ma improvvisamente Adelina gli comunica in una lettera — l’ultima — di essere ammalata, e lo scrittore continuerà sino alla fine dei suoi giorni a domandarsi se la donna abbia, prima di morire, ricevuto e letto la copia di Moby Dick da lui inviatale. Il libro presenta naturalmente motivi d’interesse per gli studiosi di Giono, e molti di meno per quelli di Melville.?8 Quasi tutto nella storia di Giono è frutto d’immaginazione, comprese le entusiastiche reazioni con cui i recensori ottocenteschi inglesi e americani avrebbero risposto alla pubblicazione di Moby Dick. Ma il libro, che Giono definisce un “omaggio”, quasi “un atto d'amore” verso Melville, oltre ad aver senz'altro contribuito ad alimentare l’interesse per Melville — presentato in parte come sognatore romantico, in parte come artista ribelle — contiene osservazioni

27 Il parallelo Giono-Baudelaire è proposto da Kuxnett, cît., p. 114. 28 Sull’importanza di Melville per Giono si veda, oltre a SmitH, cît., pp. 109-115,

KATHERINE ALLEN CLARKE, “Pour saluer Melville’, Jean Giono's Prison Book”, French Review, 35

(1962), pp. 478-83.

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interessanti, specie nelle pagine introduttive.?° Sottolineando la “attualità” di Melville Giono scrive: “L'uomo ha sempre il desiderio di qualche 0ggetto mostruoso. E la sua vita non ha valore se egli non la impegna interamente in tale ricerca”. Per Giono c’è, in ogni uomo, un’ansia non dissi-

mile da quella di Ahab — “ognuno ha i suoi oceani e i suoi mostri personali” — la cui gamba d’avorio è un simbolo di quelle “terribili mutilazioni interiori” che “irritano eternamente gli uomini contro gli dei”.3° Giono, sia come traduttore che commentatore di Moby Dick, introduce in Francia un Melville che sembra particolarmente adatto ad accendere l’entusiasmo degli esistenzialisti. Il breve ma denso saggio di Sartre su Moby Dick venne originariamente pubblicato proprio come recensione della traduzione di Giono. Sartre accenna ai meriti e ai limiti del lavoro svolto dal connazionale in poche frasi, concentrando l’attenzione su Melville. Definire entusiastiche le sue lodi per lo scrittore americano non basta; c’è qualcosa di più nelle parole di Sartre: una convinzione che Melville, nella sua fascinazione per le dinamiche dell’essere, sia un compagno di strada, un pre-esistenzialista. Una lunga citazione dal saggio è indispensabile: Non chiamiamo Moby Dick “questo capolavoro”. Chiamiamolo piuttosto — come Ulisse — ”quest'imponente monumento”. questo mondo ciò che vi colpirà per prima cosa è la sua za di colore [...]. Il mare non è né verde, né blu; è grigio, co. Soprattutto bianco, quando le barche danzano “sul

Se entrate in totale assennero o bianlatte cagliato

della spaventosa ira della balena?1...]. In Melville la bianchezza ritorna come un leitmotiv d’orrore demoniaco [...]. Melville soffre d’un daltonismo tutto speciale: egli è condannato a spogliare le cose della loro apparenza colorata; è condannato a vedere bianco [...]. Ma ciò che egli osserva non è il nulla, ma l’essere puro, la bianchezza segreta dell’essere [...]. Nessuno più di Hegel e Melville ha maggiormente sentito l'assoluto che è là, attorno a noi, formidabile e familiare....5!

29 “[Melville] è un ribelle perchè è un poeta”, scrive Giono in Pour saluer Melville, Paris, Gallimard, 1941, p. 78. 30. Giono, cit., pp. 8-9.

31 Jean Paut Sartre, “Moby Dick d’Herman Melville”, Comoedia, 1 (21 giugno 1941) ristampato in Zes Ecrits de Sartre, a cura di MicreL ContaT € MicHEl RyBALKA, Paris, Gallimard,

1970. Tutte le citazioni sono dalle pp. 634-37 di questa edizione.

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La modernità di Melville era già stata sottolineata da molti, ma nessuno aveva ancora avanzato l'ipotesi che Moby Dick fosse un testo moderno nel senso in cui poteva esserlo Ulisse, né alcuno aveva suggerito che, alla base dell’opera, vi fosse una Weltanschauung paragonabile a quella hegeliana. Forse neppure in Matthiessen, che pubblica American Renaissance proprio nel ‘41, è dato di trovare un’ammirazione per Melville paragonabile a quella sartriana. Dal punto di vista del rigore critico si può obiettare che Sartre non spiega come la prospettiva filosofica che lo entusiasma sia concretamente articolata nel tessuto del testo. Nel suo saggio c’è anzi una contraddizione: prima il celebre discorso di Ahab sulle “pasteboard marks” è citato come esempio dell’hegelismo melvilliano, poi la caccia del monomaniaco capitano e l’odio che la sprona sono tacciati di “un romanticismo un po’ fuori moda”, e ridotti a uno dei molteplici temi dell’opera. Poiché Sartre non menziona neppure Ishmael, non si capisce bene come Melville tenga assieme le diverse parti della storia, né come possa articolare un punto di vista narrativo in costante movimento.3? È d’altra parte interessante ricordare come Sartre giustifichi l’eterogeneità del testo, quella molteplicità di stili e linguaggi che tanti avevano bollato come un “minestrone”. Per Sartre il vero obiettivo di Melville è tutta la condizione umana. Per afferrare tale idea la tecnica del romanziere appare a Melville insufficiente. Tutti i mezzi espressivi gli appaiono legittimi: i sermoni, le orazioni, il dialogo teatrale, il monologo interiore, una vera o finta erudizione, l’epica — l’epica soprattutto. L’epica perchè il volume che contiene queste sontuose frasi marine, che si ergono e poi cadono come montagne liquide dissipandosi in immagini strane e superbe, è soprattutto un’epica.

Moby Dick è per Sartre un testo di una grandezza senza limiti: uno di quei rari capolavori che fanno storia a sé. Quest'impostazione è pienamente condivisa dalle pagine che un altro celebre francese dedica a Melville. Per Maurice Blanchot Moby Dick è

5 È invece proprio centrando la sua analisi su Ishmael che Paur Broptkors, Jr. sviluppa una lettura fenomenologico-esistenzialista di Moby Dick. Cfr. Isbmael’s White World, New Haven, Yale University Press, 1965, di cui ci occupiamo nel capitolo IV.

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“uno dei grandi libri della letteratura universale” perché cerca di essere un libro totale, che esprime non soltanto un’esperienza umana completa, ma che si propone come l’equivalente scritto dell’universo [...]. Si tratta di un modo di scrivere che tenta di rendere alla parola creazione il senso che può avere nell’espressione creazione del mondo. È un tentativo per attirare nella trama dell’opera, grazie a un uso rigoroso dei valori letterari, le potenze inconcepibili cui ci

avviciniamo con l’ausilio dei miti.33 Blanchot, che come Sartre accosta Melville a Joyce, scorge una di-

mensione mitica che non è tanto data dalla violenta passione con cui il monomaniaco Ahab si scaglia contro la Balena Bianca. Anche per Blanchot Melville indugia in una “bizzarria” e una “stranezza” forse eccessive nel tratteggiare Ahab, ma “ciò che conferisce una tale grandezza alla caccia di Moby Dick non è tanto la follia di Achab, il suo istinto divorante di vendetta, la malia del fascino che esercita sui suoi, quanto il carattere

enigmatico che attribuisce a Moby Dick e che trasforma il suo proposito in un sogno impossibile e fatale. Moby Dick è diventata per quest’eroe semidistrutto l'ostacolo fondamentale della sua vita”. Se Sartre aveva visto incarnati nella Balena i misteri dell'essere, Blanchot pare più d’accordo con Giono nel vederla soprattutto come mostruoso oggetto del desiderio — mostruoso ed irraggiungibile al tempo stesso. Cosa significhi la Balena è poco rilevante a confronto del suo essere motore della fatalità del desiderio di Ahab. Sforzarsi di “capire” cosa si celi dietro la Balena, provare a investigare “le secret de Melville” è, secondo Blanchot, contrario allo spi-

rito del testo. Moby Dick è un libro totale non perchè ricomponga armonicamente l'universo nel corpo del testo. Esso è, al contrario, “tutto in abissi, in vertici, in risvolti, in ripieghi, in spazi che si percorrono invano”. Fa-

cendo ricorso alle forme letterarie più disparate, “sembra che Melville [...] non può che smarrirsi”. Lo stesso linguaggio è come un flutto marino che, in un moto vorticoso, trascina colui che vi si lasci prendere

senza che sappia dove va e dove si perde [...]. La frase [...] attira l’at-

33. Maurice BrancHor, Faux Pas,(1941), tr. it., Passi falsi, Milano, Grazanti, 1976. Tutte le citazioni sono dalle pp. 260-64 di quest'edizione.

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tenzione nel suo solco sinuoso, la obbliga a una completa ubbidienza, le rende familiare una navigazione senza speranza e senza approdo, e il naufragio stesso non è più che un accidente insignificante rispetto a questa follia crudele del linguaggio che dice tutto e non dice niente, condannato infine al silenzio, dopo quelle sue orge di grida e di immagini, dalla semplicità del suo mistero.

Blanchot anticipa così il successo che, proprio in nome di categorie come quelle dell’indefinibilità, e soprattutto dell’ “indecidibilità”, Melville avrà presso quei critici che si richiamano a Derrida. A ulteriore conferma di questa inclinazione alle letture filosofiche, che i critici francesi condividono con quelli tedeschi, ci sono le pagine che un altro esponente dell’intellighenzia di quegli anni dedica a Melville. Camus, che legge e medita Melville a lungo prima di pubblicare il suo saggio del ‘52, sente di avere una profonda affinità con il collega americano.34 Egli si sofferma inizialmente su alcuni temi prediletti della critica melvilliana francese, definendo Melville “prima di tutto un creatore di miti”, e insistendo sulla “grandezza” anche letteralmente fisica dei suoi testi: “E a malapena più facile parlare in poche pagine di un’opera che ha la dimensione tumultuosa degli oceani dove essa è nata, che riassumere la Bibbia o condensare Shakespeare”.35 Camus, a differenza di altri, vuole

sottolineare che se Melville merita il titolo di “Homer du Pacifique”, non è solo grazie a Moby Dick. Secondo Camus non solo tutti i testi di Melville hanno caratteristiche comuni, ma egli “non ha scritto che lo stesso libro infinitamente ricominciato”. Il tema che ritorna ossessionante è quello del viaggio come ricerca, e a questo proposito Camus ha originali espressioni di lode per Mardi, “la prima e magnifica opera dove Melville dichiara aperta questa ricerca che non terminerà mai [...]}. È in quest'opera che Melville prende coscienza del richiamo affascinante che, senza fine, si agi-

ta in lui: ‘Ho intrapreso un viaggio senza mappa”. Moby Dick, pur nella sua unicità, “non farà che portare alla perfezione i grandi temi di Mard?.

34 In “Strangers in Melville and Camus” Leon S. Roupiez nota come temi simili a quelli dell’Etranger sono rintracciabili nell'opera melvilliana (French Review, 31 [1958], pp. 21726), mentre in “Camus and Moby Dick” (Symposium, 15 [1961], pp. 30-40) analizza la possibile influenza di Moby Dick sull’opera di Camus, in particolare La Peste. 35 Ausert Camus, “Herman Melville”, 7béàtre, Récits, Nouvelles, Paris, Gallimard, 1962. Tutte le citazioni sono dalle pp. 1907-11 di quest'edizione. Il saggio era originariamente apparso nel terzo volume dell’opera Les Ecrivains celèbres.

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Per Sartre l’affinità con Melville si situa principalmente al livello dell’’essere”; per Giono e Blanchot a quello del desiderio; per Camus senz'altro al livello dell’assurdità. Nel Mito di Sisifo Camus nota che “un atteggiamento assurdo, per restare tale, deve continuare ad essere cosciente della propria gratuità. È questo che distingue l’opera d’arte”. Per Camus Melville è un grande artista perchè resta sempre cosciente della gratuità della propria ricerca, dell’assurdità del veleggiare in un oceano che non ha punti di riferimento. Nell'opera di questo Omero americano, Ulisse “non ritrova mai Itaca”. Lo stesso Billy Budd, dove pure Camus vede una disponibilità alla “accettazione”, è incerto se stia a significare il raggiungimento della “pace e la dimora definitiva”, oppure un “ultimo naufragio”. Pur mostrando delle affinità con Kafka a livello della sensibilità, Melville gli è addirittura superiore per la concretezza del suo stile: “in Melville il simbolo emerge dalla realtà [...e] non è mai separato dalla natura, che resta oscura nell’opera kafkiana”. Già alcuni anni prima Camus aveva notato in Melville e nella letteratura americana dell’Ottocento una “grandeur universelle” che mancava alla letteratura americana contemporanea.57

4. Capolavoro “universale” Questo accenno di Camus all’universalità espressa dall'opera melvilliana si inserisce perfettamente nel coro degli entusiastici consensi con cui ad essa rispondono tanti intellettuali europei durante i turbolenti anni ‘30 e ‘40. In questo periodo, per usare le parole di Blanchot, Moby Dick entra a far parte del pantheon della letteratura mondiale. Perchè proprio Melville — un autore che è espressione di una realtà sociale e culturale apparentemente così diversa da quella dell’Europa sconvolta dalle dittature e dalla guerra — appare a un Pavese o a un Camus una figura così rilevante? Il prestigio che Melville, e soprattutto Moby Dick, viene ad assumere in

36 Camus, Il mito di Sisifo. tr. di Attilio Borelli, Milano, Bompiani, 1960. pp. 146-47. Per Camus artisti in tal senso sono, oltre Melville, Balzac, Sade, Stendhal, Proust, Dostoevskij, Kafka, Malraux.

37 In un articolo sulla rivista Combat, citato in YeaGrR, cit., p. 80.

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questa particolare congiuntura della storia culturale dell'Europa occidentale va ricollegato innanzitutto alla scoperta della letteratura americana in generale, e al prestigio che essa viene a godere come voce di una realtà che, dinanzi alla catastrofe del vecchio mondo, non può non apparire più libera, più genuina e più sana pur nella (o forse proprio grazie alla) sua mancanza di forti tradizioni. Se l’intellighenzia letteraria europea di quegli anni poteva pensare che la civiltà fosse sull’orlo del collasso, l’America

pareva fornire un’alternativa magari non raffinata, ma vitale. Le risonanze mitologiche della grande caccia, la possibilità di recepirlo come “poema della vita barbara” e, quindi, della vita americana, il vento apocalittico che vi spira — questi alcuni motivi dietro il posto importante che Moby Dick viene a occupare tra i testi americani privilegiati dai critici europei in questa fase. Ma sono soprattutto lo spirito disincantato e a tratti puramente negativo che in particolare i critici tedeschi e francesi vedono aleggiare nell’opera, assieme alla sua quasi naturale disponibilità a letture allegoriche, a determinarne il successo. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, era stato proprio uno dei primissimi lettori — Nathaniel Hawthorne — a notare che “the whole book was susceptible of an allegorical construction, and also that parts of it were”; che, cioè, sul testo era

possibile proiettare un sistema di valori, tradurlo in un linguaggio “altro” rispetto a quello del testo stesso.58 Così Sartre e Blanchot vedono ad esempio in Ahab — che nell’Ottocento era stato considerato sostanzialmente un pazzo anche dagli ammiratori di Moby Dick— un eroe il cui desiderio di vendetta è motivato da una particolare, e sofferta, visione del mondo. Il libro non solo non è più visto come esempio del romanzo marinaro, ma diviene obbligatorio affrontarlo come testo essenzialmente filosofico: sia che la caccia alla Balena venga interpretata come lotta contro il Male e il vuoto (Pavese), come allegoria del desiderio di un oggetto mostruoso (Blanchot e Giono), come confronto hegeliano con l’essere (Sartre) o come lotta assurda (Camus), Moby Dick viene inserito in un nuovo genere letterario: quello dei capolavori dell'età moderna — e questo, vale la pena ricordarlo,

38 Purtroppo, essendo la lettera originale di Hawthorne andata perduta, possiamo solo speculare sul suo esatto contenuto in base al breve accenno che ne fa Melville in una lettera a Sophia Hawthorne dell’8 gennaio 1852 (Cfr. MerreL R. Davis e Wim Giman [a cura

dil, Tbe Letters of Herman Melville, New Haven, Yale University Press, 1960, pp. 145-47).

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quando in America c’è chi è ancora scettico sul suo effettivo valore e continua a vederlo come una “buona storia” con tanti difetti. Se il nome di Melville viene ad avere diritto di cittadinanza in un canone dove i nomi che più di frequente ricorrono sono quelli di Kafka e Dostoevskij, è anche perchè in Moby Dick c'è una sfiducia nella ragione e nelle ideologie dei poteri costituiti che ben si presta a essere letta come accettazione dell’enigma dell’essere o dell’assurdità di ogni impresa conoscitiva. Quella a cui assistiamo non è una rivalutazione dello spirito critico-distruttivo che aveva irritato icommentatori dell'ottocento. Quando Evert Duyckinck protestava perché Ishmael si rendeva protagonista di un “attacco alle fedi e alle opinioni”, si riferiva al tono irriverente rivolto verso le convenzioni morali e religiose del tempo. Quando Camus si compiace dello spirito di rivolta gratuita e puramente negativa che anima l’opera dei grandi scrittori-filosofi come Melville, parla di ben altro che sberleffi alla moralità: egli mette in campo un sistema di valori assolutamente diversi che non solo riorientano Moby Dick, ma sono alla base dell'interesse di Camus per Melville e gli permettono di “vedere” il testo. Forse è anche a causa della brevità dei loro saggi che i critici europei sono portati a generalizzare al massimo le loro interpretazioni di Moby Dick. Certo è che i vari interventi sin qui esaminati si configurano come interessanti, ma sicuramente drastiche, operazioni di riscrittura del

testo nel linguaggio filosofico, etico o politico privilegiato dal singolo critico. Di fronte a tale situazione non si tratta tanto — perlomeno in questa sede — di interrogarsi sulla legittimità delle letture di Stresau, Oliass o Camus, quanto di sottolineare come siano proprio queste strategie di “addomesticamento” del testo a conferirgli lo status di grande opera letteraria. Mentre a un primo livello si conferisce prestigio a Moby Dick, a un livello più profondo è in realtà il particolare linguaggio con cui esso viene riprodotto a essere sentito come prestigioso. Si tratta in qualche modo di un'operazione tautologica e sinergetica. Per Camus, ad esempio, il gran-

de testo letterario deve essere “assurdo”: definendo le opere melvilliane assurde le si dichiara grandi e, al tempo stesso, l’ipotesi di partenza sull’assurdità dell’arte ne esce confermata. Il prestigio che Moby Dick viene ad assumere è dunque una funzione del prestigio professionale, istituzionale, sociale, di figure come Pavese, Sartre, Camus.

Paradossalmente, proprio nel momento in cui i critici europei elaborano nuovissime e spregiudicate strategie di lettura di Moby Dick, essi 125

insistono sulla sua grandezza “universale”. In cosa consiste l’universalità di un grande testo letterario se la storia delle sue interpretazioni dimostra che sono qualità particolari, assolutamente diverse — e a volte francamente incompatibili — a venire addotte come “prove” della sua classicità o universalità? In questi decenni di violenza ed orrore, nella disperata volontà di credere all’universalità di certi monumenti culturali si deve senz'altro cogliere una venatura politica di segno progressivo — un messaggio di resistenza. In un mondo in guerra, segnato da profondissime divisioni, la fede in una qualche forma di universalità diviene un modo per confermare la speranza in una comune natura umana da difendere dagli odi e gli stermini. L'appello costante all’universalità dell’opera d’arte è però il segno lampante di come tale universalità sia ridotta a un sogno; di come, nei fatti, il mondo sia più che mai frammentato. In una fase

storica in cui la “cultura” è ridotta a un affare quasi privato di cerchie intellettuali isolate, ben lungi dal poter attivamente comunicare non solo con l’universo, ma con la realtà dei loro stessi paesi, l'appello all’assoluta, mitica rilevanza di opere come Moby Dick esprime un desiderio che la realtà storica produce e frustra al tempo stesso.5° x

n

39 Poiché in tale fase storica, “universale” coincide in genere con “occidentale”, sarà opportuno rilevare come, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, i fermenti anti-imperialisti e anti-colonialisti che hanno scosso, e continuano a scuotere, il mon-

do, abbiano messo in luce una volta per tutte che esistono patrimoni culturali estranei alla tradizione occidentale con una propria dignità e un proprio valore. A tale proposito Epwarn Sam ha notato che Eric Auerbach (il cui Mimesis venne appunto composto negli anni del secondo conflitto mondiale) è certamente “uno degli ultimi rappresentanti di coloro che credevano che la cultura europea potesse essere vista con coerenza e serietà come senza dubbio centrale nella storia umana. Ci sono numerosissime ragioni per cui il punto di vista di Auerbach non è più difendibile, non ultima delle quali è la sempre minore acquiescenza e deferenza che viene riservata al mondo Natopolitano che ha a lungo dominato le regioni periferiche quali l'Africa, l'Asia, e l'America Latina” (E.W. Sam, “Secular Criticism”, 7be World, the Text, and tbe Critic, London, Faber and Faber, 1984, p. 21). Cecchi e Pavese, Sartre e Giono, Pongs e Vietta appartengono a una generazione che può ancora — spesso in buona

fede — credere a una tradizione di grandi capolavori che parte dall’Odisseo omerico e arriva sino a quello joyceano. Una posizione del genere è oggi indifendibile, e se certo l'Odissea continua a restare cruciale per la nostra tradizione, dobbiamo senz'altro rivedere vecchi concetti se vogliamo capire, per esempio, perché uno scrittore latino-americano come Alejo Carpentier definisca il Popo/ Vub “uno dei testi più importanti della storia letteraria”, oppure perché il nigeriano Wole Soyinka ci tenga a precisare che il personaggio mitico della cultura yoruba Abiku è per lui più importante di archetipi letterari come Amleto o Ulisse (Cfr. Atrjo

CaRrPENTER, “The Latin American Novel”, New Left Review, 154 [1985], p. 100; Irata Vivan, “Il mago della pioggia”, intervista a Wole Soyinka, // Messaggero, Venerdì 17 ottobre, 1986).

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Detto questo, non si può fare a meno di osservare che, fondando l'universalità del testo essenzialmente sui valori che esso assume alla luce dello specifico codice culturale col quale lo si interpreta, il critico “colonizza” l’intero “universo” in nome delle proprie, inevitabilmente parziali, preoccupazioni ideologiche. La grandezza “universale” di Moby Dick è in effetti storicamente prodotta — e quindi né universale né eterna — e contrasta perciò con l’aspirazione di molti intellettuali a proclamarsi custodi di valori accettati e accettabili da tutti. Questa situazione, nel nostro caso, acquista un sapore curioso se si considera come sovente si faccia appello alla negatività del pensiero melvilliano per sottolineare la grandezza di testi come Moby Dick o Billy Budd. Da un lato si dichiara, con Melville, tramontata l’epoca delle certezze; dall’altro si traduce questa posizione in una nuova certezza dal valore universale. È d’altra parte sintomatico che la grandezza di Melville, e di Moby Dick in particolare, sia costantemente misurata con metri europei (Kafka, Kierkegaard, Dostoevskij). In tal modo, oltre a rafforzare l’idea che la cultura universale coincida con la tra-

dizione occidentale — ma Melville non ha seri dubbi a questo riguardo? — si nega a un testo americano qualunque irriducibile diversità. Anche quei critici che, come Pavese o Sartre, non paiono nutrire pregiudizi eurocentrici, e anzi ne ammirano le qualità “barbare”, finiscono col ricondurre lo scrittore in contesti familiari. “Melville nei suoi momenti migliori ha l’afflato d’un Lautréamont”, scrive Sartre mentre Pavese, dal canto suo, non

sospetta che Melville, più che fondere barbarismo e cultura, potrebbe attaccare la legittimità stessa di tale opposizione binaria. Il concetto di letteratura universale, a cui quello di “effetto estetico” è peraltro indissolubilmente legato, si fa portavoce — perlomeno in questa fase — del desiderio d’inventare una sfera al di là del mondo storico e contingente nella quale trovino spazio i tratti “migliori” o “fondamentali” dell'animo umano. Proprio la guerra avrebbe però definitivamente mostrato come l’idea che un’assidua visitazione dei capolavori letterari contribuisse in modo decisivo a sviluppare i tratti migliori della personalità umana — una delle idee-forza dell’ideologia dell’estetica la cui genesi e il cui sviluppo possono essere tracciati da Schiller sino a Leavis, passando naturalmente per Matthew Arnold — fosse quantomeno discutibile.*° La ri40 Un utile saggio su questi temi è quello di Dav» Loy», “Arnold, Ferguson, Schiller:

Aesthetic Culture and the Politics of Aesthetics”, Cultura! Critique, 2 (1985-86), pp. 137-70.

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velazione che i “mostri” addetti alla supervisione dei campi di sterminio di Auschwitz e Treblinka erano spesso colti ufficiali inclini a trascorrere le ore di riposo leggendo Goethe e Rilke, o ascoltando Beethoven, renderà improvvisamente chiaro quanto aveva ben intuito Pavese. La “cultura”, assunta in sé e per sé come valore assoluto, e separata dalla vita vissuta, non poteva svolgere alcun compito positivo, né tantomeno as-

solvere alcuna funzione civilizzatrice. Ma non era stato proprio Melville a sollevare dubbi sui grandi proclami democratici della nazione americana, e a richiamare l’attenzione

del lettore sull’imperialismo politico e culturale che spesso si annidava nel loro linguaggio? A mettere cioè in luce i rapporti tra cultura e potere? Non è sorprendente che il Melville europeo di questi anni finisca, in Germania, in Francia o nella stessa Italia, con l’essere caratterizzato più come

un pensatore negativo che come uno scrittore attento alle dinamiche sociali; come un pessimista e quasi mai come un critico della propria civiltà? Che, in breve, tutta la ricca dimensione sociale e politica delle sue opere venga quasi completamente ignorata? È sin troppo evidente che il Melville dei Pongs, Blanchot e Camus è il Melville di una generazione d’intellettuali disillusi e incerti; di “isolatoes” che vedono nei naufragi,

nelle mutilazioni e nelle ossessioni che punteggiano i testi melvilliani, altrettantte metafore delle proprie difficoltà e i propri fallimenti. Essi colgono aspetti senz'altro significativi di Moby Dick e di altre opere, ma non si soffermano mai su quelli comici, satirici, folclorici, storici, sociali; né

s'accorgono che per Melville i problemi dell’individuo non possono essere disgiunti da quelli della comunità. Come si vedrà nel prossimo capitolo, delle molteplici sfaccettature dei testi melvilliani cercherà invece di tenere pienamente conto F.O. Matthiessen, nel suo tentativo d’inventare una letteratura americana democratica, popolare e, al tempo stesso, artisticamente rilevante.

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CAPITOLO HI MOBY DICK: DA CURIOSITÀ LETTERARIA AD EPICA NAZIONALE

No. Melville is not even a minor master. His works constitute rather

one of the important curiosities of literature. — Ludwig Lewisohn, Expression in America, 1932 Perhaps the principal creative work of the last three decades in this country has not been any novel or poem or drama of our time, not even Faulkner's Yoknapatawpha saga or Hemingway’s For Whom the Bell Tolls or Hart Crane’s 7be Bridge, perhaps it has been the critical rediscovery and reinterpretation of Melville’s Moby Dick and its promotion, step by step, to the position of national epic. - Malcolm Cowley, 7be Literary Situation, 1954

1. Un caso ancora aperto

Nonostante negli anni ‘20 Melville fosse stato “riscoperto”, divenendo oggetto di osservazioni critiche firmate da nomi importanti, la sua posizione nel canone letterario americano era ben lungi dall’essere definitivamente consolidata. A tale proposito è indicativo quanto, con un certo scetticismo, O. W. Riegel veniva notando nel 1931 su American Li-

terature. One may suspect that the Melville cu/te is not so large as the mass of recent notices of Melville would seem to indicate. It may be limited, indeed, to those who find in the “Herman Melville” of the recent bio-

graphies a kindred spirit, or a life which embodies their own psycho-

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logical conflicts [...]. Although Herman Melville has a throne in our literary Valhalla, it may perhaps be seen, after the rosy clouds have rolled away from the pedestal, that he is balanced precariously on a chair with a single leg, and that made of whale-bone, like the leg of Captain Ahab.!

Due i punti importanti toccati in queste righe. Innanzitutto Melville è ancora in larga misura percepito come un personaggio interessante della storia letteraria americana; come la figura tormentata, divisa, quasi ne-

vrotica descritta soprattutto nella biografia di Raymond Weaver, ma sostanzialmente accettata anche da Lewis Mumford. Che Melville sia un “artista”, che egli abbia cioè un suo stile e costruisca consapevolmente i propri prodotti letterari è un’idea che nessuno aveva ancora avanzato. Persino Mumford, forse il suo più incondizionato ammiratore, pur acco-

stando il nome di Melville a quelli di Dante e Dostoevskij, lo fa più per sottolineare il genio melvilliano che per proporre paragoni articolati e coerenti sul piano espressivo o tematico. La grandezza di Melville negli anni ‘20 è dunque frutto di una strategia critica che lo costruisce come genio e talento “naturale” —quando l’intento è di lodarlo — o come uomo dalla psicologia contorta ma affascinante — quando si vogliono moderare entusiasmi ritenuti eccessivi. La reputazione di Melville — questo il secondo punto sottolineato da Riegel — potrebbe dunque poggiare su un singolo perno d’osso di balena: su Moby Dick, il testo che, con più convinzione, in molti si erano sforzati di rivalutare. Il dibattito su Melville era destinato a continuare per tutti gli anni

‘30. Al pari del lavoro di selezione intrapreso da F. R. Leavis a Cambridge, i dibattiti che si sviluppano negli Stati Uniti sui meriti di singoli autori o sulla tradizione americana nel suo complesso riflettono la situazione ancora fluida che caratterizza il campo delle discipline letterarie. Una volta creati i dipartimenti d’Inglese resta da chiarire quali testi siano sufficientemente letterari da essere studiati, insegnati e investiti di determinati valori. Si tratta di un'operazione gerarchica, mirante a costituire lo studio della letteratura come studio di genialità individuali: basta sfogliare qua-

p. 203.

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1 O. W. Riece, “The Anatomy of Melville’s Fame”, American Literature, 3 (1931),

si a caso le pagine di uno dei libri di Leavis per rendersi conto della certezza, peraltro “non discussa apertamente in alcun punto del testo, che scopo della critica è isolare la grandezza e considerarla come una proprietà di singoli autorî.? Per quel che riguarda Melville in particolare, nel 1938, provando a riassumere la situazione, Robert Berkelman si vedeva ancora una volta costretto a registrare una notevole divergenza di opinioni nei confronti di Moby Dick. Da un lato, notava Berkelman, si trovano critici prestigiosi come Fred Lewis Pattee, Bernard De Voto e Ludwig Lewisohn che stroncano Melville e rifiutano di ammettere Moby Dick nel pantheon dei grandi testi americani. Dall'altro, figure altrettanto influenti — Berkelman cita in particolare Mumford — rivendicano per Moby Dick un posto accanto a monumenti letterari quali Don Chisciotte e Guerra e Pace. Più che cercare di spiegare come sia possibile un tale disaccordo, a Berkelman preme riconciliare le due posizioni. Egli amimette che l’opera è affetta da difetti strutturali e stilistici ma ricorda altresì che le vicende narrate possiedono qualità tali da farne un “timeless myth”. Se “His [Melville”s] life was a prolonged war between Byronic independence and a craving for understanding and warm sympathy”, finalmente in Moby Dick “the two forces that tugged at Melville most of his life are to be seen in equilibrium”.5 Cos'è che lasciava insoddisfatti lettori qualificati come De Voto e Lewisohn? In Mark Twain's America il primo si sofferma sui difetti comuni a Moby Dick e Huckleberry Finn, ma soprattutto su quelli che fanno del libro di Melville un testo notevolmente inferiore a quello di Twain. Non solo Moby Dick “has, as fiction, no structure” e “its improvisations are commoner and falser than those in Huck Finn”; “though Melville could write great prose, his book frequently escapes into a passio-

2 CarzErne Betsy, “Re-reading the Great Tradition”, in Peer Wippowson (a cura di),

Re-Reading English, London and New York, Methuen, 1982, p.122. 3 Rosert G. BerkeLman, “Moby Dick Curiosity or Classic?”, English Journal, 27 (1938),

p. 751. Berkelman non include nel novero dei maggiori critici del primo novecento Vernon Lours ParrINcTON, il cui Main Currents in American Thoughtè forse il più influente profilo di storia della letteratura americana prima dell’opera di Matthiessen. Parrington, che dedica a Melville una breve sezione dal titolo “Herman Melville, Pessimist”, non è troppo generoso con lo scrittore, descritto come “an arch romantic [who] vainly sought to erect his romantic dreams as a defense against reality and suffered disaster” (Vol. II, New York, Harcourt, Brace & Co., 1927-30, p. 259).

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nately swooning rhetoric that is unconscious burlesque”. In più Moby Dick “opposes metaphysics to the objective reality of Huck Finn. It is a study in demonology bound to the world of experience by no more durable threads than a few passages in the lives of mates, harpooners and sailors who are otherwise mostly symbol or mist”. Lewisohn, dal canto suo, Obietta innanzitutto a quella critica degli anni ‘20 che aveva fatto di Melville un “Titano” in rivolta contro una società oppressiva. “Melville was not a strong man defying the cruel order of the world; he was a weak man fleeing from his own soul and from life, a querulous man, a

fretful man”. Se Mardi e Pierre sono “sheer phantasmagorias, clinical material rather than achieved literature”, di Moby Dick Lewisohn dà un giudizio appena migliore: “the eloquence [...] is fierce and broken and sags every other minute into sheer jejune maundering or insufferable wordiness”. Le cose buone “constitute one fourth of that long book; it is certainly indisputable that of the rest what is not sound and fury merely is inchoate and dull”. Per questo Melville “will be chiefly remembered as the inventor of a somber legend concerning the evil that is under the sun. But to embody this legend in a permanently valid form he had only half the creative power and none of the creative discipline or serenity”.5 Le critiche nei confronti di Moby Dick investono dunque tre distinti livelli. In termini di stile, anche nel testo quasi da tutti ritenuto maggiore Melville sembra troppo sovente incapace di controllare il suo linguaggio turbolento e prolisso. In termini di contenuto, l’opera — nonostante sia imperniata su una trama da leggenda — soffre del misticismo confuso che affligge la mente del suo creatore. Al livello della struttura, il testo manca di coerenza e unità perché a Melville fa difetto la disciplina artistica necessaria. Per De Voto, a paragone del sano realismo di Twain, la prosa melvilliana è troppo intrisa di metafisica. Lewisohn è dello stesso avviso, preferendo testi sobri come Typee ed Omoo alle mistiche fantasticherie delle altre opere. Le obiezioni sollevate da De Voto e Lewisohn indicano, sia pure indirettamente, che il limite maggiore del “Melville revival” degli anni ‘20 stava proprio nel non aver chiarito — sul piano strettamente arti-

4 Bernarp DE Voro, Mark Twain's America, Chautaqua, Chautaqua Institution, 1932,

pp. 312-13. 5 Lupwic LewisoHn, Expression

Brothers, 1932, pp.189-93.

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in America,

New

York and London,

Harpers and

stico-letterario — quali fossero le qualità di Melville come scrittore e, in particolare, se Moby Dick fosse una grande opera anche a livello formale. In sostanza Mumford e Lawrence avevano sottolineato le qualità miticoleggendarie di Moby-Dick, e l’idea che il testo fosse basato su una “buona storia” era molto spesso condivisa anche da chi ne avversava la canonizzazione. Considerata la direzione imboccata in questa nuova fase dal discorso

critico-letterario nel mondo

anglosassone,

solo adottando

una

nuova strategia discorsiva sarebbe stato possibile ammettere definitivamente Moby Dickal “Valhalla letterario” degli Stati Uniti.

2. L'avvento del New Criticism

Nel capitolo precedente si è notato come l’istituzionalizzazione degli studi letterari a livello universitario rendesse necessario definire un certo numero di regole “scientifiche” che, a fronte delle altre materie, caratterizzasero la disciplina dell’Inglese (che comprende in America lo studio della letteratura nazionale) come altrettanto accademica e rigorosa. La selezione di un canone maggiore, centrato su un numero ristretto di figure, obbedisce innanzi tutto a esigenze di ordine pratico e istituzionale. Si tratta di stabilire quali siano i confini della disciplina, quali le conoscenze necessarie per essere certificati come esperti nel campo, quali le operazioni critiche consentite sui testi e quali i valori che, più o meno tacitamente, la Letteratura dovrà contribuire a riprodurre tra gli studenti. Già si è accennato in precedenza ad alcune delle motivazioni politico-sociali che avevano spinto le università a includere nei loro curricula lo studio delle letterature moderne, e alle ragioni del predominio del metodo filologico e storicista. Tale metodo vantava una lunga tradizione e sembrava in grado di garantire la serietà accademica della disciplina. Nel corso degli anni ‘20 la situazione era però andata mutando. Tra gli adepti delle materie letterarie si era diffusa una crescente insoddisfazione sia per una metodologia di chiaro stampo positivista, sia per la stessa “arida” ideologia scientista che pareva dominare non solo le università, ma la società tutta. D’altro canto il prestigio delle discipline scientifiche a livello accademico continuava a crescere ed era impensabile che una battaglia in difesa degli studi letterari potesse essere combattuta senza trovare spazio per criteri di obiettività, accuratezza, precisione.

133

Sia William Cain che Steven Mailloux hanno sostenuto, in modo

molto convincente, che l'avvento del New Criticism può spiegarsi soprattutto con l’intelligente e brillante riconciliazione tra i due corni del problema proposta dai fautori del nuovo metodo. Non occorreva bandire la retorica scientifica dallo studio della letteratura; al contrario, per-

ché dai testi si potesse ricavare un tipo di conoscenza particolare, diversa da quella ottenibile attraverso indagini puramente filologiche, era assolutamente necessario un approccio caratterizzato dal massimo grado di obiettività e accuratezza. Nell’ideologia del New Criticism “l'approccio poetico, diversamente da quello scientifico, rispettava l’integrità sensuosa del suo oggetto: non era una questione di cognitività razionale ma un meccanismo emotivo che congiungeva al ‘corpo del mondo’ tramite un legame essenzialmente religioso”.7 Il rigore degli studi filologici non andava ripudiato in quanto tale, ma unicamente perché l’ideologia scientista oscurava degli elementi specifici del testo che potevano essere studiati solo se quel rigore veniva impiegato per fini diversi. La tecnica del close reading, basata sull'idea che fosse necessario concentrare l’attenzione su quanto il testo “in sé e per sé” effettivamente dicesse, rispondeva a un’esigenza che per anni era stata da più parti manifestata: quella di tornare ai “books themselves” che indagini filologiche, storicistiche, o a sfondo biografico, avevano finito con l’oscurare. Sottolineando l’urgenza di riprendere a occuparsi dei testi letterari in quanto tali si rafforzava inoltre l’unità interna di una disciplina che aveva troppo spesso oscillato verso i campi limitrofi della filologia, della storia, della filosofia morale. I New Critics precisavano i confini delle materie letterarie, scopo delle quali era occuparsi della complessità e compiutezza formale dei “grandi” testi. Infine, il nuovo metodo era facile da insegnare e da trasmettere,

non richiedeva l’impiego di conoscenze esterne al testo ed era perciò, dal punto di vista pedagogico, un ottimo strumento per servire una crescente popolazione universitaria.8

6 Wrttam Can, 7be Crisis in Criticism, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1985, pp. 85-121; Steven Mantoux, “Rhetorical Hermeneutics”, Critical Inquiry, 11 (1985),

pp. 615-37, soprattutto pp. 631-37. p.

73 7 Trrxy FAGLETON, Literary Theory, Minneapolis, University of Minneapolis Press, 1983,

46.

8 Una buona introduzione critica al New Criticism è quella di Davip Rosry, “AngloAmerican New Criticism”, in Ann JeFFERson e Davm RoBey (a cura di), Modern Literary Theory: A

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Com'è noto il formalismo dei New Critics ottiene i suoi successi più significativi nel campo della poesia, valorizzando i minimi dettagli — linguistici, fonici, ritmici, strutturali — del testo e richiamando l’attenzione

del lettore su come ogni singola componente sia ricca di significato e contribuisca all’effetto totale. Il testo poetico è costantemente descritto come un oggetto coerente e integrato, dove tutte le tensioni e i paradossi si bilanciano a vicenda per risolversi in una struttura unitaria. Naturalmente il New Criticism finisce con influenzare l’intera disciplina letteraria, incluso il campo del romanzo. Anche qui si chiede al lettore di concentrarsi essenzialmente sul testo, di analizzare in quali modi e con quali procedure l’opera d’arte realizzi la sua compiutezza formale. Tutto questo non vuol dire che i principali alfieri del New Criticism, tra i quali bisogna ricordare perlomeno Cleanth Brooks, John Crowe Ransom, Allen Tate, Robert Penn Warren e K. W. Wimsatt, si presentino

come portatori di un’ideologia puramente formalista senza un contenuto umanistico e una missione civilizzatrice. II movimento, che non a caso è

legato negli anni ‘20 al gruppo dei “Fugitive Poets” e poi, negli anni ‘30, a quello conservatore degli “Agrarians”, nasce proprio come reazione al trionfo dell’industrialismo e dello spirito scientifico che l'accompagna. Ancora una volta, come nel caso di Eliot e Leavis, il mito che sta dietro al

New Criticism è quello della società “organica”, identificata in questo caso col Vecchio Sud dove parrebbe che, proprio come avviene nel close reading di una poesia, anche la “tensione” della schiavitù si risolvesse in un universo sociale “integrato”. Come Eliot e Leavis, anche i New Critics condividono con Matthew Arnold l’idea che la “cultura” debba opporsi all’’anarchia”, e cioè sia alle disfunzioni congenite della società industriale, sia al razionalismo scientifico nemico di quella sfera dell’emotività e dei sentimenti che solo il discorso letterario è in grado di articolare. Le implicazioni politiche di questa impostazione sono così evidenti da non richiedere commenti particolari.? Basterà sottolineare come, an-

Comparative Introduction, London, 1982. Si deve naturalmente notare che il formalismo del New Criticism si sviluppa parallelamente al Formalismo russo, ma, pur condividendo alcuni punti teorici, e pur nascendo ambedue come reazioni al positivismo, i due movimenti sono separati da importanti diversità. Si vedano a tale proposito le osservazioni di Frepric Jameson in Tbe Prison-House of Language, Princeton, Princeton University Press, 1972, pp. 45-48.

