Al termine d'una lunga marcia. Dal PCI al PDS

135 66 13MB

Italian Pages [122] Year 1990

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Al termine d'una lunga marcia. Dal PCI al PDS

Table of contents :
Pagina vuota

Citation preview

Livio Maitan Al tennine d'una lunga marcia: dal Pci al Pds:

© copyright \ 1990, coop. Erre emme e?polare veniva prospettato come unificazione di tutte le correnti di opposizione al fascismo, compresa una corrente fascista critica o supposta tale. Al Comitato centrale d1 fine ottobre del '35, Ruggero Gricco nella sua replica affennava: «Noi saremo i dirigenti del fronte papolare, se sapremo saldare - come dice Ercoli l'opposizione antifascista all'oP.�izione fascista». Veniva allora lanciata la parola d'ordine della «riconc1hazione nazionale» e di un «programma di pace, di libertà e di difesa degli interessi del popolo italiano». Ci si dichiarava disposti a combattere assieme ai fascisti critici per la realizzazione del programma fascista del 1919. In una risoluzione di fine settembre del '36, non ci si peritava di affermare che «i sindacati fascisti possono essere uno strumento di lotta contro i padroni e perciò debbono essere considerati come i sindacati operai nelle attuali condizioni italiane». Simili prese di posizione provocavano, come si può ben immaginare, vive e tenaci polemiche nell'opposi:done antifascista, con ricadute all'interno stesso del partito.

26

svolta ci si vuole richiamare per sostenere che sin da allora 1943-44 - il Pci aveva una prospettiva democratico-istituzio­ nale e non rivoluzionario-insurrezionale, l'argomento è sen. 11 . M a non ne enva z'altro pertinente d . ehe m . questo caso c1. sia stata una scelta autonoma e specifica. Di fatto, la linea applicata sempre più sistematicamente a partire dal rientro in patria di Togliatti, è stata comune a tutti i partiti comunisti dell'Europa occidentale - mutatis mutandis, non solo del­ l'Europa occidentale - e l'iniziativa era spettata sempre alla direzione sovietica e all'ormai moritura Internazionale comu­ nista 12. L'insistenza di Giorgio Amendola sul fatto che la propa­ ganda di Togliatti da Radio Mosca era orientala già prima del suo ritorno verso l'unità antifascista prova esattamente il contrario di quello che pretende di provare lo stesso Amen­ dola. Infatti, da un lato, Togliatti non era allora collegato alla direzione in Italia - praticamente inesistente in quanto orga­ nismo - e non poteva quindi essere il portavoce di una linea elaborata autonomamente dal suo partito. Dall'altro - ciò che è ancora più importante - chiunque abbia una idea anche ap­ prossimativa del funzionamento del regime sovietico agli ini­ zi degli anni '40, non può credere seriamente che i suoi diri­ genti mettessero a disposizione di un comunista straniero i mezzi necessari, nella fattispecie una potente radio trasmit­ tente, per consentirgli di esprimere le sue idee indipendente-

11 In polemiche recenti, si è preteso di cogliere una presunta incoerenza del Pci nel fatto che durante la resistenza aveva lanciato appelli all'insurrezione. L'argomento è assolutamente pretestuoso: si trattava di una insurrezione contro il fascismo e non per il rovesciamento del capitalismo, e in collaborazione con tulle le forze antifasciste. 12 Nella sua ultima risoluzione (15 maggio 1943), l'Internazionale comunista affermava, tra l'altro: «Nei paesi del blocco hitleriano, il compito fondamentale degli operai, dei lavoratori e di tutti gli onesti consiste nel contribuire alla sconfitta di questo blocco. Nei paesi della coalizione antihitleriana, il sacro dovere delle larghe masse popalari ... è di sostenere con tutti i mezzi gli sforzi militari dei governi di questt paesi».

27

mente dagli orientamenti del Cremlino. Neppure è pensabile che Togliatti rientrasse in Italia per decisione del tutto auto­ noma e delineasse al suo arrivo, di propria iniziativa, una li­ nea che, sulle prime, provocava turbamento in buona parte del �Ftito, senza che una decisione fosse stata presa in alto loco Più in generale, neppure la scelta della via nazionale al socialismo può essere rivendicata come un'espressione di originalità e di autonomia. Basti ricordare che lo stesso Sta­ lin, prima dell'inizio della guerra fredda, aveva ventilato la possibilità di vie diverse al socialismo in una conversazione con una delega7ione del Partito laburista e, poco dopo, in un incontro con il dirigente del Pc cecoslovacco Gotlwald, e che vari dirigenti di partiti comunisti se ne erano fatti eco. Va aggiunto che, dopo la formazione del Cominform nel­ l'anno 1947 e dopo le critiche da parte di Zdanov, nella riu­ nione costitutiva, al Pci e al Pcf, sospettati di cedimenti op­ portunistici, il partito si riadattava rapidamente al nuovo clima e, pur senza mutare sostanzialmente la sua politica cosa che gli stessi sovietici non avrebbero voluto - metteva la sordina sul tema delle vie nazionali al socialismo: un tema destinato ad essere rilancialo solo nove anni dopo, al Con­ gresso del '56 1 4 . Questo congresso è stato, in realtà, un'altra pietra miliare nella storia del Pci: sono i suoi testi - e non quelli degli altri tre congressi che lo avevano preceduto dopo la fine della 13 La drammatica esperien7.a della Grecia è una conferma a conJTario dell'ispirazione �enerale della linea dei partiti comunisti. Infatti, Stalin condannava esplicitamente i movimenti che si erano prodotti in quel paese e che avevano contrapposto forze partigiane e truppe britanniche. 14 Nel luglio '48 Togliatti dichiarava: «La guida non può essere che per tutti una: nel campo della dottrina è il marxismo-leninismo, nel campo delle forze reali è il paese il quale è già socialista e nel quale un partito marxista-leninista temprato da tre rivolu7ioni e da due guerre vittoriose ha la funzione dirigente». 28

guerra15 - che hanno sistematizzato la concezione della «via italiana al socialismo». Questa sistematizzazione era stata preparata da orientamenti precedenti. Ma anche in questa occasione la spinta decisiva è venuta dai dirigenti del Pcus. C'era stato infatti, nel febbraio dello stesso anno, il XX Con­ gresso, in cui Chrusciov aveva avanzato la prospettiva di un passaggio al socialismo per via pacifica, istituzionale, nei paesi capitalisti industrializzati. E' sulla scia di Chrusciov - cui Togliatti faceva esplicito riferimento nella sua rela7fone introduttiva - che venivano elaborati idee e orientamenti dell'Vlll Congresso. Più in ge­ nerale, è dopo il famoso Rapporto dello stesso Chrusciov sui crimini di Stalin e il disgelo ncll'Urss che il partito inaugura­ va, con assai cauto gradualismo e non scw.a contraddizioni, un processo di revisione critica - par7jale - dello stalinismo e del suo stesso passato. Tra la svolta di Salerno e il Congresso del '56 si era pro­ dotto un avvenimento cui abbiamo già accennato e che dove­ va pesare sulle sorti del movimento comunista: la rottura tra Mosca e la direzione jugoslava, nel giugno 1948. La direzione del Pci non esitava un solo istante: dimenticando tutto quello che aveva detto e scritto sulla Jugoslavia e su Tito, si associa­ va senza riserve alla furibonda campagna antijugoslavc!, con il ricorso ai motivi e agli epiteti classici dello stalinismo 16 • Con pari sollecitudine, quando, dopo la morte di Stalin, Chrusciov andava a Canossa riconoscendo l'errore commes15 Il primo Congresso del dopo�crra, il V, ha avuto luogo negli ultimi giorni del 1945 e nei rimi giorni del 1946; il secondo, il VI, nel 1948 e il f terzo, il VII, nel 195 . Per il carattere particolare del V Congresso efr. Archivio PieJTo Secchia, 1945-1973, Annali Feltrinelli, Milano, 1979, p. 212. 16 Chi scrive si trovava in quel momento a Vene1ja ed era in contatto con dirigenti della Federazione comunista. L'annuncio radiofonico in tarda serata della rottura dell'Urss con la Jugoslavia provocava nel partito una reazione di sgomento. Ma il mattino successivo, all'apertura della sede provinciale, il ritratto di Tito era già sparito!

29

so, si allineava di nuovo sulk: scclw di Mosca. Hca�iva allo stesso modo nel novembre '56, approvando I' inlcrvcnlo so­ vietico in Ungheria.

