Agostino e la domanda fenomenologica sul tempo 9788874704583

Lo studio di von Herrmann sulla fenomenologia del tempo in Agostino costituisce un contributo essenziale per la comprens

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Agostino e la domanda fenomenologica sul tempo
 9788874704583

Table of contents :
Indice......Page 181
Frontespizio......Page 6
Il Libro......Page 3
Nota editoriale......Page 8
Premessa......Page 10
1. Agostino e la fenomenologia......Page 14
2. L’andamento di questo saggio......Page 17
Parte prima. La ricerca fenomenologica sul tempo nelle Confessioni di Agostino......Page 21
1. Il carattere fenomenico del tempo e la considerazione rimuovente (XI, 1-9)......Page 22
2. I tempi che non sussistono mai, il distacco rimuovente e l’eternità che sussiste sempre (XI, 10-13)......Page 36
1. La struttura costruttiva della ricerca sul tempo......Page 43
2. La forma dinamica della ricerca sul tempo come dialogo tra la comprensione naturale-quotidiana e quella filosofica del tempo......Page 45
1. Il differimento della domanda sull’essenza del tempo a favore della domanda preliminare sull’essere o sul non essere del tempo. La prima verifica filosofica dell’essere del tempo (XI, 14)......Page 52
2. L’obiezione mossa dalla comprensione naturale del tempo nei confronti del risultato della prima verifica critica sull’essere del tempo e la seconda verifica che ne consegue (XI, 15)......Page 56
3. Il ritorno all’atteggiamento temporale del percepire, del paragonare e del misurare il tempo e la domanda sull’essere del presente (XI, 16)......Page 64
4. Il ritorno all’atteggiamento temporale del ricordo e dell’attesa e la questione sull’essere del passato e del futuro (XI, 17)......Page 68
5. L’essere del passato ricordato e del futuro atteso come un modo del presente (presenza) (XI, 18-19)......Page 72
6. L’anima che comprende il tempo, i suoi tre atteggiamenti temporali e i modi di essere del passato, del presente e del futuro (XI, 20)......Page 88
1. La situazione aporetica: la misurazione del tempo che passa e l’apparente mancanza di estensione del tempo (XI, 21)......Page 92
2. La comprensione quotidiana del tempo nella sua estensione e la perplessità filosofica in riferimento al come dell’estensione (XI, 22)......Page 95
3. La durata e l’estensione del movimento dei corpi celesti e terreni e la domanda sull’estensione del tempo (XI, 23-24)......Page 97
4. Nuova ammissione della situazione aporetica della domanda sull’essenza del tempo (XI, 25)......Page 102
6. Ritorno agli atteggiamenti temporali dello spirito che si distende (XI, 27)......Page 107
7. Attentio, expectatio primaria e memoria primaria come originari atteggiamenti temporali (XI, 28)......Page 116
Parte seconda. Il significato della ricerca fenomenologica di Agostino sul tempo per Husserl e Heidegger......Page 127
1. Il ritorno di Agostino all’immanenza dello spirito che comprende il tempo e la coscienza soggettiva del tempo come punto di partenza di Husserl......Page 128
2. La durata degli oggetti temporali costituentesi nel flusso temporale immanente della pura coscienza soggettiva e la coscienza dei modi di apparire temporale di oggetti temporali identici. Impressione originaria e ritenzione (ricordo primario)......Page 138
3. La temporalità del ricordo secondario, della percezione e dell’attesa secondaria. L’attesa primaria come protenzione......Page 144
1. La distentio animi come riflesso del distendersi dell’esserci nella sua temporalità estatico-orizzontale......Page 150
2. La temporalità estatico-orizzontale dell’esserci, il tempo mondano della cura e il tempo-ora ordinario......Page 164
Considerazioni conclusive. Agostino nel pensiero sul tempo di Husserl e Heidegger......Page 176

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Il libro

Lo studio di von Herrmann sulla fenomenologia del tempo in Agostino costituisce un contributo essenziale per la comprensione di uno dei temi più celebri del pensiero dell’Ipponate, che ha riscosso una grande attenzione nei due pensatori più significativi del Novecento per quanto riguarda la fenomenologia del tempo: Husserl e Heidegger. Nella lettura di von Herrmann la ricerca sul tempo non è considerata semplicemente come una trattazione e una soluzione dottrinale, ma come una vera e propria esperienza fenomenologica del pensiero. Se da un lato questo sembra derivare all’Autore dalla sua lunga e intensa familiarità con il pensiero di Husserl e di Heidegger, dall’altro egli trova proprio in Agostino un momento quasi “inaugurale” e anche permanente della nostra comprensione del fenomeno temporale della coscienza e dell’esistenza. Dopo più di vent’anni dalla sua prima apparizione, questo libro di von Herrmann, divenuto un riferimento importante per chi si interessa della questione filosofica del tempo, mantiene ancora intatta la sua efficacia interpretativa nell’analisi puntuale del testo di Agostino e la sua capacità ricostruttiva e insieme prospettica nella rielaborazione del problema della temporalità nella tradizione fenomenologico-esistenziale. Si tratta dunque di un libro che continuerà a fornire uno strumento di lavoro di prim’ordine per comprendere e, per così dire, ri-avviare nei lettori tutta la potenza della domanda sul tempo.