9 Una critica politica del New Criticism è sviluppata, tra gli altri, da EacLeToN, Literary Theory, cit., pp. 43-53, e da Jonn Fexere in 7be Critical Twilight, London, Routledge and Ke-

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cora una volta, l’ “estetica” venga costruita come rifugio dalle volgarità della società tecnologica e come terreno che non ha — e non deve avere — nulla a che fare con la dimensione storico-sociale. Si deve comunque sottolineare che non ha molto senso accusare i New Critics di essere an-

tistorici. Nell’ideologia del New Criticism è infatti implicita una precisa visione della storia. Sostenere che il linguaggio ha una sua esistenza autonoma dal contesto storico in cui esso circola vuol dire credere che tanto i significati dei testi quanto la mente umana che li recepisce, siano sempre eguali a se stessi, eterni, immutabili. Non deve quindi sorprendere eccessivamente che i New Critics dichiarassero a volte di non essere contrari per principio ad accompagnare al close reading un’analisi del contesto dell’opera letteraria. Sino a quando indagini di questo tipo si limitavano a fare da cornice all’attività di lettura e non finivano col problematizzare un’operazione concepita come neutrale e obiettiva per definizio-

ne, esse apparivano del tutto accettabili.

3. Moby Dick e il New Criticism

Il New Criticism lascia un'impronta indelebile sulla critica statunitense. Soprattutto per quel che concerne il periodo 1930-1950, e in particolare il campo degli studi melvilliani, nonostante altri approcci si affaccino sulla scena — si pensi alla densa lettura psiconalatica di Pierre proposta da Henry Murray nel 1949 - il dominio del New Criticism sul discorso critico-letterario americano è virtualmente incontrastato. Un primo

effetto del New Criticism — effetto di grande importanza per gli studi melvilliani — è quello di screditare le indagini biografiche. I tentativi d’interpretare i testi in base alla vita dei loro autori appaiono come operazioni dilettantesche visto che per i New Critics “le intenzioni dell’autore nel comporre il testo, ammesso anche che potessero venire accertate, non avevano alcuna importanza ai fini dell’interpretazione”.!°L'attenzione de-

gan Paul, 1977, pp. 43-103, ma cfr. anche i testi alla nota 6. L'ideologia del New Criticism non è semplicemente conservatrice ma anche anticapitalista, e vagheggia il ritorno a una società agraria fortemente gerarchizzata. 10 FAGLETON, Cîl., p. 108.

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ve rivolgersi ai testi, e solo una precisa valutazione del loro stile e della loro struttura potrà portare a un giudizio di merito. Il personaggio Melville non interessa i New Critics più di tanto; è di ciò che egli ha prodotto, e in particolare di Moby Dick, che occorre discutere. Vale la pena di sottolineare che anche prima s'era ovviamente dibattuto dei testi melvilliani, ma in modo assolutamente diverso perché l’ideologia del testo che viene inaugurata dal New Criticism conferisce al termine “testo” un nuovo significato. Il testo è ora qualcosa di nettamente separato dal suo autore: un oggetto autonomo che il critico deve interpretare nei termini di un’ideologia dell’estetica marcatamente formalista. Per quel che riguarda Melville i primi effetti della nuova situazione si fanno sentire proprio nel 1938, quando tre importanti interventi paiono fornire una risposta definitiva all’interrogativo sollevato da Berkelman: Moby Dick non deve considerarsi una mera curiosità letteraria ma, nonostante alcuni limiti, un grande testo. Le tre figure che si pronunciano su Melville sono Willard Thorp, professore all’università di Princeton e storico della letteratura americana di grande rilievo (è uno dei curatori della Literary History of the United States, per la quale scrive anche un importante capitolo su Melville); Yvor Winters, poeta, critico influente e professore all’università di Stanford; R. P. Blackmur, anch’egli poeta, professore a Princeton e, a giudizio di molti, uno dei massimi critici americani. Gli ultimi due vengono comunemente considerati New Critics, anche se a volte le loro posizioni si distaccano in alcuni punti da quelle canoniche espresse da Robert Penn Warren o Cleanth Brooks, mentre Thorp contribuirà più tardi alla costituzione di quell’area interdisciplinare denominata “American Studies”, e che avrà tra i suoi obiettivi quello di inquadrare la letteratura in un contesto più ampio di quello strettamente estetico. Thorp è il curatore di un’antologia di scritti melvilliani su cui studieranno più di una generazione di studenti americani, e tanto le scelte operate sui brani da includere nel volume, quanto soprattutto la sua lunga introduzione, segnano una svolta importante. Thorp attacca in modo deciso una serie di “miti critici” che, a suo avviso, hanno sino a quel punto oscurato il vero Melville. In primo luogo è errato credere di trovare nelle sue opere — ivi compresi testi come 7ypee o Redburn — dei resoconti puramente autobiografici. Alcune opere possono prendere spunto da esperienze personali dell'autore, ma non vanno viste come spezzoni di un’autobiografia. In passato si è esagerato nel presentare Melville co-

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me “a natural genius who never understood the art he practiced, but wrote out of the fullness of experience, and then, when memory and emotion where exhausted, could write no more”. Questo secondo mito — di cui Thorp ritiene responsabili sia Weaver che Mumford —- si scontra con la realtà dei fatti: Melville era un lettore onnivoro e i suoi libri sono direttamente influenzati dalle letture da lui fatte. Concentrandosi su Mardi, Moby Dick e Pierre, Thorp accenna alla complessità filosofica e strutturale di questa trilogia anche quando, come nel caso di Pierre, forma e contenuto non convivono armonicamente. Rispetto al resto della produzione melvilliana, in questi tre testi il realismo delle avventure narrate è inscindibile dalla “spiritual quest” o “quest for the Ultimate” che muove l’autore, ma è soprattutto in Moby Dick che i due piani si compenetrano più efficacemente. Introducendo un’importante distinzione tra narratore e protagonista destinata a essere ripresa e sviluppata più compiutamente nei decenni successivi, Thorp si premura di mettere in guardia dal vede-

re in Ahab un’incarnazione totale dell’ansia melvilliana: “however much he sympathized with Ahab’s Promethean determination to stare down the inscrutableness

of the universe, Melville hurled, not himself, but

Ahab, his creature, at the injurious gods”.!! Thorp insiste dunque sulle doti di regia artistica che Melville, almeno nel suo capolavoro, dimostra

di possedere. L’antologia, però, pur includendo una selezione di poesie, non contiene alcun brano da Redburn, Pierre, The Piazza

Tales, The

Confidence-Man e Billy Budd, e sembra suggerire che se Melville dopo Moby Dick non è certamente un misantropo o uno scrittore finito, né tantomeno un nevrotico sull’orlo della pazzia, è comunque decisamente meno interessante.

Essendo il suo saggio un’introduzione di carattere generale, Thorp deve comunque anche preoccuparsi di offrire un profilo biografico di Melville e d’inquadrare la sua opera sul piano storico. Winters, nelle pagine di Maule's Curse dedicate a Melville, non ha obblighi del genere e può occuparsi esclusivamente dei due testi che gli paiono cruciali: Moby Dick e Pierre. Winters è in genere giudicato ai margini del New Criticism: in polemica con Warren, egli insiste nel ritenere la logica e la morale del

11 Wriarp Trore, Herman Melville: Representative Selections, New York, American

Book, 1938, pp. xl e lxxv.

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testo importanti quanto la sua struttura. Secondo Penn Warren, Winters dimostra una preoccupazione eccessiva per i valori morali; Winters si difende non rifiutando l’etichetta di “moralista”, ma spiegando che per lui moralità e ragione (e cioè intelligibilità) sono due facce della stessa medaglia: “I believe that the work of literature, in so far as it is valuable [...] makes a defensible rational statement about a given human experience [...] and at the same time communicates the emotion which ought to be motivated by that rational understanding of that experience” .!2 I “Seven Studies in the History of American Obscurantism” riuniti in Maule’s Curse cercano appunto di difendere l’idea che la letteratura deve fondarsi su principi morali, e condannano risolutamente quei testi e quegli autori — primo tra tutti Poe — che voltano le spalle alla ragione e rendono “oscuro” il proprio messaggio. Quale trattamento è riservato a Melville? In “Herman Melville and the Problem of Moral Navigation” Winters oppone Moby Dick, un testo il cui quadro concettuale gli appare chiaro e grandioso al tempo stesso, a Pierre, un testo che, pur mostrando delle af-

finità tematiche con Moby Dick, per un errore di prospettiva, si risolve in un fallimento. Nonostante l'apparente complessità dell’opera, la lezione di Moby Dick è piuttosto evidente, così come lo è la valenza simbolica delle sue immagini centrali: “The symbolism of Moby Dick is based on the antithesis of the sea and the land: the land represents the known, the mastered, in human experience; the sea, the half-known, the obscure re-

gion of instinct, uncritical feeling, danger, and terror” .!3 Il tema dell’opera è la ricerca di un equilibrio tra queste due “regioni” e Winters non dubita che, dinanzi al desiderio di Ahab di distruggere il male del mondo — “an intention blasphemous because beyond human powers and infringing upon the purposes of God” (211) — l'opposizione di Starbuck “represents the unsuccesful rebellion of sanity and morality against a dominant madness” (209). Winters non nota che il contrasto Ahab-Starbuck è scarsamente sviluppato (e che Starbuck manca non solo del fascino, ma della

12 Yvor Winters, Jr Defense of Reason, New York, The Swallow Press, 1947. Winters definisce la sua posizione ,”for lack of a better term, moralistic” (p. 3). Sulla polemica Winters-Warren cfr. Jorn PritcHarD, Criticism in America, Norman,

University of Oklahoma

Press, 1956, pp. 261-62.

13 Maule’s Curse (1938), in The Defense of Reason, cit., p. 200.

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determinazione del suo capitano) e insiste che “Ahab sinned by disregarding the counsel of Starbuck (the critical intellect), by destroying his natural instruments, with the aid of which he maintained his position at sea (that is, the half known) with relation to the land (the known), and

by committing himself to his own unaided instincts” (224). Per Winters Moby Dick è una grande opera perché l’importante tema della “navigazione morale” è incarnato in una forma adeguata: quella dell’epica. Già Berkelman aveva notato che i “pigeonholers have called it [Moby Dick a novel in order to condemn it as a bad novel”, concludendo che “it most certainly is not a novel, and in all good sense, therefore, should not be judged as one”.!4 Winters è senz’altro d'accordo, e protestando contro un’opinone corrente, dichiara Moby Dick beyond cavil one of the most carefully and succesfully constructed of all the major works of literature; to find it careless, redundant, or in

any sense romantic, as even its professed admirers are prone to do, is merely to misread the book [...]. The book is less a novel than an epic poem [...]. The language in which it is written is closer to the poetry of Paradise Lost or of Hamlet than it is to the prose of the realistic novelist [...and] we may fairly regard the work as essentially a poetic performance. (219-20)

Forma e contenuto s’integrano dunque alla perfezione (l’idea dell’organicità del testo è molto cara ai New Critics) e l’opera viene equiparata a una “poetic performance” o “epic poem” dove “form and subject are mastered with a success equal to that observable in Milton, Vergil, or

Shakespeare” (220). Moby Dick deve naturalmente pagare un prezzo per essere rielaborato come lucida lezione morale, e sarà sufficiente notare che Winters

non getta neppure un’occhiata casuale su Ishmael — un personaggio che pare divertirsi a sovvertire qualunque sistema concettuale e la cui “navigazione” procede più a tastoni che sotto la guida di qualsivoglia schema assoluto. A questo va aggiunto che non è chiaro come i diversi registri narrativi del testo siano armonicamente riconciliabili col metalinguaggio epico che lo dominerebbe. L'impressione è che, per rendere l’opera uni-

14 BEeRrKELMAN, Cit, p. 744

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taria, Winters ne ignori le tensioni. D'altro canto, se egli la vedesse come

contraddittoria non potrebbe ammirarla visto che “a work of art, like each detail comprising it, is by definition a judgement”, e i giudizi non possono essere ambigui. In Pierre e in The Confidence-Man, dove il tema è ancora una volta quello di “adjusting principle to perception in such a manner as to permit a judgement which shall be a valid motive to action”, l'errore dello scrittore sta nel credere “that valid judgement is impossible, for every event, every fact, every person, is too fluid, too unbound to be known [...]. The final truth is absolute ambiguity, and [...] nothing can be judged” (224, 227). Accanto a Moby Dick si deve invece porre Billy Budd dove, a parere di Winters, “the problem of moral navigation” viene risolto definitivamente grazie all'autorità di Vere e alla sua cieca fiducia nelle virtù delle “measured forms”. Ancor più di Winters, R. P. Blackmur si dedica a questioni di forma. Il suo pezzo appartiene non a caso alla fase più decisamente formalista della carriera di Blackmur, senz’altro uno dei più influenti critici americani (Edward Said lo ritiene addirittura “il più grande genio prodotto dalla critica americana”) !5. In questa sede non è però dei meriti globali di Blackmur, né delle sue relazioni col New Criticism che ci si deve occu-

pare, ma del suo raffinato esame del rapporto tra “artistic consciousness” e “dramatic form” in Melville. In “The Craft of Herman Melville: A Putative Statement”, Blackmur dichiara di non voler dibattere se Melville sia

“grande” o meno, ma del suo modo di usare il linguaggio — degli “strumenti” (tools) della propria arte. “What we want [is to] elucidate one aspect of the work actually performed, irrespective of its greatness” 1°. L'aspetto da investigare è l’uso di una forma narrativa — quella del romanzo — che, a parere di Blackmur, Melville si trova più a subire che a

scegliere. Perché Melville non può assolutamente considerarsi un romanziere:

15 Citato in Can, cit., p. 156.

16 R. P. Brackmur, “The Craft of Herman Melville: A Putative Statement” (1938), in Ricrarp Cuase (a cura di), Melville: A Collection of Critical Esays, Englewood Cliffs, New Jersey, Prentice Hall, 1962, p. 75. A testimonianza dell’importanza e della fortuna del saggio di Blackmur basti ricordare che, apparso originariamente sul New England Quarterly, è stato poi ristampato in 7be Expense of Greatness (1940), The Lion ant the Honeycomb (1955), nonché nella racolta di Chase.

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He added nothing to the novel as a form, and his work nowhere showed conspicuous mastery of the formal devices of fiction which he used. Unlike most great writers of fiction, he legt nothing to those who followed him except the general stimulus of high and devoted purpose and the occasional particular spur of an image or a rythm (75-76).

Il dramma dello scrittore è dunque che “[he] either refused or was unable to resort to the available conventions of his time as if they were real. [...] He proceeded to employ conventions of character and form in which he obviously and almost avowedly did not believe” (78-79). In Moby Dick Ishmael non può garantire un sicuro punto di vista narrativo: “is it not true that a great part of the story’s them escapes him, is not recorded through his sensibility, either alone or in connection with others?” (84). Quanto poi alla costruzione dei suoi personaggi, neppure il più grande di essi può dirsi davvero tale: “Ahab is a great figure, not a great character” (83). Secondo Blackmur, Melville opera a un livello “putativo”: “His work constantly said what it was going to do, and then, as a rule, stopped short” (79). Questa impasse fa sì che “the force and nobility of conception, the profundity of theme” siano grandi tanto in Moby Dick quanto in Pierre, ma “not from the dramatic execution but in spite of it, in the simple strenght of the putative statement, and in the digressions Melville made from the drama in front of him, which he could not manage, into apologues or sermons, which he superbly could” (85). Ciò che

rende il primo testo migliore del secondo non è una maggiore padronanza dei propri mezzi espressivi, visto che “faced with the bad necessity, as it must have seemed to him, of popularizing the material of Pierre and Moby Dick, he adopted outright the gothic convention of language with all its archaisms and rhetorical inflations” (87). Moby Dick è superiore a Pierre perché l'immaginazione dello scrittore si nutre di “mastered material”, di materiale che Melville conosceva per esperienza diretta, mentre nel secondo, “without any fund of nourishing material, the dialogues, soliloquies, and meditations got lost in the flatulence of words” (87). Il giudizio di Blackmur può apparire severo, ma è in realtà sfumato. Certamente Melville non è un “novelist”, perlomeno se per novel s’intende quella forma letteraria in cui eccelle uno scrittore come Henry James. A questo riguardo Blackmur non ha dubbi, tant'è che nelle ultime righe 142

del suo saggio fa di nuovo riferimento alla “his [Melville?s] inability to master a technique— that of the novel — radically foreign to his sensibility” (90). Eppure due qualità di Melville restano indiscutibili e giustificano un serio interesse per le sue opere: la sua immaginazione — “the only great

imagination of the middle period in the American nineteenth century” (90) — e il suo stile che, se opportunamente controllato, “could not help being a great style” (126). Che Blackmur sia almeno in parte un New Critic è chiaro proprio da quanto scrive sullo stile melvilliano, che viene illustrato citando un brano di Moby Dick definito “an example of words composed entirely of feelings and the statement of sensuous fact, plus of course the usual situating and correlative elements which are the real syntax of imaginative language” (86). Il termine chiave è sensuous, parola che ricorre con impressionante regolarità nelle minuziose analisi del linguaggio poetico compiute dai New Critics. Compito dell’arte è restituire al mondo la sua “sensuousness”, renderlo una cosa viva e registrare quelle sensazioni profonde che esso suscita in noi e che solo il discorso letterario è in grado di catturare. Quando Melville riesce a tenersi lontano dalle convenzioni del romanzo gotico il suo linguaggio è capace di compiere una tale operazione. Il punto di vista strettamente tecnico assunto da Blackmur non gli permette — contrariamente a quanto fa Winters — di affrontare l'epopea della Balena Bianca come epica nazionale. Blackmur non è disposto a ricorrere a una categoria particolare per Moby Dick e, giudicando il testo in base alle convenzioni canoniche del novel, deve concludere che si

tratta di un’opera marcata da gravi lacune. Melville gli appare davvero a suo agio soprattutto come “preacher”: “the vices of his style either disappeared or transpired only as virtues when he shifted his mode to the sermon [...] because he had found a mode which suited the bent of his themes, which allowed the putative statement to reach its full glory” (89). Nel loro genere, tanto il sermone di Father Mapple quanto il saggio di Plotinus Plinlimmon in Pierre, sono delle gemme. Peccato, aggiunge Blackmur, che tali registri linguistici siano estranei alla forma classica del novel. Nonostante la diversità di accenti e di metodi c’è una significativa somiglianza tra le pagine di Winters e quelle di Blackmur. In perfetta sintonia con un’epoca dominata dal New Criticism, ambedue concentrano la loro attenzione sul testo, lasciando da parte lo spessore socio-culturale

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implicito nelle loro modalità di lettura proprio quando questo andrebbe affrontato con più urgenza. Cosa vuol dire, ad esempio, che la lezione morale di Moby Dick sta nella condanna di Ahab? Perché è pericoloso affidarsi — come farebbe Ahab — agli istinti? Perché il mostrarsi perplessi dinanzi alle ambiguità dell’esistenza porta al naufragio morale? Per Winters, evidentemente, la morale e la ragione sono entità ontologiche, e ciò

che è implicito nel suo saggio su Melville è che la letteratura deve sempre fornirci un punto di vista rassicurante e non problematico sulla realtà. Quando questo non accade, ed è il caso di Pierre e The ConfidenceMan, non si ha vera letteratura.

Per parte sua Blackmur, apparentemente interessato solo a questioni formali, tocca invece un problema prettamente sociale: quello relativo alla scelta, da parte dello scrittore, del mezzo più adatto per comunicare col proprio pubblico. I generi letterari sono naturalmente entità storicosociai, eppure Blackmur non spiega perché la continuità “realistica” del romanzo jamesiano sia da ritenersi superiore agli “eccessi” del romanzo gotico, e visto che il secondo genere è di certo enormemente più popolare del primo, sarebbe importante quantomeno sollevare la questione !. È però tipico dei New Critics affermare di volersi limitare a questioni formali per introdurre poi tacitamente nell’analisi categorie e distinzioni di ordine storico. È evidente che Blackmur considera il romanzo una forma che raggiunge la sua maturità con James, ed egli misura il successo dei testi melvilliani usando James come pietra di paragone, esattamente come altri New Critics vedevano in Shelley lacune stilistiche e una sensibilità immatura, usando, più o meno

esplicitamente, John Donne

come

unità di misura. Analogamente, astenendosi dal toccare qualunque tasto che non sia “letterario”, Blackmur finisce con dare una spiegazione del

17 C'è sicuramente, alla base della scarsa considerazione in cui viene tenuto il genere gotico da tanta parte della critica letteraria, un pregiudizio di classe nei confronti della cultura popolare e di massa (che resta tale anche quando i critici si dicono marxisti). Secondo Morris Dicxsten, “le strutture quasi mitiche del romance americano sono più vicine alla letteratura popolare che al romanzo realista europeo” e non sono pochi i critici che, al pari di Blackmur, hanno sollevato obiezioni sulla validità “artistica” di molti testi canonici americani per la presenza in essi di elementi gotici e melodrammatici. Cfr. “Popular Fiction and Critical Values. The Novel as a Challenge to Literary History”, in Sacvan BercovItcH (a cura di), Reconstructing American Literary History, Cambridge, Massachusetts, Harvard Uni-

versity Press, 1986, pp. 29-66.

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fallimento di Melville come romanziere che è esemplare nel voler ridurre a tutti i costi un problema sociale a uno formale. Se lo scrittore “wrote nothing of major significance in the forty years he lived after writing Pierre [...] it was, I think, partly bad luck [...] and it was partly that his work discovered for itself, if we may say so, that it was not meant to be fiction”

(76). Blackmur si rifiuta di ricorrere a una spiegazione delle dinamiche letterarie in chiave strettamente biografica, ma solo al prezzo di concepire il processo di scrittura come indipendente dal contesto sociale, e cioè dal rapporto dello scrittore con critica e pubblico. Blackmur e Winters, come tutti i New Critics, si servono di un codi-

ce ideologico essenzialmente di stampo etico, e affrontano i testi letterari con la convizione che la natura e l’esperienza umana siano indipendenti dalla realtà storica. I New Critics tracciano così i confini tra Bene e Male assumendo come punto di osservazione un soggetto umano trascendente e immutabile:

Winters,

infatti, riscrive Moby Dick come

allegoria

dell’inevitabile disastro cui va incontro l’individuo che rifiuti di lasciarsi guidare dalla Ragione e di sottomettersi alel “superior laws”. Nello schema di Winters gli istinti sono il Male, la manifestazione di un’alterità minacciosa che, quando prende il sopravvento, come in Pierre, distrugge i principi morali su cui, secondo Winters, l’Arte dovrebbe fondarsi. Per quanto utilizzi un linguaggio apparentemente molto più tecnico, anche il discorso di Blackmur si fonda essenzialmente su categorie etiche. Anche per Blackmur senza un saldo punto di osservazione che non lasci dubbi su come leggere l’azione non ci può essere grande letteratura. Blackmur cerca invano in Moby Dick un punto di vista jamesiano che funga da guida, assumendo implicitamente che l’opera d’arte può essere grande solo se è costruita in base a un principio “organico” e non è marcata da contraddizioni interne. Per Blackmur Ishmael è solo un “false center”, e Moby Dick non può trovare una sua unitarietà come allegoria perché

“succesful allegory” [...] requires the preliminary possession of a complete and stable body of belief appropriate to the theme in hand” (80) che Melville non possiede. Per queste ragioni l’arte melvilliana appare sovente “artificial”. Un testo letterario che non poggi su una salda visione del mondo - sia che essa derivi dalla coscienza centrale di un personaggio, 0, piuttosto, dalla fede aprioristica dell'autore — anche se di enormi potenzialità, si arresterà alle soglie della grandezza. Che questo sia in essenza un atteggiamento etico è comprovato dal fatto che Blackmur vede

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Melville esprimersi al meglio quando scrive sermoni — quando appare cioè in pieno possesso di solide categorie di giudizio.

4. F. O. Matthiessen e la “grande tradizione” americana

All’inizio degli anni ‘40 Melville aveva dunque conquistato una posizione di un certo prestigio, ma nonostante gli appelli lanciati dai vari Carl Van Doren e Van Wyck Brooks a favore di una revisione generale del canone letterario nazionale che ne aumentasse il peso specifico, gli autori americani continuavano a godere di una reputazione ancora notevol-

mente inferiore a quella dei “maestri” inglesi. I tempi erano però maturi per un intervento che, al pari di quello compiuto da Leavis e dal gruppo di Scrutiny sulla letteratura inglese, indicasse con autorità se esistesse o meno una “grande tradizione” americana. Tra gli altri, un tentativo in tal senso era venuto da Granville Hicks che, in 7be Great Tradition (1931),

si era però limitato a un’analisi della letteratura posteriore alla guerra civile. Scritto poi dal punto di vista di un marxismo piuttosto ortodosso, il testo era troppo marginale rispetto al discorso critico-letterario dominante per avere un'influenza decisiva. Sarebbe toccato a un critico da un lato impaziente nei confronti del marxismo ufficiale — ma in simpatia con gli ideali socialisti — e dall’altro non interamente soddisfatto dall’altrettanto dogmatico formalismo del New Criticism — ma d’accordo sull’opportunità di studiare da vicino la struttura del testo — di indicare quanto ricco fosse il patrimonio letterario nazionale già prima della guerra civile. In un recente saggio sulla Monthly Review, Leo Marx ha così commentato l’impatto del monumentale lavoro di Francis Otto Matthiessen, pubblicato nel 1941: Sembra incredibile ricordare quanto fosse provinciale, estetizzante e irrimediabilmente manierata la concezione dominante della nostra letteratura prima che fosse pubblicato American Renaissance. L’autorità di quel canone ufficiale era stata certamente corrosa dagli studi di D. H. Lawrence, V. L. Parrington e Ivor Winters [...]. Rimane tuttavia il fatto che autori come Holmes, Longfellow, Lowell e Whittier occupavano ancora un posto preminente in questo canone, e la letteratura americana nel suo insieme era guardata con condiscendenza dai professori americani e britannici di letteratura inglese, come un ramo minore dell’alta cultura inglese. Matthiessen, invece di attaccare l'autorità

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degli accademici, si limitò ad applicare il metodo di una letteratura aderente al testo per dimostrare la potenza illuminante dei suoi cinque grandi scrittori - Emerson, Thoreau, Whitman, Hawthorne e Mel-

ville — e il godimento che ne veniva ai lettori 18, Da chiunque venga menzionato, American Renaissance è puntual-

mente descritto non solo come uno dei testi chiave della critica americana, ma come uno dei più originali per la varietà di approcci impiegati. Questo rende naturalmente difficile riassumere criticamente l’opera, com'è del resto piuttosto arduo parlare di Matthiessen in poche pagine. Già definire questa straordinaria figura un critico letterario appare fuorviante, e bisognerebbe piuttosto dire che Matthiessen rappresenta, in questa fase travagliata della storia degli Stati Uniti, un raro esempio di intellettuale disposto a vivere con tutta la sua intelligenza e la sua passione proprio il ruolo di studioso, insegnante e militante di sinistra !9. Inevitabilmente Matthiessen restò impligliato in una serie di contraddizioni che, senza trascurare la loro specifica dimensione individuale, traevano origine dal momento storico in cui egli visse. Essere “a christian and a socialist believing in international peace” — parole che annotò su un biglietto scritto prima di suicidarsi il 31 marzo del 1950 — durante gli anni ’30 e ’40, tra repressione, guerra, fascisco e stalinismo, voleva dire accettare sino in fondo rischi profondi, e non solo sul piano intellettuale 2°. Quanto

18 Leo Marx, “Doppia coscienza e la politica culturale di F. O. Matthiessen”, Monthly

Review (edizione italiana), 16 (maggio-giugno 1983), pp. 39-46, (41). 19 Gli studi su Matthiessen consultati sono: Paui Swerzy e Leo Huserman (a cura di), F. O. Matthiessen: A Collective Portrait, New York, Monthly Review Press, 1950, in particolare

il saggio di Henky Nasx SmitH su American Renaissnce, pp. 223-28; Ricuarn Ruranp, 7be Rediscovery of American Literature, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1967, pp. 21185; Grorce A. Write, “Ideology and Literature: American Renaissance and F. O. Matthies-

sen”, Triquarterly, 23/24 (1972), pp. 430-500; Gus Gunn, F. O. Matthiessen: The Critical Achievement, Seattle and London, University of Washington Press, 1975, in particolare pp. 68-133; Freperick C. Stern, F. O. Matthiessen, Christian Socialist as Critic, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1981, in particolare pp. 16-61; JonatHAN Arc, “F. O. Matthiessen: Authorizing an American Renaissance”, in W. B. MicÒaes e D. E. Prase (a cura di), be American Renaissance Reconsidered, Baltimore and London, Johns Hopkins University Press, 1985, pp. 90-112; Wiruam Cam, F. O. Matthiessen and the Politics of Criticism, Madison, University of Wisconsin Press, 1988.

20 Come ricorda Leo Marx (cit., p. 40), Matthiessen fu interrogato dalla Commissione per le attività anti-americane e attaccato pubblicamente da più parti come “compagno di strada” dei comunisti.

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Matthiessen riuscî a conciliare le diverse forze che agirono su di lui è una questione aperta al dibattito; che egli visse con serietà il proprio impegno politico-intellettuale è invece fuori discussione. Per quel che più c’interessa in questa sede si dovrà accennare ai tre diversi filoni di pensiero che, a livello politico, religioso e artistico, sono alla base di American Renaissance. Matthiessen era convinto, prima di tutto, che la grande letteratura americana dell’Ottocento fosse una letteratura democratica; secondo, che la vita umana si svolgesse essenzialmente nel segno della tragedia; terzo, che compito del critico letterario fosse innanzitutto valutare la fusione di forma e contenuto nel testo in esame. A questi tre principi egli accenna chiaramente sin dalle pagine introduttive, sottolineando che: a) “the one common denominator of my five writers, uniting even Hawthorne and Whithman, was their devotion to

the possibilities of democracy”; b) due dei temi principali del libro saranno “the adequacy of the writer's conception of the relation of the individual to society, and of the nature of good and evil — these two rising to their fullest development in the treatment of tragedy”, c) l’opera desidera esaminare “wbat these books [i capolavori del rinascimento americano] were as works of art, [...] evaluating their fusions of form and content» 21, L’eclettismo che contraddistingue la posizione di Matthiessen — socialista cristiano che deve confrontarsi da un lato con lo stalinismo e dall’altro col riformismo roosveltiano — è dunque comune anche alla sua teoria letteraria, dove la concordanza con alcune posizioni espresse da I. A. Richards, T. S. Eliot e i New Critics cerca di sposarsi alla convinzione che l’opera d’arte deve essere letta sullo sfondo di un complesso universo sociale. È davvero straordinario, come sottolinea Leo Marx, vedere

Matthiessen passare “dal folclore al design navale, all’oratoria politica, al genere pittorico, alla teoria architettonica [...] senza ricorrere ad alcuna

tesi generale e onnicomprensiva sul carattere dei legami tra la letteratura e la vita collettiva circostante che chiamiamo ‘società’’.?2 Qui sta senz’altro la forza, ma anche la debolezza del libro. La forza, perché dinanzi al dogmatismo di stampo staliniano che dominava il marxismo ufficiale, es-

21 American Renaissance, New York, Oxford University Press, pp. vii-xvi. 22 Marx, cit., p. 42.

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sere critico “marxista” avrebbe potuto comportare l'accettazione di un'idea rozza e schematica del rapporto struttura economica-sovrastruttura culturale. La debolezza, perché Matthiessen non riesce a elaborare una teoria materialista della cultura, finendo spesso con l’accettare l’umanesimo idealista del discorso critico-letterario dominante, e in sostanza

confermando involontariamente che l’analisi dei prodotti culturali è indipendente, e quindi secondaria, rispetto a quella dell’infrastruttura economica. Matthiessen ha pienamente ragione di dimostrarsi insoddisfatto nei confronti del positivismo di Parrington e della critica documentaristica che si limitava ad inserire un’opera letteraria nel suo “contesto” senza preoccuparsi di analizzare quanto essa effettivamente dicesse. Il suo errore sta nel non storicizzare la nuova prospettiva che egli intende aprire sulla letteratura americana. Quando cerca di spiegare perchè, a suo avviso, non sono i Simms, i Longfellow e gli Holmes i grandi dell’Ottocento, Matthiessen non va al di là di una citazione di Ezra Pound — “the history of an art, is the history of masterwork, not of mediocrity” — precisando che, nel trattare i grandi testi del rinascimento americano suo scopo è “to evaluate them in accordance with the enduring requirements for great art’(xi). Quanto scritto sinora dovrebbe aver dimostrato a sufficienza che i criteri “duraturi” per misurare la grande arte sono in realtà tutt'altro che duraturi, e anzi, come

tutte le categorie trans-storiche, tali criteri sono

fantasie idealiste. È proprio però per questa sua parziale accettazione di quella che abbiamo definito l’ “ideologia dell’estetica” che Matthiessen riesce ad inserire il suo testo nel discorso critico-letterario dell’epoca. Si potrebbe obiettare che Matthiessen si serve surrettiziamente di una posizione idealista per poi rivoluzionare in senso progressista il canone letterario, immettendovi figure nuove e ribelli come Whitman e Melville. È quanto

suggerisce Jonathan Arac, sostenendo

che, nonostante

alcune

23 Vedi in particolare la nota introduttiva — Method and Scope” — di American Renaissance. Già nel 1929 MartHIEsseN aveva notato che in America “La letteratura è stata studiata in un vuoto senza essere messa in relazione con nulla ail’infuori di se stessa; come

una genealogia di opere stampate, con un libro che ne genera un altro. Il suo Nuovo Storico [...però] non deve perdersi nei contesti, né dimenticare che il suo vero obiettivo è il valore estetico, e che forse non v'è bisogno di comprendere a fondo l’importanza della democrazia jacksoniana per leggere in modo intelligente ‘Rappaccini’s Daughter” (“New Standards in American Criticism”, be Yale Review, 18 [1929], pp. 603-606).

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obiettive contraddizioni, American Renaissance viene appropriato dalla critica successiva in un modo che Matthiessen non avrebbe certamente approvato. Su questo problema torneremo tra breve, limitandoci per il momento a ribadire la contraddittorietà del progetto di Matthiessen: da un la-

to egli cita Louis Sullivan per ricordare che l’artista deve impiegare le sue capacità “a favore del popolo”; dall’altro non chiarisce se, e come, sia possibile conciliare tale impostazione con gli “enduring requirements for great art” che hanno sino a quel punto osteggiato la canonizzazione di Melville e Whitman. Se poi l'impegno democratico è indispensabile alla grande arte, come è possibile, ad esempio, sostenere che tanto il monarchico Eliot quanto il democratico Whitman siano ambedue grandi poeti? Matthiessen non pare in grado di affrontare problemi di questo tipo perché oscilla tra una posizione che considera necessaria la conoscenza del contesto sociale per rendere pienamente conto della funzione dell’opera letteraria, e il New Criticism — secondo il quale il significato di un testo è determinabile a prescindere dai discorsi che lo attraversano in ogni punto. Come ha spiegato Leo Marx, la giusta diffidenza di Matthiessen nei confronti del marxismo ufficiale appare a tratti eccessiva, considerato che egli non cercò di servirsi di Adorno, Benjamin, Burke, Lukacs e altri marxisti o “quasi marxisti” oc-

cidentali che pure erano critici delle rigidità dogmatiche di stampo sovietico. In particolare si può purtroppo solo speculare su cosa avrebbe rappresentato per Matthiessen — un intellettuale per il quale la fede religiosa era indissolubilmente intrecciata all'impegno politico — la lettura di Emst Bloch o del Benjamin di Tesi di Filosofia della Storia. Paradossalmente, quello che pare mancare al socialismo cristiano di Matthiessen è proprio la tensione utopico-messianica, ed è la tragedia (nella sua versione cristiana molto più che in quella classica) a costituire a suo avviso non solo la suprema forma estetica, ma l'essenza stessa della vita umana.

24 Matthiessen vedeva a ragione la condanna dogmatica del pensiero religioso come un gravissimo limite di buona parte della sinistra dell’epoca, e si rivolse una volta a degli amici marxisti con queste parole: “se pensate veramente che la religione non sia altro che l’oppio del popolo [...] non potete sperare di capire i cinque scrittori che ho trattato nel libro [American Renaissance”. (Citato in A Collective Portrait, cit., p. 142).

? “I valori necessari alla ‘grande arte’ erano per lui molto chiari: la tragedia articolava i più alti valori nel campo estetico, la democrazia in quello politico, e ambedue erano unite da, e condividevano, un terreno cristiano” (G. A. Ware, cit., p. 465).

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Le questioni sin qui sollevate non rivestono unicamente un interesse di carattere generale, ma hanno conseguenze dirette sulle oltre centocinquanta pagine che in American Renaissance vengono dedicate a Melville. È nell'opera di quest'ultimo — che emerge dal libro come il più grande degli scrittori trattati — che i valori della tragedia, del cristianesimo e della democrazia si fonderebbero quasi perfettamente. Non a caso Moby Dick è visto soprattutto come una “revenger's tragedy” dove, in armonia con i sentimenti democratici di Melville, uno “old whale hunter [is built up] to the stature of a Shakespearean king” (445). Avvalendosi anche del lavoro di ricerca intrapreso da Charles Olson — che già nel 1938 aveva dato alcuni importanti frutti 2° —Matthiessen insiste sull’enorme importanza del rapporto Melville-Shakespeare: “In Melville’s case the accident of reading Shakespeare had been a catalytic agent, indispensable in releasing his work from limited reporting to the expression of profound natural forces”(428). Decine di echi shakespeariani sono rintracciabili in Moby Dick, ma quel che conta è soprattutto che “Shakespeare’s conception of tragedy had so grown into the fibre of Melville’s thought that much of his mature work became a recreation of his themes in modern terms”(435). Se non erano mancati lettori disposti a riconoscere in Moby Dick l’opera di un genio, e ad accostarla a grandi testi letterari, Matthiessen è il primo che esa-

mini a fondo i materiali sui quali l’opera si basa, così come è il primo che, in modo articolato, ne proponga una lettura in chiave di dramma tragico. Il microcosmo della Pequod, composto da un’umanità sofferente di “meanest mariners, and renegades and castaways”, è dominato tirannicamente da Ahab, per il quale Melville prova al tempo stesso “electric attraction and repulsion” poiché “his [Ahab's] resolve to take it upon himself to seek out and annihilate the source of malignity is god-like, for it represents human effort in its highest reach. But as he himself declares, it is likewise ‘demoniac’, the sanity of a controlled madness”(448). Come il protagonista di tante tragedie di vendetta elisabettiane, Ahab è “both hero and villain”, e se in Moby Dick manca una catarsi rigeneratrice, il suo autore “had eased his thoughts by the act of creating so prodigious an artistic structure”. Grazie ad Ahab, Melville rappresenta e supera la sua cri-

26 Cfr. CrÙarues Orson, “Learand Moby Dick’, Twice a Year, 1 (1938). Su Olson si veda più avanti.

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si personale. La funzione di questa moderna tragedia sta dunque nel ricordarci che l’uomo è un essere limitato e non può aspirare all’onnipotenza; ma non solo: Without deliberately intending it, but by virtue of his intense concern with the precariously maintained values of democratic Christianity, which he saw everywhere being threatened or broken down, Melville created in Ahab's tragedy a fearful symbolism of the self-enclosed individualism that, carried to its furthest extreme, brings disaster both upon itself and the group of which it is part. He provided also an ominous glimpse of what was to result when the Emersonian will to virtue became in less innocent natures the will to power and conque-

st.(459) La tragedia ha dunque una sua dimensione specificamente americana, ed ha anche la funzione di mitigare gli entusiasmi a volte eccessivi e ingenui del pensiero trascendentalista. Nonostante Matthiessen insista sulla dimensione tragica dell’opera, anch'egli nutre dei dubbi sulla sua coerenza stilistica e strutturale, e suggerisce che Melville si esprime al meglio non nei soliloqui o nei dialoghi della tragedia, non, cioè, “on the Shakespearean level”, ma a livello “Omerico”, nella prosa descrittiva e meditativa. Grazie a un’analisi tipicamente “new critical”, la struttura di diversi brani e l'efficacia di numerose immagini e similitudini è studiata in dettaglio; quello che a Matthiessen preme sottolineare è soprattutto che il simbolismo melvilliano funziona in base al cosiddetto “organic principle”.?7 Diversamente dall’universo allegorico di Mardi, in Moby Dick “the inner and the outer world, matter and spirit” sono fusi magistralmente. Se già altri avevano messo l’accento sulla valenza simbolica di tante immagini del testo, ora l’analisi è più accurata e la modernità del linguaggio melvilliano — Eliot e Joyce sono indicati esplicitamente come pietre di paragone — viene rivendicata a pieno titolo. Anche per Matthiessen, come per Winters, un’opera d’arte deve fondarsi su una salda visione morale. A suo avviso, Melville aveva indi-

27 “I risultato degli sforzi di Melville costituiva un’arte che soddisfaceva pienamente il concetto di organicismo elaborato da Matthiessen. Grazie alla consapevolezza integrata prodotta dalla miracolosa estensione del simbolo, la migliore opera di Melville assolveva ad una funzione analoga a quella religiosa, presentandoci un altro mondo col quale sentiamo però di avere un legame” (G. Gunn, cît., p. 101).