Prassi organizzativa stalinillna Come vedremo più avanti, il Pci ha subìlo meno profon­ damente di altri partiti comunisti il processo di stalinizzazio­ ne nel suo funzionamento organizzativo. Ma ciò non significa che non sia stato fondamentalmente staliniano anche da que­ sto punto di vista. In realtà, non ha conosciuto, per esempio, un dibattito in­ terno democratico che per un periodo .molto limitato, nei 17. s uccess1vamentc, 1o stesso . prum . . anm. de11a sua esistenza passaggio all'attività clandestina favoriva l'affermarsi di ten­ denze verticistiche con il crearsi di rigidi compartinienti sta­ gni. Sino alla fine degli anni '20, le discussioni continuavano, ma si limitavano a organismi di direzione sempre più ristretti e ricostituiti per cooptazione. Già nella battaglia contro la tendenza bordighiana, prima e dopo Lione, si faceva ricorso a misure disciplinari di stile burocratico. All'inizio degli anni '30, la crisi provocata dalle divergenze sulla svolta segnava un altro passo in avanti in senso negativo: i minoritari erano espulsi per direttissima e iniziava nei loro confronti una cam­ pagna denigratoria senza esclusione di colpi. 17 Va detto che neppure Bordiga aveva, per parte sua, una concezione molto democratica del funzionamento del partito. La sua idea era che, invece che di centralismo democratico, sarebbe stato preferibile parlare di centralismo organico. Non si trattava di una questione puramente terminologica, se Bordiga si dichiarava favorevole a «una disciplina di tipo militare». La sinistra bordighiana era, peraltro, favorevole a un massimo di centralizzazione dell'Jntemazionale.

30

All'epoca dei processi di Mosca, la campagna antitrotski­ sta era lanciata anche in Italia, dove il movimento trotskista non esisteva (i pochi militanti erano quasi tutti nell'emigra­ zione). Questa campagna si svolgeva pure nelle prigioni e al confino: coloro che non condividevano la linea del partito o anche solo certi suoi aspetti (a maggior ragione, la linea del Pcus e del Comintern), erano attaccali duramente, isolati ed espulsi con metodi sommari çil caso più clamoroso è stato quello di Umberto Terracini)1 Dopo Lione (1926), per due decenni, c'è stato un solo congresso (Colonia, 1931), in cui non si è avuto nessun dibat­ tito sulla svolta dell'anno precedente, che pure aveva portato all'espulsione di quasi la metà dell'Ufficio politico. Né va di­ menticato che il Pci ha accettato senza battere ciglio, nel 1939, lo scioglimento del suo Comitato centrale da parte del­ la direzione staliniana dell'Inlerna;donale e la creazione a Mosca di un "centro ideologico" o di "riorgani'lzazione", con la designazione di un segretario non solo senza consult­ azione, ma addirittura all'insaputa generale19. Questa misura non aveva le conseguenze tragiche di mi­ sure analoghe, o ancor più gravi, nei confronti di altri partiti comunisti, come, per esempio, il Partito comunista polacco, distrutto letteralmente. Ma non poteva che aggravare la crisi di dire:done di quel periodo; ci si può chiedere legittimamen­ te se, con una soluzione più democratica di questa crisi, il partito non avrebbe potuto affrontare in condizioni sensibil18 Secondo certe testimonianze di ex-confinati, gli cx-membri, specie negli ultimi anni, sarebbero stati trattati correttamente dai loro compagni di sventura rimasti nel partito. Non abbiamo ragione di dubitare di queste testimonianze. Ma ne esistono altre, più numerose, che vanno in senso contrario: coloro che erano usciti dal partito, o ne erano stati espulsi, erano vittime di vere e proprie campagne persecutorie. Atteggiamenti simili sono stati abbastanza diffusi anche durante la resistenza (per esempio, nei confronti dei militanti di Stella Rossa a Torino e di Bandiera Rossa a Roma). 19 Questo segretario era Giuseppe Berti.

31

mente più favorevoli la cruciale scadenza della guerra 2° . Nel­ la fase aperta dalla crisi e dalla caduta del fascismo si svilup­ pavano nel partilo vive discussioni, che però restavano stret­ tamente limitate ai gruppi dirigenti, di fatt() ai due centri di Milano e Roma, senza nessuna partecipazione dei quadri, per non parlare dei militanti di basc21• Al rientro di Togliatti, dopo il consiglio nazfonalc che aveva approvato la svolta di Salerno, la linea era imposta senza andare troppo per il sotti­ le: per riprendere le parole di priano, «era la fine di un re­ gime di più libera discussione» In seguito, si diffondeva in forme sempre più smaccate il culto di Togliatti, mentre le decisioni più importanti restava­ no riservate a un gruppo ristretto di massimi dirigenti. Quan­ do c'erano punti di vista diversi, erano discussi in questo nu­ cleo senza portarli a conoscenza non solo dei militant� ma neppure degli altri organismi di direzione. Pietro Secchia, che pure ha sempre avuto del centralismo democratico una concezione più vicina a quella staliniana che a quella leniniana, in una lettera a Togliatti del novembre del '54, ha descritto in questi termini i processi decisionali vigenti: «Dal 1945 ad oggi, molte decisioni su questioni assai importanti per l'orientamento politico del partito e per la sua azione pratica sono state prese individualmente; è accaduto anche che non si discutesse prima che fossero prese, ma che si discutesse dopo. Ed anche quando se n'è discusso prima, la discussione è stata condotta con tale rapidità e in forma tale che la personaliJà aveva il peso schiacciante e gli intciventi degli altri non servissero che a dir di sì, ad approvare la proposta». 20 Lo stesso Amendola, il cui libro è pur costantemente intriso di giustificazionismo, deve scrivere: «Il Pci giungeva alla prova della �erra in gravi condizioni di debolezza organizzativa e di confusione politica» (op. p. 369). 21 Cfr. P. Spriano, op. cit., voi. V, p. 79. 22 Op. cit., voi. V, p. 326.

cit.,

32

Sempre secondo Secchia, vari compagni avevano dichia­ rato a un certo momento che il Comitato centrale «non era che un'assemblea di attivisti convocata di tanto in tanto per 23 impartire delle direttive» • Le cose cambiavano solo molto parzialmente dopo il XX Congresso, nonostante gli accesi dibattiti, a tutti i livelli, svol­ tisi nel corso del 1956. Nello stesso periodo berlingueriano, non veniva affatto meno il funzionamento verticistico. Alcune delle prese di po­ sizione e delle decisioni cruciali di quel periodo (l'enuncia­ zione del compromesso storico prima e poi l'abbandono del­ la politica di unità nazionale) erano prese senza discussione preliminare nella stessa direzione e a maggior ragione nel 24 Comitato centrale • In realtà, le vecchie concezioni e i vecchi metodi non sa­ ranno abbandonati che negli anni '80. Ciò non comportava, tuttavia, una reale democratizzazione, bensl piuttosto la so­ stituzione dei metodi staliniani e post-staliniani con metodi più tipici di partiti socialdemocratici.

23 Archivio Pietro Secchia, 1945-1973, Feltrinelli, 1978, P· 673. Un giudizio sostanzialmente analogo, anche se espresso in termini piu vellutati, � quello di Pietro lngrao, in Le cose impossibili, F.ditori Riuniti, Roma 1990, p. 76. 24 Luciano Lama ha affermato che, pur essendo membro della dtrczione del partito, aveva letto su Rinascila le tesi di Berlinguer sul compromesso storico e appreso da l'Unirà che si passava alla litica di alternativa r democratica (lnJervis1asulpani10, Laterza, Bari, 1982. 33

3. DA LIVORNO ALLA SOCIALDEMOCRAZIA

Le contraddizioni dei partiti staliniani Abbiamo accennato all'importanza del Congresso del '56 nell'evoluzione del Partito comunista. Cerchiamo ora di sin­ tetizzare questa evoluzione da un punto di vista più generale. Il Pci rappresenta il caso-limite di un fenomeno politico di cui era difficile intuire la possibilità sino alfa metà degli anni '50: la trasformazione di un partito sorto come partito rivolu­ zionario in rottura con il riformismo e divenuto poi un parti­ to staliniano, in un partito neoriformista di tipo socialdemo­ 1 cratico . Ritorniamo innanzitutto sulla nozione di partito stalinia­ no. Negli anni '30 e '40 i partiti comunisti staliniani hanno sviluppato una specifica ideologia, cioè una loro concezione della società socialista e dei suoi tratti distintivi, come pure una loro concezione del partito e del suo funzionamento, dei rapporti tra partito e organizzazioni di massa, del ruolo della cultura, ecc. Questa ideologia ha subito periodicamente mu­ tamenti e riadattamenti. Ma ciò che ha caratterizzato fonda1 Per la precisione, Trotsky aveva indicato la tendenza dei partiti comunisti a trasformarsi in partiti comunisti nazionali, riformisti o neoriformisti, già alla vigilia della guerra, in particolare in un articolo scritto dopo gli accordi di Monaco (dr. L Trotsky, Guerra e rivoluzione, Mondadori, Milano, 1973, pp. 3840).