L’autore Friedrich-Wilhelm von Herrmann è universalmente noto per essere stato l’ultimo assistente di Heidegger e il responsabile scientifico della “Gesamtausgabe”, l’edizione di tutti gli scritti heideggeriani (opere, corsi, trattati e materiali di lavoro editi e inediti) avviata nel 1975 e tutt’ora in corso di pubblicazione, all’interno della quale egli ha curato molti volumi, tra quelli più importanti. Dal 1979 ha tenuto presso l’Università di Freiburg i.Br. la cattedra di filosofia che era stata di Husserl e di Heidegger. Anche grazie a una conoscenza per così dire in presa diretta del corpus heideggeriano, von Herrmann ha pubblicato una nutrita serie di contributi su diversi scritti o problemi emergenti dal pensiero di Heidegger, proponendo linee ricostruttive e interpretative che hanno sempre contribuito a illuminare un campo di lavoro tra i più frequentati dagli studiosi di filosofia del nostro tempo. Ma all’interno

di questa prospettiva fenomenologica ha pubblicato anche lavori su alcuni momenti della metafisica, quali, oltre Agostino, Descartes e Leibniz. Tra i suoi studi tradotti in italiano: Heidegger e “I problemi fondamentali della fenomenologia”. Sulla “seconda metà” di “Essere e tempo” (1993), Il concetto di fenomenologia in Heidegger e Husserl (1997), La filosofia dell’arte di Martin Heidegger (2001), Sentiero e metodo. Sulla fenomenologia ermeneutica del pensiero della storia dell’essere (2003), La metafisica nel pensiero di Heidegger (2004).

biblioteca filosofica di Quaestio nr. 22 collana diretta da Costantino Esposito e Pasquale Porro © 2015, Pagina soc. coop., Bari Titolo dell’edizione originale: Augustinus und die phänomenologische Frage nach der Zeit © Vittorio Klosterman, Frankfurt am Main 1992 È vietata la riproduzione.

ISBN 978-88-7470-458-3 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma rivolgersi a: Pagina soc. coop. via dei Mille 205 - 70126 Bari tel. e fax: 080 5586585 www.paginasc.it e-mail: [email protected] Seguici su Facebook e Twitter

Friedrich-Wilhelm von Herrmann

Agostino e la domanda fenomenologica sul tempo Traduzione italiana di Donatella Colantuono A cura di Costantino Esposito

A Max Müller con ammirazione e gratitudine per gli anni di studio a Freiburg i.Br.

Nota editoriale Lo studio di Friedrich-Wilhelm von Herrmann sulla fenomenologia del tempo in Agostino – o meglio a partire da Agostino – costituisce senza dubbio un contributo essenziale per la comprensione di uno dei temi più celebri del pensiero dell’Ipponate, ma anche tra quelli che sono dati più facilmente per acquisiti, magari una volta che lo si sia catalogato come una soluzione standard nella storia della filosofia del tempo. Von Herrmann ha senz’altro il grande merito di aver messo in luce la natura e la struttura propria di questa teoria sul tempo, non considerandola semplicemente come una trattazione e una soluzione dottrinale, ma come una vera e propria esperienza fenomenologica del pensiero. In essa il tempo non costituisce soltanto l’oggetto della ricerca, ma emerge come la dimensione ontologica più propria dell’io pensante e cosciente, e quindi si può dire che esso venga determinato e anche oggettivato nella misura in cui emerge alla coscienza, rendendo trasparente la stessa struttura ontologica dell’io. Una teoria in un certo senso performativa del tempo, in cui quest’ultimo non solo si rende presente alla nostra “anima”, ma come anima si “produce” esso stesso. Nella lettura di von Herrmann il carattere fenomenologico della ricerca sul tempo ha innanzitutto un significato metodologico, in quanto concerne la modalità della trattazione di un problema o di un dato dell’esperienza. Ma vuol dire anche che tale approccio descrittivo riguarda appunto un “reperto”, qualcosa che viene trovato in quanto si manifesta, o meglio in quanto se ne coglie la manifestazione come il suo proprio “darsi”, il suo “essere” peculiare. E se da un lato questo sembra derivare all’Autore dalla sua lunga e intensa familiarità con il pensiero di Husserl e di Heidegger, dall’altro egli trova proprio in Agostino, molto più che una contro-prova o un’applicazione della prospettiva fenomenologica novecentesca, un momento starei per dire “inaugurale” e anche permanente della nostra comprensione del fenomeno temporale della coscienza e dell’esistenza. Su questa base diviene allora pienamente legittimo, e in qualche modo addirittura necessario, ritrovare ed esplicitare le tracce agostiniane, non solo come una fonte storica, ma anche e soprattutto come una sorta di sorgente, o di faglia, presente nel profondo della filosofia del tempo dei due autori tedeschi; e viceversa rintracciare nell’interrogazione agostiniana sulla natura del tempo la matrice problematica grazie alla quale sia Husserl che Heidegger