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cato in Moby Dick come, per quanto ammirevole, l’eroismo di Ahab fosse in ultima analisi da condannare. In Pierre egli non è invece in grado di offrire alcuna guida e il testo è soprattutto il riflesso “of a psychological chaos in which discriminations between good and evil have inevitably been engulfed in the general wreckage of art and philosophy”. be Confidence-Man segna un passo avanti sul piano dello stile, ma in sé la storia “is no more than a manipulated pattern of abstractions”. Solo in Billy Budd Melville ritroverà pienamente se stesso, accettando sino in fondo la grandezza e la tragicità del destino umano. È proprio però nelle pagine sul racconto destinato a far discutere generazioni di lettori che Matthiessen è meno convincente, e tutta la sua lettura di Melville mostra le proprie contraddizioni ideologiche. Senza addentrarci nelle ambiguità del racconto stesso basti notare che, nella interpretazione che Matthiessen ne dà, non c’è spazio per le incertezze: Billy Budd è per lui un perfetto esempio di tragedia cristiana. In esso le differenze tra bene e male sono ripristinate — anche se non nei termini meccanici “of a white innocence against a very black evil”, perchè nel “villain Claggart” c'è qualcosa di così tristemente doloroso da non farne una figura puramente negativa mentre Billy, nonostante la sua innocenza, è pur sempre un omicida. A fornire un chiaro punto di vista etico-morale c'è, per Matthiessen, il capitano Vere: “He has the strength of mind and the earnestness of will to dominate his instincts. He believes that in man's government, ‘forms, measured forms, are everything””(509). Melville “can therefore treat a character like Vere with full sympathy [...]. Vere obeys the law, yet understands the deeper reality of the spirit”(51011). Matthiessen, e la cosa è tanto più incredibile se si tiene a mente il suo pacifismo cristiano, ignora completamente che le “measured forms” di Vere sono non solo leggi umane e non divine, ma leggi marziali; così come egli ignora che Vere è il capitano di una nave da guerra, non un sommo sacerdote al di sopra delle parti. Quest’interpretazione è indice di una serie di problemi che vanno al di là di Billy Budd. Matthiessen non riesce a resistere alla tentazione di dimostrare che, nella sua ultima opera, “Melville aveva finalmente ritrovato la via verso la luce del sole dopo un lungo viaggio attraverso le tenebre”.8

28 Gunn, cit., p. 133.

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L'intera carriera dello scrittore diviene così un’allegoria della tragedia cristiana il cui apice è toccato in Bi/ly Budd dove “no longer does Melville feel the fear and dislike of Jehovah that were oppressing him through Moby-Dick and Pierre. He is no longer protesting against the determined laws as being savagely inexorable. He has come to respect necessity. [...He] has gained a balance that was lacking in the angry defiance in Pierreand The Confidence-Man”(510-11). Tutta l’analisi di Matthiessen rischia a questo punto di fare corto circuito. Jehovah e “the great democratic God” di cui parla Ishmael nel capitolo XXVI di Moby Dick sono dunque lo stesso Dio? E cosa è accaduto al convinto assertore di valori democratici se questi giunge a presentarci gli ufficiali che tentennano nel condannare Billy come “less intelligent and less rigorous” di un Vere che ricorda loro “that they do not owe their allegiance to human nature, but to the king” ? Il problema è che Matthiessen non vede queste contraddizioni, e il suo Melville è costruito per metà come americano democratico e ribelle, e per metà come una sorta di Eliot ottocentesco (Eliot fu una delle grandi passioni di Matthiessen) che ha finalmente chinato il capo dinanzi a Dio e al Re, accettando che “though good goes to defeat and death, its radiance can redeem life”(514). Come si vede i problemi irrisolti del cristianesimo di Matthiessen sono tutt'altro che irrilevanti per la sua lettura di Melville, e dimostrano chiaramente come non vi sia lettura formale che possa trattare un’opera d’arte senza far ricorso a un qualche codice di natura ideologica. L’idea di tragedia che Matthiessen adopera in American Renaissance non è intrinseca all’oeuvre melvilliana, ma è prodotta dall’articolazione dei discorsi del critico con quelli del testo; e poichè quelli del primo sono contraddittori non meno di quelli del secondo, l’interpretazione che ne è il risultato non potrà non essere problematica. A Granville Hicks bisogna riconoscere il merito di aver indicato a caldo, in una lunga recensione assolutamente non dogmatica, quale fosse uno dei nodi non sciolti di American Renaissance. Dopo aver sottolineato che chiedere all’autore una maggior chiarezza sulla natura delle proprie convinzioni religiose non voleva dire cercare d’intromettersi in una sfera privata, visto che “dopo tutto, questioni religiose figurano quasi in ogni pagina”, Hicks spiega che Matthiessen ha certamente ragione nel sottolineare quanto sia importante per l’artista fare i conti tanto con il bene che col male [...]. La de-

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mocrazia, per la quale Matthiessen ha una profonda devozione, si è sviluppata da una crescente fiducia nelle capacità umane, e sebbene tale fiducia debba forse essere moderata, distruggerla del tutto vorrebbe dire distruggere anche la democrazia. Forse è vero che l’accettazione da parte di Hawthorne del “comune legame del peccato” era alla base del suo senso della fratellanza umana, ma quando Melville parlava dello “spirito democratico e senza catene della Cristianità che pervade tutte le cose”, che egli trovava caratteristico di Hawthorne, mi chiedo se avesse in mente Cristo il Verbo o Gesù il ribelle. A tale proposito, non sono in grado di trovare granché sul peccato originale nei

Vangeli.??

La fede politico-religiosa di Matthiessen — che sta alla base di tutta la sua interpretazione di Melville come delia sua visione d’assieme del rinascimento americano — pare in effetti oscillare tra l’azione sociale che deve accompagnare una posizione cristiana conseguente, e la rassegnazione di fronte alla “absolute sovereignity of God”. Così Melville è prima descritto come ribelle nei confronti del severo Jehovah e poi come pronto a equiparare la “rettitudine” di Vere alla “inexorable logic, the tremendous force of mind in the greatest of our theologians [cioè Jonathan Edwards]”(513). Tutto questo sarebbe forse accettabile se venisse presentato appunto sotto l'aspetto di un’antinomia e non, come fa Matthiessen, sotto quello della riconciliazione. Qui egli paga sino in fondo il proprio debito verso le teorie organiciste del New Criticism, secondo le quali le “tensioni” e i “paradossi” del testo letterario devono tradursi in un’ equilibrio finale. Il macrotesto melvilliano viene trasformato in un corpus organico così che anche le cadute di Pierre e The Confidence-Man sono recuperate nel simmetrico Billy Budd, un’opera caratterizzata infatti da “delicacy of equilibrium” e “balance”, dove “Melville could now face incongruity: he could accept the existence of good and evil with a calm impossible to him in Moby Dick'(512). Nonostante la pretesa di voler concentrare l’analisi sui testi del rinascimento americano “as works of art”, l’interpretazione di Matthiessen ha un’inevitabile dimensione ideologica.50

29 Dalla recensione di American Renaissance firmata da Granvine Hics ed apparsa sul New England Quarterly, 14 (1941), p. 564. 30 In un interessante articolo Gerapine MurrHy nota però che l’interpretazione che Matthiessen dà di Bi/ly Budd, con la sua insistenza sulle idee di riconciliazione e compas-

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È doveroso aggiungere che Matthiessen tiene sempre presente il contesto sociale in cui si sviluppa l'immaginazione melvilliana, ma va altresì notato che non c’è un chiaro senso di quale sia la rilevanza di queste osservazioni ai fini della comprensione dei testi. Una volta che viene negata, anche se a fini strategici, la natura sociale di qualsivoglia realtà discorsiva, diviene impresa ardua cercare di reinserire l’opera nel sociale. Non è perciò azzardato concludere che, pur cercando di superare la ristretta visione meccanicista del modello struttura-sovrastruttura — che di fatto sancisce una frattura tra i due livelli — Matthiessen accetta l’idea che esiste una sfera estetica sospesa al di là della Storia, e analizzabile autonomamente.3! Da questo punto di vista è innegabile che permanga in American Renaissance una tensione tra l’uso di categorie immanenti e

categorie trascendenti, tra la celebrazione dell'America democratica e l’importanza del dogma del peccato originale. AI di là di questi problemi resta da chiedersi per quali motivi il libro di Matthiessen ha avuto un’influenza enorme e ha contribuito in modo determinante a rendere Melville un autore canonico. Prima di tutto American Renaissance non si limita a insistere sulle singole qualità di Melville, ma inserisce la sua opera in una nuova letteratura americana dell’Ottocento nella quale le pietre di paragone sono Emerson, Thoreau, Whitman e Hawthorne e i grandi autori inglesi, e non più i Longfellow e gli Holmes. Nonostante Matthiessen sostenga che “during the century that has ended, the successive generations of readers, who make the deci-

sions, would seem finally to have agreed that the authors of the pre-Civil War era who bulk largest in stature are the five who are my subject”(xi), degli studi dedicati sino a quel momento all'Ottocento americano solo The Golden Day di Mumford aveva descritto i cinque autori privilegiati in American Renaissance come i più degni rappresentanti della letteratura

sione, risente dell’atmosfera politica del “Popular Frontism”, e può dunque anche essere letta come ottimista e progressista. Come spiega molto bene la Murphy, molti dei critici che negli anni ‘40 e ‘50 contestano l’interpretazione di Matthiessen, pur mettendo l'accento su quella dimensione ironica del testo che sarebbe poi stata sottolineata anche dai critici marxisti e di sinistra, soprattutto dagli anni ‘60 in poi, lo fanno da posizioni nettamente conservatrici. (“The Politics of Reading Billy Budd", American Literary History, 1 [Summer

1989], pp: 361-82).

31 Per alcune illuminanti osservazioni su questi problemi si veda Ravmonp Witiams, Marxismo e Letteratura, tr. di Mario Stretema, Bari, Laterza, 1979, pp. 74-109.

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prebellica. Mumford però è più uno storico della cultura che un critico letterario e — come s'è visto a proposito del suo libro su Melville — quando affronta il testo letterario le sue letture sono fondamentalmente impressionistiche e caratterizzate da troppe generalizzazioni. In sostanza, nonostante l’indiscutibile prestigio personale di cui egli gode nei circoli intellettuali dell’epoca, Mumford non può ambire ad esercitare una seria influenza su un discorso critico-letterario dominato dal formalismo dei New Critics. Matthiessen, al contrario, riempie col suo lavoro un vero e

proprio vuoto istituzionale. Come abbiamo mostrato nel corso del primo capitolo, era dal primo decennio del nuovo secolo che s’invocava una seria riconsiderazione del canone letterario nazionale. Già alcuni avevano tentato l'impresa, ma è Matthiessen il primo che, adoperando la tecnica del close reading e rispettando alcuni principi cardine del New Criticism, riesce a trasformare i testi dei Melville e degli Hawthorne da semplici documenti storico-culturali in veri e propri “works of art”. Questo non vuol dire che American Renaissance sia un testo animato unicamente da preoccupazioni formaliste. Al contrario, non solo Matthiessen insiste nel caratterizzare la letteratura americana come letteratura “democratica”; egli è altresì cosciente che un’opera di ricostruzione del canone non può non avere una dimensione specificamente politica. Nella sua introduzione, in una nota a pie’ pagina, egli cita la seguente frase da un saggio di André Malraux: “Un patrimonio non si trasmette; lo si deve conquistare”. Proprio mettendo l’accento su quanto è implicito in tale posizione, Jonathan Arac sostiene che Matthiessen, rivalutando auto-

ri “minori” come Melville, e comunque elevando la letteratura americana al rango di Arte, concepisce il proprio testo come intervento militante. È certamente possibile scorgere in alcune posizioni caratteristiche di Ame-

rican Renaissance uno spessore apertamente politico. Ad esempio nell’attenzione dedicata dal testo agli sforzi che gli scrittori considerati avrebbero compiuto per costruire una cultura per “all the people” può leggersi l’adesione dell’autore alla politica dei Fronti Popolari; oppure si può notare come la parola “America” non venga mai adoperata in senso nazionalistico, ma come simbolo di una nuova realtà sociale e culturale cui tutti i popoli del mondo hanno diritto ad aspirare. Tutto questo è senz’altro vero, com'è vero però — ed è lo stesso Arac a sottolinearlo — che permane nell’opera una contraddizione insanabile tra teoria estetica e teoria politica: “L'estetica di Matthiessen è in

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accordo con quella di Coleridge, così come lo è la sua teologia, ma il suo punto di vista politico, che pure parte da un anticapitalismo romantico simile, è molto differente” .32 È pertanto giusto sostenere che il testo viene appropriato da molta critica successiva in modi che avrebbero lasciato insoddisfatto il suo autore, ed è certo non casuale che la prima opera che proporrà una “teoria” della letteratura americana paragonabile per influenza ed autorità a quella di Matthiessen — Symbolism and American Literature di Charles Feidelson, Jr. — sceglierà come proprio bersaglio polemico proprio la democraticità della tradizione letteraria statunitense così cara a Matthiessen. Anche ammettendo però che Matthiessen scriva al tempo stesso “da New Critic, da marxista, da neo-umanista, da freudiano”, la sua concezione di cosa fosse l'Arte si basa su una teoria este-

tica affine a quella di Coleridge, I.A. Richards, Eliot e del New Criticism in generale.33 Le appropriazioni indebite di American Renaissance ad opera di tanta critica “tradizionale” trovano dunque una quantomeno parziale giustificazione in alcune indiscutibili contraddizioni presenti nell’opera.

S.Melville e le teorie della letteratura americana degli anni ‘50 L’ascesa di Melville al rango di autore classico sarebbe impensabile al di fuori del consolidarsi e istituzionalizzarsi di una nuova entità denominata “letteratura americana”. La centralità di un contributo come quello di Matthiessen dovrà infatti cogliersi nella sua riscrittura selettiva della realtà letteraria degli Stati Uniti, in esplicita opposizione all’enciclopedismo di opere come Main Currenîis in American Thought di Parrington o

32. Arac, cît., p. 100.

33 Il commento sull’eclettismo di Matthiessen è di Rutanp, cit., p. 285. Un esempio significativo del debito che Matthiessen paga all’estetica idealista è fornito dalla introduzione ad American Renaissance, dove egli liquida con poche frasi Whittier e Longfellow, Lowell e Holmes, dichiarando la loro produzione “a fertile field for the sociologist and the historian of our taste”, ma aggiungendo di essersi attenuto nel suo lavoro alla massima di Thoreau: “read the best books first, or you may not have a chance to read them at all”(xi). Non si capisce come sia possibile sapere a priori quali siano “the best books”, tanto più se non si collega l’arte ad alcuna categoria culturale o sociologica.

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The Cambridge History of American Literature. Secondo Matthiessen, come secondo la maggioranza di quelli che cercheranno, sulle sue orme, di seguire lo snodarsi di una tradizione americana, la nuova disciplina accademica dell’americanistica deve dedicarsi a un esame ravvicinato di quei testi che meglio possono reggere il raffronto con la letteratura europea, abbandonando per sempre le indiscriminate operazioni classificatorie e l'’aneddotica che avevano caratterizzato i vecchi manuali.3' Matthiessen non solo vuole isolare quel che c’è di valido nel panorama ottocentesco,

ma

inventare

un contesto

particolare,

una

“grande tradizione”

americana che, come quella ideata da F.R.Leavis in Gran Bretagna, funga da quadro di riferimento, da nuova mappa della geografia letteraria del paese, cancellando o ridimensionando quelle realtà testuali — Cooper, Poe, Simms, Whittier, Longfellow, e tanti altri - che pure sembravano

vantare inattaccabili diritti di cittadinanza al suo interno. Lo studio della letteratura, in Europa come in Nord-America, si istituzionalizza come stu-

dio di grandi individualità e per molto tempo gli storici della letteratura americana si preoccuperanno soprattutto di convalidare — magari con qualche correzione come l’inserimento nel canone di Poe — il paradigma inaugurato da Matthiessen, sia pure con linguaggi e tecniche spesso distanti dallo spirito e dagli scopi di American Renaissance. Questo tipo di operazioni possono essere viste come tentativi miranti a rafforzare una “formazione discorsiva” (Foucault) o contesto ideologico-letterario che legittima una serie di attività critiche e ne esclude altre — che dichiara lecito discutere di Melville raffrontandolo costantemente con Emerson ed Hawthorne, ma proibisce o squalifica altre contestualizzazioni (Melville e

34 Wiruam Spencemann ha scritto che il bisogno ossessivo di dimostrare che la letteratura americana non deve ritenersi inferiore a quella europea ha portato i critici a concen-

trare la loro attenzione su quei pochi testi che, in base a “canoni internazionali”, paiono meglio reggere il confronto con le grandi opere straniere, e dunque a trascurare una vastissima area di materiali che, viceversa, potrebero rivelarsi ben più caratteristicamente americani di certi testi canonici (cfr. “What is American Literature?”, Centennial Review, 22 [1978], pp. 119-38, [125)). In tale prospettiva acquista dunque un sapore paradossale il fatto che critici diversi come Matthiessen e Feidelson si propongano di isolare una tradizione americana ricorrendo di continuo a confronti con Shakespeare o Joyce o altri grandi protagonisti della letteratura europea. Un'ottima analisi critica delle diverse teorie della letteratura americana elaborate nel corso di questo secolo è quella di RusseJ.Resina, 7be Unusable Past: Theory and the Study of American Literature, London, Methuen, 1986.

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il romanzo marinaro, ad esempio) condannate come illogiche o irrilevanti sulla base di una smisurata fede nell’unicità della grande Arte.5> Come vedremo tutte le più influenti teorie della letteratura americana prodotte negli anni ‘50 si appropriano di Melville, confermandone così l’assoluta importanza. Quali che siano i linguaggi messi in campo e i valori invocati per strutturare il canone, Melville appare sempre come un passaggio obbligato. Una tra le più autorevoli teorie della letteratura americana, che si pone esplicitamente come conferma e al tempo stesso come risposta polemica ad American Renaissance, è quella esposta in Symbolism and American Literature da Charles Feidelson. Quest'ultimo dichiara sin dalle prime battute di voler correggere l’impostazione del suo illustre predecessore negando che “the vital common denominator” degli autori classici dell'Ottocento debba essere visto nella loro “devotion to the possibilities of democracy”. Piuttosto, “the really vital common denominator is [...] their attitude toward their medium”;

“their distinctive

quality is a devotion to the possibilities of symbolism”3° Feidelson vuole

35 Solo oggi iniziamo a riscoprire, nonostante la loro indubbia importanza, tutta l’arbitrarietà e la parzialità delle ricostruzioni offerte dai Feidelson e dai Lewis. Frank LENTRICCHIA ha giustamente notato che è “abitudine degli storici della letteratura americana insistere su un unico tema caratteristico (il tema adamitico, quello del romance, quello pastorale, quello simbolico o quello di un ‘mondo altrove”); tale strategia tende a spingere a forza in un singolo contenitore i più disparati eventi della nostra storia letteraria” (After tbe New Criticism, Chicago, University of Chicago Press, 1980, pp. 202-3. Gli storici della letteratura americana cui Lentricchia si riferisce implicitamente sono, nell'ordine, R.W.B. Lewis, Richard Chase, Leo Marx, Charles Feidelson, Richard Poirier). Su un altro versante Aan Warp ci in-

Vita invece a “riconoscere che gli stessi termini con i quali siamo abituati a discutere la letteratura Euro-americana — il Romanticismo, l’epica della Frontiera, la Coscienza Nazionale —

sono inadeguati o debbono essere radicalmente ridefiniti, per le culture subalterne (“Hegemony and Literary Tradition in America”, Humanities in Society, 4 [1981], pp. 419-30, [425)). Una revisione della letteratura nazionale che sappia tenere conto del punto di vista delle minoranze etniche o dei settori oppressi ed emarginati della società è un compito che si pone con urgenza. Per alcuni significativi passi in tale direzione si vedano ad esempio le linee programmatiche della nuova Cambridge History of American Literature esposte dal suo general editor Sacvan BercovitcH in “The Problem of Ideology in American Literary History”, Critical Inquiry, 12 (1986), pp. 631-53, nonchè i due ultimi capitoli di be Unusable Past, cit., pp. 218-72. La Heath Anthology of American Literature, a cura di Pau LauTeR et al.,

Lexington, Massachusetts e Toronto, 1990, è la prima antologia che si proponga come risposta in positivo al dibattito sul canone degli ultimi anni. 6 Symbolism and American Literature, Chicago, The University of Chicago Press, 1953, pp. 3-4. Due utili saggi sul lavoro di Feidelson sono quello di Agostino Lomsarpo, “Il

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dunque ripulire il discorso critico-letterario da incrostazioni storiciste © sociologiche per proporre una nuova visione della letteratura americana che, rispettosa dei principi tecnici e ideologici del New Criticism, non consideri il testo altro che una realtà puramente linguistica. Eppure è impossibile non scorgere nella prima mossa strategica operata da Feidelson importanti implicazioni storico-sociali. Secondo il critico gli scrittori del rinascimento americano non vanno inquadrati nell’ambito del romanticismo, ma in quello del simbolismo: solo in tale prospettiva diviene possibile cogliere il loro effettivo valore. Perché, se essi — a causa soprattutto della relativa immaturità della tradizione nazionale — “wrote no masterpieces”, da un altro punto di vista “they look forward to one of the most sophisticated movements in literary history”, e cioè al movimento simbolista. Il simbolismo, secondo Feidelson, più che come una semplice tec-

nica o metodologia letteraria si deve definire come una capacità percettiva che si propone di sovvertire il dualismo tra soggetto e oggetto, tra linguaggio e realtà. La letteratura, in un’ottica simbolistica, non è espressione di qualche entità a essa esterna: “to consider the literary work as a piece of language is to regard it as a symbol, autonomous in the sense that is quite distinct both from the personality of its author and from any world of pure objects, and creative in the sense that it brings into existence its own meaning” (49). Ma se Feidelson insiste lodevolmente nel caratterizzare il testo come oggetto linguistico e non come trasparente finestra su un mondo più “vero” di quello del testo, la sua teoria finisce col concepire il linguaggio non come una realtà materiale, ma come qualcosa di assolutamente astratto ed evanescente. Feidelson poggia la sua teoria del simbolismo su una distinzione — fondamentale per tutto il New Criticism — tra linguaggio “logico-prosaico” (referenziale) e linguaggio letterario (non referenziale), che viene però adoperata come unità di misura non semplicemente tecnica, ma valutativa. Più un’opera si propone di negare qualsiasi realtà al di fuori di essa,

simbolismo e la letteratura americana” in // diavolo nel manoscritto, Milano, Rizzoli, 1974,

pp. 66-72, e quello di Barsara Forey, “From New Criticism to Deconstruction. The Example of Charles Feidelson's Symbolism and American Literature’, American Quarterly, 36

(1984), pp. 44-64.

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più alto sarà il suo grado di letterarietà. L’impalcatura di questo discorso è tutt'altro che meramente formalista perché presuppone un indiscutibile convincimento che i vertici dell’arte letteraria vengano raggiunti solo con la grande stagione simbolista europea. I grandi testi dell'Ottocento americano sono quelli che precorrono tecniche e sensibilità che, in modo più maturo, prenderanno corpo con la fioritura artistica del secolo successivo. Lo sciovinismo simbolista di Feidelson sfocia in una spregiudicata ricontestualizzazione della letteratura americana classica, il cui pregio maggiore diviene quello di anticipare i tempi, di essere quasi moderna. Non deve dunque stupire che, quando il discorso si sposta su Melville, il bersaglio polemico divenga il “Melville culte” inteso come “response not to an artist, but to a man, a personality”. Per Feidelson solo il Melville “conscious artist” può essere degno di attenzione critica perché vera protagonista della quest che si snoda nei suoi testi è “the voyaging mind”. Il loro vero eroe “is less a man than a capacity for perception” (165). Indifferente ai discorsi mitico-epici cui si ricorre spesso per rendere conto della grandezza di Moby Dick, Feidelson considera questo testo come uno studio sulle dinamiche dell’immaginazione simbolista dove il conflitto tra un simbolista impenitente come Ahab, e uno più scettico come Ishmael, serve a inscenare un dramma il cui tema fondamentale è

la ricerca del significato del significato — una ricerca che, come tutta la grande letteratura simbolista, ruota attorno al paradosso della “necessity of voyaging and the equal necessary necessity of failure” (35). La drastica riduzione del testo letterario a costruzione puramente linguistica che parla essenzialmente della propria letterarietà e della propria radicale inadeguatezza a esprimere null’altro che se stesso, porta Feidelson a formulare un giudizio davvero rivoluzionario per l’epoca: “defective as it is, Pierre, not Moby Dick, is the best vantage point for a general view of Melville’s work” (186). Se lo status ontologico del linguaggio è i/ problema melvilliano, inquadrando l’aspirazione a raggiungere una verità assoluta che anima il protagonista in un immaginario simbolico che denuncia costantemente il reale come finzione, e ogni personaggio e lo stesso autore come impostori, Pierre si segnala come una tra le più interessanti e moderne produzioni del rinascimento americano. In Pierre fede e scetticismo nelle possibilità della pratica simbolista si aggrediscono reciprocamente anticipando le spinte contrapposte che daranno corpo a Les Faux-

monnayeurs di André Gide, il testo che Feidelson usa come pietra di pa162

ragone per illustrare quanto lontano si spinga Melville nel mettere a nudo “the tragic convertibility between truth and falsehood, good and evil”(205). Nonostante Melville, a differenza di Gide, non appaia in grado di cogliere appieno la produttività tragica di tale scoperta e finisca col trasformare la tragedia in melodramma, egli dimostra di comprendere la problematicità della pratica simbolista — una pratica che porta l’artista, come Pierre, a interrogarsi scetticamente sulle possibilità della propria arte e lo conduce dunque a un “infinite regress which establishes creativity as a subject” (189). Per quanto non vada esagerata, la grandezza della letteratura classica americana risiede secondo Feidelson innanzitutto nella sua metaletterarietà, nella sua ricerca di un nuovo linguaggio. Forse per la prima volta un approccio simbolista a Melville, e a Moby Dick in particolare, non si traduce in una caccia a cosa starebbe dietro a questo o quel simbolo, e dunque in un tentativo di rendere il testo sostanzialmente una “allegorical construction”. Feidelson propone viceversa un nuovo tema: quello delle potenzialità espressive e delle insufficienze referenziali del linguaggio — un tema destinato a essere ripreso ed esasperato, come vedremo in seguito, dai critici decostruzionisti.57 In una recensione apparsa poco dopo l’uscita del volume di Feidelson, R.W.B. Lewis, pur lodandone l’originalità e il rigore, si mostrava preoccupato dalla riduzione dei fatti letterari a realtà puramente linguistiche. Non a caso proprio Lewis pubblica, un anno più tardi, 7be American Adam, uno studio che cerca di collegare i testi dei maggiori autori dell’Ottocento con una più generale problematica culturale non strettamente artistico-letteraria.3* Convinto, al pari del primo ideatore di una teoria della letteratura americana — quel D.H. Lawrence secondo il quale l’arte degli Hawthorne e dei Melville era sommamente “duplicitous” —che alla base dell'immaginario nazionale vi siano impulsi drammaticamente divaricati, Lewis si ripromette di studiare come, contaddittoriamente, nasce e si sviluppa un’autentica “native American mythology” attorno al mi-

37 Sulla continuità tra il New Criticism di Feidelson e il decostruzionismo della “Yale School” insiste BarBara FoLey, Cit. 38 R.W.B. Lewis, 7be American Adam: Imnocence, Tragedy, and Tradition in the Ni-

neteenth Century, Chicago, The University of Chicago Press, 1955.

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to di Adamo, e cioè attorno a quel sogno d’innocenza edenica e primordiale che segna profondamente l’Ottocento americano. Lewis distingue tre modi in cui il mito può articolarsi. Da un lato c’è quello che, riprendendo una definizione di Emerson, Lewis chiama “the Party of Hope”, un gruppo che comprende, tra gli altri, oltre allo stesso Emerson, Thoreau,

Whitman e Bancroft, e che appare fiducioso nelle possibilità di rompere per sempre col passato, e inaugurare una nuova epoca di splendore e innocenza. Dall’altro lato troviamo invece “the Party of Memory” che non vanta, Francis Parkman a parte, esponenti di spicco, ma che si caratterizza soprattutto come lo spettro dei secoli andati, come una sorta di resistenza inconscia ad abbandonare il dogma dell’innata perversità dell’essere umano. Tra questi due gruppi si situa quello che Lewis ammira di più: “the Party of Irony”, che conta tra le sue file Hawthorne, Melville,

Henry James e il teologo Horace Bushnell. Costoro non sono insensibili al fascino del mito di Adamo e alle grandi speranze che animano la giovane nazione, ma neppure ciechi nei confronti degli ostacoli con cui l’Adamo americano deve confrontarsi. Un mondo fatto solo d’innocenza sarebbe un mondo di individui senza spessore sociale: di qui l'adesione problematica di autori come Hawthorne e Melville a questa mitologia nazionale di cui essi colgono al tempo stesso limiti e potenzialità. A giudizio di Lewis, Melville, a differenza di Hawthorne, non si li-

mita a descrivere l’arduo percorso spirituale che l’eroe adamitico deve percorrere in un mondo che innocente non è per approdare a una matura serenità finale, ma scopre personalmente tale traiettoria attraverso la sua Vita di artista e di uomo. Passando dall’alba radiosa di 7ypee alle miserie di Redburn, Melville riesce a trovare (grazie a Ishmael) un precario equilibrio in Moby Dick, dove la conoscenza delle regioni infernali dell’uomo e del suo mondo non pregiudica il sopravvivere di una sobria, dolorosa speranza. Eppure Melville sembra voler distruggere qualunque valenza positiva del mito di Adamo in Pierre e nella produzione poetica degli anni successivi, tanto che Lewis giudica “the recovery in Billy Budd astonishing”(149). Pur non dicendolo esplicitamente è chiarissimo che per Lewis “the apotheosis of Adam”, che a suo avviso si verifica in quest'ultimo racconto, lo rende il momento più alto della ricerca melvilliana. Solo in Billy Budd si realizza un perfetto equilibrio tra la nobiltà del mito di Adamo e la sua intrinseca impossibilità. “Melville celebrates the fall, [but] he also celebrates the one who fell; and the qualities and attitudes

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which insure the tragedy are reaffirmed in their indestructible worth even in the moment of defeat. Melville exposed anew the danger of innocence and its inevitable tragedy; but in the tragedy he rediscovered a heightened value in the innocence”(148). Diversamente dai molti commentatori che vedono nel testo una dimensione ironica, Lewis — che non menziona

neppure il capitano Vere — considera Billy una figura interamente positiva, nonostante la sua innocenza sia votata alla sconfitta: “Billy is the type of scapegoat hero, by whose sacrifice the sins of the world are taken away”. Billy è una perfetta figura Christi e le sue qualità quasi sovrannaturali “humanly speaking [...] are fatal; but they alone can save the world [...]. Melville salvaged the legend of hope both for life and for literature: by repudiating it in order to restore it in an apotheosis of its hero”(152). Riprendendo dunque una tendenza che s'era imposta all’epoca del “Melville revival”, e a cui neppure Matthiessen era riuscito a sottrarsi,

Lewis legge la vita e la carriera dello scrittore come tipizzazione di una particolare tesi socio-culturale: in questo caso quella della centralità del mito adamitico in terra americana. La presenza di elementi mitici in Melville e in tanta letteratura del periodo è certamente innegabile, ma è sintomatico che Lewis debba far rientrare i testi che discute in un’ipotesi generale che, per quanto interessante, finisce col divenire troppo angusta per la varietà e contraddittorietà dei materiali trattati. Se questo è un difetto dal quale, in un modo o nell’altro, nessuna delle teorie della letteratura americana sa rendersi

immune, non si può fare a meno di notare che in un libro in cui si discute dalla prima all’ultima pagina di colpa e di innocenza nessun cenno viene fatto alla schiavitù, al razzismo, o alle aggressioni contro le popolazioni native del Nord-America — realtà drammatiche che segnano profondamente il clima culturale ottocentesco. Non si può certo dire che negli autori del periodo, e soprattutto in Melville, manchino importantissime osservazioni al riguardo, ma Lewis pare assolutamente disinteressa-

to alla materialità contro la quale si scontrano le aspirazioni di innocenza dell’eroe adamitico. Un eroe che, oltre tutto, come si conviene a uno stu-

dio dedicato all’Adamo americano, è in pratica sempre maschile.5°

39 Quasi in conclusione Lewis accenna brevemente alle eroine jamesiane — Isabel Archer, Milly Theale, Maggie Verver — ma la loro perdita d’innocenza e successiva “matura-

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Prima di vedere come proprio il tema della problematicità del rapporto tra i due sessi divenga, in Leslie Fiedler, quello più caratteristicamente americano, sarà necessario accennare a un’altra assai influente ri-

costruzione critica con la quale riceve una consacrazione definitiva la convinzione che la letteratura nazionale sia il prodotto di una tensione continua tra polarità opposte. La letteratura americana, scrive Richard Chase in The American Novel and Its Tradition, “seems less interested in redemption than in the melodrama of the eternal struggle of good and evil, less interested in incarnation and reconciliation than in alienation

and disorder”40Noto soprattutto per aver insistito sull’inapplicabilità del termine novel al romanzo americano, che andrebbe piuttosto definito come romance perché scarsamente interessato alla dimensione sociale (su cui si concentrerebbe viceversa il romanzo europeo), Chase scorge in tutti i grandi scrittori americani le tracce del manicheismo puritano della Nuova Inghilterra. I loro testi, divisi tra simboli di luce e di tenebra paiono il logico prodotto dell’atmosfera socio-culturale di un paese diviso tra razze diverse, tra Nord e Sud, tra i retaggi del Vecchio Mondo e le

promesse del Nuovo. In questo panorama così resistente alle pratiche conciliatorie del novel di stampo britannico, non può non spiccare il “powerful sense of the irrationality and contradictoriness of experience” (89) caratteristico della fantasia melvilliana, e soprattutto il suo prodotto migliore, Moby Dick. Se c’è un testo emblematico di quanto dualista e irriducibilmente restia a farsi risucchiare in una visione pacificatrice sia l'immaginazione americana, è senz'altro quello in cui si consuma la tragedia di Ahab. In questo “universe of extreme contradictions there is death and there is life” ma “there is no life through death. There is only life and death, and for any individual a momentary choice between

zione” continuano a essere viste attraverso il filtro metaforico maschile del mito di Adamo. Sul maschilismo delle teorie della letteratura americana vedi Nina Baym, “Melodramas of Beset Manhood. How Theories of American Literature Exclude Women Authors”, American

Quarterly, 33 (1981), pp. 123-39, nonché Paur Lauter, “Race and Gender in the Shaping of the American Literary Canon. A Case Study from the Twenties”, Feminist Studies, 9 (1983), pp. n 03, oltre al già citato 7be Unusable Past, soprattutto pp. 247-53. 0 Ricrarn Cuase, be American Novel and its Tradition, Garden City, Doubleday, 1957, p. 11. Ressin sottolinea che il lavoro di Chase sarebbe peraltro impensabile senza quello di Lionel Trilling, il critico che per primo introduce l’idea di una diversità radicale del romanzo americano rispetto a quello realista classico (vedi be Unusable Past, cit., pp. 96-100).

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them” (106, 107). La tesi di Chase, come si vede, è diametralmente con-

trapposta a quella di Lewis, e non per nulla il primo critica la scelta del secondo di porre Bi/ly Budd “virtually at the top of American literary accomplishments” perché “surely Moby Dick is closer to the grand archetypes of the American imagination than is Bi/ly Budd” (114). Proprio Lewis, insiste Chase, definisce Moby Dick “a novel of tensions without re-

solutions” confermandone così la centralità in una tradizione letteraria “not specifically tragic and Christian, but melodramatic and manichaean which does not settle ultimate questions: it leaves them open” (114). La tendenza degli storici della letteratura americana consiste dunque nell’elaborare una teoria generale che finisce col divenire non solo principio ordinatore, ma anche valutativo. I testi che appaiono più degni di attenzione, “rappresentativi”, “archetipici” sono quelli che più agevolmente si inseriscono nella propria ipotesi interpretativa. Valutazione e interpretazione sono dunque due attività complementari, come dimostrato chiaramente dal fatto che Feidelson, Lewis e Chase ritrovino il Melville

più “vero” in tre diversi testi. Eppure, nonostante la diversità di accenti e impostazione, queste tre influenti ricostruzioni del canone americano sono concordi nel divorziare la realtà letteraria da quella sociale e politica. Pur partendo da osservazioni di natura storico-culturale su ciò che costituirebbe l’essenza dell’esperienza americana, sia. sul versante retorico (Feideleson) che su quello sprituale o sociologico (Lewis e Chase), e pur insistendo sull’ anticonformismo e la spregiudicatezza formale di scrittori come Melville e Hawthorne, queste tre teorie finiscono col negare alcuna rilevanza sociale alla letteratura americana, costantemente descritta

come “disinteressata” alla dimensione realista e mimetica. Non è probabilmente un caso se tali teorie fioriscono in un clima politico e culturale come quello degli anni ‘50, caratterizzato dalla guerra fredda e dal maccartismo e, su un altro piano, dagli attacchi che gli storici della “liberal consensus school” portano alla cosiddetta “progressive historiography ” e alla sua fede un po’ ingenua in una storia americana in marcia verso un futuro sempre più radioso di progresso e democrazia."!

41 Russeni Reisinc spiega che la cosiddetta “liberal consensus school” comprende storici (tra i quali Richard Hofstadter, Daniel Boorstin, Louis Hartz) sia storici della letteratura

(come Lionel Trilling, Henry Nash Smith, Perry Miller) e si caratterizza per la sua posizione

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Gli storici della letteratura fanno proprio lo scetticismo dei “consensus historians” e, trasferendo nel campo del romanzo termini chiave del New Criticism quali “ambiguità”, “paradosso”, “ironia”, esaltano lo scetticismo epistemologico, la spiritualità o la tragicità del simbolismo melvilliano (0 hawthorniano o jamesiano) e lodano la presunta estraneità della fiction americana all'universo sociale. Sia Feidelson che Lewis che Chase non hanno praticamente nulla da dire sulla devastante satira sociale di Moby Dicko

Pierre, sull’umorismo di Ishmael, sugli attacchi di Melville alle isti-

tuzioni e ai costumi della sua epoca, sulle evidenti preoccupazioni morali e etiche dei suoi testi, e sopratutto su quelle palesemente storico-politiche chiaramente presenti in un racconto come Bi//y Budd che, come s'è visto, Lewis legge unicamente come meditazione spirituale. Love and Death in the American Novel di Leslie Fiedler si distacca solo in parte dal formalismo dei suoi predecessori. Apparso nel 1960, e considerato all’epoca un libro scandaloso e bizzarro per la sua tesi psicosessuale — la letteratura nazionale sarebbe contrassegnata da “the failure of the American fictionist to deal with adult heterosexual love and his consequent obsession with death, incest, and innocent homosexuality” 42 — il libro di Fiedler non si limita a discutere solo alcuni grandi autori, ma si sofferma su un gran numero di “minori” ritenuti importanti perché anch’essi testimoniano la prevalenza del gotico e del terrore nell'immaginario nazionale. Secondo Fiedler il tema dell'amore, e dunque della seduzione e del matrimonio, domina il romanzo classico europeo, ma “the quest which has distinguished our fiction from Brockden Brown and Cooper, through Poe and Melville and Twain, to Faulkner and Hemingway, is the search for an innocent substitute for adulterous

polemica nei confronti di una visione schematica della storia americana come un processo lineare, segnato dal continuo conflitto tra le forze del progresso e quelle della reazione — visione che si dovrebbe alla tradizione storiografica dei “progressives”, inaugurata da V. L. Parrington. Questo non vuol dire che la “liberal consensus school” sia da considerare necessariamente come un movimento politicamente conservatore, e anzi la loro limitata fiducia nella bontà e integrità della democrazia americana è un preludio importante alla messa in discussione di qualsivoglia visione trionfalistica della storia americana. Resta comunque il fatto che isuoi esponenti, stretti nella morsa della guerra fredda, sembrano in genere idea-

lizzare uniassai problematica posizione “centrista”. (Cfr. Ybe Unusable Past, cit., pp. 93-97). > 2 Lesue Fiepier, Love and Death in the American Novel, New York, Criterion Books, 1960, p. xi.

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passion and marriage alike [...for] a union which commits its participants neither to society nor sin — and yet one which is able to symbolize the union of the ego with the id, the thinking self with its rejected impulses” (332). È questo disagio nei confronti dell’eterosessualità, secondo Fiedler, che sta alla base delle fughe di Rip Van Winkle, Leatherstocking, Ishmael e Huck Finn, o della latente omosessualità che unisce Queequeg e Ishmael, o Jim e Huck. La quest dell'eroe americano si carraterizza come tentativo disperato di evadere la sfera familiare e sociale in direzione della natura, della wil/derness, dell'incubo. L'artista americano è dunque un

intellettuale ribelle e emarginato il cui destino è quello di “shock the bourgeoisie into an awareness of what chamber of horrors its own smugly regarded world really was” (117). Quella di Fiedler non è però una semplice riedizione della tesi degli anni ‘20 che, come abbiamo visto nel corso del primo capitolo, contrapponeva un artista buono a una società insensibile. Proprio occupandosi di Melville, già dodici anni prima di Love and Death, Fiedler aveva scritto: There is a Melville whom one scarcely knows whether to call the discovery or invention of our own time, our truest contemporary, who

has revealed to us the traditional theme of the deepest American mind, the ambiguity of innocence, the “mystery of iniquity”, which he had traded for the progressive melodrama of a good outcast (artist, rebel, whore, proletarian) against an evil bourgeoisie.43

Per Fiedler l'opposizione tra scrittore e società è priva di precise valenze socio-politiche (di qui il suo disaccordo col “progressive melodrama” degli anni ‘20) e vive solo di tensioni mitiche. Mescolando categorie freudiane e junghiane Fiedler arriva a descrivere lo scrittore come un agente del ritorno del rimosso, come colui che ha il dovere di “deny the easy affirmations by which most men live [...] not to console or sustain, much less to entertain, but to disturb by telling a truth which is always unwelcome” (418). Mai però Fiedler spiega come storicamente si articolerebbe la contrapposizione tra scrittore e cultura dominante: nell’universo archetipico descritto dal critico l'opposizione è statica e immutabi-

43 Lesue FrepLer, An End to Innocence: Essays on Culture and Politics, Boston, Beacon Press, 1948, p. 197.

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le: da una parte l’artista impegnato a evocare il terrore represso, in agguato appena sotto l'apparente rispettabilità borghese; dall’altra una cultura inevitabilmente alienante e moralista. Oltre a non chiarire quali potrebbero essere le implicazioni politiche del ribellismo degli artisti americani, Fiedler non si lascia sfiorare dal dubbio che, nei termini in cui egli inquadra il problema, gli attacchi alla morale ufficiale, il tono irriverente, il fascino della violenza e dell'orrore con cui Poe, Melville, Twain e tutti gli altri risponderebbero alla cultura dominante, lungi dal costituire una minaccia potrebbero rivelarsi funzionali al meccanismo di potere che in apparenza contesterebbero. Per Fiedler, in effetti, l'artista intrattiene con la Cultura un rapporto sostanzialmente parassitario che lo confina in una perenne esteriorità dove non può fare nulla di più che mostrare alla rispettabilità borghese il suo rovescio. Ovviamente la tesi di Fiedler funziona meglio con quei testi che, come Moby Dick, hanno indiscutibili debiti nei confronti della tradizione gotica e sono popolati da personaggi che, al pari di Ahab, si prestano a letture archetipiche. Ciò non toglie che, anche nel caso di Moby Dick, l’interpretazione di Fiedler appaia riduttiva. Per Fiedler “the basic conflict which lies at the heart of the book [is] the struggle between love and death. [...] Moby Dick must be read not only as an account of a whalehunt, but also as a love story, perhaps the greatest story in our fiction” (530-31). Naturalmente l’amore in questione è di natura omoerotica (e inoltre sia l’idillio tra Ishmael e Queequeg che quello tra Ahab e Fedallah sono esempi di “matrimoni” misti tra un bianco e un colored) ma mentre il primo è un “redemptive love”, il secondo rappresenta “the committment to death”. Alla fine l’amore vero vincerà, sia pure simbolicamente: perchè Ishmael si salvi aggrappato alla bara/scialuppa di Queequeg questi deve sacrificarsi, ma anche Ahab — incarnazione del demonismo dell'universo e delle pulsioni aggressive — deve morire per Ishmael: “It is [...] Ahab’s destruction which ransoms Ishmael’s life, the playing out of Ahab's fury which instructs Ishmael in love” (551). Solo con la morte di Ahab la furia del Padre può essere placata e Ishmael può tornare ad abbracciare la Madre — così Fiedler interpreta il salvataggio finale di Ishmael ad opera della Rachel. Se l’impalcatura psicoanalitica su cui poggia il discorso di Fiedler scricchiola in più punti, ciò che preme a Fiedler è dimostrare che anche il testo divenuto centrale nel canone letterario nazionale può essere letto come storia d’amore e morte; può cioè passare 170

attraverso l’imbuto interpretativo scelto da Fiedler per costruire la sua teoria della letteratura americana.