34

mentalmente questi partiti non è stata tanto un'ideologia quanto l'accettazione del ruolo egemonico dell'Urss, "patria del socialismo", del suo partito unico e del suo capo incon­ testato. In altri termini, è stata la subordinazione - tramite il 2 Comintern sinché è esistito e poi con altri meccanismi - de­ gli interessi e dei bisogni del movimento operaio dei singoli paesi agli interessi e alle esigenze dello Stato sovietico, con­ cretamente della sua casta dominante. E' a causa di questa subordinazione che hanno cessato di essere dei partiti rivoluzionari nel senso più preciso del ter­ mine. Hanno, tuttavia, mantenuto una differenziazione gene­ tica rispetto ai partiti riformisti di tipo socialdemocratico, la cui deformazione opportunistica e burocratica era stata de­ terminata essenzialmente dai condi7fonamenti economici, sociali e politici derivanti dal loro inserimento nel quadro e nei meccanismi istituzionali della società capitalistica. Sintetizzati questi elementi di caratterizzazione, va im­ mediatamente aggiunto che gli interessi e le esigenze della burocrazia sovietica non potevano essere la componente esclusiva della politica di un partito comunista, quanto meno di un partito che avesse superato le dimensioni del gruppo di propaganda stabilendo legami reali con strati sociali e movi­ menti di massa. Entravano in a7jone due altri fattori: la ne­ cessità di tener conto, per l'appunto, dei bisogni dei movi­ menti in cui si era inseriti, e gli interessi dei gruppi dirigenti e degli apparati nazionali non necessariamente coincidenti con quelli dello Stato e del partito sovietico. A seconda delle fasi, i tre fattori agivano e si combinavano in misura diversa.

2 Riferendosi al periodo successivo allo scio�limento del Cominform, Luigi Longo ha scntto: «Il Pc dell'Urss restava Il punto di riferimento, la "gerarchia" da rispettare anche nella nuova dinamica del movimento comunista. Da questo punto di vista, la logica della Tena internazionale soprawissc (ed ebbe nel 1948 una sua nuova e particolare esplicitazione nell'Ufficio d'informazioni), condizionando il comportamento di tutti o quasi i partiti comunisti» (Opinioni sulla Cina, Milano, 1977).

35

Nel caso del Pci, questa diversità può essere colta con maggiore evidenza. Negli anni '30, il primo fattore era di gran lunga prevalente, da tutti i punti di vista (aiuti materiali, fo17.a derivante al partito dal fatto di apparire come il rap­ presentante di un movimento mondiale guidato dal primo Stato "socialista" della storia, ecc.). Ma, a partire dal momen­ to in cui ha cominciato a crescere, ad acquistare una consi­ stente base di massa per divenire poi organizzazione egemo­ nica nel movimento operaio, il peso degli altri due fattori aumentava progressivamente. Il punto di svolta era rappresentato dagli avvenimenti del '56: da allora, gli interessi "nazionali" tendevano a prevalere sui condizionamenti internazionali, anche se il legame con l'Urss non era affatto spezzato (lo sarà completamente solo oltre vent'anni dopo). Anche quando Stalin è morto e sepol­ to e ben pochi si azzardano ormai a prendere le difese dello stalinismo, quando l'Urss non appare più come un modello di socialismo e la sua direzione è contestata dai gruppi diri­ genti burocratici di altri paesi, oltre che da forLe rivoluziona­ rie, il cordone ombelicale è mantenuto perché il riferimento ai "paesi socialisti" e al "movimento comunista" \>uò essere valorizzato come un elemento di forza del partito . Quando, però, la politica di Mosca rischia di avere gravi conseguenze negative per la sua stessa battaglia - come accade con l'inva­ sione della Cecoslovacchia o con l' intervento nell' Afghani­ stan-, il Pci non esita a prendere le distanze con dichiarazio­ ni di esplicita condanna. In realtà, la contraddizione fondamentale, intrinseca, dei partiti staliniani - e del Pci tra di essi - è esistita sin dalla se3 Ancora nel 1968 si poteva le�ere in una relazione di Enrico Berlinguer: «Nlti siamo e resteremo un �rt1to internazionalista; siamo e resteremo in un movimento nel quale c'e l'Unione Sovietica, altri paesi socialisti, nel u quale c'è Cba, c'è il Vietnam e vogliamo mantenere aperta la prospettiva con la Cina».

36

conda metà degli anni '20 e ancor più dall'inizio degli anni '30: dovevano subire il condizionamento determinante della direzione dell'Urss tramite l'Internazionale burocratizzata, ma, se volevano agire effettivamente e costruirsi non poteva­ no fare astrazione dal loro contesto nazionale. Per tutto un periodo, la contraddizione è stata più potenziale che attuale ed era difficile individuarla o coglierne tutta la portata; que­ sto tanto più che, quando già operava direttamente, come nel caso della Cina, le parti in causa erano interessate a non farla emergere alla superficie e a nasconderla dietro rituali fomm­ le politico-ideologiche ben ben poco corrispondenti alla pra­ 4 tica reale • Solo dopo l'aperta esplosione della crisi dello stalinismo e le vicende degli anni '50 e '60, sulla base delle testimonianze di protagonisti ancora in vita o di studi storici, si è venuti a conoscenza di quello che prima poteva essere tutt'al più in­ tuito, cioè che la contraddizione aveva agito sin dall'inizio provocando conflitti e lacerazioni, al di là delle proclamazio­ ni unanimistiche. Il 1956, sia per la portata effettiva degli avvenimenti sia per il suo valore simbolico, segna uno spartiacque. In parti­ colare per il Pci, la contraddizione si configura ormai in ter­ mini diversi: è la contraddizione di un partito che non è più da decenni un partito rivoluzionario e cessa di essere un par­ tito classicamente staliniano, ma non è un partito socialde­ mocratico, continua a rifiutare esplicitamente di essere defi­ nito tale e non può agire coerentemente come riformista nel contesto di una società in cui pure ha acquisito un peso spe­ cifico notevole. Qui va colta, in ultima analisi, la ragione del4 L'esempio più pertinente è quello della Cina degli anni '30, quando la direzione maoista ha applicato una linea sensibilmente diversa da quella degli altri partiti comunisti e agito indipendentemente dal Comintem, pur senza differenziarsi ideologicamente e senza mai esprimere pubbicamente il minimo dissenso (anzi, participando all'esaltazione di Stalin e dcli' Urss, patria del socialismo).

37

la sua incapacità di realizzare gli obiettivi strategici che si era prefissati e di sormontare gli ostacoli che le classi dominanti continuano a frapporre alla sua assunzione a forza di govers no. La nuova fase è contraddistinta da sviluppi diversi e in parte contrastanti, su cui non possiamo dilungarci. Basti indi­ care il comune filo conduttore: ormai, la politica del Pci non è più condizionata - se non parzialmente o indirettamente dalla politica dell'Urss e del cosiddetto movimento comuni­ sta, peraltro in via di progressivo sfaldamento, ma fondamen­ talmente da fattori nazionali. A ciò contribuisce il declino del prestigio dell'Urss e del "mondo socialista" e della loro forza d'attrazione, per non parlare del crollo irrimediabile del mito staliniano. Ma l'essenziale non è questo.

Origini e fasi di una socia/democratizzazione Il riformismo socialdemocratico tradizionale si era svilup­ pato soprattutto nel decennio, o nei decenni, prima della guerra mondiale 1914-18, che avevano segnato nell'Europa occidentale e centrale una crescita economica e una relativa stabilità delle istituzioni democratico-borghesi. In tale conte­ sto - in cui non si producevano crisi rivoluzionarie o prerivo­ luzionarie, nonostante l'esplodere a volte di aspri conflitti so­ ciali e politici - era logico che il movimento operaio puntasse

S Per queste analisi e valutazioni, ci permettiamo di rinviare al nostro libro Teoria e politica comunista nel dopofJUerra, Schwan, Milano, 1959, ripreso e sviluppato in Pci: JY45-1969: stalinismo e opponunismo, Samonà e Savelli, Roma, 1969. C'.ontrariamente ad analisi sviluppate successivamente, scrivevamo allora: «il Pci non può né potrà essere un partito riformista». L'ipotesi non si è rivelata giusta, crediamo, soprattutto per la diversa evoluzione del contesto internazionale.

38

sul conseguimento di conquiste parziali ( economiche, sociali e politiche). Proprio i successi, anche limitati, su questo ter­ reno erano alla base dello sviluppo dei partiti socialisti, dei sindacati e di altre organizzazioni di massa. Ma si innestava contemporaneamente, per usare una ter­ minologia peculiare del marxismo rivoluzionario, una dialet­ tica delle conquiste par;,iali. Nella misura in cui strati sempre più larghi di classi sfruttate, gra;,je alle loro lotte e alla loro organizzazioni, ottenevano non trascurabili miglioramenti delle loro condizioni di vita e una serie di diritti democratici, si preoccupavano di non mettere a repentaglio quello che avevano acquisito e tendevano, quindi, più o meno consape­ volmente, a subordinare alla difesa e ampliamento delle con­ quiste parziali la prospettiva di una lolla rivoluzionaria per il rovesciamento del capitalismo. Soprattutto questa era la base oggettiva dello sviluppo del riformismo e la ragione della sua influenza persistente, nono­ stante le sconfitte catastrofiche subite in momenti cruciali dai partiti che vi si ispiravano. L'Italia del secondo dopoguerra, dopo il primo difficile periodo di ricostruzione, ha conosciuto un boom economico prolungato senza precedenti nella sua storia e un processo di modernizzazione che, nelle forme in cui si è realizzato, non era stato previsto da nessuno. Questa crescita avveniva in un contesto di relativa stabilità politica e nel quadro di istituzio­ ni parlamentari più avanzale non solo di quelle dell'Italia prefascista, ma anche di quelle di altri paesi dell'Europa oc­ cidcntale6. In linea generale, pur mantenendo certe sue spe­ cificità - in primo luogo, quella del Mezzogiorno - la società 6 Non condividiamo certo le esaltazioni acritiche della Costituzione del '47, ma è indubbio che, sul piano della democrazia capitalistica, è, con quella tedesca di Weimar del 1919, tra le più avanzate. Nell'Italia del dopoguerra, in linea di principio, i diritti democratici, in primo luogo elettorali, sono stati garantiti piu e non meno che altrove.