potranno impostare e sviluppare le loro rispettive ricerche, pur in tutta la loro reciproca differenza e finanche nella rispettiva differenza rispetto allo stesso Agostino. Per questo nella traduzione italiana si è scelto di rendere la locuzione più ricorrente in questo saggio, sin dal suo titolo, e cioè «die phänomenologische Frage», come «la domanda fenomenologica», più che come “la questione” o “il problema” fenomenologico, per indicare che il tempo si determina come problema filosofico in quanto viene in questione nella comprensione di sé e del mondo proprio dell’ente-uomo, nella misura in cui quest’ultimo è un ente che domanda, cioè chiede del nesso del suo presente – del suo «ora» – con il suo passato e il suo futuro. Così, se da un lato il tempo può emergere quanto al suo essere peculiare solo nella vita dell’anima che nel presente ricorda e attende, dall’altro lato è questa sua “temporalità” che permetterà ai tre “fenomenologi”, di cui si tratta qui, di tentare un’interpretazione dell’essere umano come colui che consiste nel rapporto confessante con il Tu, come colui che si costituisce nella coscienza soggettiva, come colui che esiste fuoriuscendo permanentemente nel niente. Dopo più di vent’anni dalla sua prima apparizione, questo libro di von Herrmann, divenuto un riferimento importante per chi si interessa della questione filosofica del tempo, mantiene ancora intatta la sua efficacia interpretativa nell’analisi puntuale del testo di Agostino e la sua capacità ricostruttiva e insieme prospettica nella rielaborazione del problema della temporalità nella tradizione fenomenologico-esistenziale. Incrociando in maniera serrata questi due elementi, egli ne mostra le reciproche implicazioni – le omologie come le differenze –, e grazie a questo lavoro pone nuovamente un problema che non può essere considerato risolto o compiuto, ma permanentemente aperto. Si tratta dunque di un libro che continuerà a fornire uno strumento di lavoro di prim’ordine per comprendere e, per così dire, ri-avviare nei lettori tutta la potenza della domanda sul tempo. Per questo abbiamo creduto che valesse la pena metterlo a disposizione anche del pubblico di lingua italiana. C. E.

Premessa Il titolo di questo saggio indica due cose. La prima riguarda il suo risultato storico-filosofico, e cioè che la ricerca sul tempo svolta da Agostino nell’XI libro delle Confessioni ha riscosso una grande attenzione e suscitato un profondo apprezzamento nei due pensatori più significativi del Novecento per quanto riguarda la fenomenologia del tempo, cioè Husserl e Heidegger. Entrambi i pensatori infatti – a buon diritto, e ciascuno a partire dalla propria posizione fenomenologica fondamentale – hanno potuto ravvisare nel modo in cui Agostino pone la domanda sul tempo, la sviluppa e ne fornisce una risposta, una forma preliminare della loro stessa domanda sul tempo. La seconda cosa indicata nel titolo di questo saggio riguarda il suo risultato ermeneutico, e cioè che la stessa ricerca agostiniana sul tempo costituisce una fenomenologia del tempo. Il tratto fenomenologico fondamentale della sua domanda, della sua ricerca e della sua scoperta è stato infatti anche quello che ha attirato fortemente – ciascuno a suo modo – Husserl e Heidegger. Le parole “fenomenologia” e “fenomenologico” non sono impiegate qui primariamente come contrassegni dell’oggetto tematico, ma come caratterizzazioni di un metodo. Si tratta del metodo fenomenologico come modalità della trattazione, cioè del modo in cui – attraverso il cercare e lo scoprire – viene trattato un oggetto tematico. Husserl è stato colui che nella sua Introduzione alle sei Ricerche logiche ha formulato per la prima volta il principio fenomenologico fondamentale: «Noi vogliamo ritornare ‘verso le cose stesse’» (§ 2). Heidegger ha ripreso questa locuzione e l’ha impiegata in Essere e tempo nella formulazione «Alle cose stesse!» (§ 7). La massima metodologica del ritorno alle cose stesse, ovvero l’orientamento metodologico al darsi in sé stesse delle cose, viene intesa da lui come il concetto formale della fenomenologia: «Lasciar vedere da sé stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da sé stesso». La massima della ricerca posta da Husserl e spiegata da Heidegger attraverso il ricorso al significato greco delle parti costitutive della parola “fenomenologia” non è solo ciò che li lega entrambi, ma è ciò che al contempo lega ambedue ad Agostino. Secondo la doppia indicazione contenuta nel titolo di questo saggio, noi forniremo dapprima un’interpretazione fenomenologica completa della ricerca sul tempo di Agostino (capitoli 14-28) includendo la definizione filosofico-teologica dell’eternità (capitoli 1-13). L’interpretazione è dunque