6.Il mito Moby Dick “If 1 shall ever deserve any real repute in that small but high hushed world which I might not be unreasonably ambitious of” — aveva sentenziato Ishmael — “I prospectively ascribe all the honor and glory to whaling; for a whale-ship was my Yale College and my Harvard”. Ironicamente, la fama novecentesca di Ishmael — e di Melville dunque — si deve in considerevole misura proprio a studiosi legati alle due università menzionate da Ishmael. Matthiessen insegnò a Harvard sino alla morte, mentre una formidabile schiera di americanisti destinati a produrre studi importanti non solo su Melville, ma su tutti gli autori consacrati come classici da American Renaissance si formò negli anni ‘40 e ‘50 proprio all’università di Yale. L’'impulso dato da Stanley Williams — una figura troppo spesso dimenticata — e i suoi studenti e collaboratori di Yale fu decisivo ai fini della promozione di Melville ad autore di statura mondiale e di Moby Dick ad “epica americana”.4 Secondo Walter Bezanson, tra i

4 Moby Dick, New York, Norton, 1967, p. 101. 4 Stanley Williams, autore tra l’altro di una classica biografia di Washington Irving, diresse a Yale 14 tesi di Ph. D. su Melville, di cui ben 12 vennero poi pubblicate. Williams,

nonostante tutto, non può essere definito un “melvilliano” per il semplice motivo che all’epoca “non esistevano persone che potessero definirsi ‘Melville scholars’ e, nonostante avesse ben intuito l’opportunità di svolgere approfondite ricerche sullo scrittore, ancora nel ‘39 non era disposto a giurare se gli studi melvilliani sarebbero durati o fossero invece un boom destinato a esaurirsi in tempi relativamente brevi. Per queste notizie su Williams sono debitore a un suo allievo (già mio professore presso la Rutgers University), Walter Bezanson, che ho potuto intervistare a Bellemead, New Jersey, il 15 agosto 1986. Bezanson ricorda Williams come “a very rigorous scholar, a warm, open person sniffing people who were going somewhere”. Tra questi ultimi meritano di essere ricordati perlomeno, oltre allo stesso Bezanson, Charles Feidelson, Nathalia Wright, Merton Sealts e Harrison Hayford.

Altra presenza di rilievo a Yale in quegli anni, secondo Bezanson, fu quella dello storico Ran GaggEL, il cui Course of American Democratic Thought (New York, The Ronald Press,

1940) — una storie delle idee che, diversamente dalla ricostruzione positivista di Parrington, è attenta alla letteratura come universo simbolico — influenzò questa generazione di americanisti. Nel capitolo dedicato a Melville, Gabriel sostiene che lo scrittore, piuttosto che ac-

cettare con fiducia la “fede democratica” del secolo, “rejected the optimistic belief in pro-

(ya

motivi che spinsero molti studenti delle neonate specializzazioni in letteratura americana e studi americani a privilegiare Melville va innanzitutto ricordato il ribellismo dello scrittore — un ribellismo che lo rendeva particolarmente attraente a quei “middle class scholars” che si venivano formando nelle più prestigiose istituzioni accademiche del paese. In un’epoca in cui molti valori tradizionali erano in crisi questi giovani critici sentivano di poter articolare, attraverso Melville, i loro dubbi e le loro incertezze, soprattutto in materia di fede religiosa.4° Non è certamente un

caso se, per un lungo periodo, non saranno solo gli studi intenzionati a “salvare Melville per la cristianità” (l’espressione è di Bezanson) a essere animati da preoccupazioni religiose.4 Eppure lo studio che, oltre a rivelarsi come uno dei più originali, propone per primo un paradigma di lettura di Moby Dick destinato a do-

gress. He insisted that evil is permanent [...]. He found reality ultimately lost in mystery and seemed almost to have made acceptance of and wonder at mystery his religion”(p.78). 46 Anche per queste informazioni il mio debito è all’intervista citata sopra. Bezanson durante l’intervista ha insistito sull’attrazione che la tormentata religiosità melvilliana ha esercitato su di lui: cresciuto in una famiglia rigorosamente tradizionalista, Bezanson ritiene di essersi emancipato dal conformismo della sua adolescenza anche grazie alla sua tesi di dottorato su Clarel, un testo dove sono ampiamente dibattute problematiche religiose e esistenziali (su questa tesi si basa la lunghissima introduzione all’edizione Hendricks House di Clarel, [New York, 1960]). D’altro canto l’idea che gli studi letterari dovessero assolvere i

compiti tradizionalmente affidati all'educazione religiosa è uno dei principi cardine su cui si fonda l’istituzionalizzazione della letteratura. A questo proposito si deve osservare che Melville offre spesso agli studiosi del secondo dopoguerra un modo per incanalare (e spesso camuffare) in ambito estetico-religioso dubbi di natura politica. Il pessimismo melvilliano, da questo punto di vista, più che un riflesso del veteropuritanesimo dei suoi critici, andrebbe visto come parte integrante della cultura della guerra fredda che trionfa in quegli anni. La fortuna di una storia delle idee come quella di Gabriel va senza dubbio inserita in tale contesto socio-culturale. 47 Anche un semplice elenco di alcuni dei libri dedicati a Melville in questi anni può comunque dare un’idea di come, a livello accademico, il “Melville culte’ stesse divenendo

religione di stato. Nel ‘43 Wiruam Braswett scrive su Melville’s Religious Thought, nel ‘44 esce postumo Herman Melville: The Tragedy of Mind di Wuuam Sepewick; nel ‘49 GEOFFREY STONE, uno studioso cattolico, pubblica una biografia dello scrittore, imitato due anni dopo da Leon Howarn. Sempre nel ‘49 escono, oltre a Melville’s Use of the Bible di NatzALIA WricHT, un testo interamente dedicato a Moby Dick (The Trying-Out of Moby Dick di Howarp P. Vincent) e una monografia di Ricrarn Chase cui fa seguito, nel ‘50, quella di Newron Arvn per la “American Men of Letters Series”. Nel ‘50 esce anche la prima indagine dichiaratamente filosofica di Moby Dick (A Reading of Moby Dick di M. O. Percivat, che adotta una prospettiva esistenzialista), e nel ‘51 l'inglese Ronap Mason pubblica 7be Spirit Above the Dust, anch’esso di taglio filosofico.

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minare la critica successiva, è Ca// Me Ishmael di Charles Olson, un testo

che si colloca — per stile e metodo — ai margini del discorso critico accademico. Nonostante sia tutt'altro che indifferente alle tematiche filosofico-religiose che dominano la critica — non solo melvilliana — del periodo, Olson ne respinge uno dei principi fondamentali non limitando la sua analisi esclusivamente alle dinamiche testuali e richiamandosi di continuo a elementi “esterni” ai testi presi in esame. D'altra parte, come ha notato Ann Charters, il libro è per metà testo “critico” e per metà testo “letterario”. Il “Call me Ishmael” del titolo non è un semplice omaggio a Melville: “nel suo libro Olson ci parla come Ishmael. Ishmael è la maschera che egli assume nella messa in scena del suo libro su Melville e Moby Dick. Il suo studio di Melville non è un’anatomia critica ma piuttosto un atto di partecipazione personale vissuto con grande impegno”. Per Olson “three forces operated to bring about the dimensions of Moby Dick Melville, a man of MYTH, antemosaic; an experience of SPACE, its power and price, America; and ancient magnitudes of TRAGEDY:

Shakespeare” .5° Questi tre temi sono fusi assieme in quella che è l’idea base del libro: Melville fu il primo a comprendere che le speranze dell’America andarono distrutte a causa del desiderio ossessivo nutrito dai suoi fondatori di possedere lo spazio; di imporre sulla natura un tirannico dominio umano: “To Melville it was not the will to be free that lies at the bottom of us as individuals and a people [...]. Like Ahab, American, one aim: lordship over nature” (39). Spinto sia dall’appassionata lettura di Shakespeare, sia dal suo desiderio di spingersi indietro nel tempo, verso l’origine dell’universo, Melville disegna un’avventura tragica e mitica attorno al folle tentativo di Ahab di distruggere Moby Dick, “king of natural force”.

48 Il libro ebbe una storia travagliata; una prima versione era stata portata a termine nel 1940 e venne poi messa da parte durante la guerra. Nel ‘44 Olson ricominciò da capo riscrivendo l’intero manoscritto e sottoponendolo all'attenzione di Ezra Pound, allora internato al St. Elizabeth’s Hospital di Washington. A Pound il libro piacque, ma non riuscì a convincere Eliot a farlo pubblicare e in quello stesso anno (il ‘46) anche due melvilliani di grande prestigio - Mumford e Matthiessen — lettori per la Harcourt, Brace, lo bocciarono. Solo l’anno successivo, su pressione di Harry Levin e Jay Leyda, il libro venne finalmente accettato da Reynal e Hitchcock. Per questa e altre notizie sulla genesi di Ca/! Me Isbmael si veda Ann CrÒiarters, Olson/Melville: A Study in Affinity, Berkeley, Oyez, 1968, pp. 3-11.

49 CHÙARTERS, Cit., p. 23.

50 CHartes Orson, Call Me Ishbmael, New York, Reynal & Hitchcock, 1947, p. 71.

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Il raffronto a livello tematico, strutturale, delle immagini e del linguaggio tra Moby Dick e alcune tragedie shakespeariane (Leare Macbeth soprattutto) è puntuale, e resta uno dei punti di forza del testo di Olson. Avvalendosi delle sottolineature e dei marginalia presenti nel volume delle tragedie posseduto da Melville, Olson dimostra quale funzione catalizzatrice ebbe per lo scrittore la lettura di Shakespeare durante la stesura di Moby Dick, e in particolare quanto questa avesse contribuito a ispirare un personaggio come Ahab. Con eguale convinzione, e con un linguaggio spesso dal tono oracolare, viene messo in luce il desiderio di “primordialità” che fa di Melville “a man of myth”. “He had a pull to the origin of things, the first day, the first man, the unknown sea, Betelgeuse, the buried continent [...]. He sought prime. He had the coldness we have, but he warmed himself by first fires after the Flood. It gave him the power to find the lost past of America, and make a myth, Moby Dick, for a people of Ishmaels” (15). Il Melville di Moby Dick, per Olson, “was not weakened by any new testament world. He had reached back to where he belonged [...]. Another Moses Melville wrote in Moby Dick the Book of the Law of the Blood” (85). Melville stesso assume dunque proporzioni mitologiche e diviene una sorta di profeta cui non sfugge come il desiderio di possedere lo SPAZIO faccia tutt'uno con la violenza che ha sempre caratterizzato gli americani — “the last ‘first people”, l’ultimo popolo cui è stato concesso di sognare di poter ricominciare tutto daccapo, di riportare la storia umana all’anno zero. Call Me Ispbmael è ricco di spunti originali e interessanti — troppi per poterli elencare tutti — ed è tra l’altro il primo studio dove venga avanzata l'ipotesi dei due Moby Dick: che cioè il testo così come ci è pervenuto sarebbe frutto della radicale revisione di una prima stesura piuttosto diversa da quella finale. Olson è inoltre il primo a insistere che Ishmael non è un semplice portavoce di Melville, ma un personaggio vero e proprio, con qualità e tratti specifici. Ishmael svolge sì, come aveva notato anche Matthiessen, la funzione di “coro” della tragedia di Ahab, ma egli fornisce secondo Olson anche una visione alternativa a quella del momomaniaco capitano. Olson ricorda che solo grazie a Ishmael “what is

21 Su questo punto si veda Grorce R. Stewart, “The Two Moby- Dicks’, American Literature, 25 (1954), pp. 417-48.

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black and what is white magic is made clear. Like the Catskill eagle Ishmael is able to dive into the blackest gorges and soar out to the light again. He is passive and detached, the observer, and thus his separate and dramatic existence is not easily felt. But unless his choric function is recognized some of the vision of the book is lost” (57-8). Il tema del contrasto Ahab-Ishmael diverrà quello centrale nella critica di Moby Dick, ma grande sarà l’influenza di Olson anche sui cosiddetti “myth critics”, nonché sui decostruzionisti, interessati sia dal modo in cui Olson affronta la questione dell’intertestualità — “Melville’s books batten on other men’s

books” egli scrive — sia da un Melville ossessionato dal problema delle “origini” e dell’originalità. I limiti di Olson appaiono evidenti soprattutto quando l’esame si sposta sul Melville posteriore a Moby Dick. Se è vero che “Olson, come Lawrence, predica”,°° è soprattutto nell’ultima parte del testo che la sua tesi si fa rigidamente dogmatica. Secondo Olson, dopo aver prodotto il suo capolavoro Melville ha una “caduta” di cui sarebbe responsabile la figura di Cristo, ossia la dimensione temporale del cristianesimo che scalza quella spaziale dell'esperienza americana. “Christ as god contracted his vision. The person Jesus was another matter. Melville never did come to tolerate the god, and the religion. He merely surrendered to it. The result was creatively a stifling of the myth power in him. The work from MobyDick on is proof” (102). È difficile capire in che senso “it was the promise of a future life that Melville caught”, e come tale desiderio d’immortalità sarebbe non solo incarnato in, ma anche la rovina di, opere diverse come Pierre, Clarel, o The Confidence-Man. Olson è d’accordo con

Matthiessen sia nel valutare negativamente il Melville post Moby Dick, sia nel considerare Bi/ly Budd “that most Christian tale of a ship and mutiny”, ma, dal punto di vista del valore, il suo giudizio è diametralmente opposto: Billy Budd non segna il trionfo di Melville, ma la sua disfatta. “Melville wanted a god. Space was the First, before time, earth, man”

(82); quando al dio dello spazio subentra quello della trascendenza, la tensione religiosa, secondo Olson, provoca un corto circuito nella immaginazione melvilliana.

52. È il poeta Robert Duncan a riferirsi ad Olson come “preacher” (citato in Charters, cit., p. 47).

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Più che insistere sulle lacune di un testo per tantissimi versi innovativo e sanamente provocatorio, conviene domandarsi in che modo Call Me Ishmael si rapporti ai paradigmi critici dominanti della sua epoca. Come si è accennato, Olson non rispetta l’autosufficienza dell’opera letteraria cara ai New Critics e salta di frequente “fuori” dal testo per articolarlo con altri testi e realtà discorsive — primo tra tutti il discorso psicobiografico.53 Ma è soprattutto nello sviluppare l’idea di Moby Dick come mito che Olson trascende l’analisi strettamente letteraria per avventurarsi nella dimensione archetipica, cosa che del resto inizia a fare in quegli anni anche Northrop Frye, le cui indagini porteranno nel 1957 alla celebre Anatomy of Criticism. Al pari di Frye, Olson non è interessato alla dimensione storica — “history was ritual and repetition when Melville’s imagination was at its own proper beat”, egli nota con approvazione. Per Olson il motore della realtà americana sarebbe da rintracciarsi nella lotta primordiale tra l’uomo — un archetipico bomo americanus — e lo spazio sterminato che gli offre il nuovo mondo: “I take SPACE to be the central fact to man born in America, from Folsom cave to now. I spell it large because it comes large here. Large, and without mercy” (11). Nella filosofia olsoniana la lotta primordiale è tra l’uomo e lo spazio, una lotta inevitabile e spietata con cui l’bomo americanus ha una dimestichezza particolare. Non v'è dubbio che nel modo in cui Olson affronta la figura di Ahab c’è più di una venatura anti-imperialista. Melville, secondo Olson,

fa del suo capitano “a khan of the plank, and a king of the sea, and a great lord of leviathans”. For the American has the Roman feeling about the world. It is his, to dispose of. He strides it, with possession of it. His property. Has he not conquered it with his machines ? He bends its resources to his will. The pax of legions ? The Americanization of the world. Who else is lord ? (72-3) Il tono di questo, come di altri brani, è polemico e disarmante al tempo stesso. Pare che l’Americano nasca con una congenita volontà di potenza orrenda eppure affascinante. Chi si trova a subirla ne resta come

53. Quanto Olson poco amasse la critica ufficiale è evidente nella sua polemica “Letter for Melville, 1951”, “written to be read AWAY FROM

dredth Birthday Party’ for Moby Dick”.

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the Melville’ Society ‘One Hun-

abbagliato e Ishmael, pur assumendo un punto di vista critico nei confronti di Ahab, non sa offrirci alcuna alternativa reale: egli può solo restare “passive, detached, an observer”. Secondo Ann Charters, nella filosofia olsoniana il mondo si può conoscere solo intuitivamente e “solo una vita non analizzata è degna di essere vissuta” .54 Se è vero che Olson usa Ishmael come maschera, lo fa

anche per sottolineare che alla magia nera di Ahab (e dell’imperialismo) si può rispondere con una magia bianca che ha solo potere contemplativo. In una lettera scritta nel 1968 Olson annota un particolare interessante: l’ultima stesura di Ca// Me Ishmael era stata portata a termine pochi giorni prima che l’atomica venisse sganciata su Hiroshima. Non è difficile immaginare quale potesse essere lo stato d’animo di un Olson/Ishmael mentre il mondo era preda da anni di una furia ben peggiore di quella di Ahab, e non è forse un caso se la parola “HATF” ricorre di frequente nel testo. In quel mondo, già riuscire a restare a galla — come Ishmael — ai margini della mischia, doveva sembrare miracoloso. La critica olsoniana condivide dunque, con quella dei New Critics, una dimensione nostalgica, e si sforza di concepire la lettura di Moby Dick come un'esperienza che, se pure non può riportarci alle radici della nostra storia, ce le fa quantomeno intravedere — e rimpiangere. Nell’ideologia “topologica” di Olson l’ideale è rappresentato da Melville perchè “he pushed history back so far that he turned time into space” (14). Quella di Olson può dunque essere vista come una versione “spaziale” del mito della società organica: “Logic and classification have led civilization toward man, away from space” (14) egli scrive, e nonostante la sua polemica anti-umanista sembri agli antipodi del New Criticism, essa condivide con quest'ultimo una venatura mistico-religiosa. Quando Olson nota che “the shift was from man as a group to individual man”, egli sembra lamentare una perduta integrità rintracciabile ormai solo in qualche capolavoro letterario come Moby Dick. Nonostante i toni spesso aspramente polemici verso la critica accademica, da un punto di vista ideologico Olson, più che un critico militante 4 /a Matthiessen, si sente un profeta melvilliano che vuole ricordare all'umanità come la disfatta di Ahab rappresenti la “the END of individual responsible only to himself”

54 CHartErs, Cit., p. 19.

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(119). Un monito senz'altro lodevole, specie nell’era atomica, pur non essendo chiaro se l’ammonimento miri a scuotere le coscienze, o se ven-

ga proferito con quel compiaciuto disincanto tipico di certe voci che prediligono predicare nel deserto. La retorica anti-accademica che pervade Call Me Ishmael non impedisce a questo testo di produrre importanti effetti sulla critica melvilliana del dopoguerra, in primo luogo per l’accento che pone su Melville come “myth-maker”. Sulla scia di Olson, anche Richard Chase e Newton Arvin affrontano la questione del rapporto tra mito e letteratura ed è proprio Chase a pubblicare, contemporaneamente al suo studio su Melville, Quest for Myth, un testo che vuole dimostrare come il mito sia essenzialmente una forma di letteratura.55 Per Chase “myth is literature” poiché le due forme di discorso, oltre alla dimensione estetica, condividono una

comune funzione ordinatrice. Tanto il mito quanto la letteratura si sforzano di dare unità e coerenza a un mondo che appare contraddittorio e recalcitrante a qualunque definitivo inquadramento. Ma se mito e letteratura sono due realtà così simili allora non dovrebbe esserci alcuna profonda frattura storico-sociale, e quindi culturale, tra un mondo domi-

nato da quello che Levi-Strauss definisce /a pensée sauvage, e la nostra società industriale. Chase pare infatti convinto che i mutamenti siano unicamente superficiali, e sostiene che “le nostre esperienze, aspirazioni e bisogni più profondi sono gli stessi, com’è certo che i mutamenti psichici e biologici cruciali avvengono nella vita di ogni individuo umano e costringono la cultura a tenerne conto in forme estetiche” .59 Una tale ipotesi si basa naturalmente sulla convinzione che l’essere umano è eternamente eguale a se stesso, e i suoi tratti essenziali non so-

55 Un paio di brani dai testi di Chase e Arvin possono dare l’idea del loro debito verso Olson. CÒiase, ad esempio, scrive: “Space, that obsessive image of the American, is psychologically the Void — the Void of personality, experience and consciousness which have been neutralized or emasculated. There are many symbols of this void in Melville’s books [...] The inhuman horror of space and emptiness fascinated Melville.” (Herman Melville, New York, Macmillan, 1949, p. 98). Oppure si veda la caratterizzazione della Balena Bianca

offerta da Arvin: “Moby Dick is [...] a God in Nature, not beyond it [...] a god that embodies the physical vastness of the cosmos in space and time as astronomy and geology have exhibited it; a deity that represents not transcendent purpose and conscious design, but mana.” (Herman Melville, New York, William Sloane Associates, Inc., 1950, p. 189).

56 Quest for Myth, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1949, p. 111.

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no scalfiti dal movimento della Storia. Ma per quanto forti possano essere le prevenzioni nei confronti della critica “mitica” ed “archetipica”, essa nasce in risposta a una realtà incontestabile: la letteratura moderna sfrutta costantemente materiali mitologici,

e anche Moby-Dick è non solo let-

teralmente zeppo di riferimenti mitico-epici, ma di riflessioni sulle funzioni culturali del mito.57 Critici come Olson o Chase — o lo stesso Frye — assimilano però mito e letteratura ignorando troppo spesso che gli scrittori moderni non creano o ricreano dei miti, ma piuttosto paiono coltivare la speranza di riuscire in tale impossibile impresa. È in sostanza il bisogno di mito — la nostalgia per una utopica realtà “integrata” e pre-individualistica — che andrebbe spiegato e studiato poichè tale bisogno affonda le sue radici in un particolare quadro storico-sociale nei confronti

del quale l’autore cerca di reagire.58 Resta però il fatto che per ricreare sul serio una qualche forma di cultura “tribale” e unitaria non basta ricorrere all’uso di materiali mitologici, e il paradosso rappresentato da quei testi moderni a impianto mitico che si rivolgono nei fatti a un selezionatissimo pubblico di specialisti ne è la prova lampante. Per quel che concerne la letteratura americana dell’Ottocento, una critica che voglia prendere sul serio in considerazione la questione del mito, più che stendere elenchi, attendibili

o meno, dei vari

miti cui Melville o altri scrittori fanno ricorso dovrà porsi domande globali sulla posizione occupata dai singoli autori in quella particolare congiuntura storica, sui loro complessi rapporti col pubblico, sulla natura della strutture ideologico-culturali del loro, come del nostro tempo. Che personaggi come Natty Bumppo o Ahab abbiano qualità mitico-leggendarie è fuor di dubbio, ma si tratta d’investigare le ragioni che stanno alla base del fascino della mitologia per un Cooper o un Melville, e verificare il rapporto tra questo interesse e la realtà sociale e ideologica circostante.59

57 Cfr. H. Bruce Frankum, 7be Wake of the Gods: Melville’s Mythology, Stanford, Stanford University Press, 1963. 58 Sui limiti ideologici del “myth criticism” vedi Frepric Jameson, “Criticism in History” in Norman Rupic4 (a cura di), The Weapons of Criticism, Palo Alto, California, Rampart Press,

1976. Sulla funzione del mito tanto nella letteratura moderna che nella società contemporanea è da leggere il bel saggio di Franco Moretti ,“Dalla terra desolata al paradiso artificiale”, Calibano, 5 (1980), pp. 76-107, e ora in Segni e stili del moderno, Torino, Einaudi, 1987.

59 Sino a oggi le indagini più importanti portate avanti in questa direzione sono senza dubbio quelle di Sacvan BercovtcH sull’origine puritana del mito americano. Vedi soprat-

70

7. La scoperta di Ispbmael e la ricerca di un metalinguaggio

Pur essendo molto probabile che, come lo Zelig dell'omonimo film di Woody Allen, la stragrande maggioranza degli americani arrivi al momento di esalare l’ultimo respiro senza aver mai letto Moby Dick dalla prima all’ultima pagina, alla fine degli anni ‘40 la consacrazione del libro o ° al rango di “epica nazionale” è in pratica cosa fatta. Il testo viene a occupare nel canone letterario statunitense una posizione quasi paragonabile a quella della Divina Commedia nella cultura italiana, o delle tragedie di Shakespeare in quella inglese e, come accade ai classici, esso diviene sempre più oggetto d’indagini specialistiche e di controversie sul suo significato generale, o su quello di questo o quel brano. Il proliferare di commenti, nonostante venga sovente criticato come “eccessivo”, è in realtà funzionale alla natura della istituzione accademica.9! Fintanto che scopo principale della critica resta quello di portare alla luce presunti significati nascosti nel testo, è soprattutto in base alla capacità di produrre letture “originali” — da intendersi come scoperte scientifiche in miniatura — che si seleziona il corpo accademico. Logico dunque che un testo che

tutto be Puritan Origin of the American Self, New Haven, Yale University Press, 1975; e The American Jeremiad, Madison, University of Wisconsin Press, 1978. Da vedere anche

l’analisi della “mitologia della frontiera” proposta da Ricrarp SLotKIN in Regeneration Through Violence, Middletown, Conn., Wesleyan University Press, 1973. Molto importante è

poi il dibattito inaugurato da Myra JeHten sulla possibilità di spiegare la specificità del romanzo classico americano, dai toni così spesso “epici”, sulla base della natura sociale e ideologica della società dell’epoca (“New World Epics: the Novel and Middle-class America”, Salmagundi, 36 [1977], pp. 49-68). Per alcune importanti obiezioni alla tesi della Jehlen si veda però Caroune Porter, Seeing and Being, Middletown, Conn., Wesleyan University Press, 1981, pp. 9-22.

La posizione di Moby Dick nel canone nazionale è “quasi” paragonabile a quella della Divina

Commedia

o di Shakespeare perchè, come

si nota più avanti, disaccordi

sull’effettivo valore “artistico” del testo melvilliano permangono, anche se è francamente difficile immaginare — a meno di rivoluzioni copernicane — che esso possa oramai essere scalzato dalla sua posizione centrale. 61 «Ta professione richiede pubblicazioni e le ricompensa senza tener conto della loro originalità o accuratezza”, lamenta HersHeL Parker in “Trafficking in Melville”, Modern Language Quarterly, XXXII (1972), pp. 54-66, ma già nel 1954 James D. KoERNER si riferiva ai materiali critici su Moby Dick come a uno “scarico [junkyard] accademico dove la stanca e ignara Balena Bianca assume ogni possibile significato a seconda del lettore” (“The Wake of the White Whale”, Kansas Magazine, 1954, pp. 42-50).

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pare fatto apposta per essere allegorizzato abbia sollecitato una tale quantità di interpretazioni da rendere in pratica estremamente difficile qualunque sommario esauriente delle diverse posizioni a confronto. Ma al di là delle numerose letture proposte nel corso degli anni ‘40 e ‘50, e che naturalmente contribuiscono a far crescere il valore di Moby

Dick, in questa fase il fatto nuovo della critica melvilliana è rappresentato senza dubbio dalla “scoperta” di Ishmael — scoperta di cui si è in larga parte debitori a Olson, ma cui anche altri danno un contributo importan-

te. Gli studi degli anni ‘20 avevano per lo più ignorato il narratore nel suo ruolo di personaggio e, negli anni ‘30 e ‘40 sia Winters che Matthiessen non gli avevano prestato particolare attenzione, mentre Blackmur l’aveva liquidato come un “false center”. Se a partire dagli anni ‘40 si inizia a discutere di Ishmael, ciò è dovuto non solo alla crescente influenza del

New Criticism — che richiede analisi più attente a tutte le componenti del testo — ma anche all’interesse che inizia a suscitare la personalità di Ishmael, la sua condizione di tragico isolamento, le sue meditazioni che sfiorano spesso l’assurdo. Chase, ad esempio, scrive che, non meno di Ahab, anche Ishmael ha una sua dimensione mitico-nazionale: “We still

do not know who we are or what society we live in [...]. But in so far as we are Americans, we are Ishmaels”. La ricerca di Ishmael “for (among other things) the meaning and value of paternity as it bears upon morals, politics and art” è rappresentativa della ricerca che l’intera nazione deve compiere sulle proprie origini e le proprie responsabilità. È però soprattutto sulla funzione di Ishmael come alternativa ad Ahab che insistono i critici. In 7be Tragedy of Mind, uscito postumo nel 1944, William Sedgwick

aveva indicato in Moby Dick la presenza di due distinti tipi di azione: una “shakespeariana”, l’altra “dantesca”. Della prima, di natura tragica e centripeta, è protagonista Ahab; della seconda, essenzialmente passiva e centrifuga, è protagonista Ishmael che, diversamente da Ahab, può godere, al pari di Dante, di una visione globale dell’universo narrativo. Mentre la visione dantesca è gloriosa e trionfante, quella cui ha accesso Ishmael “shows him at the core of creation, not love but destruction”; nonostante

62 Cuase, Melville, cit, p. 43. Per più precise considerazioni sulle dimensioni ideologiche del contrasto Ahab-Ishmael si veda più avanti, capitolo IV.

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ciò Ishmael si contraddistingue per “a freedom of spirit” che gli permette di resistere “the strong attraction he feels for Ahab”, e di salvarsi. La sua salvezza, pur non rivestendo alcun significato assoluto, testimonia una capacità di conservare tanto un atteggiamento indipendente quanto un pizzico di fiducia, e non è un caso che egli si mantenga a galla dopo il disastro finale proprio con la bara di Queequeg che Ahab aveva rifiutato come simbolo di fede. A sostegno delle proprie tesi Sedgwick cita un brano della meditazione ishmaeliana sui mistici vapori sospesi sul capo della balena: “Doubts of all things earthly, and intuitions of some things heavenly; this combination makes neither believer nor infidel, but makes a man who regards them both with equal eye”.9 In Ishmael è perciò possibile rintracciare un punto di equidistanza tra gli “opposti estremismi” della cieca furia distruttiva di Ahab, da un lato, e di un altrettanto distruttivo nichilismo, dall’altro.

L'idea che Ishmael articoli una posizione alternativa a quella di Ahab è condivisa tanto da M.O. Percival che da Richard Mason, due dei

primi critici americani ad affrontare in un linguaggio esplicitamente filosofico il diverso modo con cui Ahab e Ishmael si rapportano ai misteri dell’esistenza umana. Percival legge Moby Dick facendo ricorso a Kierkegaard — definito “un contemporaneo danese di Ahab” —e contrastando la disperazione demoniaca del capitano alla “comprensione e compassione apparentemente senza limiti” di Ishmael. Anche per Percival al centro di Moby Dick c'è un problema di fede: “in Ahab there was no love, no awe, no trembling, no desire to be submitted unto God. Yet resignation of the old life is a necessary prelude to a new one. In Kierkegaard’s analysis, resignation — infinite resignation — is the stage just prior to faith”. Ishmael, al contrario di Ahab, riconosce il male del mondo senza pretendere di tracciare linee nette di confine tra Bene e Male. Piuttosto, egli accetta l'uno come l’altro, non si irrigidisce in un esasperato individualismo e non nutre preclusioni per i suoi compagni: “Ishmael lends his own identity to theirs, even to the point of having none or little himself. [...] Spiritually he is everywhere and nowhere, observing and comprehending”.6

63 Wnuam Sencwick, Herman Melville: the Tragedy of Mind, New York, Russell & Russell, 1944, pp. 82-136.

64 M.O. Percvar, A Reading of Moby Dick, Chicago, Chicago University Press, 1950. Citazioni dalle pp. 126-27 e p. 112.

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Anche per Mason la forza dell’atteggiamento di Ishmael sta, paradossalmente, nella sua passività, eppure, diversamente da Percival, Mason legge in Ishmael non una rassegnazione di fede à /a Kierkegaard, ma un’accettazione nichilista segnata da “philosophic despair” e “spiritual desolation”. Il testo è un’epica della disperazione che inizia e termina con la solitudine di Ishmael: “Moby Dick, begun perhaps in spiritual distress and bewilderement and continued in a tingle of curiosity and perplexity, answers itself without compromise, in the blank annihilation of its end. Its end is as nihilistic as Timon's; nothing has availed humanity in

its misguided traffic with its livelihood and its destiny” .65 Ancor più in là in una radicale rivalutazione di Ishmael si spinge Walter Bezanson che, in un saggio del ‘51, scrive a proposito di Moby Dick. “this story, this fiction, is not so much about Ahab or the White Whale as it is about Ishmael, and I propose that it is he who is the real center of meaning and the defining force of the novel”. Di Ishmael in realtà non ce n’è uno solo nel testo, ma due. Uno è il narratore; l’altro è il

personaggio di “some years ago”, uno dei protagonisti dell'avventura. I due non sono distinti per temperamento; ciò che li distingue è che lo Ishmael scrittore ha una visione globale dell’azione giacché la storia è interamente filtrata attraverso la sua coscienza. Mentre l’Ishmael personaggio scompare per un buon terzo della narrativa, l’Ishmael narratore non ci lascia mai: è lui “who creates the microcosm and sets the term of discourse”. Bezanson sembra in sostanza voler replicare all’accusa di incongruenza sul piano stilistico-strutturale mossa a più riprese a Moby Dick, proponendo in Ishmael un elemento di controllo dell’apparente caos narrativo, pur mettendo in guardia dal voler identificare Melville con Ishmael, e insistendo che quest’ultimo ha una sua esistenza autonoma.

Da Blackmur, che lamentava l’assenza nell’opera di un principio ordinatore, a Bezanson, che sembra invece trovarlo in Ishmael, la storia del-

la critica di Moby Dick nel periodo che ne vede l’elevazione a epica nazionale può leggersi come lo snodarsi di una ricerca votata a stabilire sino

65 Ronarp Mason, 7he Spirit Above the Dust, London, John Lehman, 1951, p. 155. Warrer Bezanson, “Moby Dick: Work of Art”, in Tyrus Hnuway e LurHer S. MansrIELD (a cura di), Moby Dick: Centennial Essays, Dallas, Southern Methodist University Press, 1953,

pp. 31-58, (36).

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a che punto il testo avesse una solidità strutturale e una coerenza artistica. Le qualità mitico-epiche di Moby Dick erano state sufficientemente evidenziate, e anche i pregi di singoli componenti tematiche e stilistiche accertate. Il discorso critico-letterario istituzionale concepisce però l’opera d’arte come un oggetto unitario dove tutte le singole componenti contribuiscono all’effetto totale. Sino a che punto Moby Dick poteva considerarsi davvero “a work of art” — titolo del saggio di Bezanson — e non piuttosto solo una “great story” — come sosteneva ad esempio Elmer Stoll — che la voga simbolista del tempo aveva idolatrato al di là dei suoi meriti effettivi? Quando Matthiessen leggeva il libro come tragedia sapeva benissimo che non tutto il testo era riducibile a tale definizione, e ricono-

sceva difatti la debolezza di alcune sue parti, soprattutto di quelle più debitrici alle convenzioni del “gothic romance”. Anche Winters, pur non soffermandosi sugli elementi dell’opera non omologabili all'etichetta di “poema epico” da lui prescelto, non aveva alcun ruolo preciso da assegnare alle lunghe sezioni digressive e meditative, tant'è che in Maule's Curse Ishmael non è neppure menzionato. Nonostante le lodi, permangono dei dubbi sulla consistenza tecnica e la coerenza formale di Moby Dick, e ad alcuni l’entusiasmo di questi anni per Melville appare esagerato. Se per Arthur H. Quinn “the early part of the book is tiresome, and the lectures upon the various kinds of whales illustrate Melville’s besetting weakness, his lack of humor, and his inability to tell fact from fic-

tion”, Stoll arriva a contestare l’idea stessa che Moby Dick sia davvero l’epica che tanti ne hanno fatto. “The story of a man's lifelong revenge upon a whale for thwarting him in his money-making designs upon its blubber would inadequately furnish forth a national epic”, scrive Stoll con tono canzonatorio, aggiungendo che, in particolare per il suo sensazionalismo e la sua verbosità, l’opera non è “one of really ecumenical or perennial importance [...]. It is not by any means to be accounted an immortal masterpiece; nor does it much remind me, I must confess, of Ae-

schilus, Dante, Shakespeare”.9? L'opinione di Stoll è certamente una di

67 I commenti di Qui e SroLt, apparsi originariamente in 7he Literature of the American People (1951) e in Journal of the History of Ideas (1951), rispettivamente, sono ri-

stampati in HersHeL Parker e Harrison Havrorn

York, Norton 1970, pp. 238-44 (con tagli).

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(a cura di), Moby Dick As Doubloon, New

minoranza, eppure anche un critico di prestigio come Perry Miller nota nel ‘56 che “the drama of its [Moby Dick'd rediscovery in 1920 excited the devotion of what has become virtually a cult, Americans have been so gratified to find a work of genius unexpectedly added to their glory that adulation is possibly a bit excessive”68Queste obiezioni e/o precisazioni in merito all’effettiva grandezza dell’opera non sono tanto interessanti in sé quanto come spie di una certa sensazione di disagio che, malgrado tutto, la critica prova ancora dinanzi a Moby Dick. Il motivo di tale disagio è da rintracciarsi, a mio parere, nella limitata applicabilità al testo di ciascuna delle diverse categorie — mitologia, epica, tragedia, ecc. — via via escogitate dalla critica. Il testo è in realtà una forma ibrida, cosa che a prima vista dovrebbe essere naturale per un romanzo — genere che nasce dalla mescolanza di vari generi. Nei fatti, però, per la critica angloamericana di questi anni il romanzo è soprattutto quella forma codificata da una “grande” tradizione che trova il suo apice nell'arte di Henry James. Non per nulla Berkelman aveva ricordato che in genere chi definiva Moby Dick un romanzo lo faceva per poi attaccarlo come romanzo non riuscito. Nulla può forse apparire più distante dal realismo psicologico e dagli equilibri formali del romanzo jamesiano di un testo come Moby Dick, ma è proprio negli anni in cui si assiste alla vertiginosa ascesa di Melville che anche James, a lungo considerato un minore, viene “riscoperto” e

poi fatto assurgere, negli anni ‘50, al rango d’indiscusso maestro della “art of fiction”. Senza addentrarci nei problemi specifici della fortuna critica di James, ci limiteremo a sottolineare che il trionfo di un’estetica narrativa costruita attorno alla nozione del “punto di vista”, con la relativa idealizzazione dello spazio psichico e morale del soggetto, è un fenomeno culturale che si sviluppa in una fase storica segnata da una sempre maggiore frammentazione sociale. A questa parcellizzazione, che comporta innanzitutto la fine di ogni certezza circa la natura del proprio pubblico, il romanzo sembra rispondere caricando il soggetto individuale di nuove responsabilità e dotandosi, con la tecnica del punto di vista, di un “pubblico” — il soggetto osservante e giudicante — interno al testo stesso.9 Il

68 Perry Mier, 7be Raven and the Whale: The War of Words and Wits in the Era of Poe and Melville, New York, Harcourt, Brace & Co., 1956, p. 3.

69 Su questo problema si veda Frepric Jameson, 7he Political Unconscious, Ithaca, Cornell University Press, 1981, pp. 221-22.

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ruolo assegnato alla categoria del soggetto (ruolo che è inscindibile dalla concezione dell’opera letteraria come oggetto unitario) è senza dubbio una delle principali mosse strategiche realizzate dall’ideologia critico-letteraria precedente gli anni ‘60. Si tratta di una questione complessa, a cui qui si può accennare solo brevemente dando per scontata una tesi che richiederebbe naturalmente di essere articolata e difesa.?° La costruzione di una categoria come quella del soggetto può essere meglio compresa se considerata parallelamente al prestigio di cui ha goduto a lungo il genere del “realismo classico”. Nel testo realista classico il mondo viene rappresentato come una realtà solida e autonoma che, pur non essendo necessariamente un riflesso della vera realtà che incontriamo quotidianamente, si offre comunque al lettore come universo coerente ed intellegibile. Dinanzi al testo realista classico, perlomeno nei termini secondo i quali tale testo viene concepito nella critica letteraria tradizionale, il lettore è invitato ad assumere una posizione di soggetto trascendente e unitario; una posizione, dunque, di sostanziale passività. “Il mondo dei personaggi viene offerto come una realtà empirica, che il lettore si trova non solo a confrontare ma impara a interpretare correttamente, grazie alla guida della voce narrante, identificata convenientemente con la soggettività dell’autore. Se ciò che il lettore apprende dal testo vuole essere coerente — cioè, se il testo vuole arrivare a una chiusura formale ed ideologica — non deve esserci discordanza tra queste due realta°”.7! Il realismo classico si fonda perciò su una scissione tra realtà e linguaggio, e quest’ultimo ha la sola funzione di articolare — di rappresentare — un mondo oggettivo, concepito come ovvio ed esistente al di là del linguaggio stesso. “Il discorso narrativo funziona semplicemente co-

70 Il “soggetto” è naturalmente uno dei principali bersagli polemici della critica decostruzionista e dello strutturalismo in generale, e la bibliografia sull'argomento è dunque sterminata. Per quanto riguarda il campo critico-letterario una buona introduzione alla critica del soggetto si può trovare in Rosaunp Cowarp e JoHn Eus, Language and Materialism, London, Routledge and Kegan Paul, 1977, in particolare pp. 61-121. Ma vedi anche CarHERIne Bersey, Critical Practice, London, Methuen, 1980; e Coin MacCage, “The End of Metalanguage : From George Eliot to Dubliners”, James Joyce and the Revolution of the Word, New

York, Harper and Row, pp. 13-38, testi sui quali mi sono basato per buona parte di quel che

segue. 71 Brisey, “Re-reading the Great Tradition”, cit., pid25:

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me una finestra sulla realtà”, anche se il testo realista classico non deve

essere visto “nei termini di una qualche omologia con l’ordine delle cose ma nei termini di una specifica gerarchia di discorsi che pone il lettore in una posizione di dominio nei confronti delle storie e dei personaggi”72 Come spiega Colin MacCabe, il “testo imperativo” consiste in un’insieme di diversi discorsi resi omogenei e intelleggibili da un metalinguaggio che l’autore (al pari del critico tradizionale) utilizza come strumento ordinatore. Non è necessario che ci sia accordo sul contenuto del metalinguaggio fintanto che questo punto di osservazione non viene messo in discussione. Si può, ad esempio, essere d’accordo con F. R. Leavis nel ri-

tenere che in 7be Portrait of a Lady James finisce con l’idealizzare Isabel dimenticando la sua “ostinazione estremamente sciocca”, o preferire l'opinione di Dorothy Van Ghent e vedere nel sacrificio di Isabel un atto

di religiosa sottomissione che la renderà più matura. È comunque fuor di dubbio che il testo ritagli per il lettore una posizione privilegiata, dall’alto della quale egli può parlare il metalinguaggio del proprio giudizio.73 Per un’alternativa alla struttura “imperativa” caratteristica del realismo classico Catherine Belsey si rivolge al cosiddetto “testo interrogativo” dove né la guida esplicita di una voce narrante, né una confezionata gerarchia di linguaggi possono mettere il lettore in una posizione rassicurante e di tutto riposo. “Il testo interrogativo [...] rompe l’unità del lettore scoraggiando l’identificazione con un soggetto unificato dell’enunciazione [...]. Soprattutto, ii testo interrogativo differisce dal testo realista classico per l'assenza di un singolo discorso privilegiato che contenga e subordini tutti gli altri”.7 L'archetipo del testo interrogativo è dunque Ulysses, dove nessuno dei molteplici linguaggi impiegati da Joyce può più portare ordine e dare un senso generale a un materiale narrativo che chiede costantemente al lettore di venire “elaborato”, ordinato, interpretato. Queste caratterizzazioni tanto del realismo classico, quanto del co-

siddetto testo interrogativo non sono prive di problemi, in primo luogo

72 MacCage, cit., pp. 15-16. 73 Il commento di Leavis sul Portrait è citato in Brsey, “Re-reading the Great Tradition”, cit., p. 126. Per il saggio di Van GuWÙnt si veda The English Novel: Form and Function, New York, Holt, Rinehart & Winston, Inc., 1953, pp. 211-28.