39

italiana diveniva sempre più omqgenea al resto dell'Europa capitalistica, checché ne pensino tutti coloro che della sua presunta arretratezza hanno fatto, e magari continuano a fa­ re, un cavallo di battaglia, sia sul piano delle analisi sia su quello della strategia politica. Grazie al conseguente rafforzamento del peso specifico sociale della classe operaia e, più in generale, dei lavoratori dipendenti, si creavano così le condizioni di lotte operaie e popolari per rivendicazioni economiche importanti e non meno importanti diritti democratici. Di fatto, lotte a diversi livelli si sviluppavano pressoché senza interruzioni e, non di rado, con concreti risultati; d'altra parte, i partiti operai, e in primo luogo il Partito comunista, conquistavano solide posi­ zioni nelle istituzioni, divenendo forza di governo in numero notevole di città, di province e anche di regioni. Tale conte­ sto si è prolungato per decenni e non è stato modificato so­ stanzialmente neppure dalla crisi sociale e politica della fine degli anni '60 e degli inizi degli anni '70. Constatazione che va sottolineata: si tratta di un arco di tempo assai più ampio di quello in cui avevano agito i partiti riformisti prima del '14, per non parlare del periodo tra le due guerre. E' perfettamente spiegabile, dunque, che un partito che ormai dalla metà degli anni '30 aveva rinunciato a ogni pro­ spettiva e strategia rivoluzionaria e non dava più da tempo ai suoi quadri e ancor meno ai suoi militanti la formazione che aveva dato loro agli inizi, che considerava la Costituzione re­ pubblicana come il quadro necessario e sufficiente della transizione al socialismo e prospettava questa transizione per "approssimazioni successive", fosse portato ad agire sempre di più come un partito riformista, diventando alla fine un partito di tipo socialdemocratico.

40

Non ripercorriamo qui tutte le fasi di un processo che, prima di giungere a conclusione, si è sviluppato per oltre tre decenni7. Ci limitiamo ad abbozzare sinteticamente una periodizza­ zione (che, come tutte le periodizzazioni, comporta inevita­ bilmente elementi di arbitrarietà e di schematismo) : I) Una fase che va dal XX Congresso all'agosto 1968. E' la fase in cui viene avanzata, sia pure in forma parziale e non senza gravi reticenze, una critica dello stalinismo e si tenta di definire i contorni di una democrazia socialista presentata come obiettivo finale. Il legarne con l'Urss sussiste e non so­ no affatto scomparse tendenze giustificazionistiche. Ma nel­ l' agosto 1968, quando le truppe del Patto di Varsavia pongo­ no fine alla primavera di Praga, che il Pci aveva accolto con favore, c'è per la prima volta una condanna aperta. Il) Una fase che potremmo definire berlingucriana, dall'i­ nizio degli anni '70 alla "strappo" seguilo al colpo di Stato del generale JarU7..elski. Il partito prende definitivamente le di­ stanze dall'Urss e dai "paesi socialisti", dopo aver riconosciu­ to esplicitamente l'appartenenza dcli' Italia alla Nato. Lo fa per rendere credibile, sul piano interno, prima il progetto di compromesso storico e successivamente la politica di unità nazionale e di alternativa democratica e, sul piano interna­ zionale, il progetto eurocomunista. Il motivo conduttore, da un punto di vista teorico, è quello della terza via o della terza fase, con uno sforzo persistente di differenziazione, su que­ sto terreno, dalla socialdemocrazia. III) La fase di cui sono simbolo due congressi post- ber­ lingueriani, il XVII e il XVIII, che prendono atto del falli­ mento del progetto eurocomunista, peraltro verificatosi già prima che si esaurisse la fase precedente, e rinunciano alla 7 Lo abbiamo fatto, per parte nostra, oltre che in volumi già citati, in Destino di IrockiJ; Rizzoli, Milano, 1979.

41

terza via e a ogni differenzia:àone strategica rispetto alle so­ cialdemocrazie (in primo luogo, rispetto a quelle che si por­ tano ad esempio come interlocutrici privilegiate). Il Pci si proclama "parte integrante della sinistra europea", cercando di stabilire una collaborazione con la stessa Internazionale socialista (la Fgci, per parte sua, entra a titolo consultivo nel­ 8 l'Internazionale giovanile socialista} . Non è forse superfluo richiamare a questo punto i tratti distintivi dei più tipici partiti socialdemocratici: - una concezione gradualistica della transizione verso una nuova società (sinché questa prospetliva finale viene mante­ nuta); - una concezione metastorica della democrazia (la demo­ crazia come valore universale permanente, al di là delle for­ me storiche concrete di società) e un'accetta:donc, in pratica e in teoria, del quadro esistente delle democrazie parlamen­ tari o presidenziali capitalistiche; - una strategia di conquiste parziali da conseguire combi8 Dirigenti del Pci si sono preoccupati a più riprese di definire la differenza tra Pci e partiti socialdemocratici. Il p,ù delle volte si è trattato di definizioni mutevoli e del tutto pari.iali, se non fittizie. Nel settembre 1978 Berlinguer ha affermato che «il trailo comune delle socialdemocrazie resta che rinunciano a lottare per uscire dal capitalismo e per trasformare le basi della società in senso socialista» e circa due anni dopo, in una intervista a Repub/llica ha spiegedto che «i socialdemocratici si sono preoccupati molto degli operai, dei lavoratori organi7Zati nei sindacati, ma poco o nulla dei marginali, dei sottoproletari e delle donne». Quanto alla ter,.a via e alla terza fase, ecco come lo stesso Bcrlinguer ne ha illustrdto la differenza nel gennaio 1982: «Tera via è una specifica posizione in rapporto ai modelli di tipo sovietico da una parte e alle esperienze di tipo socialdemocratico dall'altra. La formulazione tena fase si riferisce, invece, all'esperienza storica e, dunque, alle due precedenti fasi di sviluppo conosciuto e attraversato dal movimento operaio europeo. E' però evidente che la ricerca della terza via non sarebbe possibile se non ci fosse una terza fase e se noi non ritenessimo possibile avanzare su di essa». Dove si vede come si possa dare l'impressione di un lullo coerente combinando a una prima una seconda escogitazione.

42

nando azione parlamentare e azione delle organizzazioni di massa e privilegiando la prima rispetto alla seconda; - una prospelliva di razionalizzazione e "democratizzazio­ ne" della società esistente; - una prospettiva di trasformazione dei rapporti interna­ zionali, soprattutto tramite le organizzazioni esistenti (tra le due guerre, la Società delle nazioni e, attualmente, le Nazioni unite), allo scopo di ridurre gli armamenti e garantire la pa­ ce, senza per questo mettere in discussione gli orientamenti di fondo della politica estera dei rispettivi paesi; - una concezione di costruzione e consolidamento del movimento operaio in funzione del peso nelle istituzioni e in convergenza con l'azione di sindacati impegnati nella coge­ stione e di cooperative rispettose dei meccanismi del siste­ ma; - una concezione per cui il partilo funziona sempre di più come uno strumento elettorale e le scelte del movimento operaio sono decise non tanto dai militanti organizzati quan­ to dai vari centri o gruppi di pressione (gruppi parlamentar� amministra7foni locali, gruppi dirigenti dei sindacati e delle cooperative, intellettuali organizzatori della cultura ecc.). I partili socialdemocratici hanno stabilito e mantenuto tradizionalmente legami molteplici con vasti strati della so­ cietà. Ma la loro debolezza intrinseca è consistita nel fatto che la rappresentanza di questi strati è stata esercitata setto­ rialmentc e par.lialmente, nei casi peggiori in forme addirit­ tura corporative. Questa è la conseguenza di un'ottica di adattamento alla società esistente e di abbandono di ogni impostazione antica­ pitalistica. Proprio per qucslo, se le socialdemocrazie hanno avuto e hanno tuttora un peso considerevole e un ruolo ege­ monico in molti paesi dell'Europa capitalistica, se hanno svolto un'innegabile fumfone nella conduzione di battaglie che hanno consentito loro di strappare conquiste parL.iali a 43

vantaggio delle forre sociali su cui si appoggiano, banno avu­ to la responsabilità di sconfitte decisive di queste stesse for­ ze. Già alla metà degli anni '60 era chiaro che il Pci operava sempre di più come un partito neorifonnistic, inserito nel quadro istituzionale, con una prospettiva prevalentemente elettorale, e puntava essenzialmente sul rafforzamento di strumenti tradizionali come le amministrazioni locali, i sinda­ cati e le cooperative. Era nella logica di una simile evoluzio­ ne che la percentuale degli iscritti si restringesse rispetto a quella degli elettori; che l'adesione non comportasse un co­ stante impegno militante, ma solo una partecipazione limita­ ta a certe occasioni; che il peso degli elementi piccolo-bor­ ghesi e degli intellettuali soverchiasse quello degli operai e degli altri iscritti di estrazione popolare; che l'attività nelle. fabbriche non andasse . al di là delle campagne elettorali o dell'appoggio a certe lotte sindacali; che i giovani costituisse­ ro una componente sempre più marginale, in una organizza­ zione priva di ogni carica ideale in senso anche solo generi­ camente rivoluzionario. A maggior ragione, questo identikit da partito socialdemocratico è applicabile al Pci della fine degli anni '70 e della prima metà degli anni '80.