fenomenologica, da un lato, perché permette di esporre l’impostazione e lo svolgimento della domanda e della definizione agostiniana nel loro carattere fenomenologico; dall’altro, perché essa stessa procede fenomenologicamente. La nostra interpretazione fenomenologica del testo avrà luogo anch’essa sulla scorta della massima della ricerca fenomenologica «Alle cose stesse!». Qui le cose stesse sono il testo nella sua forma linguistica e, per suo tramite, l’oggetto tematico nella sua ricchezza cosale, che ci si presenta sempre nella forma di un orizzonte da scoprire. L’interpretazione procede fenomenologicamente se riesce a individuare e a svelare questi orizzonti direttamente correlati al testo. Esercitati a vedere fenomenologicamente i fenomeni – attraverso le analisi fenomenologiche sul tempo di Husserl e di Heidegger –, metteremo in risalto le visioni ‘cosali’ guadagnate da Agostino riguardo al tempo e alla comprensione del tempo, sforzandoci sempre però di non attribuire al testo di Agostino il punto di vista di Husserl o di Heidegger, ma di esporre il punto di vista immanente e genuino di Agostino stesso, restando nei confini della sua posizione filosofica fondamentale. La nostra interpretazione fenomenologica sa perciò al tempo stesso di muoversi, come tale, all’interno di una situazione ermeneutica strutturata secondo la pre-disponibilità [Vorhabe], la pre-visione [Vorsicht] e la precognizione [Vorgriff]. Il testo di Agostino si colloca, certo, in una predisponibilità ermeneutica, ma secondo una pre-comprensione che ci è derivata da un’esperienza fondamentale col testo. Questa esperienza fondamentale si è compiuta in un rapporto più che ventennale con il testo agostiniano. La pre-visione che guida ogni singolo passo dell’interpretazione guarda a tale pre-comprensione, e in quest’ultima al tempo stesso si delinea quella concettualità a cui giunge la comprensione interpretante, in vista della pre-cognizione ermeneutica Sebbene la ricerca di Agostino sul tempo costituisca uno dei temi maggiormente trattati del suo pensiero, sta di fatto che l’impianto, lo sviluppo e il movimento interno a tale ricerca richiedono sempre un’ulteriore chiarificazione. In questo senso l’impostazione di un metodo interpretativo fenomenologico-ermeneutico può far luce nell’oscurità che ancora permane. Grazie a una tale modalità interpretativa, che non procede saltando da un passo all’altro del testo agostiniano, ma presta un’attenzione particolare al cammino stesso di Agostino, si potranno leggere i capitoli 14-28 dell’XI libro delle Confessioni come un testo dalla straordinaria fattura, un vero e proprio