74 Beisey, Critical Practice, cit., pp. 91-92.

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d’ordine socio-culturale, ma, senza accettarle in toto, possono comunque

essere utili per esemplificare un diverso modo di porsi dinanzi a particolari testi.7 È fuor di dubbio, ad esempio, che fin quando il New Criticism mantiene una posizione egemonica nella critica americana, il testo letterario continua a essere concepito essenzialmente come testo imperativo, anche quando si tratta di un testo moderno. Il problema di Moby Dick— qui sta il motivo principale per cui Ishmael ne diviene all'improvviso la figura chiave — è appunto che, per sue caratteristiche intrinsiche, l’opera si oppone a un’agevole trasformazione in testo imperativo. Si può leggere l’opera come tragedia o come epica, ma resta il fatto che il testo non è sino in fondo né l’una, né l’altra cosa. Melville non solo non scrive come Jane Austen, George Eliot o Henry James, ma neppure come Hawthorne,

e il suo Moby Dick è troppo eccentrico e architettonicamente irregolare — si ripensi un attimo a come i reviewers ottocenteschi avevano insistito su questo punto — per essere ammesso senza troppi problemi nel genere del romanzo. In base a quanto detto sinora Moby Dick sembra delinearsi come un testo interrogativo che vanamente,

ma costantemente,

la critica ha

cercato di trasformare in testo imperativo. Una posizione di questo tipo

non sembra troppo distante da quanto già parecchi anni fa aveva notato Richard Poirier: “la retorica analitica di Moby Dick, l’esplicito linguaggio simbolico, le analisi, le allusioni [...] non coprono o organizzano gli altri elementi del libro. Piuttosto, esse si combinano

in un ‘ammasso’

che

confonde qualunque sforzo di delineare una realtà stabilizzante”79. Se un testo apparentemente intrattabile come U/ysses, nota ancora Poirier, non

è riuscito a sfuggire ai tentativi di essere riscritto nei termini di un paradigma dominante (quello delle analogie Omeriche, ad esempio), analoga sorte è toccata a Moby Dick, la cui pluralità — o quella che alcuni preferiranno chiamare la sua incoerenza tematica, strutturale e stilistica — è

stata di volta in volta ricondotta sotto l'egida di un metalinguaggio. Proprio a partire dalla fine degli anni ‘40 si assiste a un moltiplicarsi di tenta-

75 Si veda a tale proposito quanto scrive Terry EacieTon, in “Text, Ideology, Realism”,

in Epwarp Sam (a cura di), Literature and Society, Baltimore and London, Johns Hopkins

University Press, 1980, pp. 149-73. 76 RicHaro Porier, 7be Performing Self, Oxford, Oxford University Press, 191, p. 10.

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tivi — più o meno brillanti, più o meno legittimi — di trovare una chiave del libro; un discorso, cioè, che sia egemone e renda finalmente coerente un testo che sembra rifiutare ogni definitiva codificazione. Un’indagine delle matrici ideologiche delle diverse allegorizzazioni cui viene sottoposto Moby Dick in questo periodo, per quanto interessante, richiederebbe troppo spazio. Si è preferito perciò soffermarsi su un tipico tentativo di riscrittura imperativa del testo cercando di rendere più chiaro come il testo resista tenacemente ai tentativi di chiusura operati su di esso dalla critica. L'esame riguarderà gli sforzi compiuti per trasformare il sermone pronunciato da Father Mapple nel nono capitolo di Moby Dick in una vera e propria chiave per leggere l’intero libro. In termini contemporanei, potremmo parlare di mise en abyme. di interventi votati a dimostrare come il testo si guardi allo specchio e si autointerroghi. Ma c’è un problema: come spiega Donatella Izzo la mise en abyme non solo “esibisce e autorizza” il testo, ma “tradisce necessariamente il testo men-

tre lo riproduce ... negandone ogni presunta univocità”.77 Nell’epoca predecostruzionista il modello di riferimento non è quello della moltiplicazione del senso, ma, al contrario, quello della sua univocità: per i critici

in questione la predica di Mapple non rappresenta uno dei modi in cui si può leggere il testo, ma il modo corretto di leggerlo. Willard Thorp, nell’introduzione a un’edizione del ‘47 di Moby Dick, è probabilmente il primo a sostenere che il sermone di Father Mapple dovrebbe essere considerato come una lucida e non ambigua esposizione della visione morale melvilliana, e quindi come vantaggioso punto di vista dal quale giudicare le azioni dei diversi personaggi. Se “Father Mapple’s sermon in the sailor bethel [...] dwells with pregnant insistence on the sins of Jonah, the fugitive from God” è perché Melville vuol rendere esplicita la condanna di quell’altro grande peccatore: Ahab. Ancora più in là si spinge Howard P. Vincent che, due anni più tardi, scrive: “Father Mapple’s sermon is a device, a touchstone for testing the revelations of selfhood made in Ahab, in Queequeg, or Starbuck — all variously inadequate or superficial when compared with the wisdom of Mapple's definition”. Anche Newton Arvin sposa tale tesi, sostenendo che “Father

77 Donatena Izzo, “Introduzione: per una storia della mise en abyme”, in Il racconto

allo specchio. “myse en abyme”

e tradizione narrativa, Roma, Nuova Arnica, 1990.

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Mapple’s sermon is intended to make us understand that Ahab, like Jonah, has in a certain sense sinned through his proud refusal to obey God's will, or its equivalent”. Alla base di tutte queste convinzioni c’è ovviamente l’idea che Melville desidera, con Moby Dick, scrivere una condanna del “Christian sin of pride”, come afferma Arvin. Già nel ‘49, però, Natalia Wright aveva notato che la storia di Giona, così come viene pre-

sentata da Mapple, si discosta in molti punti dal testo biblico originale. Nel suo sermone Mapple ignora difatti completamente il quarto e ultimo capitolo del libro di Giona, dove Dio mostra la sua misericordia e la sua disponibilità al perdono. Secondo la Wright la ragione per questa discrepanza tra la storia biblica ed il sermone è da rintracciarsi nel fatto che “the structure of Moby Dick calls for the sermon and the narrative to agree, and in the tragic voyage of the Pequod there is no divine interference”.78 Ancora una volta il sermone di Mapple veniva dunque adoperato come chiave per leggere l’intero libro. Nel 1952, in uno studio spesso criticato, ma certamente importante, Lawrance Thompson si sforzava di mostrare che il rapporto tra Moby Dick da un lato, e le fonti bibliche e l'ideologia religiosa dall’altro, era molto più complesso di quanto si fosse ritenuto sino a quel punto. “Melville’s use of Biblical allusions in Moby Dick are endowed with equivocal and ambiguous meanings by the larger context which controls them. [...T]ne conventional meanings of those Biblical allusions are exactly the meanings which Melville deliberately but covertly satirizes”. Secondo Thompson il sermone di Mapple “is ridiculed and burlesqued” sia da Ishmael che da Melville. Inoltre Thompson nota che, a differenza del Giona di Mapple, quello biblico era “a headstrong, recalcitrant, God-challenging prophet” e disposto a obbedire all’autorità divina “only after God had scared poor Jonah witless”.79 È fuor di dubbio che una maggiore attenzione alle possibili ironie nascoste nell’uso che Melville fa della Bibbia sia indispensabile, ma Ia te-

78 Cfr. Trore, introduzione a Moby Dick, New York, Oxford University Press, 1947, p.

xvii; Vincent, 7be Trying-Out of Moby Dick, Carbondale and Edwardsville, Southern Illinois

University Press, 1949, pp. 49 seg.; Arvin, pp. 179-180; Wricut, Melville's Use of the Bible,

Duke University Press, 1949, pp. 83-84.

79 Lawrance Triompson, Melville’s Quarrel with God, Princeton, Princeton University

Press, 1952, pp. 151-52.

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si di Thompson, oltre a essere poco flessibile, è in ultima analisi animata da una tensione imperativa non dissimile da quella all'opera nella critica etica di Vincent o Arvin. Anche per Thompson c’è un solo messaggio in Moby Dick quello articolato tramite un metalinguaggio anti-cristiano astutamente camuffato da Melville per rendere il libro accettabile al pubblico dell’epoca.8° Tanto Thompson quanto i critici con cui egli ingaggia continue battaglie polemiche, sono costretti a ignorare (ma non sarebbe esagerato dire a reprimere) quanto nel testo sovverte le loro interpretazioni. Non si tratta di un problema di mera accuratezza, ma di una questione ideologica. Omogeneizzando il testo con l’ausilio di un discorso dominante si cancella la sfida interrogativa che esso pone al lettore. Thorp e gli altri critici animati da preoccupazioni etico-religiose sono costretti a ridurre al silenzio perlomeno due realtà discorsive che decostruiscono le loro letture. La prima è quella cui accenna Thompson, e riguarda la reazione di Ishmael al sermone. Ishmael non fa alcun commento diretto sulla predica di Mapple, ma nel capitolo immediatamente successivo — “A Bosom Friend” — egli sancisce definitivamente la sua amicizia col pagano Queequeg con una classica fumata di pipa. I due divengono così “cronies” — “a cosy, loving pair”. Il capitolo, pervaso da un’atmosfera di pace e tolleranza si contrappone in modo abbastanza esplicito a quello dominato dall’infuocato sermone di Mapple. Le parole di Ishmael contribuiscono in effetti a gettare una luce ironica sul presbiterianismo di Mapple, in particolare quando la delicata questione dell’idolatria di Queequeg — assieme al quale Ishmael riverisce l’idolo Yojo — viene affrontata: I was a goood Christian [...].. How then could I unite with this wild idolator in worshipping his piece of wood? But what is worship? thought I. Do you suppose now, Ishmael, that the magnanimous God of heaven and earth — pagans and all included — can possibly be jealous

80 Il rapporto speculare tra Thompson e i critici “cristiani” è ancor più evidente se si pensa che, secondo Thompson, Melville non riuscì mai a sottrarsi all’influenza religiosa e “believing more firmly than ever in the God of John Calvin, he began to resent and hate the

attributes of God [...]. Instead of losing faith in his Calvinistic God, Melville made a scapegoat of him” (Trompson, cit, pp. 4- 5). Per un articolo recente che esamina, sia pure in una prospettiva diversa, i temi di cui ci stiamo occupando, si veda Jay A. Horsren, “Melville’s In-

version of Jonah in Moby Dick’, The Iliff Review, Winter 1985, pp. 13-20.

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of an insignificant bit of black wood? Impossible! But what is worship? — to do the will of God — that is worship. And what is the will of God? - to do my fellow man what I would have my fellow man do to me — rbat is the will of God. Now Queequeg is my fellow man. And what do I wish that this Queequeg do to me? Why, unite with me in my particular Presbyterian form of worship. Consequently, I must then unite with him in his; ergo, I must turn idolator.81-

La dimensione sovversiva del discorso di Ishmael è ancora più evidente se si tiene conto, cosa che Thompson non fa, di quello che sembra essere il messaggio più plausibile della storia biblica di Giona — storia che Mapple manipola a suo piacimento, stravolgendola completamente.8 Nella Bibbia il dio che Giona si trova ad affrontare, lungi dall’essere una figura puramente repressiva e autoritaria — “chiefly known to me by Thy rod”, per usare le parole di Mapple — è un dio non solo tollerante e misericordioso, ma addirittura restio a prendere troppo sul serio qualunque distinzione manichea tra pagani e “popolo di Dio”. Nella Bibbia i pagani, gli abitanti di Ninive cioè, mostrano semmai maggior rispetto per l’auto-

rità divina di quanto non faccia Giona stesso, e in Moby Dick Ishmael si comporta nei confronti di Queequeg come se fosse cosciente di quella importante dimensione del racconto biblico che Mapple ignora nel suo sermone. La Wright, l’unica che perlomeno s’interroghi sulle ragioni che spingerebbero Melville ad approvare la manipolazione della storia biblica operata da Mapple, giunge alla conclusione che il pastore “endeavors as no other person in all Melville’s novels to illuminate the workings of an apparently blind fate [...]. Father Mapple has a conception of the law which underlies the whole narrative [...]. From his seaworthy pulpit [...] he defines the fundamental statute which, once broken, precipitates the destruction”. Che un sermone con una funzione così solenne e cruciale si basi su una delle storie bibliche meno adatte allo scopo non costituisce un grosso problema secondo la Wright, e il desiderio di estrarre dal libro

81 Moby Dick, cit., p. 54. Ishmael, naturalmente, sviluppa il suo ragionamento in uno stile che echeggia ironicamente quello dei sermoni. 82. In un saggio non pubblicato, scritto nel 1983 per un “graduate seminar” su “The Bible and Literature” presso la Rutgers University, ho esaminato in dettaglio le discrepanze tra il testo biblico originale e la versione che ne offre Mapple. Qui mi limito a riassumere alcuni punti salienti della mia analisi.

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una morale le impedisce di accorgersi delle spinte contraddittorie che animano Moby Dick. Mapple, il quale insiste sul dovere di “preach the Truth to the face of Falsehood”, non solo è il primo a ignorare una verità — quella della storia biblica su cui egli basa il suo sermone — ma, con le sue lodi entusiastiche per chi, “against the proud gods and commodores of this earth, ever stands forth with his own inexorable self” pare in effetti ammirare più che condannare un fanatismo che è, mutatis mutandis, lo

stesso che anima Ahab. Ahab non si limita ad attaccare le divinità terrestri e scaglia la sua rabbia contro quelle celesti, ma la momomania che lo fa credere “the Fates’ lieutenant” non è distante dalla indiscutibile convinzione che Mapple nutre di essere “a pilot of the living God”.83 Diversamente da quanto vorrebbero Wright, Vincent e gli altri non è possibile estrarre dal testo una morale “cristiana”, ma, contrariamente a quanto crede Thompson, non è neppure possibile estrarne una “anti-cristiana”. Come nota Ishmael, si può essere “idolator” e “Christian” al tem-

po stesso e Thompson, oltre a ignorare il messaggio implicito nella storia biblica di Giona, dimentica che le critiche sollevate da Ishmael al dogmatismo religioso di cui Mapple è un rappresentante sono espresse in un linguaggio che è esso stesso fortemente religioso. “To do to my fellow man what I would have my fellow man do to me —- that is the will of God”: interpretare queste parole come attacco anti-cristiano sarebbe quantomeno problematico. Per quanto Ishmael l’adoperi sovversivamente, la sua retorica è una retorica evangelica; egli si appropria delle Scritture per i suoi scopi, come fa Mapple con il racconto biblico di Giona. Non si può negare che anche la lettura di Ishmael abbia un suo margine di arbitrarietà, ma quel che conta è in effetti proprio questo: che il testo costringe il lettore a confrontarsi con una realtà in cui la retorica è concepita essenzialmente come una forma di potere. Nessun testo — nemmeno quello religioso — può essere valutato in astratto, ma solo in base all’uso strategico che se ne fa. Ad esempio, quando Ishmael deve convincere Bildad e Peleg ad accettare d’imbarcare Queequeg, nello spiegare a quale chiesa appartenga il suo amico pagano egli si serve

nuovamente di un cristianesimo radicale:

83 Le parole di Mapple anticipano anche l’assolutismo di Pjerre, che diverrà non a caso “the Fool of Truth, the Fool of Virtue, the Fool of Fate”.

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I mean, sir, the same ancient Catholic Church to which you and I, and Captain Peleg there, and Quéequeg here, and all of us, and every mother's son and soul of us belong; the great and everlasting First Congregation of this whole worshipping world; we all belong to that; only some of us cherish some queer crotchets noways touching the grand belief; in that we all join hands.84

La risposta di Peleg — “Young man, you’d better ship for a missionary, instead of a fore-mast hand; I never heard a better sermon. Deacon Deutoronomy — why Father Mapple himself couldn't beat it” —contrappone nuovamente la retorica di Ishmael a quella di Mapple. Ancora una volta viene ricordato al lettore che il testo delle scritture può essere impiegato per fini ideologici diversi ed è quindi privo di una sua verità ontologica. Moby Dick resiste ai tentativi di letture totalizzanti perchè i diversi registri narrativi — epico, realistico, mitico, tragico — e i diversi discorsi

che paiono promettere chiavi di interpretazioni unitarie — dal sermone di Father Mapple alla “Town-Ho Story” -non sono ordinati gerarchicamente, ma disseminati nel testo come a voler suggerire modelli di letture che finiscono inevitabilmente col rivelarsi insufficienti. Forse qualcuno potrà restare perplesso dinanzi al fatto che, in una fase storica in cui la critica americana è dominata dall’ideologia del New Criticism — per la quale il concetto di ambiguità riveste un'importanza cruciale — le ambiguità di Moby Dick vengano mal tollerate, e si cerchi in pratica di cancellarle con la creazione di diversi metalinguaggi. Il problema è che, come si è accennato in precedenza, per il New Criticism le ambiguità sono tollerabili solo all’interno di un sistema gerarchico — di una struttura che impedisca loro di acquistare alcun potere sovversivo. Moby Dick dimostra invece che i contesti ideologici nel quale un testo viene a situarsi sono inesauribili e non totalizzabili. Come dovrebbe essere chiaro dall’esempio su cui ci siamo concentrati, le ambiguità di Ishmael o di Mapple sono una funzione del quadro ideologico nel quale il lettore contestualizza la loro retorica. Ma se, come avviene nel discorso critico-letterario dominante tra

gli anni ‘30 e quelli ‘50, l’idea stessa che leggere sia un’operazione ideo-

84 Moby Dick, cit., p. 83.

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logica è assente, costruire Moby Dick come testo classico doveva per forza dire strutturarlo come testo imperativo. Di questi problemi continueremo a occuparci nel prossimo capitolo, non prima però di aver dedicato alcune osservazioni a come, nel primo paese europeo in cui Moby Dick aveva fatto la sua comparsa in traduzione — l’Italia — una critica più accademica di quella dell’anteguerra cerchi di fare i conti con Melville.

8. Note sulla critica italiana

L'entusiasmo con cui i critici europei avevano guardato alla letteratura americana in generale, e a Melville in particolare, non viene meno negli anni ‘50 e ‘60. Con la fine del secondo conflitto mondiale e la defi-

nitiva ascesa degli Stati Uniti a superpotenza che influenzerà, oltre che politicamente ed economicamente, anche culturalmente l’Europa occidentale, gli studi americani assumono un’importanza senza precedenti. Non per nulla il famoso Salzburg Seminar, istituito nel 1947 per lanciate l’americanistica in Europa, è stato definito “una sorta di controparte intellettuale del piano Marshall”.85 Con l’istituzionalizzazione della letteratura americana in disciplina accademica, anche in Europa Melville diviene un oggetto scientifico e i libri e i saggi a lui dedicati si moltiplicano, mentre anche le sue opere meno note vengono rapidamente tradot-

85 Sacvan Bercovitca, “The Problem of Ideology in American Literary History”, cit.,

p. 652. 86 La vitalità degli studi melvilliani in Europa in questa fase è dimostrata, tra gli altri, dai seguenti lavori: a) in Germania: Hans Hemcxe, Die Funktion des Ich-Erzablers in Her-

man Melvilles Roman Moby Dick, Munchen, 1957; Kiaus Lanzincer, Primitivismus und Naturalismus im Prosaschaffen Herman Melvilles, 1959; Heinz Kosok, Die Bedentung der

Gothic Novel fur das Erzablwerk Herman Melvilles, 1963; Kiaus Enssten, Melvilles Erzahlungen: Stil-und strukturanalytische Untersuchungen, 1966; b)in Francia: Pierre FrepERIX, Herman Melville, Paris, Gallimard, 1950; Jean Jacques Mavoux, Melville par lui-meme, Paris, Seuil, 1958; c) in Italia: GarieLe Baton, Melville, o le ambiguità, Milano, Ricciardi, 1952;

nonchè i numerosi saggi che la rivista Studi Americani dedica a Melville, dei quali si dovranno perlomeno ricordare: Arrrepo Rizzarpi, “La poesia di Herman Melville”, 1 (1955), pp. 159-203; ELémre Zotta, “La struttura e le fonti di Clare/”, 10 (1964), pp. 101-34; VALENTINA Pocci, “Pierre, il ‘Kraken’ di Melville”, 10 (1964), pp. 71-100; Viro Amoruso, “Alla ricerca

d’Ismaele: Melville e l’arte”, 13 (1967), pp. 169-233 e “Un mare senza rive: Melville e l’arte”, 15 (1969), pp. 75-129; Cristina GrorceLui, “Le poesie italiane di Herman Melville”, 14

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te.86 Tra i tanti interventi degni di nota abbiamo scelto di concentrarci sulla critica italiana, particolarmente attiva in questa fase, esaminando,

nell'ordine, tre saggi dove viene affrontato il problema cruciale della caratura artistica di Moby Dick (classico o capolavoro mancato?), e un saggio nel quale viene intrapresa la rivalutazione di un testo problematico come Pierre, destinato ad una sorprendente e straordinaria fortuna accademica. Di Moby Dick si occupano, ciascuno in chiave diversa, Marcello Pagnini, Glauco Cambon e Agostino Lombardo, chiedendosi quale sia il grado di unità formale e tematica del maggior testo di Melville, e proponendo soluzioni originali a quel caos narrativo che, come s'è visto, portava molti a riscriverlo in termini di testo imperativo, altri a ricercare un minimo comun denominatore a livello mitico o simbolico, altri infine ad-

dirittura a contestarne la pretesa grandezza. In una parte della cultura europea sopravvivevano pregiudizi circa la rozzezza barbarica della letteratura americana: i tre saggi su Moby Dick e quello su Pierre cercano viceversa di mettere in luce l’enorme vitalità culturale e il notevole sforzo di sintesi artistica che caratterizzano la migliore prosa melvilliana, dando così un colpo di grazia alle vecchie tesi di Cecchi e Linati contro cui avevano polemizzato, da una posizione però strategicamente più debole, Pavese e Vittorini.87

(1968), pp. 165-91. Va infine menzionato lo studio dello jugoslavo Janez StANONIK, Moby Dick: the myth and the symbol: a study in folklore and literature, Ljubljana, Ljubliana Uni-

versity Press, 1962. 87 Al tempo stesso i saggi in esame prendono in qualche modo le distanze dall’importante studio di GasrieLe Balpini, Melville, o le ambiguità, cit., apparso nel ‘52. Secondo Baldini Melville “è scrittore eminentemente religioso [e] tema ricorrente di tutte quelle opere che seguono i punti sostanziali della sua carriera letteraria è il rapporto dell’uomo con Dio”. Se il suo Dio “ricorre, soprattutto, in figura del severo e intollerante dio puritano”, Baldini, al contrario di Thompson, non tratteggia un Melville ribelle e blasfemo, ma un Melville che cerca caparbiamente, pur sprofondando sovente nello scetticismo e nella disperazione, di costruire un legame col divino. Questa ricerca di Dio culmina, secondo Baldini, in

Moby Dick, dove è dominante il tema del “rapporto del finito con l’infinito, del mortale con l’eterno”(34) e dove “una cosciente maturità esprime deliberatamente e compiutamente se stessa”(39). Gli interventi di Lombardo e Zolla contesteranno però implicitamente la posizione privilegiata che Baldini assegna a Moby Dick, mentre quelli di Cambon e Pagnini ricercheranno nel testo un centro organizzativo non tanto a livello tematico, quanto a livello strutturale.

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Partendo dalla constatazione che una visione di Moby Dick come “inesauribile energia creatrice di liberi significati” è insoddisfacente perchè, se il testo non è puramente allegorico non è nemmeno totalmente simbolico, Marcello Pagnini scorge “la necessità di ricercare quale sia quella grande struttura di Moby Dick che controlla i particolari e dà alla totale espressione unità e coerenza” .88 Nonostante insista sul bisogno di “chiarezza organica”, Pagnini non è però un nostalgico del testo imperativo: nella “ricerca di unità in senso organico”, egli precisa, non dobbiamo “costringere le parti a entrare di forza dentro un disegno prestabilito o, ancor peggio, a trascurare quelle che ne rimangono fuori passandole sotto silenzio” (49). Una lettura immanente deve però restare sempre un ideale, a meno che non si riproduca parola per parola l’intero testo, e Pagnini nei fatti simpegna nel riorganizzare attivamente l’opera in “una specie di grande complesso tematico” che ha anche un suo preciso messaggio da offrire al lettore attento: “o si accetta il cosmo per come si presenta ontologicamente, come Ishmael, che sopporta l’idea di un universo indifferente e misterioso [...], o si è travolti dalla furia del creato inviola-

bile, come il ribelle Ahab; o si accoglie la dolce consolazione delle filosofie e delle religioni. Questo il messaggio ultimo del libro, implicito nell'avventura del Pequod” (60). Pagnini però, commentando alcune pagine più avanti il sermone di Mapple, si dichiara scettico circa la “coerenza dei particolari del romanzo, i quali, non v’è ingegnosità di esegeta che li possa, in tal senso, accomodare tutti, e in maniera plausibile, in se-

no al significato dell’opera” (67). In Moby Dickvi sono tanti, forse troppi, temi e nessuno pare in grado di ordinare gli altri gerarchicamente. Non rintracciando nel testo né un tema né un punto di vista egemone, Pagnini scorge “un più probabile centro ideologico [...] nel pensiero scettico e obiettivo di Ishmael” (68). Centro ideologico non vuol dire però centro strutturale perchè Ishmael “non assolve sempre la sua funzione in seno all'economia dell’opera” (90). Ishmael inizia come narratore per poi scomparire dalla scena al punto che, ad esempio nei soliloqui di Ahab o Starbuck, egli diviene un 4/tro narratore che “sa quello che

88 MarceLto Pagnini, “Struttura tematica e struttura stilistica di Moby Dick”, Studi Americani, 6 (1960) e ora in Critica della Funzionalità, Torino, Einaudi, 1970, pp. 41-94, (49).

Tutte le citazioni sono da quest’ultima edizione.

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Ishmael non potrebbe sapere” (90). A quest’assenza di un solido punto di raccordo si accompagna, secondo Pagnini, un altro difetto generato “dal fatto che la partecipazione di Melville è divisa fra Ishmael e Ahab” (91). Tale “intrusione” risulterebbe in ulteriori guasti formali e Pagnini conclude perciò sottolinenando l’ “immenso sforzo di sintesi” che anima il testo, ma riconoscendo parimenti che esso “ha dei difetti di struttura formale anche [...] se lo vediamo come opera romanticamente dinamica, senza pregiudizi di ordine classico” (89).8° C'è sicuramente, in questa ricerca di una soggettività centrale — sia essa quella di un autore o un narratore coerente — in grado di esprimersi in un linguaggio non contraddittorio, un segno del discorso critico dei tempi che concepisce l’opera d’arte come organica espressione di un’unitaria coscienza interiore. Pagnini,

pur valorizzando la natura polistilistica e politematica dell’opera, condivide con R. P. Blackmur dubbi tanto sul suo registro linguistico, quanto sulla “difformità” di Ishmael. Il saggio di Glauco Cambon pare quasi scritto in risposta a quello di Pagnini, e prende difatti spunto dalla seguente considerazione: “un aspetto di Moby Dick che i melvilliani accettano senza discutere, o non riescono a risolvere, è quello dell’eterogeneità modale in cui si articola il romanzo”.9° Secondo Cambon invocare a giustificazione sia “la vitalità intrinseca” dell’opera, sia la sua “unità mitica” — come molti fanno — è insufficiente: la prima viola infatti il “contratto immaginativo o convenzione artistica, fra scrittore e pubblico”; la seconda, per quanto interessante, resta di natura “pre- estetica”. Cambon è perciò d’accordo con Pagnini nel ritenere un testo artistico formalmente riuscito solo nella misura in cui è possibile ricondurre i suoi disparati materiali a un principio strutturale unificatore. Diversamente da Pagnini, Cambon trova tale principio

89. Un terzo e ultimo squilibrio è infine dovuto, secondo Pagnini, al linguaggio stesso dell’opera: c'è un certo equilibrio nell’oscillare melvilliano tra simbolismo e allegoria “ma non sempre i passaggi dalla rappresentazione materiale ai significati che la trascendono si compiono perfettamente”(91). Accade cioè che a volte le idee, invece di nascere “natural-

mente” dall’oggetto, vi sarebbero “appiccicate” sopra. 99 Giauco Campon, “Ismaele e il problema dell’unità formale in Moby Dick’, Il Verri,

(Aprile 1962) e ora in La lotta con Proteo, Milano, Bompiani, 1963, pp. 197-211. Le citazioni sono tutte da quest'ultima edizione. Una versione del saggio in lingua inglese è apparsa

in Modern Language Notes, 76 (1961), pp. 516-23.

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incarnato in Ishmael. Dopo aver passato in rassegna le familiari obiezioni mosse alla plausibilità di Ishmael come narratore, Cambon spiega che, quando ci troviamo di fronte ad un soliloquio di Ahab, non ci viene offerto quanto il narratore non potrebbe sapere bensì “la ricostruzione fantastica dei personaggi che egli conobbe, il come se della fantasia che diventa un Ecco”! (208-9). Ishmael è sì personaggio e al tempo stesso narratore, ma se lo consideriamo come “artista nell’atto di narrarci, decifran-

dola, se possibile, la propria esperienza cruciale” (209), i due ruoli non appariranno in contraddizione. L’idea di vedere in Ishmael l’artista all'opera è sviluppata da Cambon fino a suggerire che l’unità di Moby Dick vada vista nella sua natura di meta-romanzo (anche se egli non adopera tale definizione). Ishmael deve infatti essere accettato dal lettore “come persona melvilliana invisibilmente presente attraverso la narrazione quando cessa di esservi direttamente presente; questa persona ha esistenza drammatica come attorespettatore di un’azione metà ricordata e metà reinventata nell’evocazione. Ishmael è lo scrittore che, autoironizzandosi, cerca e infine ottiene il

proprio compimento negando se stesso nell’opera d’arte” (211). Il testo, dunque, oltre che come racconto del tentativo di vendetta di Ahab si presenta come “opera in via di creazione” — un’opera dove l’attività e la problematicità del narrare vengono a costituire un tema dominante. “L’unità formale di Moby Dick appare affidata a un disegno dinamico che è l’anima, e non il semplice scheletro del libro tanto discusso” (211). Certamente ingegnosa, la soluzione escogitata da Cambon non nega comunque la eterogeneità modale del testo, riconducendola piuttosto ad una soggettività unificatrice in fieri. La ricerca di un elemento di coesione in un panorama testuale animato da mille spinte diverse caratterizza anche l’intervento di Agostino Lombardo. Pur precedendo di circa tre anni quelli di Pagnini e Cambon, il suo saggio offre per certi versi un’anticipazione del nuovo Melville che, anche negli Stati Uniti, prenderà consistenza solo sul finire degli anni ‘60. Lombardo, che si propone di indicare un percorso di lettura per tutta l’oeuvre melvilliana, parte dalla constatazione che per altri scrittori è “possibile distinguere, fra i molti [...] un tema, un sentimento, un inte-

resse predominante che consente di caratterizzare la loro arte, di individuare, se non altro, il punto focale”. In Melville, viceversa, è “questo centro che sembra mancare” perchè “il suo problema non è particolare ma

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universale: quello del significato della vita, e l’intera sua opera altro non .9!Secondo Lombardo, Melville, come è che la ricerca di tale significato” Shakespeare per Croce, è “poeta cosmico”, e per questo motivo la strut-

tura eterogenea di Moby Dick non va vista come ostacolo alla sua valorizzazione estetica. “Se Shakespeare ignora sovranamente le ‘regole’ del dramma [...] non diverso è l’atteggiamento di Melville verso le ‘regole’ del romanzo. Si veda Moby Dick, che di tale libertà è esempio principe” (33). Lombardo vede l’unità di questa, come di tutte le altre opere melvilliane,

nella loro comune “ricerca della verità” e, come già aveva sostenuto Camus, egli considera la ricorrente metafora del viaggio come simbolo della ricerca esistenziale che l’uomo deve compiere, anche quando sa di non poter trovare risposte definitive. A differenza di Ahab, Melville appare scettico sulla possibilità di raggiungere una verità definitiva, pur servendosi della sua tragedia per oggettivizzare la propria ricerca personale. Per Lombardo “Melville non condanna Ahab, 0, piuttosto, lo esalta nel

momento in cui lo condanna” (55) perchè in Ahab prende appunto cor| po “l'umano impulso alla conoscenza”, e cioè la tragedia dell’uomo postromantico che non ha più né certezze né valori incrollabili su cui poggiarsi. “Ahab è veramente l’uomo moderno” (56). L'attualità del saggio di Lombardo, ancor più che nella sua lettura di Moby Dick, è da ritrovarsi nella contestazione di un paradigma critico che, dal “Melville revival” agli anni ‘60, domina quasi incontrastato gli studi melvillitani. Secondo tale paradigma l’opera di Melville è da intendersi “come una sorta di piramide, in cui tutto serve a porre in risalto, a creare, il gran vertice, e cioè Moby Dick” (41). Per Lombardo, non solo i testi che anticipano Moby Dick - compreso Mardi — contengono motivi

interessanti, ma anche quelli successivi partecipano a pieno titolo alla ricerca melvilliana. Andando controcorrente Lombardo giudica Pierre “un affascinante romanzo, troppo poco studiato, ancora, e che invece pienamente s’innesta nella storia di Melville”, tant'è che il disperato furore di Ahab rivive intero nella tragica carriera di Pierre. Anche 7be ConfidenceMan è “essenziale per seguire la ricerca dello scrittore” e Lombardo si oppone perciò all'idea di un Melville “silenzioso” o comunque rimasto,

71 Agosrino Lomsarpo, “Introduzione a Melville”, Studi Americani, 3 (1957), pp. 29-

61, (29).

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dopo la stesura della sua opera maggiore, senza energie creative. Quest'ultima posizione, accettata in pratica da tutti i grandi critici melvilliani — da Mumford a Pavese, da Matthiessen ad Olson — verrà rigorosamente contestata a livello generale solo a partire dagli anni ‘60, quando, come vedremo nel prossimo capitolo, una nuova ideologia estetico-letteraria cercherà di strappare al vecchio New Criticism l'egemonia istituzionale. È indicativo che, nello stesso volume di Studi Americani dove appare il saggio di Lombardo, questo sia immediatamente seguito da un saggio di Elémire Zolla su Pierre. Pur dichiarando in apertura di non voler intraprendere battaglie polemiche in difesa di un testo sin qui generalmente ritenuto fallimentare, anche Zolla ha intenti revisionistici. Il suo

close reading di una pagina del testo “scelta a caso” si propone difatti di mettere in luce “la fecondità allusiva, la ricchezza speculativa e sentimentale del libro riflessa nel microcosmo di ogni singola frase”92 Il linguaggio involuto e barocco del testo, che tanto sa di romanzo gotico popolare, non è né un lezioso esercizio retorico fine a se stesso, né il sinto-

mo più evidente di una vena creativa in via di esaurimento. Piuttosto, lo stile di Melville dimostra evidenti legami col linguaggio dell’allegoria barocca studiato da Walter Benjamin. Non c’è dunque, secondo Zolla, alcun

impiego di tecniche simboliste in Pierre — “mentre il procedimento del simbolista è la folgorazione, quello dell’allegorista ha una labirintica lentezza [...]. La trama stilistica dell’allegorista è il labirinto, che è appunto la strada scelta da chi non desidera giungere alla meta” (72-3). L’ironia feroce che il narratore dispiega in ogni pagina nei confronti di Pierre è omologa al disincanto col quale Melville guarda ad un mondo dove nessun agire ha più senso, dove qualunque ricerca appare assurda.

92 ELfmire Zona, “Il linguaggio di Pierre’, Studi Americani, 3 (1957), pp. 63-97, (634). Ad ulteriore riprova dell’interesse italiano per il Melville post-Moby Dick si deve ricordare la traduzione di The Confidence-Man ad opera di Sergio Perosa: L'uomo di fiducia, Venezia, Neri Pozza, 1961. Nella sua introduzione quest’ultimo nota che l’opera melvilliana, per quanto “venata di pessimismo, contorta e a volte faticosa nello stile”(ix), “già nel titolo ... porta la chiave d’un allegoria ed il senso d’un profondo impegno umano e morale”(xv) e non merita certamente di essere considerata una sorta di Cenerentola. Polemizzando con chi lo considera “un esempio di Timonismo senza speranza”, il critico scorge invece nel testo “una forma di ultimo umanesimo”(xvii). Infine, rifacendosi alla descrizione dell’ “ana-

tomia” di Northrop Frye come genere letterario a sé stante, Perosa conclude che “l’opera è dunque la ‘dissezione’ e l’analisi, l’ ‘anatomia’ dell'operato del Maligno”(xxxiii).

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Diviene così evidente perchè Zolla rimproveri quei critici che, come Baldini, condannano il libro soprattutto sul terreno morale; secondo Zolla se qualcosa d’immorale c'è in Pierre non è certo l’atteggiamento del suo autore ma quello della società che lo circonda e che nel testo si riflette. La società moderna con le sue alienazioni, i suoi gelidi automatismi, le sue folle anonime: è essa a provocare in Melville il desiderio di ritrarsi dal mondo dando vita a un linguaggio che, come l’allegoria barocca, si piega su se stesso e precipita verso la morte. A Pierre, ricorda Zolla, farà seguito Israe! Potter, dove la folla che percorre frettolosa una Londra/città di Dite anticipa i celebri versi eliotiani sulla “Unreal city”. In un mondo del genere Melville non cercherebbe più il dialogo con la vita e con la storia, e si rifugierebbe viceversa nel narcisismo — un narcisismo che sarebbe incarnato nei numerosi bachelor che compaiono nei testi del periodo, ma che resta comunque un’alternativa assai poco convincente essendo il bachelor la figura rappresentativa di un mondo che ha reso impossibile dei genuini rapporti umani. Se, rispetto alla brillante analisi stilistica, l'ipotesi biografica e socio-culturale su cui poggia la lettura di Zolla appare più discutibile, qui si deve sottolineare soprattutto come, ri-

vento di sconfitta che spira nel testo, Zolla faccia acquistare a Pierre i contorni dell’opera d’arte, del prodotto non di una mente malata ma d’una disillusa e persino spietata genialità.

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CAPITOLO IV L'INDUSTRIA MELVILLIANA

If you look up Melville in the four-volume Cambridge History of American Literature (1917-21), you will find that he occupies less than four pages. Graduate schools have recently been doing their utmost to compensate for previous neglect; and the investigation of Moby Dick might almost be said to have taken the place of whaling among industries of New England. — Harry Levin, 7be Power of Blackness (1958)

Sacvan Bercovitch ha di recente osservato che i testi chiave della letteratura americana, dalla Scarlet Lettera Moby Dick a Huck Finn, pur

costituendo la spina dorsale del canone nazionale, non hanno mai raggiunto “quell’inattaccabile status monumentale che viene accordato ai classici di altre culture”.! Per quanto riguarda Moby Dick si può senz'altro dire che se ciò è avvenuto è soprattutto per le obiezioni formali puntualmente mosse nei suoi confronti. Come s'è visto nel precedente capitolo il testo è, per dirla con Bachtin, di natura dialogica o polifonica mentre — almeno sino alla fine degli anni ‘60 — i critici aspirerebbero a farne un testo monologico.? Moby Dick, lungi dall’offrire al lettore un universo nar-

1 Sacvan Bercovitc4, “The Problem of Ideology in American Literary History”, Critical

Inquiry, 12 (1986), p. 650. 2 Per la distinzione tra dialogico e monologico cfr. Micra. Bacrtn, Dostoevskij. Poetica e stile, Torino, Einaudi, 1968, e Estetica e Romanzo, Torino, Einaudi, 1979. Un recente

e interessante saggio su Moby Dick che fa uso di Bachtin è quello di Caroryn Porter, “Call Me Ishmael, or How to Make Double-Talk Speak” in Richarn BropHeap (a cura di), New Es-

says on Moby Dick, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, pp. 73-108.

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rativo unificato e organico sembra piuttosto proporre un'infinità di punti di vista contraddittori, sfidando così alla radice i presupposti epistemologici ed ideologici dell’umanesimo liberale e di quella metodologia — il New Criticism — che ne incarna i principi a livello critico-letterario e che tanto aveva contribuito all’istituzionalizzazione della letteratura. Come vedremo tra breve, a partire dalla fine degli anni ‘60 tanto il New Criticism che la tradizione umanistica diverranno i bersagli polemici di un nuovo discorso critico destinato ad avere profondi effetti sulla critica letteraria americana. Con l'avvento del decostruzionismo si creeranno le condizioni per una sorta di secondo “Melville revival” che non solo coglierà la grandezza di Moby Dick proprio nel suo “disordine” di romanzo moderno o addirittura post-moderno, ma “riscoprirà” e loderà testi melvilliani sino ad allora apparsi tediosi, caotici, e moralmente o artisticamente inaccettabili come Pierre e The Confidence-Man. Più che contestare apertamente il paradigma critico sancito dal “revival” degli anni ‘20 — paradigma che contemplava un Melville all’apice dei suoi poteri nel 1851 e poi irrimediabilmente perdutosi tra astrazioni metafisiche e amari risentimenti — negli anni ‘70 e ‘80 numerosi critici lo articoleranno diversamente, così da rendere le speculazioni filosofiche, le forme e gli stili a volte grotteschi di Pierre e The Confidence-Man oggetti di studio e, quindi, oggetti di valore.