Un paradosso storico Questa trasformazione, di cui abbiamo indicato le radici strutturali, al di là delle scelte soggettive dei gruppi dirigenti, va situata più concretamente in un evolvere della situazione nazionale e internazionale che, per molti aspetti, non era fa­ cile ipotizzare non solo alla fine della guerra, ma neppure al­ la fine degli anni '50. 44

Da un lato, infatti, il sistema capitalistico mondiale - gra­ zie anche al fatto che le organimmoni operaie più forti ri­ nunciavano a contestarlo e gli consentivano di superare in­ denne i momenti critici (come la crisi dell'immediato dopoguerra e quella del 1968-75) - riusciva prima ad acqui­ stare un nuovo dinamismo con l'onda lunga ascendente di circa un quarto di secolo, poi a vincere in larga misura la bat­ taglia delle ristrutturazioni nella prima metà degli anni '80, assicurando cosi una relativa stabilità istituzionale ai paesi industrializzati dell'Europa occidentale e dell'America del Nord, oltre che al Giappone. Dall'altro, le società di transizione burocratizzate, incapa­ ci di introdurre riforme sostanziali, entravano in una fase in cui le loro direzioni diventavano un freno assoluto e non più relativo alla crescita e all'orgauinazioue delle forze produtti­ ve e le loro istituzioni erano in rotta di collisione con i biso­ gni e le aspirazioni di strati crescenti della società, motivo per cui si avviavano rapidamente verso un catastrofico decli­ no. Tutto questo non poteva non avere profonde ripercussio­ ni sull'azione e sulla presa di coscienza della stessa classe la­ voratrice e sulle sue organimmoni politiche e sindacali, so­ prattutto se si tiene conto che le controtendenze non riuscivano, tranne che per bi:cvi periodi e anche allora par­ zialmente, ad affermarsi e a consolidarsi (il rapido declino delle formazioni di estrema sinistra degli anni '60 e '70 era un riflesso di questo limite). E non poteva che rafforzare la ten­ denza del Pci ad avvicinarsi e poi a identificarsi alle socialde­ mocrazie, tendenza la cui prima origine - lo abbiamo visto risaliva alla svolta del 1935. Ma, se vogliamo usare questa espressione, il paradosso storico consiste nel fatto che il Partito comunista si trasforma in un partito di tipo socialdemocratico in un'epoca in cui le più grosse e rappresentative socialdemocrazie sono cosa ben

45

diversa da quello che erano state al loro apogeo. Partiti so­ cialdemocratici "storici" - anche se troppi tendono oggi a ignorarlo o a dimenticarlo - avevano già assolto un ruolo di salvatori del sistema capitalistico in momenti critici del pri­ mo dopoguerra e, tra le due guerre, per riprendere l'espres­ sione del Léon Blum del fronte popolare, avevano gestito le­ almente il capitalismo come ministri e capi del governo. Ma la novità degli ultimi decenni, anticipata, per ragioni specifiche, dalla socialdemocrazia s\l'edese, è che partiti so­ cialdemocratici hanno assunto la direzione di paesi capitali­ stici per periodi prolungati e, in certi casi, sono divenuti ad­ dirittura lo strumento principale di gestione del sistema. E' il caso dello Stato spagnolo, dove dall'inizio degli anni '80 la borghesia non è stata in grado di esprimere un proprio parti­ to egemone e si è affidata, non a torto dal suo punto di vista, al Psoe di Felipe Gonzalez, e, in misura diversa, della Fran­ cia, diretta da dieci anni da un presidente socialista. Si è avuto così, in primo luogo, un mutamento della stessa composizione sociale di questi partiti: sono ancora in grande maggioranza lavoratori salariati i loro elettori, ma non i loro iscritti e ancora meno i loro quadri, e i loro gruppi dirigenti sono in stragrande maggioranza di origine piccolo-borghese, se non addirittura borghese. In secondo luogo - cosa ancora m - questi partiti si sono invischiati sempre più più iportante inestricabilmente negli apparati statali e amministrativi co­ me pure negli organismi economici, pubblici e privati (non è affatto vero che questa sia una prerogativa solo del Psi cra­ xiano). Così la loro contraddizione principale si è venuta configu­ rando in termini diversi: da una lato, se non vogliono smarri­ re completamente la loro identità e perdere la loro base so­ ciale - o più volgarmente la loro clientela elettorale - non possono ignorare del tutto gli interessi e le rivendicazioni della classe operaia, di altri strati popolari e di settori picco46

lo-borghesi colpiti, direttamente o indirettamente, dall'onda lunga di ristagno; dall'altro, come gerenti del potere o candi­ dati "responsabili" a questa gestione, accettano un quadro di compatibilità sempre più rigido, impegnandosi a imporre ai loro stessi elettori il fardello delle politiche di costanti ri­ strutturazioni, di forsennate centralizzazioni e concentrazioni e di austerità (naturalmente a senso unico). Il Pci non è ancora investito in pieno da questa contraddi­ zione per il fatto stesso di essere stato escluso dal governo dall'ormai lontano 1947. La sua contraddizione è consistita nel fatto di avere avanzato per decenni una sua prospettiva riformista senza essere in grado di tradurla in pratica (e la sciando al Psi la possibilità di apparire più concreto, appunto perché giudicato maggiormente in grado di ottenere qualche sia pur modesta misura riformista). Ma ha cominciato a pagare a sua volta il prezzo della sua impostazione soprattutto al momento dell'unità nazionale, quando ha appoggiato governi democristiani e si è assunto, in prima persona o tramite i suoi esponenti sindacali, un ruo­ lo di freno delle lotte, facendo propria la politica di austerità. Dopo l'abbandono dell'unità nazionale, non ha mutato quali­ tativamente il suo atteggiamento, nella misura in cui vuole apparire come candidato credibile alla gestione del governo, disposto a rispettare compatibilità - e incompatibilità - del regime esistente. In questo senso, è investito a sua volta dalla contraddizione tipica della socialdemocrazia contempora­ nea, smarrendo, ancor più dei socialdemocratici, la propria identità. E' in questo contesto che, sotto l'impatto degli aweni­ menti internazionali del 1989, Achille Occhetto si è lanciato nel suo giuoco d'azzardo, aprendo la crisi più grave della lunga storia del partito.

47

4. ERANO POSSIBILI SCELTE ALTERNATIVE?

In un momento critico per il futuro dell'attuale partito co­ munista e, più in generale, del movimento operaio, ci si può porr8 legittimamente la domanda: le scelte che sono state fatte, nazionalmente e internazionalmente, nel corso di set­ tant'anni, erano le uniche possibili, oppure se ne sarebbero potute fare delle altre ottenendo risultati ben diversi? Diciamo subito che non acccettiamo la classica obiezione: la storia non si fa coi "se" e riscriverla sulla base di ipotesi non verificabili è un'operazione perfettamente oziosa. Dal punto di vista politico, accettare che tutto quello che è acca­ duto dovesse inevitabilmente accadere significa aderire a una sorta di fatalismo giustificazionistico e precludersi ogni pos­ sibiltà di riflessione critica e autocritica. Ma l'obiezione non regge neppure dal punto di vista storico. E' sin tropo ovvio che una ricostruzione storica deve pre­ occuparsi soprattutto di cogliere gli avvenimenti nella loro intima connessione, di spiegarne la genesi e di individuarne la dinamica. Ma questo non significa ignorare che, in situa­ zioni date, esistono sviluppi possibili diversi, diverse poten­ zialità, di cui una ricostruzione esauriente non può non tene­ re conto se si vogliono analizzare le situazioni in tutti i loro aspetti e, ancor più, valutare protagonisti il cui agire non era meccanicisticamente predeterminato. Questo problema di metodo si è posto per quanto riguar­ da l'evoluzione dell'Unione Sovietica a partire dalla metà de48

gli anni '20 e per l'insieme del movimento internazionale co­ munista. Noi abbiamo sempre rifiutato, partendo da indica­ zioni analitiche concrete e con concrete argomentazioni, l'i­ dea secondo cui la burocratizzazione era inevitabile, da cui può logicamente discendere una giustificazione dello stalini1 smo .