capolavoro della letteratura filosofica. Rifacendoci all’interpretazione fenomenologica della ricerca agostiniana sul tempo – intesa appunto come una fenomenologia del tempo – ci chiederemo in che cosa consista il suo significato per la fenomenologia del tempo di Husserl e di Heidegger. Per poter mostrare quali sono i motivi agostiniani nei quali sia Husserl che Heidegger riconoscono una forma preliminare del loro proprio vedere fenomenologico, forniremo – sempre riferendoci alla domanda-guida – una descrizione dell’analisi fenomenologico-riflessiva della coscienza del tempo e, rispettivamente, dell’analitica fenomenologico-ermeneutica della temporalità esistenzialeorizzontale dell’esserci. Anche questa descrizione si lascerà guidare dalla massima propria di ogni ricerca fenomenologica. Mostrando in che modo sia Husserl che Heidegger, pur da posizioni diverse, vedano nella ricerca agostiniana sul tempo una forma preliminare del loro stesso pensiero sul tempo, indicheremo anche i limiti che segnano le domande e le determinazioni concettuali di Agostino. Si tratta di limiti che Husserl e Heidegger hanno riconosciuto – ciascuno in base alla propria posizione fondamentale – e che li hanno anche portati a oltrepassare Agostino. Il diverso modo con cui Husserl e Heidegger si richiamano ad Agostino ci offre inoltre la possibilità di porre a confronto le posizioni fondamentali sostanzialmente differenti della fenomenologia husserliana della coscienza interna del tempo e della fenomenologia heideggeriana della temporalità esistenziale dell’esserci. Se fosse stato possibile pubblicare questo libro un anno prima, l’autore lo avrebbe dedicato a Müller per il suo 85° compleanno. Poiché ragioni esterne non lo hanno consentito, egli ha dedicato al festeggiato il suo più breve scritto Heidegger e “I problemi fondamentali della fenomenologia”. Sulla “seconda metà” di “Essere e tempo”1. Tuttavia il tema del presente saggio vuole in qualche modo corrispondere a ciò che l’autore ha imparato durante le lezioni di Max Müller all’Università di Freiburg i.Br. dal 1957 al 1961: la questione della trascendenza nel presente e nella tradizione. L’autore si ritiene fortunato di poter dedicare proprio questo lavoro su Agostino ad un grande maestro. Ringrazio di cuore Mark Michalski per il suo considerevole impegno nella realizzazione di questo libro. Egli si è occupato con scrupolosità e con

oculatezza filosofico-filologica della revisione del manoscritto, della correzione delle bozze e della stesura dell’indice dei nomi. F.-W. v. Herrmann Freiburg i.Br., febbraio 1992 1

F.-W. v. Herrmann, Heideggers “Grundprobleme der Phänomenologie”. Zur “Zweiten Hälfte” von “Sein und Zeit”, Klostermann, Frankfurt a.M. 1991; trad. it. e Introduzione a cura di C. Esposito, Levante, Bari 1993.

Introduzione 1. Agostino e la fenomenologia La domanda filosofica sul tempo non è, in fenomenologia, solo una domanda significativa tra le tante altre ugualmente essenziali. All’interno della fenomenologia associata ai nomi di Edmund Husserl e di Martin Heidegger, la domanda sul tempo assume un ruolo di primo piano per la soluzione dello stesso problema fenomenologico. Ma lì dove la domanda fenomenologica sul tempo si rivolge alla storia del concetto filosofico di tempo, per individuare un qualche precursore della propria problematica, la ricerca agostiniana sul tempo riceve un riconoscimento privilegiato sia da Husserl che da Heidegger. Così Husserl fa cominciare le sue prime analisi fenomenologiche della coscienza interna del tempo, avviate nel 1905, con un esplicito riferimento alla ricerca agostiniana sul tempo: «L’analisi della coscienza del tempo è un’antichissima croce della psicologia descrittiva e della teoria della conoscenza. Il primo che abbia profondamente avvertito le enormi difficoltà qui contenute e che vi si sia affaticato fin quasi alla disperazione, è stato Agostino. Ancor oggi, chiunque si occupi del problema del tempo deve studiare a fondo i capitoli 14-18 dell’XI libro delle Confessioni. Perché in questa materia i tempi moderni, così orgogliosi del proprio sapere, non sono riusciti più di tanto ad eguagliare o a superare questo pensatore così grande e seriamente impegnato nel venire a capo del problema. E ancor oggi si può ripetere con Agostino: si nemo a me quaerat, scio, si quaerenti explicare velim, nescio»1. Husserl stesso, per il suo proprio pensiero sul tempo, ha letto e valutato attentamente l’XI libro delle Confessioni, come testimoniano le annotazioni sulla sua copia di lavoro, conservata, insieme a tutta la sua biblioteca, nell’Archivio Husserl di Leuven. A proposito della vicinanza delle analisi husserliane sulla coscienza interna del tempo alla ricerca agostiniana sul tempo, così si è espresso Rudolf Bernet: «Questo fatto [e cioè che Husserl abbia letto attentamente l’XI libro delle Confessioni] non sorprende, poiché egli, nella sua descrizione fenomenologica della coscienza interna del tempo, si è lasciato ispirare a tal punto dalle osservazioni e dai presupposti impliciti