1. Dalla fenomenologia di Ispmael alla metafisica melvilliana Prima di rivolgere la nostra attenzione alla natura e alle ragioni della critica decostruzionista varrà comunque la pena di notare che, al di là di un effettivo consenso sulle qualità di Melville come autore “classico”, o sulla posizione centrale di Moby Dick nel canone letterario statunitense, è la semplice, impressionante quantità di materiale prodotto su Melville negli ultimi venticinque-trent’anni a farne una figura di indiscutibile valore, ed è probabilmente proprio la natura polemica e problematica di molti suoi testi ad alimentare costantemente una produzione critica che

ha sempre più assunto dimensioni “industriali”. Alcune cifre. Il numero di articoli su Melville pubblicati sulle riviste specializzate nei soli anni ‘60 è superiore al numero degli articoli prodotti nei due decenni precedenti. Identico discorso per le tesi di Ph. D.: se le 89 tesi degli anni ‘60 rappre204

sentavano già un significativo aumento rispetto alle 65 completate durante gli anni ‘40 e ‘50, le ben 291 tesi compilate tra il 1970 e il 1980 hanno più che raddoppiato il numero totale di dissertazioni su Melville.3 Naturalmente una così poderosa mole di ricerca si traduce puntualmente in un elevato numero di pubblicazioni. Un’occhiata ad alcuni titoli dei soli libri usciti negli ultimi decenni sarà sufficiente per convincersi che non vi è davvero limite ai modi nei quali l’oeuvre melvilliana può essere contestualizzata. Si va dai tradizionali studi delle fonti e delle possibili influenze letterarie, alle analisi dei rapporti tra testi e specifiche realtà storicoculturali, alle indagini psicoanalitiche oppure filosofico-letterarie, a quelle che inseriscono esplicitamente Melville in ambito moderno.‘

3 Per le tesi di Ph. D. su Melville si veda JoHn Brant, Melville Dissertations: 19241980, Westport, Conn. e London, Greenwood Press, 1983. È questo forse il momento di ri-

cordare anche alcuni dei più importanti studi europei su Melville degli ultimi venti anni cui non si fa cenno in altre sezioni di questo capitolo, ma si tenga presente che il seguente elenco non ha alcuna pretesa di esaustività: a) in Germania: Max Frank, Die Farb-und Lychisymbolik im Prosawerk Herman Melvilles, 1967; Lupwie RotHMayr, Der Mensch und das Schicksal in den Romanen Herman Melvilles, Frankfurt am Main, 1977; ManrreD SieBALD, AU-

flebuung im Romanwerk Herman Melvilles, Frankfurt, 1979; b) in Francia: Viora SacHs, La contre-bible deMelville: Moby-Dick dechiffré, Paris, Mouton, 1975, nonché i numeri 6 e 7 (1978-79) della rivista Delta dedicati a “Bartleby”; c) in Italia: Beniamino Pracipo, Le due schiavitù; per un'analisi dell’immaginazione americana, Torino, Einaudi, 1975; Gruuiana

Me Cunrocx Scarera, Bi//y Budd e la negazione dell’innocenza, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1976; Gumo Fink, / testimoni dell’immaginario. Tecniche narrative dell'Ottocento

americano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1978, pp. 50-64, 112-25, 305-65; Mario Corona, Prima del Viaggio, Bologna, Pitagora, 1984; Barsara Lanati, Frammenti di un sogno. Hawthorne, Melville e il romanzo americano, Milano, Feltrinelli, 1987. I saggi e le interviste raccolte da Uso Rusro in Mal d'America, Roma, Editori Riuniti, 1987, dimostrano quanto

l'interesse per Melville sia uno dei fili rossi dell’americanistica italiana. Infine, a riprova del fatto che l’opera di Melville interessa non solo gli addetti ai lavori, si possono segnalare, tra le altre, l'edizione Mursia di tutte le opere narrative a cura di Ruccero Biancr (1986-), e quella Mondadori di Bartleby e altri racconti americani, a cura di Massimo Bacigatupo (1992). 4 Per quel che riguarda gli studi delle fonti, si vedano, tra gli altri, DororHre Finketsten, Melville’s Orienda, New Haven, Yale University Press, 1961; HerserT Bruce Frankun, The

Wake of the Gods: Melville’s Mythology, Stanford, Stanford University Press, 1963; Gerard Sweeney, Melville’s Use of Classical Mythology, Amsterdam, Rodopi, 1975. Per studi di taglio storico-culturale si vedano le opere citate più avanti alla nota 39. Di taglio psicoanalitico sono Martin Pops, The Melville Archetype, Kent State University Press, 1970; e Epwarp EpInGER,

Melville’s Moby Dick: A Jungian Commentary, discusso più avanti. La biografia di Epwin Havinanp Mucer, Melville, New York, Braziller, 1975, è viceversa di impostazione freudiana. Più

interessati alla dimensione filosofico-letteraria sono Merun Bowen, be Long Encounter: Self and Experience in the Writings of Herman Melville, Chicago, Chicago University Press,

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Nonostante molte di queste interpretazioni nascano su terreni non

sempre vicini al New Criticism, a livello generale quest’ultimo dimostra per una lunga fase una grande capacità di tenuta rintuzzando, o inglobando al suo interno, le sfide che da più parti iniziano a venirgli lanciate. Si veda il caso, di particolare interesse per gli studi melvilliani, della critica fenomenologico-esistenzialista che, nella sua versione statunitense, non si preoccupa tanto di collegarsi a una tradizione filosofica europea che parte da Husserl per arrivare sino a Sartre, contentandosi piuttosto di impadronirsi di nuovi termini e nuovi strumenti concettuali per adattarli ai propri scopi, rigorosamente limitati al campo letterario. È in particolare il belga Georges Poulet, a lungo direttore del Dipartimento di Lingue Romanze della Johns Hopkins University, a fungere da propagatore della critica dell’ “interiorità” — una critica, cioè, che vede nel testo letterario innanzitutto una manifestazione della “coscienza” dell’autore, un tutto or-

ganico riconducibile alla mente del suo creatore. Questa impostazione non comporta uno studio della letteratura in chiave autobiografica; al contrario, è solo di quel tanto di coscienza, di quella porzione del mondo interiore dell’autore che è oggettivamente disponibile nel testo che il critico deve occuparsi. Caratterizzandosi innanzitutto come pratica puramente immanente che rifiuta di invischiarsi in fenomeni cosiddetti extraletterari, questa versione della critica fenomenologica si presenta con le carte in regola per essere assorbita all’interno di un discorso critico dominato dal New Criticism.> Anche se il suo impatto sulla critica statunitense non va molto al di là di un livello puramente retorico, è fuor di

1960; JoHn Serve, The Ironic Diagram, Evanston, Northwestern University Press, 1970; Kinc-

stey Winmer, he Ways of Nibilism; a Study of Herman Melville’s Sbort Novels, Los Angeles, California State Colleges, 1970. Dedicati a Melville come scrittore della modernità sono Leon SerrzeR, be Vision of Melville and Conrad, Athens, Ohio University Press, 1970; James GueT-

TI, Tbe Limits of Metaphbor; a Study of Melville, Conrad, and Faulkner, Ithaca, Cornell University Press, 1967; Maurice Frienman, Problematic Rebel: Melville, Dostoevsky, Kafka, Camus,

Chicago, Chicago University Press, 1970. Va poi ricordato un importante studio che si muove secondo linee più tradizionalmente “new critical”: Warner BertHOFF, The Example of Melville, Princeton, Princeton University Press, 1962.

? La continuità tra New Criticism e la versione americana della critica fenomenologica è messa in luce da Frank LentrIccHIA, After tbe New Criticism, Chicago, Chicago University Press, 1980, pp. 63-78, in particolare p. 70. Terry FacLeToN nota invece una somiglianza tra il pensiero di F.R. Leavis e quello di Husserl (Literary Theory, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1983, p. 57).

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dubbio che alcuni critici, pur senza rompere i ponti col formalismo dominante, riescono ad affrontare Melville armati di una serie di concetti

che paiono più adatti del rigore morale di un Winters o di un Matthiessen a fare i conti con lo scetticismo che pervade tanti suoi testi. Se già molti avevano pensato a Melville animati da preoccupazioni filosofiche, con Isbmael's White World di Paul Brodtkorb, Jr. abbiamo la prima lettura espressamente fenomenologica di Moby Dick Dichiarandosi d'accordo con Poulet e Hillis Miller nel ritenere la letteratura “a form of consciousness” e sottolinenando però che il suo non è un approccio “esoterico”, Brodtkorb chiarisce subito che la coscienza da lui analizzata

non è quella di Melville bensì quella di Ishmael. Il presupposto alla base di questa scelta “is not only that Ishmael is the vessel that contains the book, but also that in a major sense he is the book” (5). Questa posizione permette a Brodtkorb di respingere immediatamente le abituali accuse mosse alle incoerenze strutturali dell’opera: “there is [...] no necessity to blame Melville for the books inconsistencies, because most of them

are story-teller’s mistakes, and Ishmael is pervasively characterized as a storyteller. [...] He, not Melville, is the one who is inconsistent when he does not accurately remember something he has written, and later writes something at odds with it” (5, 7). Lo studio di Brodtkorb cerca dunque, come compete a uno studio fenomenologico, di analizzare la coscienza che costruisce lo strano mondo destinato a prender vita nella mente del lettore; quella coscienza alla quale “we, as readers, cannot escape” (3). Questo non vuol dire aver trovato un rassicurante punto di osservazione dal quale giudicare l’universo romanzesco: al contrario, non solo il linguaggio con cui Ishmael ricrea la sua esperienza è problematizzato da un’ironia che non risparmia lo stesso narratore, ma i fenomeni di cui egli ci parla sono spesso essi stessi ambigui. Brodtkorb passa diligentemente in rassegna i diversi aspetti della coscienza ishmaeliana — il modo in cui essa si rapporta al mondo fisico e

6 Pau BroptKOR8, Jr., Ishbmael's White

World New Haven e London, Yale University

Press, 1965. I due capitoli dedicati rispettivamente a Moby Dicke Pierre da Murray KrreceR in Tbe Tragic Vision, Chicago, Chicago University Press, 1960, rappresentano un momento di transizione tra i lavori di Mason e Percival degli anni ‘50 e le letture filosofiche francesi e tedesche degli anni ‘30 e ‘40, da un lato, e la critica esistenzialista degli anni ‘60, dall’altro.

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naturale, al proprio corpo, al tempo, agli uomini che gli sono accanto — concludendo che i ragionamenti di Ishmael non possono ritenersi “wholly trustworthy” (125) e che, fondamentalmente, il suo è appunto un mondo bianco — un cosmo privo di una sua assoluta solidità. Tra i diversi stati d'animo che dominano un narratore afflitto da “boredom, dread,

and despair”, “the emotion that constitutes white makes vibrantly possible as a presence the nothingness with which all existence is secretly sickened” (119). Lo scetticismo del narratore è dunque condizione esistenziale e al tempo stesso impasse epistemologica, come dimostrato anche da uno dei nodi cruciali dell’opera: il rapporto Ishmael-Ahab. Il primo non ignora certo l’immoralità del secondo quando questi, ad esempio, pur di continuare l’inseguimento della Balena Bianca si rifiuta di aiutare il capitano della Rachel nella ricerca del figlio disperso. Nonostante ciò, Ishmael garantisce comunque ad Ahab uno status eroico a testimonianza del fatto che egli stesso (proprio come tanti critici) non sa decidere sino a che punto Ahab sia una forza positiva o negativa. La lettura di Brodtkorb pare risolvere d’un sol colpo l’annoso problema della mancanza di unità in Moby Dick. Facendo della coscienza ishmaeliana il punto di raccordo dell’intera opera, il critico può al tempo stesso celebrare lo scetticismo nichilista del narratore (che sa di non poter sapere) riconducendo in ogni caso dubbi e tensioni nell’alveo di una coscienza “organica”. Poiché, come nota Brodtkorb all’inizio del suo lavoro, è la mente che costituisce i “fatti”, la problematicità del reale è da collegarsi al particolare stato d’animo di chi l’osserva. Il libro e la mente di Ishmael coincidono perché quest’ultimo funziona da soggetto centrale, fonte assoluta di tutti i significati, per quanto contraddittori, che il suo

mondo viene ad assumere. Non c’è alcuno spazio, nello schema di Brodtkorb, per il linguaggio. Da buon fenomenologo egli ritiene che il linguaggio sia uno strumento neutrale che serve a descrivere un’esperienza già costituitasi, autonomamente, in una coscienza trascendentale.

Non a caso Brodtkorb, pur trovando nella voce di Ishmael il filo di raccordo del testo, non ha modo di render conto della discontinuità formale di Moby Dick. Ishmael si serve di diversi linguaggi letterari per presentarci il “suo” mondo, e il registro epico o quello tragico sono codici rappresentativi che non servono a “riflettere” ma a costruire il reale secondo precise modalità. I diversi generi cui il narratore ricorre non sono certo parto esclusivo della sua mente, ma convenzioni discorsive che esistono 208

al di là della sua soggettività, e che anzi in parte la costituiscono. La strategia di lettura elaborata da Brodtkorb rappresenta un ottimo esempio del rapporto non problematico instauratosi negli Stati Uniti tra New Criticism e “criticism of consciousness”. Tale rapporto, visto in prospettiva storica, appare “come il passaggio da un estetismo che celebra un oggetto poetico circoscritto e indipendente, a un isolazionismo che celebra una soggettività circoscritta ed indipendente” 7, e Brodtkorb s'impegna appunto a dimostrare che la soggettività di Ishmael è la fonte della “coherence and unity” che a prima vista parrebbe mancare all'oggetto artistico Moby Dick. La critica fenomenologica accetta anche un secondo caposaldo teorico dell’ideologia new critical. Come il New Critic pretende di limitarsi a portare alla luce quanto il testo comunicherebbe obiettivamente, anche Brodtkorb si vuole critico trasparente e definisce la sua lettura come puramente “descriptive”, una mera fusione con la coscienza interiore dell’opera. Brodtkorb sente d’altra parte di doversi difendere da chi potrebbe pensare che una lettura fenomenologica di Moby Dick comporti l'imposizione di “a twentieth-century methodology upon a nineteenth century book” (9), e lo fa spiegando che la fenomenologia è una diretta discendente del romanticismo, e quindi non estranea all’universo melvilliano. Brodtkorb finisce così col negare lo spessore storico sia dell’opera letteraria che di qualunque suo lettore. Critico e testo vengono concepiti come dialoganti in un mondo davvero “bianco” e vuoto. Tra l'indagine di Brodtkorb sulla funzione unificatrice della coscienza ishmaeliana e lo studio di Edgar Dryden sulla metafisica che sarebbe alla base dei romanzi melvilliani vi sono diversi motivi di continuità. Per ambedue i critici la letteratura non è un’ “imitazione” del mondo, ma uno strumento per strutturarlo e ricrearlo ex novo. Come spiega Dryden nel capitolo introduttivo di The Great Art of Telling the Trutb, il romanzo “may be seen as a metaphysical rather than as a descriptive or rhetorical form: it is not primarily concerned with explaining or reflecting a preexisting reality without disturbing its fabric but rather with formulating an experience which is both particular and unified” .8 A differenza di

7 LentRICCHIA, CÎt., p. 75.

8 Encar Drynen, Melville's Tbematics of Form: The Great Art of Telling the Truth, Bal-

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Brodtkorb, Dryden esamina l’intera produzione romanzesca di Melville per risalire alla visione metafisica che organizza i singoli testi. Dryden parte da una discussione del celebre saggio “Hawthorne and His Mosses”, nel quale Melville esprime una profonda consapevolezza di quanto l’artista non sia mero “observer”, ma “the creator of a fictitious life” (19).

Il mondo che Melville crea è però desolato e assurdo: “[his] vision of a white universe looks forward to the nihilism of a Conrad. Melville’s theory of fiction is based on a vision of life as an empty masquerade. The human and natural worlds are lies. The mind of man and the material of nature are ‘nothing but surface stratified on surface’ and both are hollow to the core” (21). Il nichilismo melvilliano oppone a “this world of lies” — come viene definito nel saggio su Hawthorne — una Verità trascendentale che non può mai essere svelata in modo diretto e richiede di essere affrontata attraverso un'operazione trasformista. “Shakespeare and the other masters of the Great Art of Telling the Truth”, tra i quali si dovrà includere lo stesso Melville, devono infatti creare un mondo fittizio al riparo del quale la forza lacerante della Verità sia accessibile, ma non distruttiva. “Fiction,

paradoxically, puts man in touch with Truth while protecting him from it” (26). Da Typee a Moby Dick, grazie a quella figura che “loses his innocence and also retains his sanity” (21), grazie cioè a un narratore o “fictive author”, Melville affronta il vuoto esistenziale così ben espresso nella metafora della “whiteness”, al riparo della finzione letteraria. Ishmael assicura a Melville l’ultima “victory of art over life” (112); a partire da Pierre— per ragioni che Dryden non spiega — Melville abbandona la speranza che la letteratura possa comunicare qualche forma di verità, e la fiction stessa viene sottoposta a un processo di critica spietata.?

Tanto Pierre quanto The Confidence-Man erano stati trattati con severità anche da quei critici che consideravano Melville un grande scrittore. C'erano state alcune eccezioni, come quelle di Grant Watson o Henry

timore, Johns Hopkins University Press, 1968, p. 7. BroptkorB, nel recensire il libro di Dryden (in American Literature, 41 [1969], pp. 434-37) si mostra comunque solo parzialmente soddisfatto. ?_ Nelle loro recensioni tanto Broptkors che E. Grrtieman (in New England Quarterly, 42 [1969], pp. 599-602) individuano il punto di maggior forza del libro di Dryden nella sua rivalutazione del Melville post-Moby Dick.

210

Murray, che avevano cercato di assimilare Pierre a un discorso di tipo psicoanalitico, ma, trattando il testo in chiave essenzialmente autobio-

grafica non erano riusciti a proporre una lettura che rendesse l’opera accettabile in un contesto istituzionale dominato dal New Criticism, per il quale la “artistry” di un’opera non poteva poggiarsi su giustificazioni extraletterarie.!° Dryden, viceversa, non tenta alcuna indagine psicoanalitica e vede piuttosto in Pierre “the story of the necessary failure of the author-hero” (117) dove, abbandonando per la prima volta la narrazione in prima persona, Melville ci offre “at once a satirical appraisal of [his] own career as a writer, of the American literary scene in general, and, fi-

nally, of the nature of fiction” (129). Il narratore sa in partenza quello che il protagonista del libro scoprirà solo a caro prezzo, e cioè che “in the world any act of speaking or writing makes one an unwilling participant in society'smasquerade” (130). Per Dryden il Melville di Pierre non ha assolutamente perduto le sue migliori energie; al contrario è proprio in questo testo che la denuncia dello “world of lies” implicita in tutta la sua opera si fa più netta e tagliente. Melville non si limita, come aveva fatto attraverso Ishmael, a rico-

noscere la natura fittizia tanto della letteratura che di qualunque altra forma di pensiero. In Pierre anche il sociale è una “finzione”, riflesso a sua volta di una più generale finzione ontologica. Dryden richiama l’attenzione del lettore su un brano del testo dove tutto questo sarebbe particolarmente evidente, un brano che negli ultimi vent'anni sarà costantemente citato dai critici: But, as far as any genealogist has yet gone down into the world, it is found to consist of nothing but surface stratified on surface. To its

10 Cfr. E. L. G. Warson, “Melville’s Pierre’, New England Quarterly, 3 (1930), pp. 195234, e Henry Murray, “Introduction” e “Explanatory Notes”, Pierre, New York, Hendricks

House, 1949, pp. xiii-ciii e 429-504. Per il primo l’opera è “a record (for a certain period) of Melville’s mystical experience” e ci offre lo scrittore al suo meglio: “the book is a far better artistic whole than Moby Dick there is less matter irrelevant to the main theme, and the ela-

borate fabric in which Melville’s thought and intuition meet and are interwoven, is a quality quite unmatched by any other work of his time”. Per il secondo, pur non essendo Pierre una semplice “transcription of fact”, Melville “intended his future biographers to recognize that he was writing the hushed story of his life”, e l’opera deve perciò ritenersi una “spiritual autobiography in the form of a novel”.

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axis, the world being nothing but superinduced superficies. By vast pains we mine into the pyramid; by horrible gropings we come to the central room; with joy we espy the sarcophagus: but we lift the lid — and nobody is there! — appallingly vacant as vast is the soul of a

man!!! La realtà culturale e quella materiale si compongono di una serie interminabili di superfici sovrapposte dietro le quali non si cela assolutamente nulla. Il narratore di Pierre accetterebbe di rendersi partecipe di quest’artificialità generale perché incapace di tacere e forse perché spera, con la violenza del proprio linguaggio, di spezzare l'incantesimo. Nei fatti le finzioni sociali si rivelano invincibili e l’autore “is led to a confession of failure but not to total surrender” (141). Per la resa finale si deve attendere 7be Confidence-Man. In un lungo capitolo dal titolo “The novelist as impostor” Dryden spiega che “Melville finally [...] accepts and affirms the necessity which makes the teller an actor by using it as a central formal principle”. Nel suo ultimo romanzo “the real and the fictitious are indistinguishable and interchangeable” (151). Non solo il narratore attira di continuo l’attenzione del lettore sulla natura “fictitious” della storia, ma la letteratura è

messa a nudo come una vuota “masquerade” non diversa da quella gestita, nelle sue molteplici vesti, dallo stesso uomo di fiducia. Il testo de-

scrive cinicamente un assurdo teatro dove “all contemporary human activities, all existing institutions and values have been fashioned not out of nothing but from the vast storehouse of fictions which form man's cultural heritage” (195). Poiché anche lo scrittore partecipa — come potrebbe sfuggirvi? — a tale realtà, egli stesso è un ingannatore: “the artist is a confidence man” (195). Perchè scrivere dunque? Secondo Dryden, che evidentemente non considera la poesia una forma di scrittura, Melville resterebbe inattivo sino a Bi//y Budd proprio per essere giunto a tale conclusione. Dryden accetta il paradigma biografico sancito dal “Melville revival”, limitandosi a spostare di qualche anno — dal 1852 al 1857 - l’inizio

11 Pierre, or the Ambiguities, a cura di Harrison Hayrorn, HersHe Parker e G. THomas ‘Tanserte, Evanston, Northwestern University Press, 1971, p. 285.

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di quel periodo che Weaver aveva definito “the long quietus”, e passando sotto silenzio il fatto che prima di Bi//y Budd Melville publica un poema di oltre ventimila versi e tre volumi di poesie. Come Weaver e Van Wyck Brooks avevano bisogno di stravolgere le reazioni dei contemporanei a un libro come 7ypee per trasformarlo in testo scandaloso, Dryden ha bisogno di un Melville silenzioso dopo 7be Confidence-Man per convincerci che la pratica letteraria era oramai divenuta per lui priva di senso. In un mondo dove tutto è “finzione” pare che anche i critici non abbiano obblighi verso una realtà che diviene sempre più fantomatica, e Dryden non spende infatti una parola — nonostante le promesse fatte all’inizio della sua interpretazione di Pierre— sul rapporto di Melville col proprio pubblico o con le istituzioni politico-culturali della sua epoca. Il processo che porta alla scoperta dell’assurdità del mestiere di letterato sarebbe puramente interiore e formale, e anche quando analizza la satira degli ultimi romanzi, Dryden insiste unicamente sulla denuncia dell’artificialità ontologica del mondo umano. Questa sua ostinazione a considerare tutto in modo astratto lo porta a insostenibili forzature come quando, per illustrare il nichilismo che già corroderebbe un testo come WbiteJacket, egli scrive: “in pretending to call for social reform while actually insisting that the nature of reality makes reform impossible [the book] is hiding his vision of whiteness under the colors of an apparently propagandistic fiction” (78). Non solo poco dopo la pubblicazione di White Jacket il Codice di guerra della marina sarebbe stato riformato, ma la

riforma era nell’aria da tempo e sostenuta da molti, come dimostrato proprio dalle numerose recensioni che lodarono il tono umanitario del libro. Lo scrittore sapeva benissimo che le riforme sociali erano possibili, ma per Dryden la vacuità che Melville rintraccerebbe nell’intera storia umana sarebbe una realtà esistenziale immutabile, e a fronte di una Verità tra-

scendente qualunque codice, tanto che autorizzi

o meno a frustare un

marinaio, va denunciato come “artificiale”.

Considerando gli accenti religiosi di tanto New Criticism, rivendicare la grandezza di Pierre e The Confidence-Man in nome di una visione laica e disincantata non solo della letteratura, ma della stessa storia, po-

trebbe apparire a qualcuno come una mossa rivoluzionaria. Se il testo di Dryden ha finito però con lo svolgere un ruolo di rilevo nella critica melvilliana non è tanto perché la voga esistenzialista abbia reso accettabile celebrare un autore in nome della sua visione pessimista, quanto piutto213

sto perché Dryden non rompe del tutto con le regole del discorso critico dominante. Si ricorderà che per i New Critics il testo letterario non aveva alcun referente esterno, ed era piuttosto da concepirsi come un oggetto chiuso e autosufficiente. Dryden spiega che l'essenza della scrittura melvilliana sta proprio nel sottolineare continuamente e ossessivamente la propria letterarietà, la propria assoluta gratuità. Non solo è dunque negata alla letteratura qualunque dimensione sociale, ma il Melville di Dryden giunge a concepire la stessa sfera sociale come fiction — come una forma di “letteratura”. Nonostante la retorica nichilista, Dryden non mette in discussione la reificazione del linguaggio operata dal New Criticism. Per i New Critics leggere “non comportava alcun tipo d’impegno: la poesia insegnava solo a mantenere un atteggiamento ‘disinteressato’’.!2 Analogamente, secondo Dryden, Melville ci insegnerebbe che è inutile porsi il problema del reale in quanto anche quest’ultimo è solo un'ulteriore finzione. Soprattutto nella sua lettura di 7be Confidence-man, Dryden pare addirittura anticipare alcuni tratti del decostruzionismo di Paul de Man. Per quest’ultimo la metaforicità di qualunque linguaggio — da quello politico a quello filosofico — è una spia della sua arbitrarietà, e la grandezza della letteratura starebbe nel riconoscere senza vergogna la sua natura puramente retorica. Il caso vuole che sul finire degli anni’60, quando il passeggero interesse per la fenomenologia e l’esistenzialismo va scemando, proprio l'università dove Dryden mette a punto la sua visione di Melville — la Johns Hopkins — giochi un ruolo importante nell’introdurre negli Stati Uniti le tematiche decostruzioniste e post-strutturaliste.

2. Dal New Criticism al decostruzionismo Poichè il decostruzionismo americano — pur con le sue peculiarità — è sotto numerosi aspetti una filiazione di quello francese, e poichè questultimo è a sua volta un prodotto dello strutturalismo, il discorso sulla sua genesi si pone in termini tutt'altro che semplici. Qui è naturalmente impossibile rendere conto dei diversi snodi teorici di una così complessa

12 FAGLETON, Cîf., p. 50.

214

genealogia, e ci si limiterà innanzitutto a ricordare che lo strutturalismo letterario si caratterizza come un tentativo di applicare i metodi e i principi della linguistica strutturale alla letteratura; come un sistema, dunque,

dotato di principi scientifici almeno in apparenza assai più rigorosi e neutrali di quelli di gran parte della tradizionale critica umanistica. Riprendendo il filo di una polemica che già i Formalisti russi prima, e la scuola linguistica di Praga poi, avevano sviluppato nei confronti della critica etica, impressionistica o filologica, gli strutturalisti dichiarano giunto il momento di analizzare, al di là di qualunque discorso sulle qualità morali o artistiche del testo, le sue strutture portanti: di stabilire, cioè, quale sia

l’obiettiva “grammatica” dell’opera o gruppi di opere presi in esame. Lo strutturalismo, come del resto il decostruzionismo, è però anche

il prodotto di particolari condizioni sociali, politiche, istituzionali. Non è certo un caso se tale metodologia si sviluppa lungo tutto l’arco degli anni ‘60, in una fase segnata da importantissimi fermenti sociali che sfoceranno tra l’altro, sia negli Stati Uniti che in Europa, in un’aperta, radicale contestazione delle strutture universitarie. Qui non importa tanto ricordare le radici storiche e le dinamiche dei movimenti studenteschi che, da

Berkeley a Parigi, contestano l'egemonia culturale borghese, denunciano — soprattutto in America — le complicità dell'accademia con l’industria e la ricerca militare, attaccano la natura di classe dell’istituzione universitaria.

Sarà sufficiente osservare che quest’ultima diviene in modo esplicito il luogo di un aspro scontro politico, e non può più fare appello alla pretesa indifferenza del mondo scientifico rispetto a quello economico-sociale. Proprio a partire dagli anni ‘60 entra in crisi profonda l’idea della neutralità della scienza e della cultura mentre, per quel che riguarda le discipline letterarie, “la critica viene messa sotto accusa sia perché rappresenta una forza attiva nel riprodurre i rapporti sociali dominanti, sia perché resta irrimediabilmente secondaria rispetto alla stessa formazione sociale che aiuta a sorreggere” .'3 Lo strutturalismo pare fornire a molti critici una via d’uscita in quanto offre un metodo analitico al riparo da accuse di soggettivismo e indifferente alle questioni di valore che può funzionare altrettanto bene sia col Decamerone o una poesia di Baudelaire,

13 Terky EacLeron, be Function of Criticism, London, Verso, 1984, p. 90.

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sia coi fumetti, la pubblicità, il cinema. Il metodo strutturalista sembra dunque immune alle accuse di elitismo, irrilevanza, parassitismo che piovono sulle scienze umanistiche, e al tempo stesso in grado di fornire una base davvero solida e scientifica per la rifondazione dello studio dei fenomeni letterari e culturali come realtà linguistiche. È noto che lo strutturalismo ha, nella sua prima fase di espansione, grande successo soprattutto in Francia e che, pur facendo sentire i suoi effetti in altri paesi — primo fra tutti l’Italia — è accolto assai tiepidamente, quando non apertamente osteggiato, negli Stati Uniti. Nel 1966 presso la Johns Hopkins University, si tiene un simposio cui partecipano — tra gli altri — Barthes, Lacan, Derrida, Todorov, Goldmann e, sempre nello stesso anno, la rivista Yale French Studies pubblica un numero speciale dedicato allo strutturalismo,!4 ma la ventata di cultura francese ha un effetto molto limitato sulla critica letteraria americana. Maria Ruegg sostiene che una critica tradizionalmente pragmatista come quella statunitense non mostra inizialmente grande interesse verso speculazioni troppo teoriche O sistematizzazioni e schemi grafici che, in un mondo accademico domi-

nato a lungo dal New Criticism, appaiono come caricature del “freddo” razionalismo scientifico in opposizione al quale, come s’è visto in precedenza, erano nati gli studi letterari in America. Inoltre, quella che gli strutturalisti considerano una garanzia del rigore della nuova metodologia, appare al tradizionale empirismo anglosassone come “un miscuglio dilettantesco di filosofia, antropologia, linguistica, psicoanalisi e poetica”.!5 Solo a partire dai primi anni ‘70, quando lo strutturalismo è già in-

14 Gli atti della conferenza della Johns Hopkins sono pubblicati in RicHarp Macxsey e Eucenio Donaro (a cura di), The Structuralist Controversy, Johns Hopkins University Press,

Baltimore e London, 1972. Il numero speciale di Yale French Studiesè stato ripubblicato sotto forma di libro col titolo Structuralism, a cura di J. Exrmann, New York, Doubleday, 1970. 5 Maria Ruecc, “The End(s) of French Style: Structuralism and Post-Structuralism in the American Context”, Criticism, 21 (1979), pp. 189-216, (194). Sul decostruzionismo in America la bibliografia 'è vastissima. Ci limitiamo a segnalare due volumi particolarmente utili: J. Arac, W. GopzicH, W. Marti (a cura di), The Yale Critics: Deconstruction in America, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1983 (con un’ottima sezione bibliografica); Vivcent B. LercHt, Deconstructive Criticism: An Advanced Introduction and Survey, New York,

Columbia University Press, 1982. Più in generale sulla filosofia del decostruzionismo si veda CrrisropHer Norris, Deconstruction:

Theory and Practice, London, Metheun, 1982. Tra i

contributi italiani si ricordano: Cristina Bacciineca, Narrativa post-moderna in America. Testi e contesti, Roma, La Goliardica, 1986; SteFANo Rosso, “Postmoderno e critica letteraria ne-

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calzato dal decostruzionismo derridiano e l’esigenza di andare al di là del metodo strutturalista si manifesta insistentemente anche nei lavori di Foucault e Barthes, gli Stati Uniti iniziano a mostrare un crescente interesse per quello che non è ormai più semplicemente strutturalismo, ma post-strutturalismo. Perchè, nello spazio di una decina d’anni, la nuova metodologia arrivi a conquistare una posizione di assoluto prestigio nelle maggiori università americane, mettendo definitivamente in crisi l'egemonia del New Criticism, non è del tutto facile da capire. Nonostante diverse spiegazioni siano state avanzate, uno studio esaustivo del fenomeno resta ancora da

compiere. Alcuni fattori che senza dubbio hanno contribuito in notevole misura alla fortuna incontrata dal decostruzionismo al di là dell'Atlantico possono comunque essere individuati. Se lo strutturalismo è un prodotto della prolungata crisi degli anni ‘60, il decostruzionismo è in un certo senso il figlio dello spirito ribelle e libertario che ha la sua apoteosi nel maggio francese. Come si è avuto modo di notare nel capitolo introduttivo, il decostruzionismo fa infatti saltare qualunque punto di osservazione privilegiato e riprende l’attacco nietzscheano al concetto di verità estendendolo a tutti i linguaggi, cioè a qualunque “testo” o sistema di pensiero, la cui logica strutturante viene prima isolata, e poi denunciata come totalizzante e tirannica. La retorica sovversiva che anima i testi di Derrida e dell’ultimo Barthes è spesso bene accetta in una tradizione letteraria come quella americana che, da Emerson a Stevens, mostra una radicale ostilità nei confronti di tutti i “sistemi” — siano essi sociali o intellettuali — e cerca costantemente di liberare il se/fda un mondo oppressivo che minaccia di sopprimerlo.!* In secondo luogo, ancor più dello strutturalismo,

gli Stati Uniti”, in G. Frana e V. Fortunami (a cura di), L’ansia dell’interpretazione, Modena, Mucchi, 1989.

16 Cfr. Ricrarn Ponier, “Writing Off the Self”, Raritan, 1 (Summer 1981), pp. 106-33. Si deve peraltro osservare che, in ambito statunitense, la retorica rivoluzionaria del decostru-

zionismo viene in genere svuotata di qualunque significato extraletterario. Per una critica politica del decostruzionismo si veda, tra gli altri, Barsara Forey, “The Politics of Deconstruction”, Genre, 17 (1984), pp. 113-34. Ma si veda anche un recente articolo di Gene H.

Beui-Vitapa che sottolinea assai opportunamente come il “relativismo culturale” (decostruzionista) contro il quale si scagliano di questi tempi i conservatori americani affondi le sue radici nell’individualismo della filosofia di Locke, e non sia dunque necessariamente il prodotto di un’indiscriminata accettazione del radicalismo e/o nichilismo europeo dell’ultim’ora (“Is the American Mind Getting Dumber ?”, Monthly Review, 43 [Maggio 1991], pp. 41-55).

ZU)

il decostruzionismo sembra fornire un’inattaccabile strategia per fronteggiare la crisi che travaglia le discipline umanistiche. Denunciando qualunque sistema conoscitivo come inevitabilmente parziale, e quindi in ultima analisi come “falso” e mistificante, il decostruzionismo consente alla critica letteraria di recuperare la sua autorevolezza proprio nel momento

in cui qualunque principio d’autorità viene liquidato. “Gli altri possono non sapere, ma sapere che nessuno sa è la forma di sapere più privilegiato che si possa immaginare”.!7 Poiché è nel discorso letterario che la messa a nudo dell’impulso logocentrico si compie costantemente, la letteratura torna a occupare una posizione chiave nel panorama delle scienze umane e “paradossalmente, diviene il centro dal quale denunciare qualunque accentramento, la verità grazie alla quale tutte le verità possono essere decostruite”.!8 Sotto diversi aspetti, dunque, il decostruzionismo americano — perlomeno nella versione offertane dalla cosiddetta “Yale school” (Geoffrey Hartman, Barbara Johnson, H. Hillis Miller, Paul de Man) — nonostante si presenti come nemico giurato del New Critici-

sm, rivela con quest’ultimo più di un’affinità. Sono in molti a pensare che, se il nuovo discorso critico ha finito col riscuotere ampi consensi nell’accademia americana è proprio perchè,

a dispetto della retorica radicale o apocalittica di cui ama vestirsi, si è rivelato adatto a soppiantare, nella continuità, il New Criticism. Trasformando l’intero universo e le sue singole componenti in altrettanti “testi”, i decostruzionisti finiscono col riguadagnare alla Letteratura uno spazio privilegiato come sfera dove l’indeterminatezza e l’incontenibilità del linguaggio si mostrano finalmente senza reticenze. Certamente, mentre i

New Critics si proponevano di “chiudere” il testo — che era sì ambiguo ma accomodava, fondendoli organicamente assieme, diversi significati — i decostruzionisti mantengono il testo “aperto”, sottolineando che è il carattere indeterminato del linguaggio stesso — nella sua rincorsa di un referente che non riesce mai a catturare una volta per tutte — a rendere l’atto interpretativo sempre instabile e mai definitivo. Tanto il New Criticism che il decostruzionismo, però, finiscono col concepire lo spazio letterario come assolutamente indipendente e indifferente al mondo extra-lettera-

17 The Function of Criticism, cit., p. 103. 18 7be Function of Criticism, cit., p.104.

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rio, e se il New Criticism in un certo senso ammetteva un legame indiretto tra testo e realtà, il decostruzionismo vede nel testo solo una continua

messa in scena dell’impossibilità del linguaggio di comunicare null’altro che i propri fallimenti. Infine, al di là dei suoi contenuti, è in ultima ana-

lisi dal punto di vista della funzione pratica che il decostruzionismo si rivela affine al New Criticism; nel credere, cioè, che “la funzione della critica sia, prima di tutto, di r0n scegliere, di non dare giudizi di valore, ma

piuttosto di provare a dare (per quanto essa possa fallire) un resoconto del testo disinteressato, comprensivo e scevro di valore “.19 La virulenza della polemica che ha opposto nell’ultimo decennio il campo decostruzionista a quello “tradizionalista” è tale da far pensare che a essere in gioco siano le sorti della cultura e della civiltà americana. I decostruzionisti, paladini dell’ “indecidibilità” del testo, sono presentati dai tradizionalisti come sovvertitori di ogni valore umanistico. Il privilegio accordato dai primi al linguaggio come realtà ultima che determina l’uomo è visto dai secondi come un tentativo di voltare le spalle a qualunque razionalità. Se dal campo opposto alcuni rispondono denunciando il totalitarismo dei campioni dell’oggettività dell’interpretazione, altri si affrettano a spiegare che il decostruzionismo non vuole distruggere la tradizione e la Letteratura ma, al contrario, far meglio risaltare certe qualità — e prima su tutte l’autoironia — che caratterizzano i testi letterari, costruzioni simboliche che, a differenza di altre realtà “testuali”, fanno virtù

del proprio status di “supreme fictions”. La querelle, che per intensità forse non conosce precedenti negli Stati Uniti, ha comunque certamente rivitalizzato gli studi letterari. In conclusione, dunque, il decostruzionismo,

lungi dal minacciare le istituzioni critico-letterarie del paese, sembra al contrario aver contribuito a un loro rinnovato prestigio. Recuperando a livello retorico la carica anti-istituzionale degli anni ‘60, il nuovo discorso critico contribuisce in modo decisivo a rilanciare l'istituzione. La normalizzazione viene condotta in nome della rivoluzione, e la critica può tornare tranquillamente a occuparsi di letteratura, al riparo da quei rivolgimenti sociali che, almeno per un breve periodo, sembravano aver disturbato i sereni rifugi del mondo accademico statunitense.

19 Rueco, cif., p. 215. Sulle affinità tra New Criticism e decostruzionismo si veda, oltre

al saggio della Ruegg, Literary Theory, cit., p. 146 e Paur Bovf, “Variations on Authority: $ome Deconstructive Variations of the New Criticism” in Ybe Yale Critics, cit., pp. 3-19.

(215)

3. “Sounds full of Leviathanism, signifying nothing”

Nonostante si presenti come un metodo indifferente alle questioni di valore, al pari di tutte le metodologie critiche, anche quella decostruzionista privilegia autori e testi che meglio si prestano a incarnare i suoi principi. Non sempre occorre proferire ad alta voce giudizi di valore: scrivere articoli e libri su determinati testi invece di altri, scoprendo in es-

si metafore di questa o quella visione del mondo, vuol dire ipso facto investirli di valore, dichiararli più degni di altri ad essere considerati come Letteratura. Quando si teorizza che la letteratura più meritevole di attenzione è quella cosciente della propria letterarietà — quella che non cerca di riflettere il reale, ma denuncia viceversa tale impresa come un miraggio — non sarà sorprendente scoprire che è il Melville “metafisico” (nel senso ottocentesco del termine) di Moby Dick, e soprattutto di Pierre e The Confidence-Man, ad attirare l’attenzione dei nuovi critici. In un’ottica decostruzionista 7ypee o Wbite-Jacket sono interessanti solo nella misura in cui anticipano le preoccupazioni che trovano spazio adeguato nel Melville dell’ultima fase: non

decostruendo,

ma

semplicemente

rove-

sciando il paradigma classico della critica melvilliana, i critici post-strutturalisti continuano a considerare Pierre un testo “cerebrale”, involuto,

allucinante — termini che tuttavia nel nuovo discorso critico assumono valenze positive. “It should be the object of fiction to delineate life and character either as it is around us or as it ought to be”: così il Southern Literary Messenger protestava nel 1852 per le “astrattezze” di Pierre, ripetendo un principio teorico che aveva orientato tutte le risposte della critica del tempo.?° Quasi centonciquant’anni più tardi Edgar Dryden inizia una sua rivisitazione decostruzionista di Pierre con le seguenti parole: “Pierre is a book about reading and writing, about the consumption and production of literary texts — a double problem that fascinates Melville from the beginning to the end of his literary career”.?! Basta evidentemente contrap-

20. La recensione del Southern Literary Messenger, da attribuire a Jorn R. THomeson, è ristampata in Warson G. Branca (a cura di), Melville. The Critical Heritage, London, Rou-

tledge e Kegan Paul, 1974, pp. 304-7. 21 Epgar Drvpen, “The Entangled Text: Melville’s Pierre and the Problem of Reading”,

220

porre queste due affermazioni per misurare la distanza tra la richiesta di realismo che condanna Melville nell'Ottocento, e quella di modernismo e

metaletterarietà che lo esalta nel tardo Novecento: per Dryden voltare le spalle alla realtà è un passo necessario in un libro che ambisce innanzitutto a interrogare se stesso. Chi si aspetti da Dryden un accenno alla dimensione sociale della “produzione” e del “consumo” di testi letterari resterà deluso in quanto il critico si impegna essenzialmente a riformulare la sua lettura del testo di dieci anni addietro in un linguaggio derridiano. Il sogno del giovane Pierre sarebbe, secondo Dryden, quello di liberarsi da tutti i legami sociali e familiari per rinascere “puro”: di gettare cioè alle ortiche “the genealogical imperative” e “inherited values and relations” per ritrovare la sua assoluta originalità. Ma per dimenticare il passato non basta distruggerne i segni — ad esempio bruciando uno dei ritratti del padre — giacché questi continuano a riprodursi inesorabilmente, proprio come il quadro di Glendinning padre che rivive nella misteriosa “Stranger's Head” scoperta per caso da Pierre in una galleria di quadri europei. I significati non sono dunque legati a questo o quel segno da un legame indissolubile ma, al contrario, sono sempre inafferrabili, fluttuanti al di là e

al di qua dei segni. Per questo l’immagine della piramide assume un ruolo fondamentale. “Inscribed within all constructs”, scrive Dryden, “and within langua-

ge itself is a radical absence suggesting an original loss [...] the pyramid marks the point beyond which it is impossible to go and [...] at the same time indicates that the moment of origin is not one of plenitude and presence but the sign of a loss” (162). Anche il tentativo di Pierre di divenire un autore “originale” va visto in questa prospettiva: nessuna parola e nessun segno positivo possono sottrarsi a una tirannica intertestualità e “any act of speaking and writing is bound to be a repetition, a displacement or a representation of a purely textual entity, and necessarily derived, secondary and inessential” (170). Lo stesso Melville, consapevole di

Boundary 2,7 (1980), p. 161. Alcune delle considerazioni che seguono su Dryden, come su altri critici decostruzionisti, sono in parte riprese dal mio articolo “Melville e la critica decostruzionista americana”, in Paoa Casisso (a cura di), Melvilliana, Roma, Bulzoni, 1983,

pp. 257-80, al quale si rimanda per un'analisi di alcune letture decostruzioniste non discusse in questa sede.