Respingiamo egualmente una interpretazione analoga nel caso specifico del Pci e, più in generale, del movimento ope­ raio italiano. Notiamo che dirigenti di questo partito hanno ventilato a più riprese l'ipotesi di un corso diverso degli avvenimenti, qualora scelte diverse fossero state fatte da parte di forze che vi erano coinvolte. Per es., nella sua Intervista sull'antifosci­ smo2, Giorgio Amendola, riferendosi alla situazione alla vigi­ lia dell'avvento del fascismo, non si è peritato di affermare: «Se le forze del movimento operaio avessero avuto la capacità di fare una politica di unità con le forze democratiche; se avessero favorito la formazione di un governo Nitti, è evidente che si poteva fare qualche altra cosa» (p. 47).

Secondo esempio: parlando delle possibilità esistenti alla fine della guerra e in particolare della politica di De Gasperi, Togliatti ha scritto: «La grande borghesia possidente, lasciata a sé non poteva ricostruire se non in quel modo, perché questo corrispondeva alla sua natura di cla_rse. Ma era possibile ottenere che si procedesse in · modo diverso?» .

La risposta è che era possibile che una parte importante delle classi dominanti si alleasse con i partiti operai e impe­ disse alla grande borghesia di fare il buono e il cattivo tempo. 1 Per quanto ci riguarda, abbiamo affrontato questa tematica in varie introduzioni a edizioni italiane delle opere di Trotsky, oltre che, per esempio, in Trorsky, oggi, Einaudi, Torino, 1958 e in Destino di Trockij, cit. 2 Laterza, Bari, 1976. 3 Rinascita, ottobre 1955.

49

Non aver fatto questa scelta è stato, secondo Togliatti, l'erro­ re di De Gasperi. Tale motivo era stato avanzato già nell'a­ gosto del '46 in un articolo, già citato e su cui ritorneremo, nel quale si parlava di due «prospettive possibili» della poli­ tica di blocco antifascista4. Ancor più interessante è ricordare che la linea definita dal gruppo dirigente comunista è stata contestata in varie oc­ casioni e a vari livelli e che sono state proposte o abbozzate scelte diverse, anche se non diametralmente opposte. Non ritorneremo qui su episodi noti e già richiamati co­ me le opposizioni e le resistenze manifestatesi al momento della svolta del 1929-30, che avevano coinvolto non solo tre membri dell'Ufficio politico - Pietro Tresso, Alfonso Leonet­ ti e Paolo Ravazzoli - ma lo stesso Antonio Gramsci e altri dirigenti, allora nelle carceri fasciste, come Umberto Terra­ cini. Critiche e opposizioni vi sono state anche in seguilo al Patto russo-tedescco del '39, che aveva creato il più profon­ do smarrimento nelle file del partito. Terracini aveva assunto di nuovo una posizione critica, che gli era costata - parados­ salmente quando l'Urss era già stata attaccata dai nazisti l'espulsione dal partito. Più pertinente, nel quadro di questo saggio, ci sembra un richiamo alle resistenze, alle critiche e alle vere e proprie op­ posizioni emerse tra il 1943 e il 1945 e, per certi aspetti, nel periodo successivo. 4 Al metodo di giudicare l'opera di protagonisti tenendo conto di alternative possibili, fa ricorso anche Giulio Andreotti a proposito di Dc Gaspcri: «Se fosse mancata allora una collabora7ione tra Dc e Pci possiamo dire che l'Italia avrebbe avuto o un dominio di quest'ultimo o il protrarsi per almeno un decennio dell'occupazione militare» (De Gasperi e il suo tempo, Milano, 1956).

50

L'unità antifascùta: riserve e opposizioni La politica di unità antifascista aveva sollevato obiezioni e rigetti già prima del 25 luglio5 . La stessa politica di collabo­ razione con gli altri partiti nei Comitati di liberazione nazio­ nale (Cln) durante la resistenza non è stata accettata senza opposizioni ed è stata oggetto di diverse interpretazioni. Ciò avveniva non solo tra militanti di base, vecchi e nuovi, ma al­ lo stesso livello di direzione, con una differenziazione tra il nucleo installato nel Centro-Sud e il nucleo del Nord, più di­ rettamente legato alla resistenza e al movimento partigiano. Amendola cerca di individuare un comune denominatore di questi atteggiamenti, indicando una sorta di «sovrapposi­ zione, non criticamente meditata, della linea di unità nazio­ nale elaborata dall'Ic a partire dal VII Congresso sulla vec­ chia visione di un'azione diretta per l'instaurazione della dittatura del proletariato»6 . L'osserv.uione ci sembra sostan­ zialmente giusta, come è giusta la valuta7ione delle differen­ ziazioni a proposito del ruolo dei Cln All'impostazione di chi accettava una limitazione di que­ sto ruolo all'elaborazione e all'applicazione di una politica comune a tutti i partiti che vi appartenevano, si contrappone­ va l'idea che bisognava puntare sulla presenza determinante nei Cln stessi delle organi7..zazioni di massa o espresse dalla base, con lo scopo di «assicurare una reale egemonia della classe operaia». 5

Per resistenze alla base, si veda quanto scrive, per esempio, P. Spriano

(op. ciL, voi. IV, p. 225). Lo stesso autore riferisce di reticenze o critiche

aperte alla prospettiva di collaborazione nazionale, in particolare a proposito di un messaggio radiofonico di Togliatti (op. cit, voi. V, pp. 121-123 e 133-131). In certe regioni meridionali, non pochi militanti avevano considerato un tradimento la nuova linea del partito (v. intervento di Velio Spano al V Congresso). 6 G. Arnendola, Lettere a MilaTUJ, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 109.

51

«Spinta alle sue estreme conseguenze - scrive Amendola - questa linea, pur giusta nelle sue premesse democratiche, portava tuttavia alla rottura dei an, e a una contrapposizione col governo di Roma e con gli alleati. Era una linea che si muoveva nella direzione indicata dagli Jugoslavi. E l'esempio jugoslavo era motivo ricorrente di discussione fra di noi» (pp. 340-341).

Per parte sua, Spriano parla di una linea Longo-Secchia, secondo cui si sarebbe dovuto «fare dei Cln organismi di po­ tere operaio», «accentuarne le caratteristiche democratiche e trasfromare il criterio di rappresentanza paritetica in quel­ lo della rappresentanza sulla base di una direzione effettiva delle masse». Lo scopo doveva essere, in ultima analisi, «la presa del potere» da parte della resistenza prima dell'arrivo degli eserciti alleati. Ciò sarebbe stato decisivo per l'indirizzo politico e lo sviluppo futuro del popolo italiano»7• Correnti o sensibilità di opposizione alla linea di unità ao­ tisfascista e di collaborazione con i partili della borghesia so­ no emerse a più riprese nel Partito socialista8 . Prima dei 45 giorni era esistito addirittura un movimento separato, il Mup9, in cui avevano una parte preminente uomini come Le7 P. Spriano, op. ciL, voi. V, pp. 372-373. 8 E' sotto l'influenza di elementi di sinistra che il Psiup ai primi di ottobre del '43 si pronunciava contro la collaborazione con i partili borghesi e per un «saldo blocco di forze incrollabilmente repubblicane» e criticava i «compromessi collaborazionistici e patriottardi del Pci». 9 In un articolo del primo agosto '43 Basso definiva in questi termini la concezione del Mup sul partito nuovo da costruire: «I) essere libero dal peso delle vecchie tradizioni, pur senza rinnegarle, del Psi; 2) essere costruito democraticamente dal basso; 3) lottare per una soluzione socialista su scala europea; 4) lottare per la conquista intewaJe del potere politico distruggendo l'apparato borghese; 5) considerarsi membro della nuova Internazionale che sarebbe sorta dalle rovine della Seconda e della Terza internazionale; 6) superando la limitazione del movimento socialista come organizzlllrione del J?roletariato industriale, dovrà organizzare tutte le forze del lavoro (operai, contadini, tecnici, impiegati, professionisti e intellettuali, che sono sfruttati dal capitalismo e non sfruttano il lavoro altrui)» (Cfr. P. Spriano, op. ciL, voi. V, p. 233).