nell’analisi agostiniana del tempo, che si potrebbe addirittura parlare di ‘note a margine’ husserliane ad Agostino»2. Il 26 ottobre 1930 Heidegger tiene una conferenza nel convento di Beuron, davanti a monaci, chierici e novizi – come ringraziamento per la ripetuta, amichevole accoglienza nel convento per lavorare tranquillamente e in estrema riservatezza – dal titolo Le riflessioni di Sant’Agostino sul tempo (Confessiones, liber XI). La conferenza inizia così: «Nella filosofia occidentale ci sono state tramandate tre riflessioni sull’essenza del tempo che hanno aperto nuove strade: la prima l’ha condotta Aristotele; la seconda è opera di Sant’Agostino, la terza proviene da Kant»3. Quindi Agostino è, accanto ad Aristotele e a Kant, uno dei tre grandi pensatori del tempo. Prima di questa conferenza a Beuron, Heidegger si era già espresso sul significato della ricerca agostiniana sul tempo – nella conferenza tenuta a Marburg nel 1924 su Il concetto di tempo4, in seguito in alcuni dei corsi marburghesi e poi anche in Essere e tempo –, mentre il primo corso freiburghese del semestre estivo 1921 su Agostino e il Neoplatonismo ha come tema l’analisi della memoria del X libro delle Confessioni5. Nel corso marburghese del semestre invernale 1926/27, intitolato Storia della filosofia da Tommaso d’Aquino a Kant6, Heidegger esprime il suo stupore per il fatto che proprio all’epoca dell’Alta Scolastica «l’analisi più radicale sul tempo che si era avuta sino ad allora, cioè quella di Agostino, benché conosciuta», non fosse stata «presa in considerazione». Con uno sguardo alle ricerche sul tempo di Aristotele e Agostino, nel corso marburghese del semestre estivo 1927 su I problemi fondamentali della fenomenologia7, si dice che «già l’antichità ha messo in luce il tratto essenziale che costituisce il contenuto del concetto tradizionale di tempo. Tutte e due le interpretazioni antiche del tempo divenute da allora in poi paradigmatiche, vale a dire l’interpretazione già citata di Agostino e la grande trattazione sul tempo compiuta da Aristotele, sono anche di gran lunga le ricerche più estese ed effettivamente tematiche su questo fenomeno»8. Poco oltre si aggiunge: «Abbiamo già sottolineato che in tutte e due le interpretazioni del tempo offerteci dall’antichità, quelle di Aristotele e di Agostino, vien detto l’essenziale rispetto a ciò che si può affermare su questo fenomeno all’interno della comprensione ordinaria del tempo. Poste a confronto, le ricerche aristoteliche risultano concettualmente più rigorose e robuste, mentre Agostino vede

alcune dimensioni del fenomeno temporale in modo più originario»9. A sostegno del fatto che anche l’esperienza ordinaria del «tempo mondano» [Weltzeit] – l’unico tempo che tale esperienza conosce – abbia già «un peculiare riferimento all’‘anima’ e allo ‘spirito’», in Essere e tempo Heidegger cita Aristotele e Agostino10. Ma che Agostino sia più avanti di Aristotele nel vedere questo riferimento del tempo – inteso come tempo mondano – allo spirito, diviene chiaro dal modo in cui Heidegger rinvia alla ricerca agostiniana sul tempo nella sua conferenza marburghese del 1924. In tale contesto si dice: «Come stanno le cose, dal momento che l’esistenza umana si è procurata un orologio già prima che esistessero orologi da tasca o solari? Io dispongo forse dell’essere del tempo e con l’‘ora’ intendo forse, oltre al tempo, anche me stesso? Sono io stesso l’‘ora’ e il mio esserci è il tempo? Oppure, in fondo, è il tempo stesso che si procura in noi l’orologio? Nel libro XI delle sue Confessioni Agostino ha spinto il problema fino al punto di domandarsi se l’animo stesso sia il tempo. E qui ha smesso di domandare»11. Infine, anche nel corso del I trimestre 1941, all’interno di una riflessione retrospettiva su Essere e tempo e sull’analitica della temporalità dell’esser-ci ivi condotta, Heidegger sottolinea di aver «imparato da Agostino (Confess. lib. XI, c. 1-31) […] riguardo all’unica questione, vale a dire la questione su “essere e tempo”»12. I diversi passaggi testuali che abbiamo citato ci possono mostrare quanto Heidegger stimi la ricerca agostiniana sul tempo. La messa in risalto della sua maggiore radicalità e originalità rispetto alla trattazione aristotelica sul tempo viene compiuta da Heidegger con uno sguardo rivolto alla sua stessa analitica fenomenologica della temporalità esistenziale dell’esserci, nella cui direzione sarebbe rivolta la ricerca agostiniana sul tempo. I due grandi esponenti della fenomenologia del XX secolo, Husserl, colui che l’ha fondata, e Heidegger, colui che l’ha profondamente rivoluzionata, vedono nella ricerca agostiniana sul tempo delle tendenze decisive in direzione della loro stessa impostazione del problema. Ma il titolo di questo paragrafo introduttivo – Agostino e la fenomenologia – non si giustifica solo per questo. Infatti l’analitica temporale di Agostino in tanto poteva avere un peso così grande per i fenomenologi Husserl e Heidegger, in quanto Agostino stesso, nel suo modo di domandare, valutare, ricercare e determinare, è