221

aver disseminato nel testo “inscriptions that seem at first presence but that actually condemn us to absence” (171), trarsi all’autocritica. Per Dryden la disillusione ontologica del linguaggio porta Melville a equiparare lo scrittore a una

to embody a non può sotnei confronti marionetta o,

peggio, a un cinico impostore. Nei fatti, com’è stato accuratamente dimostrato in vari studi, Melvil-

le aveva scoperto l’intertestualità sin dai tempi di 7ypee, e non c’è una sua opera maggiore che non ricicli materiali “rubati”. Cos'è che porti lo scrittore a cambiare atteggiamento verso una pratica sino ad allora seguita senza ansie particolari è domanda che Dryden non si pone, giacché per lui è importante leggere il testo come una sorta di favola allegorica sulle disavventure cui va incontro chi, come l’ingenuo Pierre, accetti una

visione logocentrica. L’interpretazione derridiana di Dryden non è dunque tanto una decostruzione di Pierre quanto piuttosto una sua riproduzione alla luce di un nuovo discorso critico. “The most immoral moral of the story, if it has any moral at all”, aveva protestato nel 1852 il Literary World, “seems to be the impracticability of virtue”.22 Dryden ricava dal testo una lezione altrettanto paradossale sull’assurdità dello scrivere: se da Pierre si può ricavare una morale questa ci dice che tutti i testi, compreso quello che abbiamo dinanzi agli occhi, sono inutili mascherate. Il decostruzionismo apocalittico di Dryden s’ispira soprattutto a Derrida; Régis Durand, americanista francese noto anche negli Stati Uni-

ti, si rivolge invece a un altro filone del pensiero post-strutturalista per articolare il suo discorso sul “Padre assente” dei testi melvilliani. Raymond Weaver aveva osservato nel ‘21 che Pierre “è un libro che manderebbe in sollucchero un freudiano”, ma Pierre si dimostra in grado di suscitare eguale entusiasmo tra i post-fruediani, e Durand vuole appunto leggere il problema dell’assenza del padre rifacendosi esplicitamente alle dottrine di Lacan. Secondo Lacan il soggetto accede alla sfera simbolica solo in virtù di una “metafora paterna” — il “nome del padre” — che viene così a sostituire la vecchia “repressione primaria” freudiana. Per Durand i testi melvilliani rappresentano un'ottima illustrazione di questo passaggio da una posizione in cui il soggetto si trova in una situazione di intollerabile

22 Si tratta, in tutta probabilità, di un commento di Evert o George Duyckink. La recensione è ristampata in BrancH, cit., pp. 300-2.

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conflitto con il padre, a una posizione di identificazione simbolica del soggetto col padre, la figura della legge. Questa transizione può compiersi con successo o meno e, nel caso di Melville, essa sfocia in due diversi tipi di narratività: una, lineare e non contraddittoria, dove la repres-

sione che permette di accedere all’identificazione simbolica col padre è completa; l’altra, discontinua e instabile, che è invece frutto di una repressione non riuscita.

Durand considera Redburn e Wbite-Jacket esempi del primo tipo di narratività, e Moby Dick e The Confidence Man espressioni del secondo. Non che nei primi romanzi ci si trovi di fronte a delle opere del tutto lineari. Come avviene con Ishmael, anche Redburn e White-Jacket intra-

prendono una quest priva d’un vero obiettivo: “what do they do on board, except wait for time to pass, for the voyage to be over? Is not theirs an aimless circuitous voyage on which they embarked out of pure resourcelessness or dereliction?”.23 Nel caso di questi due romanzi il discorso narrativo riesce in qualche modo ad avere ragione del non-simbolico lacaniano, che pure ritorna a tratti, come il padre morto di Red-

burn, sotto forma di allucinazione, o come involuzione del processo narrativo in Wbite-Jacket, tanto che, più che narrare degli eventi, il romanzo

si limita a descrivere dei luoghi e degli oggetti, trasformandosi in una “litany of objects, spaces and bodies”. Ma è in Moby Dick e The Confidence-Man che il problema del padre assente si manifesta pienamente, sfilacciando il testo in un’interminabile serie di creazioni e fratture. La questapproda così alle “nempen intricacies” e “horrible contortions” che avviluppano gli uomini come la fune dell’arpione nel capitolo LX di Moby Dick, e al continuo frammentarsi dell’identità individuale nella messa in

scena a bordo del Fidéle. In Pierre, infine, il problema del padre assente è affrontato nel modo più diretto: il libro è infatti “largely the story of [the] neurotic drive against the father and its inescapable consequences” (64). Una volta che Isabel — “the agent of the return of the repressed” — ha infranto “the Oe-

23 Regis Duranp, “ ‘The Captive King’: The Absent Father in Melville’s Text”, in RoBeRT Con Davis (a cura di), The Fictional Father, Amherst, University of Massachusetts Press,

1981, pp. 48-72. Sempre di Duranp, si deve ricordare Melville: signes et metaphores, suivi de

Jobn Marr, Lausanne, L’Age d’Homme, 1980.

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dipal bliss” di Saddle Meadows, la libidine di Pierre si scatena generando in lui quel “desperate drive to go back to the beginning and become reborn, with a new self’ (64). Si tratta naturalmente di un desiderio impossibile da soddisfare, e qualsivoglia ricerca di un’Origine non può che approdare “only to empty places, other copies” fino al punto in cui “the notion of the father is caught itself in the process of reduplication”. Il testo è perciò una lunga meditazione “on the impossibility of a return to an origin and a legitimacy [...]. There is no truth or fundament to return to” (70). Come dimostrato dal celebre brano sull’esplorazione della piramide, “for a long time, we believe the secret lies in the tomb, but the tomb

turns out to be empty”. Il segreto che si cela dietro il padre assente è “that he too is a lost son”. Il tema del conflitto tra il desiderio di celebrare l’autorità paterna e quello di sovvertirla assurge nelle mani di Eric Sundquist — senz’altro uno dei più prolifici e brillanti americanisti della nuova generazione — al rango di vera e propria teoria della letteratura americana.?* Per Sundquist c’è qualcosa di caratteristicamente americano in questa situazione paradossale che porta da un lato al rifiuto del passato, e dall’altro alla sua celebrazione: proprio come nel modello offerto da Freud per spiegare la contraddittorietà del rituale del pasto totemico — durante il quale si celebra l’autorità del padre defenestrato cibandosi del suo corpo — nella prima metà dell'Ottocento americano la nuova nazione alimenta un individualismo democratico che non può fare a meno di trasformarsi a sua volta in una nuova tradizione repressiva. Anche il figlio, una volta sovvertita l'autorità paterna, si troverà poi a esercitarla, da padre, nei confronti dei futuri figli. Questa dinamica ironica trova una sua corrispondenza nell’anelito tipicamente americano a riscoprire nella natura vergine una “casa” materna proprio nel momento stesso in cui si penetra, e quindi si distrugge, questo nuovo Eden. Lo scrittore americano si confronta con tale

impasse in modo particolarmente intenso ed esemplare: lasciando il proprio segno sulla pagina bianca di una natura incontaminata egli “was in jeopardy of the same irony as the pioneer or statesman: the dissolution of the Edenic was as much bound up with his craft as the proclamation of

24 Eric J. Sunpquist, Home as Found: Authority and Genealogy in Nineteenth-Century American Literature, Baltimore e London, Johns Hopkins University Press, 1980.

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the Edenic has been” (xv). Per Sundquist “the complicated relationship [..] between the challenge and commemoration of authority — or between ‘experiment’ and ‘sacrament’, as Emerson has it — helps define the scenes of crisis that compel some of the best American literature of the 19th-century” (xvii). I quattro scrittori trattati da Sundquist nel suo libro sono Cooper,. Thoreau, Hawthorne e Melville, e della loro produzione vengono privilegiati testi che forse a molti sarà difficile accettare come “migliori” esempi della tradizione americana. È però soprattutto affrontando un testo come Pierre che Sundquist porta molta acqua al mulino della propria tesi. Cos'è difatti Pierre se non la storia di un giovane idealista preso in trappola tra la devozione e la ribellione con le quali si pone di fronte alla figura paterna? Se Cooper, Thoreau e Hawthorne “were all torn between the desire to repudiate the paternal authority of the past and the need to act on behalf and in the stead of that authority [...ilt remained for Melville and Pierre to embody and articulate a true American Hamletism, a point of crisis figuring authority at an impotent crossroads where the struggle is so internalized that it can generate only a wild, self-reflexive parody” (146). Pierre può dunque forse considerarsi addirittura “a more American book than Moby-Dick°: mentre in quest’ultimo testo “the phallus of authority” è presente in una Balena Bianca che è al tempo stesso materna e paterna, nel primo il padre è morto e il sogno americano di sfuggire all’autorità si realizza “in all its horrible splendor” (156). Il sogno, una volta divenuto realtà, si rivela infatti essere un incubo: Pierre, nell’usur-

pare la figura paterna, la celebra, e viceversa. Il suo tentativo di rifiutare l'imperativo genealogico va di pari passo col desiderio di trasformarsi in padre di se stesso (Sundquist insiste naturalmente sul motivo dell’incesto), ma una volta occupata la posizione del padre l’unico parricidio possibile per Pierre sarà il suicidio. L’ironia tragica che caratterizza l'impresa di Pierre è all’opera anche nel testo in quanto tale. L’incestuoso desiderio del protagonista è duplicato, secondo Sundquist, “in the novel’s narrative strategy, which ultimately forces the character under scrutiny to usurp the place of the author

25 Un commento negativo in tal senso viene dalla recensione di Kerra Carasie sulla

Modern Language Review, 79 (1983), pp. 889-892.

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and father his own fictional self. Parody is a form of parricide to the extent that it places the son beside, and even allows him to displace, the father; but when parody turns back upon itself, mixing father and son, author and character, in hallucinatory reflection, murder cannot be told from suicide: tautology is complete and the text has taken its own life” (182). Se questa argomentazione può apparire un po’ troppo ingegnosa e costruita con un certo gusto per le simmetrie, essa è poca cosa di fronte al modo in cui Sundquist riassume la sua interpretazione: As a “pierrody” and “pierricide” of itself, Pierre tells us how to read it — as the body of the Mother; as a membrane, but nothing else; as a tissue, revealing for the reader as for Pierre only a “black, bottomless

gulf of guilt, upon whose verge he imminently teeter[s] every hour”. The book doubles Pierre’s own lesson, opening a Descartian vortex of reading where the body has been removed from the sarcophagus of the text; or rather, where the text is the sarcophagus of the body, an opening into which the reader, if he be an “admiring reader” of Pierre, will enter at the risk of its own ironic disfiguration.(184)

Ma al di là delle perplessità che un tale stile e una tale argomentazione — comunque in linea con una filosofia che concepisce il discorso critico come una forma di letteratura, un’attività “creativa” — possono suscitare, resta da decidere se Sundquist non proponga altro che un riciclaggio lacaniano di temi già presenti negli studi degli anni ‘50 di R.W.B. Lewis o Harry Levin, o se avanzi piuttosto una nuova ipotesi che aiuti a

comprendere l’ambiguo legame che unisce autorità e ribellione nell’Ottocento americano.? Prima di abbozzare una risposta a tale interrogativo, converrà illustrare il lavoro svolto su Melville da un altro critico che dimostra notevoli affinità con Sundquist. Anche John Irwin, in American Hyeroglyphics, elabora una tesi di ampio respiro che investe i protagonisti principali della “American Renaissance”. Il filo comune che lega Melville a Hawthorne, Whitman, ecc.

26 Della prima opinione si dichiara la recensione di Carabine, ma un altro attacco al libro viene da Jay Martin su American Literature, 52 (1981), pp. 94-95. Del secondo avviso

è viceversa Carson Davy (Modern Language Notes, 95 [1980] ,pp. 1445-9), ma anche altre due recensioni (quella di Jorn P. Mc Wiuaws, Jr. sul New England Quarterly, 54 [1981], pp.146-8 e quella di Davin Minter su Nineteenth- Century Fiction, 35 [1980], pp.85-8) sono sostanzialmente positive.

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non sarebbe né la fede democratica, come voleva Matthiessen, né la tecnica simbolista, come voleva invece Feidelson, ma, secondo Irwin, lo

straordinario interesse per i geroglifici egiziani.?” Questo interesse, che Irwin documenta con grande perizia, non deve sorprendere: il fascino dell’egittologia fu un fenomeno culturale di grande portata durante la prima metà dell’Ottocento. Jean-Frangois Champollion riuscì infatti, a partire dal secondo decennio del secolo, a tradurre con successo alcuni geroglifici utilizzando il testo trilingue (greco, demotico ed egizio) della stele di Rosetta. Irwin non si limita però ad analizzare la presenza dell’immagine del geroglifico nella letteratura del periodo, e individua nel suo continuo ricorrere un fenomeno cui dà il nome di “hieroglyphic doubling”. Fu proprio Champollion il primo a rendersi conto che qualunque traduzione era frutto di un’interpretazione personale. In ogni traduzione si rifletteva inevitabilmente una parte dell’io del traduttore: ogni traduzione/interpretazione era segnata da un margine di indeterminatezza. Irwin vede riflesse nei geroglifici americani le opposizioni tra scrittura e lettura, tra “dentro” e “fuori”, tra l’io e il mondo, e fa ricorso, nelle sue interpretazioni, soprattutto a Lacan. Come spiega quest'ultimo, l’io può articolarsi soltanto dividendosi, proiettandosi continuamente verso l’altro da sé — un processo molto simile, dunque, a quello dello “hieroglyphic doubling”. Una consapevolezza, così acuta da divenire ossessione, della natu-

ra divisa e doppia della coscienza è proprio ciò che porta Melville, secondo Irwin, a sporgersi di continuo sull’orlo dell’abisso, a credere che l’io, non potendo che essere scisso, è in effetti un nulla. Come Sundquist e Durand, anche Irwin vede in Pierre un momento particolarmente significativo di questa decostruzione dell’io, pur sottolineando che già in Mardi si manifesta “this sense of the selfs inherent instability, of its ability to adopt any role or mask, to become anything, precisely because in itself is nothing”.28 Il testo dove questa intuizione è portata alle ultime conseguenze è però The Confidence-Man, cui Irwin dedica un’analisi as-

27 Va segnalato che Irwin dedica quasi duecento delle 371 pagine del suo studio a Poe, autore la cui importanza nel canone americano è sempre stata oggetto di controversie e che non occupa, a eccezione del libro di Irwin, un posto rilevante nelle diverse teorie della letteratura americana. 28 Jonn Irwin, American Hieroglyphics, New Haven e London, Yale University Press,

1981, pp. 285-349.

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sai dettagliata. Piuttosto che porsi tradizionali domande sull'identità dell’uomo di fiducia (essere angelico o diabolico?), Irwin individua nel meccanismo dello “hieroglyphic doubling” — e quindi della “doubleness” dell'essere umano — il tema centrale dell’opera. L’analisi è complessa, come del resto tutt'altro che semplice è la struttura dello stesso testo melvilliano, ma qui basterà ricordarne il punto d’approdo. Per Irwin 7be Confidence-Man è una vera e propria messa a nudo del logocentrismo, anche se tale termine non viene menzionato esplicitamente. Nel suo ultimo romanzo Melville chiarisce che “because there is no self-authenticating sign, an unequivocal, wholly transparent sign, nothing linguistic can serve as a standard of certainty” (346). Tutto ciò ha una sua dimensione eversiva visto che, nelle ultime pagine dell’opera, la denuncia dell’indeterminatezza e dell’ “eccesso” di significato di qualunque segno non si arresta neppure dinanzi alla Bibbia, anch'essa caratterizzata come geroglifico privo di una sua verità assoluta. Rispetto alle letture decostruttive di Sundquist, Durand e Dryden, quelle proposte da Irwin sono sorrette da una mole davvero notevole di ricerca sull'impatto dell’egittologia in America nel primo Ottocento. Irwin condivide però con gli altri decostruzionisti la certezza che in opere “moderne” come Pierre, The Confidence-Man, o lo stesso Moby Dick, Mel-

ville sia preoccupato più che da questioni etiche o morali, da problemi linguistici ed epistemologici. Non solo: Melville arriverebbe in pratica a intuire la natura precaria e arbitraria di ogni segno linguistico e a muovere un attacco all’integrità dell’io che lo rende degno di stare a fianco di distruttori e decostruttori dell’epistemologia classica quali Nietzsche, Heidegger e Derrida. Che si accetti o meno questa posizione, è certo che, almeno sino a questo punto, solo un discorso di taglio post-strutturalista è riuscito a rendere davvero “letterari” testi come Pierreo The ConfidenceMan, com'è inconfutabile che la ricerca della verità, la tragedia del nichilismo o l'ambiguità dell'essere — temi che molti hanno scorto in questi testi — ben si prestino a essere elaborati in modo interessante attraverso il filtro del pensiero di Lacan o Derrida. Il problema è se, e in che modo, queste elaborazioni possano contribuire a illuminare i testi discussi. Se è fuor di dubbio che il testo non ha una dimensione puramente oggettiva al di là dei discorsi critici che lo esplicitano, è anche vero che il discorso critico può venire parzialmente modificato, o magari problematizzato, dall'incontro col testo. Questo accade di rado nella critica decostruzioni228

sta melvilliana. Il pensiero di de Man, Lacan o Derrida viene assunto come Vangelo, e i testi vengono trasformati in occasioni per dimostrare la

verità della dottrina. Ogni epoca reinterpreta e riscrive i testi tramandati dalla tradizione, e tale operazione è non solo legittima, ma necessaria.?° Si può evidentemente rendere Melville nostro contemporaneo anche grazie a Derrida e de Man, riconoscendo nel suo incessante scrutinio del linguaggio e nelle sue perplessità di fronte alle opposizioni manichee, un’affinità col pensiero della modernità e della post-modernità.3° Resta il fatto che, come ha insistito Sacvan Bercovitch, si dovrebbe considerare Melville, più che un

moderno o un post-moderno, “la mente più critica tra i romantici americani”.3! Si tratta, una volta accertata la tendenza melvilliana a decostruire

i valori e le convinzioni su cui si fonda l’epistemologia classica, di comprenderne il significato all’interno del quadro culturale originario, e vedere poi in quale misura tale tendenza si riveli importante nel nostro quadro culturale. Con l’eccezione di Irwin, non si può dire che i critici decostruzionisti al cui lavoro si è qui accennato cerchino di combinare i loro brillanti reading skills con ricerche storico-culturali. Anzi, a volte essi dimostrano un’allarmante mancanza di professionalità, Sùndquist, ad esempio, impegnato a dimostrare che Pierre è una versione americana

elle tragedie di Amleto e Edipo Re, fa riferimento al certificato di nascita del secondo figlio di Melville, dove al posto del nome della moglie figura quello della madre, e attribuisce la svista allo scrittore. È stato però di-

29 A questo proposito, le osservazioni contenute nella prefazione di Mario Praz a Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano, Feltrinelli, 1964, rimangono interessanti e attuali. 30. Haroip Beaver, pur ritenendo che Melville “non può essere classificato esattamente né come un moderno, né come un post-moderno, né come un post-strutturalista”, sostiene che sotto un certo profilo “Melville già suona sospettosamente come Nietzsche” e “si caratterizza più come un post-strutturalista che una figura meramente moderna”. (“Melville and Modernism”, Dutch Quarterly Review of Anglo-American Letters, 13 (1983), pp.1-15). Una puntuale analisi di come Melville “disattivi” le opposizioni binarie di quel pensiero che Derrida definisce “metafisico”, si può trovare in Paora CaBiBBo, “The Piazza’: la parola per

non dire”, Melvilliana, pp.133-62. 31 Cito dal testo di una conferenza su Pierre tenuta a Roma il 3 giugno 1986 presso il Dipartimento di Letteratura Inglese ed Americana dell’Università “La Sapienza” di Roma. Tale testo fa parte di un più ampio studio di Melville cui Bercovitch ha lavorato in questi ultimi anni, ma che non è ancora stato publicato.

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mostrato (da Hershel Parker) che l’errore non fu commesso da Melville,

bensì da un impiegato comunale ben tre mesi dopo la nascita di Stanwix.32 Se Sundquist si fosse preoccupato anche di alcune realtà empiriche (termine che sembra davvero tabù per i decostruzionisti) con lo stesso zelo riservato per le teorie di de Man e Lacan, le sue interpretazioni — indubbiamente interessanti — sarebbero assai più attendibili. Anche se probabilmente non è esatto definirla una lettura decostruzionista, molto più equilibrato e attendibile è lo studio di Pierre alla luce del “pensiero della crisi” — e si tratta in assoluto del primo libro interamente dedicato a Pierre — ad opera di Giuseppe Nori, dal titolo La scrittura sconfitta.33 Partendo dall’idea che “la ricerca della verità è ricerca dell’essere, e l'avventura estetica è avventura metafisica”, Nori spiega

che “sulla scia di Nietzsche e Heidegger [...] il romanzo di Melville si proietta all’interno di un pensiero nichilista e ultrametafisico che inevitabilmente partecipa della tradizione metafisica ma che allo stesso tempo ne individua i punti di crisi, li vive, e ne proietta il superamento”. Una delle maggiori virtù del libro di Nori sta proprio nel resistere alla tentazione — nella quale cadono sovente i decostruzionisti — di “riscrivere” Pierre in un codice precostituito, cercando viceversa d’illustrare dove Melville si avvicini a, e dove si distacchi da, una critica nietzscheana-hei-

deggeriana della metafisica. Su un altro piano, però, se, come propone Nori, l'attacco melvilliano “è [...] leggibile come attacco ideologico e amorale alla tradizione occidentale e alla sua società”, mi sembra che il si-

gnificato politico di tale attacco sia tutto da chiarire. A tale chiarimento hanno scarsamente contributo la maggioranza dei decostruzionisti americani. Se si accetta il presupposto caro alla scuola di Yale, e in particolare a Paul de Man, secondo il quale la metaforicità di qualunque linguaggio sbarra il passo a qualsivoglia conoscenza “forte”, tutto — filosofia, storia, scienza — diviene fiction: un eterno, inarresta-

bile fluire di significanti senza alcuna base reale. Paradossalmente questa posizione si traduce non in un drastico ridimensionamento della lettera-

366-68.

92 Cfr. HersHri Parker, “Melville’s Freudian Slip”, American Literature, 30 (1958), pp.

Ù 3 Giuserre Nori, La scrittura sconfitta. Saggio sul “Pierre” di Melville, Roma, Bulzoni,

1986.

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tura, ma in una sua elevazione a grimaldello universale per far saltare il logocentrismo di ogni linguaggio: “la letteratura diviene la verità, essenza o autocoscienza di tutti gli altri discorsi precisamente perché, a differenza di questi, sa di non sapere di cosa parla”.3' Accade così che il Melville dei decostruzionisti, proprio come era accaduto con quello del “revival”, venga utilizzato per scopi apparentemente sovversivi, e lodato come ri-

belle. Un tempo nemico giurato del perbenismo “puritano”, l'ex Titano Melville è oggi riproposto come sovvertitore della metafisica e dell’epistemologia classica. Ciò che resta comune alle due generazioni di critici è in primo luogo l’idea che la Letteratura sia sempre e comunque rivoluzionaria e nemica del conformismo. Che la letteratura e i suoi critici possano anche, in certe condizioni, contribuire

a mantenere più o meno vo-

lontariamente un certo ordine sociale e politico, è una possibilità che non sembra mai affiorare nella mente della maggioranza dei decostruzionisti, ed essi non vedono nulla di ironico nel fatto che l’oggetto artistico venga trasformato nell’ultimo baluardo dell’insubordinazione proprio quando esso si fa oggetto di un culto sempre più esclusivo e oscuro. Melville diviene il decostruttore della centralità del soggetto, ma non ci viene detto quale sia lo spessore socio-culturale di questa decostruzione: quale soggetto viene smontato in Pierre e poi mandato in frantumi in The Confidence-Man?* L'assenza negli studi dei decostruzionisti di serie indagini su come la critica di Melville si rapporti alle ideologie della sua epoca, o anche a quelle contemporanee, ne limita fortemente la portata innovativa; se Lacan e Derrida venissero impiegati per scoprire nuove dimensioni nei legami che uniscono e dividono Melville con e da Emerson, il gruppo della Young America o le tradizioni letterarie dell’epoca, i ri-

34 The Function of Criticism, cit., p. 104.

35 È giustissimo a tale riguardo quanto osserva Eacieron sugli attacchi rivolti dai decostruzionisti al “soggetto unitario”: “come dimostrato dalla cultura post-moderna, il soggetto contemporaneo potrebbe essere non tanto lo strenuo agente monadico di una precedente fase dell'ideologia capitalista ma invece una rete dispersa e decentrata di investimenti libidinali, svuotati di sostanza etica e interiorità psichica [...]. Il ‘soggetto unitario’ si caratterizza in questa luce sempre più come una consumata parola d’ordine o falso bersaglio, come un residuo dell’epoca del capitalismo liberale, prima che la tecnologia ed il consumismo disperdessero i nostri corpi al vento come tanti pezzetti di tecniche reificate e ap-

petiti, funzioni meccaniche o riflessi del desiderio”. (“Capitalism, Modernism and Post- Modernism”, Against the Grain, London, Verso, 1986, p. 145).

231

sultati potrebbero essere probabilmente assai interessanti.5° Infine, anche il Melville decostruito, 0, com'è più giusto definirlo, decostruzionista, de-

gli Irwin e dei Sundquist è un Melville parziale: l’autore sì di Moby Dick, ma soprattutto di Pierre e The Confidence-Man. Di testi realistici come Typee e White-Jacket idecostruzionisti non sanno bene cosa fare se non usarli — rovesciando l’impostazione dei reviewers ottocenteschi — come opere dove a tratti già affiora l'ironia anti-metafisica che trionferà qualche anno più tardi. Se un tempo erano Pierre e The Confidence-Man i testi che solo i melvilliani di professione leggevano, tale sorte pare ora sempre più riservata ai lavori che precedono Moby Dick. Proprio sulla base di quanto si è detto sinora va lodato uno splendido saggio di Henry Sussman su 7be Confidence-Man, dove il metodo decostruzionista si combina con l’analisi storico-politica, anche a costo di criticare se stesso.37 Sussman inizia in perfetto stile post-strutturalista, suggerendo che compito del critico è dimostrare come il testo si autodecostruisce. Sussman accetta la tradizionale divisione del romanzo in due parti: la prima, centrata attorno alla “mascherata” dell’uomo di fiducia; la

seconda, caratterizzata dalla comparsa della figura del “cosmopolitan”. Tutti i diversi “operators” della prima parte vengono descritti da Sussman come “interreferential” poiché ogni volta che questi suscitano dei sospetti nelle persone cui si rivolgono, essi fanno riferimento a un nuovo personaggio — un nuovo uomo di fiducia — che può garantire sull’onestà dei loro propositi. Così, “in their interreferentiality the confidence-men cooperatively fabricate a self-enclosed fictive domain, a utopian world apart oriented to the meta-ideal of confidence” (37). Il proposito del romanzo è duplice: da un lato esso vuole smascherare come i diversi uomini di fiducia violino i loro ideali; dall’altro mettere a nudo gli ideali stessi. Es-

36 Una lettura di Pierre alternativa a quella dei decostruzionisti, e che pure si serve di alcune loro intuizioni, è offerta da Sacvan Bercovrtc® (vedi nota 26). Particolarmente suggestiva mi pare la sua interpretazione di Pierre come reductio ad absurdum della fede emersoniana nella “self-reliance”, che lo porta a rileggere il celebre brano sulla discesa all’interno della piramide non come esempio di “philosophic nihilism” perché “la discesa nella piramide è una metafora non di una futilità assoluta, ma della futilità di un’indipendenza assoluta, dell'’ampia e vuota promessa del Dio interiore”.

37 Henry Sussman, “The Deconstructor as Politician: Melville’s 7be Confidence-Man”, Glyph, 4 (1978), pp. 32-56.

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sendo però ogni “operator” collegato ad una specifica istituzione sociale, “the Nietzschean emptying of the ideal is thus coupled to a concrete so-

cial satire or criticism” (42). L'attacco contro la metafisica della fiducia corre parallelo a quello scagliato dal narratore contro la letteratura “realistica”. Troppo spesso quest’ultima tradisce la verità dei fatti in obbedienza alla coerenza formale; poiché il narratore si propone di essere fedele alla verità egli decide di essere “incoerente”. Eppure, nel sostenere che la finzione letteraria possa essere posta al servizio della realtà, il narratore stesso si fa promotore dell’ideologia della fiducia, divenendo così partecipe della mascherata che il testo descrive. Però, insiste Sussman, Melville lega la critica

dell’ideale a quella del sociale: “the puncturing of the ideal and the social critique are simultaneous. Melville thus provides us with a compelling variation on a critical program edging closer to established authority”: quello, cioè, del decostruzionismo istituzionale. “The Nietzschean-Hei-

deggerian-Derridian isolation and triggering of violence pent up within master texts or attitudes that were, by implication, too obtuse, inflexible,

or blind to account for it — this dis-closure of the duplicity of language moves, in Melville’s version, from the morally superior position of the pale or margin to the center of collusion, the seat of power. In Melville’s model, the critics are the politicians. The wielding of power is inseparable from the critical awareness of the duplicity of language” (50). Per Sussman, come per il Melville che egli vede all’opera in 7be ConfidenceMan, il valore della critica decostruzionista va misurato in relazione al

contesto socio-politico nel quale essa si sviluppa. L'attacco che Melville muove ai diversi ideali e alle istituzioni che li sostengono, e alle regole stesse della fiction, non deve essere visto come nichilista o puramente autoironico giacché il testo fa chiaramente della questione del linguaggio una questione di potere. Un conto è, secondo Sussman, dilettarsi a sovvertire il logocentrismo nascosto in Paradise Lost o nei romanzi di George Eliot, un altro decostruire l’uso che di testi, linguaggi ed ideali viene fatto per mantenere l’ordine stabilito. Attualizzando il messaggio del testo, Sussman nota che “television is the best example of a mass medium assuming the characteristic pose of the confidence-men” (53). Come questi ultimi, difatti, il mezzo televi-

sivo tenta di risolvere fittiziamente conflitti politici, sociali e culturali che dividono il pubblico: le sue immagini illusorie e fluttuanti richiamano al-

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la mente il continuo gioco degli specchi messo in atto dai diversi uomini di fiducia. “A challenge to the ideology of television”, spiega Sussman, “is a blow to the metaphysics orienting a culture of now-global proportions. But the deconstructive awareness facilitating such an attack has seldom wandered out there” (153). Se i critici decostruzionisti abbandonassero il terreno troppo comodo dell’accademia, dove essi non sono comunque sovversivi, ma l’ordine costituito — “the final authorities on language and reading” — per avventurarsi in un mondo dove il linguaggio serve più concreti ed immediati interessi, la loro impazienza anti-metafisica avrebbe degni avversari con cui misurarsi. Per Sussman la lezione dell'ultimo romanzo di Melville sta dunque nel ricordarci che l’attività del critico decostruzionista può recuperare una funzione sociale solo andando al di là di una glorificazione della letterarietà che è tutto fuorché eversiva. “7be Confidence-Man has proven prophetic. A product of the age of mechanical reproduction, it harbors the seeds of the manner in which communications and mass-language will function long beyond its time. [...] Not only does it provide a highly sophisticated and comprehensive mechanism for the deconstruction of the ideal, but it places the critical skills made accessible by deconstruction in the widest social context” (54).

4. Melville politico Che Sussman sviluppi la sua interpretazione in termini esplicitamente politici non deve stupirci: accanto al Melville filosofo e decostruzionista post-Moby Dick, l’altro nuovo Melville che si affaccia sulla scena critica dell'ultimo trentennio è senza dubbio un Melville politico — il prodotto quasi inevitabile della ventata di radicalismo che percorre la società americana a partire dagli anni ‘60, e che dà corpo al movimento per i diritti civili, alle manifestazioni contro la guerra del Vietnam, alla cosiddetta con-

testazione giovanile. Alla luce del nuovo quadro sociale Melville viene descritto da alcuni critici non più come un generico “ribelle”, ma come uno scrittore alle prese con i problemi sociali e politici più scottanti della sua epoca; come uno scrittore la cui attualità sta anche, e forse soprattutto,

nella denuncia appassionata cui sottoporrebbe tutto ciò che rappresenta un tradimento dei valori di democrazia e libertà sui quali dichiara di fondarsi la società americana. Se per i decostruzionisti il problema più urgen234

te in Melville sarebbe quello del linguaggio, così che egli anticiperebbe quell’ossessivo interrogarsi sulla propria pratica artistica cui si dedicheranno i grandi scrittori moderni, quei critici - con una formula generica li definiremo di sinistra — che vedono in Melville uno scrittore esplicitamente politico mettono al contrario in risalto la dimensione realista dei suoi testi. Non che fossero mancati in passato, in particolare nell'opera di Matthiessen, accenni tanto alla radicalità politica di certi atteggiamenti melvilliani quanto all’attenzione dedicata dallo scrittore agli oppressi, ma solo nel 1953, e non a caso ad opera non di un critico letterario di pro-

fessione bensì di un militante politico, era apparso un testo che inaugurava una lettura di Melville in chiave storico-sociale destinata a essere poi ripresa nei decenni successivi. Il testo in questione era Mariners, Renegades and Castaways, e l’autore C.L.R. James, un intellettuale nero di Tri-

nidad trapiantato prima in Inghilterra, dove aveva lavorato come giornalista e saggista, e trasferitosi successivamente negli Stati Uniti dove, oltre a continuare a scrivere di storia, cultura e letteratura, era divenuto un’importante figura della sinistra americana. L'interesse di James per Melville nasceva dalla sua convinzione che solo l’autore di Moby Dick avesse visto con chiarezza il pauroso stato di disgregazione del mondo contemporaneo, prevedendo altresì l’inevitabile catastrofe politica cui quest’ultimo era condannato. Come scrive lapidariamente James, “the miracle of Herman Melville is this: that a hundred years ago in two novels, Moby Dick and Pierre, and two or three stories, he painted a picture of the world in which we live, which is to this day unsurpassed” .88 James d’altra parte non fa mistero di quanto il suo approccio risenta delle particolari vicissitudini in cui egli si trova coinvolto. “A great part of this book was written on Ellis Island while I was being detained by the Department of Immigration” (7), annota nella prefazione, e poco dopo la pubblicazione del suo libro su Melville James veniva difatti espulso dal paese, una delle tante vittime dell’isterismo maccartista. L’originalità del libro di James non sta tanto nei giudizi che esso formula sui singoli testi affrontati — con la possibile eccezione delle lodi nei

38 C.L.R. James, Mariners, Renegades and Castaways. The Story of Herman Melville and the World We Live In, London, Allison & Busby, 1985 (1953), p. 7. Su James si veda il bel libro di Pau Bunte, C.L.R. James: the Artist as Revolutionary, New York, Verso, 1989.

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confronti di Pierre —quanto nei valori che li determinano e che guidano le sue interpretazioni, in particolare quella di Moby Dick, cui dedica gran parte del libro. Rifuggendo da schematismi sul rapporto società-letteratura, James crede che Melville sia il solo grande scrittore della civiltà industriale non meramente in virtù del suo realismo narrativo, ma soprattutto per aver afferrato la particolare dinamica dei nuovi rapporti sociali della sua epoca e, cosa ancor più importante, per aver colto, col personaggio di Ahab, la figura emergente del periodo: l’eroe totalitario, “the totalitarian type”. La follia che animerà il nazismo e lo stalinismo è per James la stessa di Ahab; l’uso perverso della tecnologia, la brutale reifica-

zione degli esseri umani, l’ossessivo desiderio di legare in un astratto e tirannico “bene comune?” tutti i destini umani sono degenerazioni già visibili a bordo del Pequod. L’unica alternativa all’allucinante mondo ahabiano ci viene offerta dai membri della ciurma — i meschini “mariners, re-

negades and castaways” che danno il titolo al libro di James — i quali, pur soggetti allo strapotere del capitano, non perdono la “comradeship and the unity, the simplicity, and the naturalness” (35) che sono proprie di chi ha a che fare quotidianamente con le cose pratiche e basilari della vita. Tra questo mondo e quello di Ahab oscilla Ishmael, “a completely modern intellectual who has broken with society and wavers constantly between totalitarianism and the crew” (46). Ishmael, pur essendo spesso il portavoce di Melville, è una figura autonoma con tutti i vizi e le virtù dell’intellettuale nevrotico che, portati alle ultime conseguenze, saranno ereditati da Pierre. Melville, sembra dire James, non si identifica direttamente con nessun personaggio e, per quanto le sue simpatie possano essere dalla parte degli oppressi, la sua genialità sta nel comprendere come il totalitarismo sia in grado di manipolare l’ansia di riscatto dei deboli e nutrirsene per i suoi scopi, proprio come fa Ahab con la ciurma. Rispetto alla spesso assai rozza critica di sinistra del tempo, il libro di James, pur con le sue forzature, non valuta il testo letterario o il suo autore in base a categorie politico-moralistiche. Melville è per James un grandissimo artista perché, al pari di Eschilo o Shakespeare, non fa propaganda ma cattura, con una sinteticità e lucidità che pochissimi altri scrittori hanno posseduto in pari misura, la realtà in divenire di un’intera fase storica. Melville sarebbe il solo a intuire la complessa natura del totalitarismo incombente facendo di Ahab un ribelle e, al tempo stesso, un tiranno — uno che non si cura degli scopi commerciali del viaggio, ma

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che esige dai suoi subalterni un’obbedienza cieca. Ahab sarebbe dunque una sorta di archetipo del fanatismo totalitarista sovietico e nazista dietro il cui manto “rivoluzionario” si nasconde la repressione più brutale. Ci sono varie cose che non quadrano nell’interpretazione di James, e le semplificazioni sia sul terreno storico che su quello testuale sono piuttosto evidenti. Se si tiene però a mente che il suo intento principale è di spiegare il presente attraverso il passato, di leggere “the world we live in” attraverso Melville, si dovrà riconoscere che James mette in luce un aspetto interessante di Moby Dick perché è senz’altro vero che Ahab sa usare il pugno di ferro, ma, soprattutto, per dirla in termini gramsciani, sa crearsi un’egemonia. Melville pare rendersi conto che l'ideologia non è solo falsa coscienza, ma un codice contraddittorio che dà voce a bisogni

reali per articolarli secondo gli interessi del potere. Le squillanti ideologie che James ha ben impresse in mente mentre scrive il suo libro tra i “castaways” di Ellis Isand, gli appaiono animate da una retorica non dissimile da quella cui fa ripetutamente ricorso Ahab sulla tolda del Pequod. La convinzione che l'immaginario melvilliano acquisti la sua dimensione più autentica se rapportato al quadro storico-sociale nel quale lo scrittore operò, descritto magari in termini più accurati rispetto a quan-

to non avvenga nel libro di James, sarà alla base delle diverse letture politiche che andranno ad arricchire la bibliografia critica su Melville a partire dalla fine degli anni ‘60.5? Un chiaro esempio del Melville ribelle che appassiona molti giovani studiosi in questa nuova fase ci è fornito da un saggio di Bruce Franklin — saggio che rappresenta senza dubbio un caso estremo, ma che, proprio per questo, facilita la messa a fuoco dei principali pregi e difetti del nuovo approccio. Franklin, ancor più di James, è convinto che Melville sia un artista “whose creative consciousness was

39 Oltre ai lavori di cui ci occupiamo in questa sede si devono ricordare perlomeno tre libri recenti che propongono un Melville “radicale”: Carotyn KarcHer, Shadow Over the Promised Land, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 1980; Jovce Sparer Apier, War

in Melville’ Imagination, New York, New York University Press, 1980; James Dusan, Melvil-

le’s Major Fiction: Politics, Theology, and Imagination, De Kalb, Northern Illinois University Press, 1983. Più attento alle contraddizioni che caratterizzano le posizioni politiche di Melville, anche se sostanzialmente d’accordo nel considerarlo uno scrittore critico della propria società, è Epwarp J. Ansarn, nel capitolo su Moby Dick del suo Marx and Modern Fiction, New Haven, Yale University Press, 1989, pp. 164-98.

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forged in the furnace of proletarian experience, an artist who saw the world of nineteenth-century US society and its commercial empire through the eyes of a class-conscious worker”.4° Franklin dedica buona parte del suo intervento ai contenuti sociali e ai riferimenti storici indiscutibilmente presenti in tutti i testi melvilliani. La condanna dell’imperialismo militare e culturale nei mari del Sud e in patria; l’orrore per le punizioni corporali e per l’autoritarismo in generale; il meticoloso interesse per i risvolti materiali dell’esistenza umana che fa di Moby Dick un testo saldamente ancorato nel mondo sociale e naturale — su questi temi, non sempre affrontati col giusto rigore, insiste Franklin. Ma se ci sono senz’altro elementi per sostenere, ad esempio, che Melville “perceived social reality in terms of class contradictions” (291), l’interpretazione di Franklin è a senso unico, e il tentativo di trasformare Melville in un proto-marxista non solo nega la profonda ambiguità dei suoi testi, ma risulta a tratti un pO' irritarite. Inoltre, proprio se si è vicini alle preoccupazioni teoriche e politiche di Franklin, si deve notare che le “ambiguità” — ma sarebbe meglio chiamarle contraddizioni — iscritte in tanti testi melvilliani potrebbero essere ricondotte anche all’incerta identità sociale dello scrittore, un’identità che è impossibile definire semplicemente come “proletaria”. Frankin purtroppo vuole leggere Melville come artista rivoluzionario costi quel che costi, e quando i conti non tornano — come nel caso di Billy Budd — è pronto a ricamare generosamente sul testo, definendo ad esempio Claggart “the head of the secret police on board the Be/lipotent’, o a tacere i particolari che non quadrano, o a fare di Billy una figura tutta ideale e positiva.*!