52

lio Basso, Lul:10 Luu..aLL\1 ... LùI rado Bonfantini. Ma anche dopo la confluenza del Mup nel partito unificato, denomina­ to appunto Psiup, alcuni mantenevano la loro opposizione. Lelio Basso usciva addirittura dal partito, su posizioni per al­ cuni aspetti simili a quelle del movimento romano di Bandie­ ra Rossa. Per quanto riguarda più direttamente l'area del Pci, grup­ pi e movimenti in aperta dissidenza sorgevano in varie città. Per esempio, a Torino, era attivo dall'inizio del '43 il gruppo Stella Rossa, che ha avuto a un certo momento 2.000 aderen­ ti (contro i 5.000 della Federazione comunista) 1°. Un altro gruppo si formava a Legnano attorno a Mauro e Carlo Vene­ goni, mentre a Napoli si organizzava nersino, per un breve periodo, una Federazione concorrente Ma il fenomeno più rilevante è stato quello della forma­ zione a Roma del Movimento comunista d'Italia (Bandiera Rossa). Fondato durante i 45 giorni in seguito alla fusione di vari gruppi preesistenti, questo movimento ha conquistato subito una larga influenza nelle borgate e, alla fine del '43, contava probabilmente un numero di militanti superiore a quello della Federazione del Pci, che aveva 1.700-1.800 iscrit­ ti (il suo giornale avrebbe tirato più de l'Unità). Alla libera­ zione di Roma sarebbe arrivato ad avere addirittura 6.000 iscritti, di cui 1.000 nella sola borgata di Torpignattara12• Il motivo ispiratore comune di questi gruppi o movimenti era il rifiuto della politica di unità nazionale, accompagnato 10 Cfr., oltre che P. Spriano (op. cil, voi. IV, p. 145), il libro di Raimondo Luraghi, ll movimento operaio torinese durante 1a resistenza, Einaudi, Torino 1958, passim. 11 Questa federazione era sorta in contrapposizione ai funzionari centrali e i suoi animatori • tra i quali Enrico Russo, Ennio e Libero Villone, Mario Palermo - erano contro l'alleanza con i partiti borghesi e per un funzionamento democratico del partito. 12 Cfr. Silverio Corvisieri, Bandiera Rossa nella resistenza roma111J, Samonà e Savelli, Roma 1968.

53

dall'esigenza di un funzionarnemto democratico del partito. Nelle loro file si univano vecchi militanti, formati alla scuola degli anni '20 e '30, e giovani, per cui l'opposizione al fasci­ smo assumeva contemporaneamente la dimensione di una lotta contro la società capitalista. Erano alimentati non solo o non tanto da una differenziazione sul piano ideologico, quanto dalle conseguenze pratiche della scelta del partito. Il loro tallone di Achille era l'assenza di una visione strategica complessiva, dovuta, in sostanza, a un'analisi sbagliata dell'e­ voluzione del Pci e soprattutto della politica dell'Unione So­ vietica. Il caso più chiaro è quello di Bandiera Rossa che, pur la­ sciando trasparire a volte qualche motivo vagamente trotski­ steggiantc, si rifaceva all'Urss come paese del socialismo e allo stesso Stalin senza nessuna riflessione critica. Peggio: in certi casi rimproverava al Pci e a Togliatti di essere in con­ trasto con gli orientamenti dei dirigenti sovietici, che avreb.13 . · 1 uz10nana · bero prospettato una linca nvo Vaie la pena di ricordare che la tesi secondo cui la linea del Pci sarebbe stata in contrasto con quella del Pcus e di Stalin è stata parLialmente riesumata negli anni '50 dal grup­ po, esso pure effimero, di Azione comunista. A proposito della posizione di Stalin, un episodio signifi­ cativo: durante una visita a Mosca, Secchia aveva espresso dinnanzi a lui alcuni apprezzamenti critici sulla linea applica­ ta dal partito, ma con risultato negativo. Infatti, Stalin si di­ chiarava esplicitamente d'accordo con Togliatti. E' questa fondamentale inconsistenza che rendeva inevi­ tabilmente precaria l'esistenza di questi gruppi e finiva per 13 Cfr. per esempio, gli articoli comparsi su Ba11diera Rossa e la risoluzione del Convegno di Napoli (gennaio 1945), che proclamava l'identità Lenin-Stalin e accusava Togliatti di non applicare la linea del «comunismo internazionale e di Stalin» (cfr. anche l'opuscolo /..a via maestra, del dicembre 1944).

54

ondannarli a una rapida sparizione: tanto più che il Partito comunista, dopo averli attaccati.i, il più delle volte, nel più classico stile staliniano, accusandoli di essere agenti del ne­ 14 mico, manovrava abilmente per recuperarli • Una considerazione analoga vale per un personaggio per molti versi singolare come Lelio Basso, che ha alternalo criti­ che sia alle posizioni del Pci, sia a impostazioni staliniane,a un'accettazione opportunistica delle une e delle altre, che, all'inizio degli anni '50, lo ha condotto persino a giustificare le condanne di processi infami come quello contro Uszl6 Rajk. Circa quindici anni dopo, Basso riprendeva sostanzial­ mente il suo giudizio del '43-44, parlando di una «vera occa­ sione storica mancata», e aggiungendo: «La posta in giuoco era grossa: si trattava. in ultima istanza, di decidere se l'Italia postbellica avrebbe dovuto veramente essere "nuova" e quindi in rollura con il precedente ordinamento monarchico-fascista, costruita dal basso sulla base della volontà e dell'iniziativa popolare liberamente esplicantesi, o se viceversa avrebbe dovuto esprimersi su una linea di continuità giuridico-politica con il vecchio Stato, e quindi legittimando tutto il passato e risolvendosi di fatto nella restaurazione dall'alto. Le sinistre finirono per sacrificare allo sforlO bellico ogni altra esigenza, accettando tutta una serie di compromessi successivi, che facilitarono la restaurazione delle vecchie strutture e delle vecchie fone sociali». La responsabilità di tutt\\ questo incombeva soprattutto sulla «famooa svolta di Togliatti» .

Si può accettare la valutazione critica come punto di par­ tenza, ma, come si vede, il discorso sull'alternativa è tutt'altro c)le preciso e, comunque, non rimette in discussione la scelta fondamentale dell'inserimento nel quadro del sistema. La stessa ambiguità persisterà, mutatis mutandis, nelle posizioni 14 Il grosso del Movimento comunista d'Italia si scioglie nel 1947, entrando in maggiorall7.a nel Pci (nel quale, però, alcuni dei suoi dirigenti non saranno accellati). Un piccolo gruppo si è mantenuto fino al 1949. Uno degli esponenti più noti, Francesco Cretara, doveva aderire più tardi alla Quarta internazionale. 15 I.. Basso, ll Psi, Nuova Accademia, Milano, 1958, p. 248.

55

che Basso assumerà più tardi sui problemi della strategia • 16 operaia Orientamenti che vanno in direzione analoga a quella delle posizioni già menzionate sono state formulate da Ro­ dolfo Morandi, che le ha sintetizzate in particolare in un arti­ colo comparso nei giorni della liberazione. Affrontando a sua volta il problema del ruolo dei Cln, Morandi scriveva: «L'autorità suprema dello Stato non può essere oggi rappresentata cd csprewi che da una conferenza generale dei Comitati di liberazione»

E successivamente doveva impostare la prospettiva di quelle che si chiamavano allora le "riforme di struttura", in termini ben diversi da quelli prevalenti: secondo lui, queste riforme dovevano essere concepite come «guida di un'azione d'urto e altrettante forme di frattura del sistema». Ma queste enunciazioni subivano la stessa sorte di altre: restavano cioè accenni, indicazioni molto generali, senza alcuna concretiz­ zazione o senza inserirsi in una critica più generale dell'azio­ ne del movimento operaio nazionale e internazionale.

Pietro Secchia e Umberto Te"acini Tra coloro che hanno prospettato, a scadenze importanti, impostazioni e orientamenti diversi da quelli della maggio­ ranza del gruppo dirigente, merita di essere ricordato Pietro Secchia. Il fatto che le sue posizioni critiche siano state esplicitate 16 A questo proposito,

si veda la nostra valutazione critica in ll movimento

operaio in una fase critica, cit., pp. 141-146. 17

56

Avanti, 28 aprile 1945.

solo in sede storica, quando Secchia era stato da tempo emarginato, non ne sminuisce la portata intrinseca, soprat­ tutto dal punto di vista che qui ci interessa. Secchia aveva assunto una posizione particolare già alla fme degli anni '20, quando, assieme a Longo, aveva rappre­ sentato una "tendenza" di giovani che respingevano una cor­ rezione di linea giudicata opportunista: contro l'adozione della parola d'ordine dell'Assemblea costituente erano favo­ revoli a mantenere quella precedente di "rivoluzione popola­ re per un governo operaio e contadino". E' partendo da questa critica che Secchia accettava con entusiasmo la "svolta", di cui poteva considerarsi, almeno in parte, un precursore. L'accentuazione che ne dava e l'inter­ pretazione difesa a spada tratta anche quarant'anni dopo avevano una tonalità particolare: secondo lui, l'essenziale era i che il partto impegnasse di nuovo il massimo delle sue forze nella costruzione all'interno del paese e soprattutto da que­ sto punto di vista gli sembrava condannabile la critica degli oppositori (a nostra conoscenza, ha sempre sorvolato sul fat­ to che tra questi andavano annoverati molti detenuti e lo ·)18 . . G ramsc1 stesso Antomo Il suo giudizio coincideva, dunque, in larga misura, con quello di Giorgio Amendola, che, pur riconoscendo l'erro­ neità dell'analisi che era stata fatta e il non raggiungimento dei risultati sperati, ha giustificato anche nel suo libro del 1978 la condanna dei "tre", giudicando la svolta feconda per la successiva crescita del partito. Esempio da manuale di quel giustificazionismo di cui Amendola è stato uno dei campioni, anche quando si era as­ sunto la parte - in larga misura illusionistica - dell'iconocla18 Secondo Terracini, la prospettiva di un possibile ritorno al «metodo democratico», cioè di una prospettiva opposta a quella della svolta, «era pacifica nelle idee comuni degli ospiti di Regina Coeli».