evidentemente guidato da un vedere fenomenologico. La ricerca agostiniana sul tempo, considerata nella sua impostazione e nel suo svolgimento, è un’analitica fenomenologica. E questo da tre punti di vista. Dal primo punto di vista, lo è nel senso della massima della ricerca fenomenologica formulata da Husserl – «Alle cose stesse» –, che è il primo principio di tutti i fenomenologi e che Heidegger, nel paragrafo metodologico di Essere e tempo (il § 7) interpreta come un lasciar vedere ciò che si manifesta in sé stesso e da sé stesso13. Da un altro punto di vista, la ricerca agostiniana sul tempo è un’analitica fenomenologica nel senso dello svelamento fenomenologico di stati di cose precedentemente velati. Nel suo disvelante portare alla luce, essa è al contempo sempre attenta a che la visione che si realizza nel suo conoscere sia anche un “vedere” vero e non solo presunto. Da un terzo punto di vista, la ricerca di Agostino sul tempo è fenomenologica perché lascia stabilire ciò che dev’essere interrogato – il tempo – in base alla comprensione naturale e prefilosofica del tempo, propria della vita quotidiana. Così essa sa dall’inizio alla fine che la conoscenza filosofica del tempo è un’interpretazione svelante della comprensione prefilosofica, non tematica del tempo, una comprensione che possiede la modalità del compimento. Il tratto fenomenologico fondamentale non si limita però alla ricerca di Agostino sul tempo, ma contraddistingue il suo intero pensiero, dunque anche la sua analitica della memoria nel X libro delle Confessioni, che è un’autointerpretazione filosofica della vita nel suo riferimento a sé stessa, al mondo e a Dio. Ma Heidegger, che con l’inizio del suo stesso percorso filosofico trasforma la fenomenologia in fenomenologia ermeneutica, vede anche una vicinanza di Agostino al pensiero ermeneutico14. E anche l’ermeneutica filosofica di Hans-Georg Gadamer si riallaccia ad alcune idee di Agostino, per esempio alla sua dottrina del verbum cordis15. Il significato di Agostino per il pensiero fenomenologico-ermeneutico contemporaneo è valutato correttamente da Jean Grondin, quando dice che «Agostino è stato, in assoluto, un interlocutore essenziale per l’ermeneutica del XX secolo»16.

2. L’andamento di questo saggio Il nostro saggio si è posto un duplice compito. Da un lato quello di

interpretare la ricerca agostiniana sul tempo, tratta dall’XI libro delle Confessioni17, come una riflessione fenomenologica secondo i tre succitati punti di vista. Dall’altro, esso vorrebbe mostrare il grande significato di questa ricerca tardo-antica sul tempo per la riflessione fenomenologica sul tempo di Husserl e di Heidegger. Per questa ragione il saggio si divide in due parti. La ricerca sul tempo come tempo inizia, certo, con il capitolo 14 dell’XI libro e si conclude col capitolo 28. Ma anche nei capitoli precedenti dell’XI libro si ha a che fare col tempo: non però per metterlo in questione come tale, bensì per guadagnare, partendo da determinati caratteri fenomenici, il concetto di eternità, seguendo la via di un allontanamento rimuovente. Dunque, un’interpretazione della ricerca agostiniana sul tempo nell’XI libro delle Confessioni non può tralasciare i capitoli 1-13 di questo libro e i caratteri del tempo che in essi vengono discussi. Il primo capitolo della prima parte indaga perciò la strada che Agostino percorre, dal carattere fenomenico del tempo sino all’esame della struttura concettuale dell’eternità. Solo nel secondo capitolo ci rivolgeremo alla ricerca sul tempo in senso stretto. Sebbene questa sia preceduta da una determinazione dell’eternità, e sebbene proprio in tale contesto Agostino evidenzi l’origine del tempo dall’eternità – cioè l’esser creati insieme del tempo e del mondo –, nella trattazione del tempo avviata con il capitolo 14, esso non viene determinato a partire dall’eternità e nel suo essere creato, bensì a partire da sé stesso. Ma comprendere il tempo a partire dal tempo significa approfondire come e perché il tempo si mostri già sempre nella comprensione prefilosofica del tempo. Il secondo capitolo chiarisce perciò che la ricerca agostiniana sul tempo in quanto tempo si muove come un dialogo tra la comprensione naturale-quotidiana e quella filosofica del tempo, e fornisce uno sguardo sull’impianto strutturale della ricerca sul tempo. E poiché quest’ultima si articola chiaramente mediante due domande riguardo al tempo, il terzo capitolo tratta della domanda di Agostino sull’essere o sul non essere del tempo, mentre il quarto capitolo si occupa della domanda agostiniana sull’essenza del tempo. Dopo l’esposizione dettagliata della ricerca agostiniana sul tempo, nella seconda parte si potrà approfondire il significato che questa riflessione riveste per la questione fenomenologica del tempo nel pensiero di Husserl e