40. Bruce Frankun, “Herman Melville: Artist of the Worker's World” in Norman RupicH (a cura di), The Weapons of Criticism, Palo Alto, California, Rampart Press, 1976, pp. 287-309,

(287). 41 Due importanti saggi che affrontano con maggior rigore tanto la dimensione retorica che quella politica di Billy Budd sono quello di Barsara JoHnson, “Melville’s Fist: the Execution of Billy Budd”, Studies in Romanticism, 18 (1979), pp. 567-599; e quello di Broox Tromas, “Billy Budd and the Judgement of Silence”, /deology and Literature, Bucknell University Studies in Literature, 1982, pp.51-78. Una recente reinterpretazione del Rinascimento Americano ad opera di LarryJ.Revnos (European Revolutions and the American Literary Renaissance, New Haven, Yale University Press, 1988) sviluppa quella che è forse la più articolata e documentata contestazione dell’idea che i testi di Melville propongano una filosofia politica di taglio progres-

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Quanto detto sui limiti del saggio di Franklin non deve far credere che tutta la critica politica su Melville si risolva in grossolane semplificazioni. Molte sono le analisi più equilibrate e convincenti del Melville radicale caro a Franklin, ma il tentativo più notevole di coniugare l’elemento storico-sociale e quello letterario del macrotesto melvilliano è certamente Subversive Genealogy di Michael Rogin, unanimamente accolto come uno dei più importanti libri su Melville degli ultimi venti anni." Che si sia d'accordo o meno con la sua impostazione, è certo che mai nessuno con una conoscenza della realtà politica e sociale dell’Ottocento americano pari a quella di Rogin aveva scritto diffusamente su Melville. Professore di scienze politiche all'università di Berkeley, e uno dei maggiori esperti del periodo jacksoniano, Rogin sostanzia le sue interpretazioni ricorrendo a decine di fonti e particolari storici che arricchiscono enormemente il significato dei testi melvilliani che a tali realtà extratestuali — la lettura del libro di Rogin lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio — costantemente alludono. Ma l’erudizione non è il solo punto forte del libro; rispetto a quanto spesso accade nelle letture politiche di Melville, Rogin non vuole assolutamente dimostrare che lo scrittore fosse un progressista o un rivoluzionario. Ciò che sta a cuore a Rogin è illustrare that Herman Melville is a recorder and interpreter of American society whose work is comparable to that of the great nineteenth-century European realists; that there was a crisis of bourgeois society at midcentury on both continents, but that in America it entered politics by way of slavery and race rather than class; that the crisis called into question the ideal realm of liberal political freedom; that Melville was particularly sensitive to the American crisis because of the political importance of his clan and the political history of his family; that a study of

sista. Secondo Reynolds, in effetti, non solo Melville ma tutte le grandi figure del Rinascimento Americano — eccezion fatta per Margaret Fuller — avrebbero sostenuto posizioni po-

litiche di stampo nettamente moderato-conservatore. Mi sembra però che — almeno per quanto riguarda Melville — il legittimo desiderio di Reynolds di correggere le vecchie tesi lo porti ad esagerare nella direzione opposta. 42. Micart Paur Rocin, Subversive Genealogy: the Politics and Art of Herman Melville, New Yok, Knopf, 1983. Sul libro di Rogin si vedano, tra le altre, le recensioni di Ricrarp

BropHeap in Nîineteenth-Century Fiction, 37 (1983), pp. 214-19; e di Wai-cHee Dimocx in The

Georgia Review, 37 (1983), pp. 912-14.

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Melville’s fiction, and of the society refracted through it, must also be a history of Melville’s family, and of the writers relation to his kin; and, finally, that Melville rendered American history symbolically, so that a history of his fiction, his family, and his psyche is also a history of the development and displacement of major symbols in his work.

(xi) Non si proverà neppure a cercare di riassumere come Rogin svi-

luppi una tesi così ambiziosa nello spazio di oltre 350 densissime pagine, ma si dovrà almeno sottolineare quanto sia illuminante, nella maggioranza dei casi, il raccordo operato tra le vicissitudini della famiglia di Melville, la realtà sociale, e quella testuale. Peccato che la messe di infor-

mazioni storiche e i punti di contatto tra storia e letteratura isolati da Rogin non si traducano sempre in interpretazioni chiare e coerenti. Da un certo punto di vista la tesi di Rogin è troppo vasta, ed in certi casi egli non riesce a mettere a fuoco i moltissimi temi discussi. Rogin fa attenzione a non trasformare i testi in pure e esemplici allegorie politiche, in particolare quando affronta Moby Dick. Nel sostenere che il libro allude insistentemente alla crisi sociale e politica di metà Ottocento — che egli descrive facendo ricorso al concetto di un 1848 americano — Rogin parla di espansionismo, natura dello stato, contradizioni sociali e razziali, senza mai prescindere dalla dimensione simbolica e letteraria del testo. È peraltro vero che il Melville politico di Rogin, come egli stesso riconosce, è solo uno dei tanti Melville possibili. Rogin, che non a caso nel leggere Moby Dick preferisce concentrarsi su Ahab più che su Ishmael, trascura il Melville filosofo, quello che discute di fede e teologia, quello che sperimenta nuove tecniche narrative. Se c’è un appunto che si può muovere sul terreno politico a Rogin, è di non avere accennato in quale misura siano politicizzabili e storicizzabili anche questi altri Melville. Resta comunque il fatto che, con Subversive Genealogy, quel Melville politico che era iniziato a delinearsi sul finire degli anni ‘60 riceve la sua sinora più completa e intelligente sistematizzazione.

5. Nuove cacce ermeneutiche

a Moby Dick

Nonostante negli ultimi vent'anni l’attenzione si sia concentrata spesso sul Melville post-Moby Dick, quest’ultimo testo ha continuato a 240

essere oggetto di instancabili “cacce ermeneutiche” .43 Abbiamo già visto come, con un rovesciamento paragonabile a quello che trasforma “the author of 7ypee e Omoo” nell’autore ribelle di Moby Dick, anche il capolavoro melvilliano, percepito tra gli anni ‘20 e ‘40 come testo mitico/epico/simbolico dominato dalla tragedia del suo eroe luciferino, nel mutato quadro ideologico-letterario che si consolida tra gli anni ‘40 e i ‘60 divenga sempre più l’avventura di Ishmael, variamente descritto come eroe isolato e anticonformista, artista o “coscienza” che filtra tutti gli eventi e assicura la coerenza artistica dell’opera. Non solo si “scopre” e poi si elabora la figura di Ishmael ma, in particolare dallo studio di Charles Olson in poi, la sua visione del mondo viene descritta come alternativa a quella di Ahab: non è più la Balena Bianca bensì il marinaio-scrittore il principale antagonista del monomaniaco capitano. Questo approccio al testo diverrà così comune da cristallizzarsi in una vera e propria “regolarità discorsiva” operante al di là delle diverse metodologie applicate.* Nell’analizzare alcune delle recenti cacce ermeneutiche a Moby Dick ci concentreremo dunque su alcuni degli usi ideologici che del conflitto AhabIshmael vengono fatti. Un esempio paradigmatico del rapporto che unisce l’allegorizzazione del testo alla sua traduzione in messaggio ideologico ci è offerto dallo studio psicoanalitico di Edward Edinger, che si definisce “not a scholar but a depth psychotherapist”, e che non fa mistero del suo voler rielaborare il testo in un linguaggio junghiano. Per Edinger Moby Dick riflette una situazione storica in cui “as traditional religion lost its capacity to carry living meaning, man was left without a containing vessel for the transpersonal symbols” (4), e cioè in uno stato di angosciosa alienazione dagli archetipi colllettivi che sarebbero da sempre alla base della psiche e della cultura umana. La Balena Bianca è naturalmente il simbolo dell’in-

x

.

43 Il termine “caccia ermeneutica” è coniato da Grauco Camon nel saggio “La caccia ermeneutica a Moby Dick’, Studi Americani, 8 (1962), pp. 9-19. 44 Sulla scia di Michel Foucault, James Cesarano, Jr., definisce “regolarità discorsive”

quei paradigmi critici che caratterizzano, e condizionano, la percezione di un autore o di un testo in un particolare quadro storico-istituzionale. (“The Emergence of Moby Dick. An Archaeology of its Critical Value”, Ph. D. Dissertation, State University of New York at Binghamton, 1984).

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conscio collettivo e del sacro contro cui si scaglia l’alienato Ahab. Diversamente dalla maggioranza dei critici contemporanei, Edinger non vede troppa distanza tra Ahab e Ishmael; essi sono piuttosto “the two sides of the heretical outsider” (50) perché “both have been alienated from their original wholeness” (65). Un’alternativa alla loro disarmonia “eretica” può semmai ritrovarsi in Queequeg, la cui bara — che consentirà ad Ishmael di salvarsi — “is a representation of the saving wisdom of the primordial psyche” (141). Tutti gli elementi del testo vengono puntualmente trasformati da Edinger in “representations” di qualche simbolo junghiano (anche quando mancano del tutto i presupposti) e il testo diviene così una semplice occasione per dimostrare l’universale applicabilità e validità del modello junghiano, sulla cui natura antistorica non è il caso d’insistere.45 Anche critici più 4 /a page di Edinger, e cioè distruttori e decostruttori professionisti come William Spanos e Michael Adams, mostrano un’eguale prontezza a usare il testo come specchio delle proprie convinzioni filosofiche. Ci sono certamente ampi margini per leggere Moby Dick tenendo a mente Heidegger e Derrida, ma quel che sorprende è vedere dei paladini dell’indecidibilità produrre interpretazioni concepite in modo decisamente convenzionale. Se non mancano, specie nel saggio di Spanos, spunti interessanti, ambedue i critici costruiscono le loro letture attorno alla tradizionale opposizione Ahab-Ishmael per poi allegorizzarla ad hoc. Secondo Spanos Moby Dick “is a story about two ways of erring about being-in-the-world: one — Ahab’s — which violates the mysterious ‘truth’ of whiteness by coercing it into something it isn't; the other, Isha-

mel’s, which, paradoxically, lets the mystery of whiteness be”.4° La mo-

4 Per alcuni esempi di “blatant misreadings”, come per una denuncia della visione fondamentalmente maschilista insita nel modello junghiano impiegato da Edinger (il quale ci informa che il principale problema di Melville sta nella sua “debole relazione col principio del Logos mascolino”), si veda la recensione di Davm Leverenz in Nineteenth-Century Fiction, 34 (1980), pp. 479-82. Quanto notato sulla matrice ideologica della critica mitica nel precedente capitolo potrebbe essere ripetuto a proposito del libro di Edinger. Quest’ultimo ha certamente ragione nell’insistere sul fascino esercitato in Moby Dick dalle energie primordiali incarnate nell'immagine del mare e nell’idea della balena, ma la sua lettura primitivistico -misticheggiante è assai poco convincente. Wiruam Spanos, “The ‘Nameless Horror’: the Errant Art of Herman Melville and Charles Hewitt”, Boundary 2, 9 (1981), pp. 128-47, (128).

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nomania di Ahab è una forma di volontà di potenza sulle dinamiche dell'essere “that repeats Western logocentric man’s — the old Adam'’s — Obsessive effort to revenge himself against the transience of time” (130). Ishmael è invece disposto ad accettare una kierkegaardiana ed heideggeriana nullità-dell’essere-nel-mondo. “Melville/Ishmael”, conclude Spanos — che peraltro non fa nulla o quasi per convincerci che l’autore sia tutto dalla parte del narratore — “uses language (color) interrogatively; not to bring the whale to presence as a fixed and permanently visible thing before his and his reader’s judgemental eye, as a nature morte, but precisely to activate a care-ful awareness of the mystery of its living and differentiated being” (136). Anche per Adams, Ahab, nonostante il suo spirito ribelle lo porti a sfidare l’idea stessa di trascendenza, “is not a demystifier, or deconstruc-

tor. He is a constructor of significance”.47Ahab contravviene perciò non all'ordine divino, come credevano Winters, Matthiessen o Vincent, ma a

quello del linguaggio, che Derrida ha appunto dimostrato essere un’infinita catena di termini negativi. Se il “grammatologo” Pip, coniugando il presente del verbo “to look”, decostruisce la “ideality of sense” che affligge quelli che si rispecchiano nel doblone d’oro inchiodato all’albero maestro, e la riduce a “utter nonsense”, Ahab vuole invece fare della Ba-

lena Bianca i/ termine positivo: per lui “interpretation is phallocentric penetration of appearances. The megalomaniac will to power is a monomaniacal will to knowledge — not an erotic, a deconstructive, or even a semiotic, but a hermeneutic volition” (63). Inutile a dirsi, è invece Ish-

mael a usare il giusto approccio — a essere “finally capable of dissemination”. Il narratore, si ricorderà, prova un senso di pace e armonia nello spremere il grasso, cioè lo “sperm”, della balena, così che se per Ahab “interpretation is penetration”, per Ishmael “dissemination is masturbation”. Ishmael accetta felice la fluidità del seme e del significato, sfugge al fallogocentrismo del suo capitano e si salva. Sia Spanos che Adams vedono dunque in Ishmael un decostruttore, dalla cui parte penderebbero tutti i favori di Melville, risolutamente opposto a un Ahab che esprimerebbe invece tutto quello che il suo crea-

47 M. Vannoy Apams, “Whaling and Difference: Moby Dick Deconstructed”, New Or-

leans Review, 10 (1983), pp. 59-64, (60).

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tore detesta: autoritarismo, dogmatismo, logocentrismo. Sorvolando in questa sede sulla legittimità di certe etichette, l'ipotesi solleva due ordini di problemi: uno di natura testuale, l’altro prettamente teorico. In primo luogo i due critici sembrano concepire la contrapposizione Ishamel/Melville-Ahab come un dato strutturale che segna tutta l’opera e non, secondo quanto in genere suggeriscono quei lettori favorevoli a tale impostazione, come un punto di arrivo del racconto — racconto che diverrebbe perciò la storia di come Ishmael si renda progressivamente indipendente dalla visione del suo capitano. Strutturata in questo modo l’interpretazione risulta più plausibile, ma Spanos e Adams non sentono né il dovere di dimostrare la fondatezza della propria ipotesi di lettura, né quello di confutare ipotesi contrarie. Su un altro piano, poi, come dimostrato proprio da Derrida in persona, è semplicemente impossibile sfuggire al pensiero metafisico e logocentrico: anche il decostruzionista non può saltare in un magico altrove ed è quindi egli stesso in qualche modo complice del meccanismo che contesta. Un’analisi derridiana del rapporto Ahab-Ishmael dovrebbe dimostrare non solo la spinta sovversiva di Ishamel, ma anche le sue complicità e i suoi limiti: se ci sono elementi che lo dividono dal suo capitano, non mancano i fili che li uniscono. Per restare nei termini scelti da Spanos e Adams, se Ahab vuole imporre il suo “colore” sul manto bianco della balena, nemmeno Ishamel accetta

le pagine bianche della vita e sente il bisogno di proiettarvi sopra il nero della sua penna.* Una versione più usuale del paradigma critico che contrappone Ishmael ad Ahab ci viene data invece da Walter Herbert in “Moby Dick” and Calvinism. Per Herbert il narratore è in effetti inizialmente affascinato dalla personalità di Ahab e scopre solo in un secondo momento quanto folle sia il proposito di quest’ultimo. Alla fine egli rifiuterà la “insanely coherent view” del suo capitano comprendendo “that there is no way to achieve a unitary vision of divine truth capable of sustaining and guiding )

48. ALESSANDRO PorteLli, ne // testo e la voce, Roma, Manifestolibri,

1992, propone

un'originale lettura dell’indefinitezza della balena bianca, notando che questa esiste prima di tutto come “oggetto di narrazioni orali”, e che, come la voce, anche la bianchezza “è as-

senza e presenza insieme, immaterialità concreta” (p. 52, ma interessanti commenti sul rapporto tra scrittura e voce in Moby Dick sono rintracciabili in molte altre pagine del libro).

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the moral self” .4° Il principale motivo d’interesse del libro di Herbert sta nella ricerca storico-biografica che serve a sostanziare la sua tradizionale interpretazione del testo. Secondo Herbert Melville visse una profonda crisi religiosa che affondava le sue radici nel quadro culturale dell’epoca. Esposto sin dall’infanzia a diversi modi di affrontare il problema religioso — dal cristianesimo liberale del padre Alan al calvinismo più rigoroso della Dutch Reformed Church della madre Maria — Melville avrebbe continuato a porsi domande sempre più audaci sino a smontare pezzo per pezzo, con la storia della Balena Bianca, il sistema teocentrico. Nell’economia del racconto Ahab svolge una funzione indispensabile: il suo proposito di vendetta serve a coagulare la rabbia di Ishmael. Ahab sembra in grado di offrire delle risposte alla crisi del narratore perché è “a figure of theocentricity piety run mad”, un uomo che cerca la Verità, anche se poi finisce col rendere la propria ribellione parte del male che dichiara di voler combattere. Nel guadagnare una sua autonomia dalla visione ahabiana Ishmael non riesce a elaborare “a broader scheme within which Ahab's question are answered”, sprofondando invece in un “profounder

skepticism in which the inquiry itself is doubted” (163); tale scetticismo, secondo Herbert, è condiviso dallo stesso Melville.

Nell’assumere il calvinismo come quadro di riferimento dell’opera, Herbert corre inevitabilmente il rischio di portare in primo piano le pur importanti preoccupazioni religiose dell’autore a spese dei suoi interessi più strettamente letterari. In Exiled Waters: “Moby Dick” and the Crisis of Allegory, Bainard Cowan avanza viceversa un’ipotesi che investe contemporaneamente il piano storico-religioso e quello artistico. Cowan definisce l’allegoria una forma immaginativa cui si ricorre in particolari congiunture storico-culturali, e cioè quando un dato testo o una data tradizione, pur mantenendo una posizione di prestigio, non vengono in effetti più creduti e rispettati come un tempo. In una tale situazione il pensiero allegorico, fingendo di rispettare la tradizione, si sforzerebbe viceversa di reinterpretarla, di riscriverla per adattarla alle mutate condizioni storiche. La lettura di Moby Dick proposta da Cowan non è dunque alle-

49 T. Warrer Hersert, Jr., “Moby Dick” and Calvinism, New Brunswick, New Jersey, Rutgers University Press, 1977, pp. 127, 159.

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gorica nel senso di voler identificare i diversi personaggi con questa o quella qualità morale o spirituale — “romantic allegory cannot be imposed a priori, but must be based in immediate experience” — ma un'analisi di come Ishmael cerchi di sovvertire e rispettare la tradizione, e cioè di come egli cerchi “to hold both an ironic secularism and a biblical, escathological perspective in balance and tension with each other” .50 Il “testo” pietrificato che ancora occupa una posizione strategica-

mente importante nella cultura americana è quello del cristianesimo. Nel corso del suo viaggio “in those for ever exiled waters”, isolato “from being, from tradition, and from community”, Ishmael dovrà “allegorizzare” quel testo, per sovvertirlo e, al tempo stesso, farlo salvo per il presente. Nel corso dell’analisi, però, Cowan pare dimenticarsi dei presupposti della sua tesi (secondo la quale l’allegoria serve a confrontare una crisi storico-culturale )e non indica esattamente in rapporto a quale congiuntura si dispiegherebbe l’allegorizzare ishmaeliano, concentrandosi piuttosto sulla più generale disponibilità di Ishmael all'apertura, alla mediazione, alla revisione; in una parola, sul suo costante interpretare. Nonostante alcune pagine brillanti e originali - come il capitolo dove le meditazioni di Ishmael sul corpo umano vengono lette attraverso il filtro delle inversioni carnevalesche studiate da Bachtin — Cowan resta fedele alla tradizionale dicotomia Ahab-Ishmael per strutturare la sua interpretazione. “Ahab specifically rebels against the notion of an allegorical universe and instead imagines a world with all its cards on the table, where he can confront the gods openly” (164). Nel senso in cui Cowan adopera il termine allegoria, Ahab — spesso accusato di essere un lettore allegorizzante, e cioè di credere ciecamente in un rigido schema di valori — manca della flessibilità allegorica di Ishmael, il quale comprende alla fine che il suo compito è impossibile, che non c'è modo di sanare una volta per tutte le discrepanze tra realtà e tradizione. L’idea di allegoria utilizzata da Cowan, come un po’ tutto il suo studio, si ispira a Walter Benjamin. Per quest’ultimo la continuità della storia era quella dell’oppressore: contro di essa doveva mobilitarsi il materialista storico per “passare la storia a contropelo” e riportare alla luce quei frammenti che avrebbero consentito di ripensare la tradizione dal punto di vi50. BamarD Cowan, Exiled Waters: “Moby Dick” and the Crisis of Allegory, Baton Rouge, Lousiana State University Press, 1982, pp. 76,77.

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sta degli oppressi. Ma Cowan dimentica che per Benjamin solo un movimento rivoluzionario, nell’atto di aprirsi un varco verso il futuro, può garantire la nuova visione del passato articolata dallo storico marxista. Affermare che per Benjamin “the truth and the notion of community [...] must be rediscovered and recreated by each individual” vuol dire trasformarlo in un romantico tou? court e dimenticare che la sua visione della storia è politica. Inoltre, nonostante Cowan dedichi relativamente poco spazio ad Ahab, nell’allegoria ishmaeliana quest’ultimo svolge un ruolo preminente: se Ishmael è tutto dalla parte dello “humble world of the down trodden and persistent”, per quale ragione “Ahab's titanic world” (172) occupa tanto spazio nella sua narrativa? Cowan sostiene che “by the end” Ishmael “has changed [...] into one who can see the greatness in a captain he condemns” (179), ma non chiarisce in cosa consisterebbe tale grandezza, né perché la sua condanna non possa certo dirsi risoluta. Il paradigma che oppone Ishmael ad Ahab è invece esaminato con dovizia di dettagli e incrollabile tenacia da Robert Zoellner in 7be SaltSea Mastodon, e probabilmente non esiste testo dove l’ipotesi di un Ish-

mael via via sempre più ribelle alla visione di Ahab sia stata esplorata in modo altrettanto esaustivo e convincente. Zoellner non si astiene dall’affrontare questioni extratestuali, ma il metodo privilegiato è quello di un close reading che non manca mai di intelligenza e buon senso. La sua analisi segue passo dopo passo il lungo e difficile percorso che porterebbe il narratore a rendersi indipendente dall’influenza di Ahab, insistendo in particolare sulle diverse concezioni epistemologiche espresse dai due antagonisti. Per Ahab il mondo è una realtà fenomenica dietro la quale si cela un terrificante noumeno senza colore; per Ishmael, vicever-

sa, tanto Locke che Kant hanno la loro parte di ragione, e un fruttuoso dialogo tra mente e mondo fenomenico è possibile. Non c'è dunque una sola balena al centro di Moby Dick, bensì due: quella di Ahab, dotata di forza, malignità e razionalità, e che è quindi un’incarnazione di quello che Zoeliner definisce lo “overkill, megaton God” del sermone di Father Mapple; e quella di Ishmael, non trascendentale ma naturalistica, complessa e mutevole. Liberandosi dalla visione mitologizzante di Ahab, Ishmael “makes possible the gradual bumanizing of alien Leviathan”5! Per 51 Rosert Zoruner, The Salt-Sea Mastodon, Berkeley, University of California Press,

1973, p. 27.

i

247

Zoellner è sbagliato definire Moby Dick una “epic of whaling” perchè il libro è piuttosto una “counter-epic”: “the redemption of Ishmael and the resolution of his hypos depend upon his learning to love Leviathan, the alien, the cosmic other” (177-8).

Secondo Zoellner, negli ultimi capitoli del testo Ishmael oppone una visione di Moby Dick come essere pacifico che cerca di sfuggire alla caccia del Pequod, alla visione di una Balena violenta e nemica dell’uomo nutrita da Ahab. Per Ishmael l’universo non è necessariamente amico del genere umano, ma neppure suo nemico: “the cosmos, though frightful, is benign. [...] There is nothing in the natural world that ought to be feared” (238). Zoellner propone di vedere in Ishmael un individuo non solo moralmente, ma soprattutto ecologicamente, equilibrato,

e conclude

il suo studio caratterizzando in senso contemporaneo la lezione di Moby Dick. Ishmael “is part of the world, at one with it, and so cannot conceive of it as adversary. Here, perhaps, we touch on that meaning of Moby Dick of most relevance to technological man in the latter half of the twentieth century. If we have debauched our air and polluted our streams it has been because, like Ahab, we have seen the world as a

thing to be attacked and conquered” (266). I diversi problemi sollevati da Zoellner richiederebbero una lunga discussione, ma qui c’è spazio solo per la questione dell’antagonismo Ishmael-Ahab.5? È interessante osservare che, sia pure in una nota, Zoel-

Iner scrive: “perversely, I find Ahab compelling in spite of everything I have said here” (277). Anche Ishmael deve aver pensato qualcosa del genere per dedicare tanto spazio al suo capitano, ma Zoellner ci parla quasi esclusivamente di quello che divide i due personaggi senza suggerire cos'è che, al di là della prima parte del testo, potrebbe unirli. Per esempio è scarsamente convincente la tendenza di Zoellner a fare di Ahab un eroe cristiano e di Ishmael un “pagano” panteista del tutto immune al discorso del cristianesimo. Che il termine “cristiano” abbia solo valenze ne-

52 Il libro di Zoellner è ricco di spunti interessanti; ne ricordiamo alcuni: l’analisi del sogno in cui Stubb è tentato dal prendere a calci una piramide, ma alla fine rinuncia; l’esame del falso (secondo Zoellner) antagonismo Ahab-Starbuck; le osservazioni sul sermone di Father Mapple e su quello di Fleece agli squali, nonché quelle su Yoyo, l’idolo di Quee-

queg.

248

gative nel testo è un’ipotesi tutta da sostanziare, così come resta da dimostrare che alla fine Ishmael sia in pace con l’universo e con se stesso, come vorrebbe Zoellner. A tale proposito si deve aggiungere che sebbene Zoellner, preoccupato evidentemente dalla visione buia che Melville pare abbracciare dopo Moby Dick, non sovrapponga Ishmael al suo creatore, egli attribuisce a Melville stesso una certa dose di moderato ottimismo, giungendo addirittura a citare una frase di Pierre come esempio della visione ciclica del mondo naturale intrattenuta da Ishmael in contrapposizione a quella entropica cara ad Ahab. Ma sino a che punto può l’immagine dell’ “orfano” Ishmael, ripescato per caso dalla nave Rachel, con la quale si chiude il libro, essere letta come messaggio di speranza? E la visione naturalistico-pacifista di Ishmael non resta largamente implicita? E di Ahab, che resta nonostante tutto affascinante, cosa si deve fare?

Questi alcuni dei problemi lasciati aperti da Zoellner. La quasi onnipresenza, nella critica degli ultimi decenni, del paradigma che oppone la libertà ishmaeliana al totalitarismo ahabiano non può non portare a chiedersi, accantonando per il momento la questione di quanto Zoellner o altri critici risultino convincenti, quali condizioni storico-sociali ne abbiano consentito la nascita e il consolidamento, visto

che tale paradigma interpretativo, prima degli anni ‘40, non esisteva. È quanto fa Donald Pease in un lungo articolo dal titolo signifcativo: “Moby Dick and the Cold War” .53 Semplificando la sua densa analisi, possiamo dire che Pease scorge una relazione tra la situazione socio-culturale caratteristica della guerra fredda — una situazione in cui l’intero universo diviene uno scacchiere nel quale si può occupare solo la “nostra” o la “loro” posizione, e dove è bandita, o meglio, predeterminata, qualunque possibilità di scelta — e l’idea che Moby Dick offra una dimostrazione di

come Ishmael difenda con successo la sua libertà dall’autoritarismo di Ahab. Secondo Pease i critici degli ultimi quarant'anni hanno voluto vedere nell’Ishmael che scampa al disastro finale un simbolo dell'America

53 Donaup E. Prase, “Moby Dick and the Cold War”, in W. B. MicÒaeis e Donaip Prase (a cura di), The American Renaissance Reconsidered, Baltimore e London, Johns Hopkins

University Press, pp. 113-55. Un'ulteriore rovesciamento del paradigma Ahab-Ishmael è operato da War-Cxee Dimocx nel capitolo su Moby Dick in Empire for Liberty. Melville and the Politics of Individualism, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1988.

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che sopravvive al totalitarismo facendo ricorso alle sue infinite risorse democratiche.5i Schematizzando, essi hanno voluto leggere nella retorica ishmaeliana “the free play of indeterminate possibility” che si contrappone al mondo di “fixed meanings” di Ahab, per poi esaltare lo spirito sovversivo e genuinamente americano di Ishmael, insofferente nei confronti della personalità dittatoriale di Ahab. Se il monomaniaco capitano insiste nel concepire il mondo in modo univoco, svuotandolo di ogni ambiguità, “Ishmael, in his rhetoric, frees us from Ahab's fixation by returning all things to their status as pure possibilities” (147). Una volta appurata la natura ideologica della contrapposizione tra Ishmael e Ahab, resta da vedere però se “Ishmael, in his need to convert

all the facts in his world and all the events in his life into a persuasive power capable of re-coining them as the money of his mind, is possessed of a will any less totalitarian than Ahab's. Is a will capable of moving from one intellectual mode to another [...] any less totalitarian, however indeterminate its local exertions, than a will to convert all the world into

a single struggle ?” La risposta di Pease è recisamente negativa. Il mondo indeterminato di Ishmael, dove tutto esiste allo stadio di pura possibilità, non è un mondo di libertà, ma un mondo dove Ishmael dovrà continuare a fare i conti col suo “hypos” — quello stato di depressione cui noi 0ggi diamo il nome di “noia”. È proprio “the need for intense action without any action to perform” — una situazione, per restare nei termini

scelti da Pease, da guerra fredda — “that motivated the Ishamel who felt the ‘drizzly November in his soul’ to feel attracted to Ahab in the first place. [...] In short, Ishmael’s form of freedom does not oppose Ahab but compels him to need Ahab” (147). L’inconsequenzialità dell’atteggiamento di Ishmael, la sua incapacità a passare dalla sfera delle possibilità

54 Il saggio di Pease è però viziato da un difetto di fondo. Pease si ostina a vedere proprio in F. O. Matthiessen il prototipo del critico melvilliano della guerra fredda, e dedica solo commenti più o meno casuali ad altri critici. Ovviamente Pease sa bene che American Renaissance fu scritto ben prima dell'inizio della guerra fredda, così come non ignora le convinzioni politiche di Matthiessen. Ciò nonostante, Pease insiste in questa fuorviante caratterizzazione di Matthiessen, dimenticando che il paradigma oppositivo Ishmael-Ahab non è stato nè inventato nè adoperato con eccessiva convinzione da Matthiessen. È davvero strano che Pease dedichi scarsa attenzione a quei critici che — come quelli di cui ci siamo sinora occupati — hanno veramente insistito nel vedere Ahab e Ishmael come rappresentanti di due visioni del mondo inconciliabili.

250

a quella dell’azione è il semplice rovescio dell’attivismo conseguente e inesorabile di Ahab. Le due visioni non si respingono — esse si implicano a vicenda. Il Melville propostoci da Pease trova conferma in quegli studi degli ultimi anni che hanno cercato di mostrare come lo scrittore metta in scena nei suoi testi delle opposizioni binarie per poi decostruirle ed evidenziare il terreno comune che esse condividono.55 Ma la cosa che più merita di essere sottolineata è che la natura ideologica dell’antagonismo Ishmael-Ahab, così ben descritta da Pease, è perfettamente coerente con una visione canonica della letteratura americana che identifica i grandi scrittori come ribelli impegnati a difendere la propria libertà dalle pressioni di una società sentita sempre come invadente, ostile, repressiva. Assimilando Ishmael a una schiera di eroi del calibro di Natty Bumppo e Huck Finn, i critici americani fanno anche di Moby Dick un testo dove un alter-ego dello scrittore ripropone la lotta tra lo spirito libero ed anticonformista dell’artista, da un lato, e l’autoritarismo delle strutture socia-

li, dall’altro. Non è-certo un caso se in tutte le interpretazioni che abbiamo esaminato, da quella hedeggeriana di Spanos a quella più tradizionale di Zoellner, Ishmael è sostanzialmente caratterizzato come artista.59

Nel discorso critico melvilliano degli ultimi quarant'anni, Ishmael ha finito con l’assumere il ruolo che era stato, all’epoca del “revival” degli anni ‘20, di Melville stesso; il ruolo, cioè, dell’intellettuale/scrittore/ribelle che cerca instancabilmente di sottrarsi alla logica dei sistemi culturali e socia-

li che vorrebbero soffoccare la sua libertà. D'altra parte, ancora prima della guerra fredda e dello stesso primo conflitto mondiale, una figura chiave della letteratura americana come Emerson aveva ripetutamente insistito sulla necessità di difendere a ogni costo la propria individualità da qualunque condizionamento esterno. Nell’universo letterario americano, per come è stato tradizionalmente strutturato e interpretato, la libertà è presentata come un fatto di coscienza individuale, non come una

55 Oltre al saggio di Paola “Bartleby” della stessa Casio e doppia negazione”, Melvilliana, Su Ishmael come artista

Cabibbo citato alla nota 25, si veda l’interessante analisi di di Paoa Lupovici, “Bartleby': la struttura semantica della cit., pp. 43-60. e ermeneuta si veda anche Luca Briasco, “houghi-divers”.

Moby Dick come avventura dell’interpretazione, Genova, Marietti, in corso di stampa.

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realtà politica e sociale; 0, per dirla con Pease, come una libertà negativa invece che una libertà che lega l’artista ad una comunità. Tutte le struttu. re collettive sarebbero oppressive e solo l’ “individuo” — astrattamente considerato — sarebbe davvero “libero”. Un discorso del genere va ben al

di là dell'ambito letterario, e ha implicazioni politiche certamente rilevanti. Senza entrare qui nel merito di quanto conciliabili con la “verità” del testo possano essere certe letture, si deve notare che, sia nella maggioranza delle interpretazioni decostruzioniste di Melville, sia nel modo in cui si sostanzia il paradigma oppositivo Ishmael-Ahab, troviamo all'opera un’ideologia anarchico-apocalittica che predica di volta in volta cinismo, disperazione, rassegnazione e non scorge nel testo letterario — e nel mondo - altro che futilità e frustrazione. Etichettare una tale ideologia come conservatrice e, volente o nolente, complice dell’ordine sociale che in apparenza contesterebbe non ci pare una forzatura. D’altra parte una situazione di questo tipo non può essere fronteggiata semplicemente trasformando Ishmael in eroe proletario o militante ecologista ante-litteram, ma solo indagando a fondo, come propone Pease, i meccanismi ideologici e istituzionali che non possono non condizionare i nostri misreadings.5?

57 Resta però da aggiungere che considerare Melville in totale opposizione alle visioni incarnate in Ahab e Ishmael, come fa per l'appunto Pease, mi sembra assai poco convincente. Inoltre Pease rimane convinto che, al termine di Moby Dick, Melville si sia ricon-

ciliato col mondo, ma Melville a Hawthorne. “spotless like a lamb” mente a dimostrare la chilismo ishmaeliano.

252

per sostenere la sua interpretazione deve far ricorso alle lettere di Pease finisce così col rafforzare la tradizionale visione di un Melville al termine di Moby Dick, il cui finale apocalittico servirebbe unicamisera fine che attende tanto il totalitarismo ahabiano quanto il ni-

POSTFAZIONE di Agostino Lombardo

Avendo assistito all'elaborazione di questo studio dalla fase iniziale a quella finale, chi scrive poteva presumere di conoscerlo e di non doversi aspettare sorprese. Ma anche un’opera di critica esiste veramente,

come l’opera d’arte, solo nel momento in cui la stampa la rende “libro”, la colloca in un preciso contesto culturale e sociale, la costringe a confrontarsi con un pubblico e a trasformare il monologo in dialogo. Di fatto, questo libro di Giorgio Mariani è, per chi scrive, del tutto nuovo e sor-

prendente. E la sorpresa non sta nel verificare sulla pagina la straordinaria ricchezza dei dati bibliografici presi in esame (dietro i quali molti altri se ne intravedono); né la sapienza con cui un magmatico materiale viene controllato e disposto, sì che della critica melvilliana, negli Stati Uniti e in

Europa, abbiamo qui la prima storia veramente organica; né la lucidità con cui sono illustrate le posizioni critiche, o “strategie”, le più diverse, da quelle ottocentesche a quelle del New Criticism fino a quelle decostruzioniste. La sorpresa, e la novità — tanto più rilevanti in un periodo in cui ancora sopravvive una critica asettica — stanno nella vitalità di questa trattazione, che poteva arenarsi nelle secche di un sia pur nobile accademismo manualistico e che diventa invece storia viva, corposa, persino drammatica. Lo diventa, certo, perchè per Mariani non solo la letteratura ma anche la critica è, desanctisianamente, legata alla storia civile e sociale e culturale di un popolo, riflettendone ed esprimendone le tensioni e le forze che vi operano. Ma lo diventa, soprattutto, per la passione conoscitiva con cui Mariani investe, e così alimenta e sostanzia, la sua materia.

Partecipe com’è pienamente delle inquietudini di questi anni, Mariani non ha dogmi, non ha teologie; il suo marxismo è problematico, il suo interesse per i rapporti tra l’intellettuale e la società e il mercato non diventa schema sociologico, il suo rapporto con gli autori che lo hanno formato, da Gramsci a Benjamin, da Matthiessen a Foucault, non è mai di sudditanza. C'è in lui una mancanza di certezze, di miti, di modelli cui abbandonarsi, che non lo conduce, però, alla rinuncia o allo scetticismo

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o alla negazione ma gli offre, al contrario, uno spazio di libertà su cui

muoversi per effettuare, con ogni strumento, quel viaggio conoscitivo la cui possibilità è la sola, grande certezza che sostiene il lavoro. Nulla perdendo del proprio rigore e della propria specificità, la ricerca scientifica si fa, allora, ricerca esistenziale, e le domande su Melville, sulla sua natura di “classico”, sul suo luogo nella letteratura americana, diventano domande sulla letteratura, sulla critica, ma anche sull'America, e sull'uomo. Ed è qui che il lavoro, mentre si immette nell’attuale, animato di-

battito non solo su Melville ricana, e mentre si innesta tense, anche rivela, com'era la tradizione americanistica bliografici ben più ricchi di

ma sull’intero “canone” della letteratura amecon pieno diritto nel discorso critico statunigiusto che fosse, il suo legame profondo con italiana. Mariani è provvisto di strumenti biquelli di cui potevano disporre i Pavese, i Vit-

torini, i Pintor, e cioè gli “scopritori”, durante il fascismo, di quel Nuovo

Mondo letterario diventato bandiera antifascista, “grande teatro” su cui, nelle parole famose di Pavese, si recitava “il dramma di tutti”. Non solo

c'è in lui una partecipazione al lavoro della critica americana più estesa e diretta, anche attraverso la didattica, di quella degli studiosi che lo hanno preceduto nel dopoguerra: con gli uni e con gli altri ha però in comune il “sentimento italiano”, si potrebbe dire, di quella letteratura, e in particolare di Melville, come di un terreno in cui scavare per estrarne altri signi-

ficati oltre quelli esplicitamente proposti dal testo (un “sentimento” che costituisce il carattere distintivo della critica italiana ma anche il suo maggiore, e più fecondo, contributo all’intendimento della letteratura americana). Così come il gran viaggio del Pequod non era soltanto una caccia alla balena, la “caccia ermeneutica” (per usare i termini di Glauco Cambon) della critica italiana prima a Moby Dick e poi ai racconti, a Pierre, al Confidence-Man (secondo un percorso che il libro illustra con chiarezza) non è mai stata soltanto un esercizio di critica letteraria ma è stata appunto una più vasta ricerca conoscitiva, uno strenuo tentativo di rintracciare, attraverso le opere melvilliane, il volto e il significato dell’Ame-

rica e del mondo. E questo carattere ha il libro di Giorgio Mariani, che di quella “caccia” registra le vicende e il movimento e le motivazioni con la lucidità e insieme la partecipe passione con cui Ishmael, narratore e insieme personaggio, registrava e tentava di comporre in una forma, in un libro, quella del capitano Ahab.

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Stampato dalla GRAFICA UNIVERSAL

Coordinamento lavoro CENTRO STAMPA di Meucci Roberto

Città di Castello (PG)

22. MARISA SESTITO

L'illusione perduta Saggio su John Milton 23. AA, VV.

Identità e scrittura — Studi sull’Autobiografia Nord Americana a cura di A. L. AccARDO + M. O. MaroTTI — T, TATTONI 24. ALESSANDRO CABONI Nonsense — Edward Leare la tradizione nel

25. GUIDO BULLA Il muro di vetro — Nineteen Eighty-Foure l’ultimo Onwell 26. SIMONETTA FAIOLA NERI Il romanzo giocobino in Inghilterra 27..AA. VV. Ritratto di Northrop Frye a cura di A. LOMBARDO 28. UGO RUBEO L'uomo visibile. La poesia afro-americana del 900

29. ROBERTO BARONTI MARCHIÒ

Ii futurismo in Inghilterra: tra avanguardia e classicismo

30: JANE WILKINSON Orpheus in Africa. Fragmentation and Renewal în the Work of Four African Writers 31. AA.VV, IL sogno di Acadia. Saggi sull'origine del romanzo canadese di lingua inglese a cura di A. GEBBIA 32. MARIA VALENTINI

e Pirandello 33. ODETTA TITA FARINELLA Timon ofAtkens 34. AA. VV, Un'altra America. Letteratura e cultura degli

Appalachi meridionali a cura di A.L. Accarno, €. MattIELLO, A. PORTELLI, A. SCANNAVINI 35. AA. VV.

The Artist and His Masks: William Faulkner Meiafiction a cura di A. LOMBARDO

36. PAOLA RUSSO

Il bosco delle Ninfe 37.1IGINA TATTONI The unfound door. innovative trends in Thomas Wolfe's fiction 38. STEFANIA D'AGATA D'OTTAVI Ilsogno e il libro. La ‘mise en abyme” nei poemi onirici di Chaucer 30, NGRTHROP FRYE Reflections on the canadian literary imagination

a cura di Branco Gogup 40. PAOLA CASTELLUCCI

Letteratura dell'assenza

Questo studio della critica melvilliana non si propone tanto di ricostruire la “fortuna” letteraria di Herman Melville, quanto di tracciare, rendendone conto in termini sociali ed epistemologici, secondo quale logica e in obbedienza a quali regole, si sono via via formati i principali

paradigmi di lettura dei suoi testi. L'obiettivo è quello di stabilire in base a quali metodologie, e secondo quali pratiche discorsive, si è venuta 4

costituire un'entità ideologica, biografica e letteraria di nome Melville. L'indagine, che parte dalle recensioni ottocentesche, per arrivare sino

all'odierna critica decostruzionista, si può pertanto leggere anche come un profilo di storia della critica dal punto di vista di un autore che, dopo circa cinquant'anni di oblio, è stato “riscoperto” e reinventato come uno dei geni della letteratura universale,

Giorgio Mariani è Ricercatore di Letteratura Nord-Americana presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Salerno. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca | in Studi Americani presso l’Università di Roma “La Sapienza”, ed il Ph. D, in In-

glese presso la Rutgers University del New Jersey. È autore del libro Spectacular Narratives, Representations of Class and War in Stephen Crane and the American 1890s (New York, 1992) e di saggi su Melville, Hawthorne, Ambrose Bierce, la letteratura contemporanea degli Indiani d'America, ecc., apparsi su riviste (Studi Americani, Igitur, Studies in American Fiction) e in collezioni miscella-

nee.

ISBN 88-71 19-561-2 -L. 35.000