57

sta, deciso a infrangere tabù tradizionali e a sollevare que­ 9 stioni che altri preferivano evitare 1 • In più occasioni, Secchia è ritornato sulla situazione nel­ l'ultima fase della guerra e nell'immediato dopoguerra. E' soprattutto a proposito in quel periodo che, secondo lui, il partito avrebbe potuto e dovuto assumere una linea diversa da quella effettivamente assunta. «Non penso affatto - scrive per esempio nel 1958 - che nel 1945 si potesse fare la rivoluzione. Il nostro paese era occupato dagli anglo-americani ecc. Condivido pienamente l'analisi falla dal partito in quel periodo e le conclusioni cui è giunto. Ma si trattava di puntare d1 più sui movimenti di massa, di difendere maggiormente certe posizioni e di fare qualcosa di serio e di positivo quando eravamo al governo. Inoltre gli anglo-americani a un certo momento se ne sare�ro andati e noi avremmo dovuto puntare maggiormente i piedi» . E in

uno scritto del 1971 precisa:

«Già nel corso della resistenza cd in particolare alla vigilia dell'insurrezione il contrasto tra il Pci, le fone di sinistra e quelle moderate s'era manifestato in pieno, chiaramente, specie nell'assetto da darsi allo Stato, sul tipo di democrazia da attuare. L'attacco ai Cln, quali nuovi organismi di potere, quali pilastri portanti della nuova democrazia, fu deciso e netto e dopo la liberazione non trovò adeguata risposta cd energica difesa neppure da parte nostra. Si cedette di fronte al ricatto, mancò la fiducia nella possibilità di gettare le fondamenta di un nuovo Stato, di creare uno Stato che non fosse quello prcfascista; ti ebbe timore dello scontro e del profilarsi della situazione greca»2 19 Amendola si è awenturato nella stesura di una storia del Partito comunista che, c'è appena bisogno di dirlo, non regge neppure lontanamente al confronto con quella di Spriano. Proprio in questo libro, è del tutto trasparente il suo giustificazionismo anche per quanto riguarda lo stalinismo (nel 1978!). Scandalosa la giustificazione dei processi di Mosca, che, secondo l'autore, «non intaccarono l'autorità di Stalin, se egli poté, con una decisione personale, promuovere una così rapida concentrazione di volontà per il raggiungimento dell'obiettivo che aveva indicato» (op. cit., p. 307). 20 Archivio Secchia cit., p. 192. 21 P. Secchia, ll PCI e la gue"a di liberazione, 1943-1945, Annali Fellrinelli, Milano, 1971, p. 581. 58

La stessa valutazione è espressa, anche se in termini più problematici, in un altro testo: «Si tratta di esaminare se con opera più decisa e più ampie lotte unitarie delle masse lavoratrici non era possibile impedire quella che poi si è chiamata la "restaurazione del capitalismo", il ritorno al dominio dei gruppi monopolisti e dei grdndi industriali, se non era possibile un'azione unitaria più decisa e conseguente per portare avanti il rinnovamento economico, politico e sociale del paese, per riformare le sue strutture e realizzare un rc�imc di vcr.1 democrazia. Ed è in questo senso che tutti i parllti antifascisti, nessuno escluso, dovrebbero approfondire lo studio con uno spiri_to _autoci:ìtico. che !Prescinda, per quanto possibile, d11l patnottasmo da parlalo ... »

Un errore particolarmente grave, all'origine di «molte debolezze», sarebbe stato, sempre secondo Secchia, «l'aver considerato la Dc un partito democratico-popolare rappresentante gli interessi dei contadini, dei ceti medi e delle classi lavor.itrici. Che la Dc avesse una base cd una influenza di massa non cambia fondamentalmente il carattere, la natura di classe e la runztpnc che ha assolto da dopo la liberazione in poi questo partilo»

Un altro motivo della critica sccchiana riguarda l'impo­ stazione delle lotte operaie. Così, riferendosi al periodo 1947-1948, Secchia ritiene che «nella politica sindacale e di mobilitazione delle larghe masse SJ?C�i.c qfi grandi centri industriali - si sarebbe potuto e dovuto fare di pau» E allrove scrive: «Non v'è dubbio che vi è stato un ritardo nel difendere con ampie tgtte generali le commissioni interne e la libertà nelle fabbriche»

Altri rilievi toccano punti più specifici. Per esempio, Sec­ chia non è d'accordo sul voto del Pci favorevole all'elezione 22 23 24 25

lbid., p. 1061. Archivio Secchia cit., p. 583. lbid., p. 427. /bid., p. 268.

59

alla presidenza di Giovanni Gronchi nel 1955 e non nasconde il suo scetticismo sulla parola d'ordine del controllo demo­ cratico dei monopoli26 • Al momento della lotta contro la leg­ ge elettorale truffaldina (1953) critica l'atteggiamento, a suo modo di vedere, troppo moderato di Togliatti, che avrebbe rivelato «ancora una volta una concezione parlamentaristica»n Si tratta, complessivamente, di critiche non irrilevanti, mosse sistematicamente, per così dire, da sinistra. Ma rap­ presentano, in realtà, più che una vera e propria alternativa, un progetto di applicazione più dura, meno conciliante, della strategia complessiva del periodo considerato. Ciò è confer­ mato senza possibilità di equivoci dal fatto che Secchia si di­ chiara d'accordo sull'obiettivo centrale, la "democra7ia pro­ gressiva", sia pure, ripetiamolo, in una versione più radicale. «Lo sbocco della resistenza - scrive - non poteva essere il socialismo, ma doveva essere una democrazia nuova, progressiva, con le nuove istituzioni direttamente rappresentative delle masse popolari, con quegli o�nismi di potere che in parte erano già sorti durante la resistenza» . n Ma il limite di Secchia consiste non tato e non solo nel suo modo di affrontare i problemi strategici sul piano nazio­ n nale, quato nel non avere mai fatto, neppure negli ultimi an­ ni della sua vita, i conti con lo stalinismo. Per quanto riguar­ da gli anni '30, per esempio, non ha mai rettificato in alcun modo gli argomenti con cui aveva giustificato allora l'accetta­ zione dei processi di Mosca, né si è sforzato di cogliere le ra­ dici e la dinamica degli awenimenti nell'Urss. Peggio ancora:

26 lbid., pp. 267 e 269. 27 lbid., p. 237. 28 lbid., p. 585. A nostra conoscenza, neppure successivamente Secchia ha rimesso in discussione la linea generale del partito. Le riserve espresse con cautela e più indirettamente che direttamente - sulla via italiana al socialismo appaiono tutt'al più ideologiche, senza implicazioni sul piano della strategia politica.

60

anche dopo il XX Congresso, non si è peritato di scrivere che l'Urss «deve essere al centro del movimento comunista, perché, ci piaccia o no, per la funzione che obiettivamente assolve, l'Unione Sovietica è alla testa, all'avanguardia del mondo socialista».

Contemporaneamente, ha continuato a difendere una concezione, in ultima analisi, staliniana dell'unità del movi­ mento comunista29• Abbiamo accennato alle posizioni di Umberto Terracini nel 1929-30 e in occasione del Patto russo-tedesco del 193930 • In un suo documento dell'autunno 1941, Terracini delineava per il periodo che avrebbe seguito la sconfitta del fascismo una prospettiva diversa da quella abbo:z:zata già allora dai partiti comunisti: «E' da _Prcveden;i che in un tale quadro (specialmente nei paesi sconfitti, Germania cd Italia, nei quali la disfatta in se stessa prima ancora dell'effettivo afferman;i di una nuova autorità spezzando l'apparato compressore della dittatura darà l'avvio ad un tumultuoso processo di riorganizzazione di vecchi e nuovi raggruppamenti politici), è da prcveden;i che la lotta politica si svilupperà con ritmo accelerato, determinando una polarizzazione di forze progressivamente accelerata verso posizioni inconciliabili, quelle stesse forze inizialmente e confusamente riunite su una primordiale piattaforma democratica. E maturerà, fon;c in pochi mes� una situazione rivoluzionaria, capace di respingere ancora 29 Op. cii, p. 429. E' singolare che nello stesso periodo in cui scriveva il passo citato, Secchia facesse riferimento a Cours Nouveau di Trotsky a proposito del «problema di rigenerazioni e di rinnovamento dei partiti COIJlunisti» (p. 434). In precedenza aveva citato passi da 1905 e da La rivoluzione tradita dello stesso autore (pp. 300-301). 30 Le posizioni di Terracini sono illustrate soprattutto in due suoi libri, La svo/Ja, La Pietra, Milano, 1975, e Al bando del partito, La Pietra, Milano, 1976. A proposito del Patto russo- tedesco, Terracini insisteva sul fatto che bisognava