di Heidegger. Il primo capitolo sarà dedicato alla relazione della fenomenologia husserliana della coscienza interna del tempo con il fatto che Agostino pone l’essere e l’essenza del tempo nell’anima o nello spirito. Sarà mostrato in quali fenomeni della comprensione del tempo – osservati per la prima volta da Agostino – Husserl ha potuto vedere una forma preliminare del suo stesso sforzo per il chiarimento della coscienza interna del tempo. Nel secondo capitolo porremo in relazione il domandare fenomenologicoermeneutico di Heidegger circa la temporalità esistenziale dell’esserci con la determinazione essenziale del tempo fornita da Agostino nei termini di una distentio animi. Sarà messo in evidenza in che misura, per Heidegger, le risposte di Agostino alle domande sull’essere e sull’essenza del tempo tendano a ciò che egli stesso presenta come la temporalità estatico-orizzontale dell’esserci. Il saggio si conclude con una riflessione retrospettiva sulla presenza della ricerca agostiniana sul tempo nella fenomenologia di Husserl e in quella di Heidegger, le quali differiscono nelle loro rispettive posizioni fondamentali. 1

E. Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins, in Id., Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893-1917), Husserliana: Gesammelte Werke (HUA) X, hrsg. v. R. Boehm, Martinus Nijhoff, Den Haag 1969, p. 3; trad. it. a cura di A. Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano 1981, p. 43 (trad. modificata). 2 R. Bernet, Einleitung, in E. Husserl, Texte zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893-1917), hrsg. v. R. Bernet, Meiner, Hamburg 1985, («Philosophische Bibliothek» Bd. 362), p. XI. 3 M. Heidegger, Des hl. Augustinus Betrachtungen über die Zeit. Confessiones liber XI, Beuron, Erzabtei St. Martin, 26.X.1930, copia di un dattiloscritto che è proprietà della Bibliotheca Beuronensis (l’autore ringrazia cordialmente il Prof. Dr. Bernhard Casper, Università di Friburgo, per la gentile concessione della copia). 4 M. Heidegger, Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft Juli 1924, hrsg. v. H. Tietjen, Niemeyer, Tübingen 1989; trad. it. a cura di F. Volpi, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 1998. 5 Apparso in M. Heidegger, Gesamtausgabe (GA) 59/60, hrsg v. C. Strube / B. Heimbüchel, Klostermann, Frankfurt a.M. 1993/1995. – Cfr. su questo corso universitario O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Neske, Pfullingen 1990, pp. 38-45. 6 M. Heidegger, Geschichte der Philosophie von Thomas v. Aquin bis Kant, in Id., GA 23, hrsg v. H. Vetter, Klostermann, Frankfurt a.M. 2006. 7 M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie, GA 24, hrsg v. F.-W. v. Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1975; trad. it. a cura di A. Fabris, I problemi fondamentali della fenomenologia, Il Melangolo, Genova 1988. 8 Heidegger, Die Grundprobleme cit., p. 327; trad. it. cit., p. 222 (trad. modificata). 9 Heidegger, Die Grundprobleme cit., p. 329; trad. it. cit., p. 223 (trad. modificata). 10 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), Niemeyer, Tübingen 197915, p. 427; trad. it. a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, p. 500.

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Heidegger, Der Begriff cit., p. 10; trad. it. cit., p. 29 (trad. modificata). M. Heidegger, Die Metaphysik des deutschen Idealismus. Zur erneuten Auslegung von Schelling: Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängenden Gegenstände (1809), GA 49, hrsg. v. G. Seubold, Klostermann, Frankfurt a.M. 1991, p. 48. 13 Heidegger, Sein und Zeit cit., p. 34; trad. it. cit., p. 41. 14 M. Heidegger, Ontologie (Hermeneutik der Faktizität), GA 63, hrsg. v. K. Bröcker-Oltmanns, Klostermann, Frankfurt a.M. 1988, § 2, p. 12; trad. it. di G. Auletta, a cura di E. Mazzarella, Ontologia. Ermeneutica della fatticità, Guida, Napoli 1992, § 2. 15 H.-G. Gadamer, Hermeneutik I. Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophische Hermeneutik, in Id., Gesammelte Werke Bd.1, Mohr, Tübingen 1986, p. 424; trad. it. e apparati a cura di G. Vattimo, Introduzione di G. Reale, Verità e metodo, testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano 2000, p. 857. 16 J. Grondin, Gadamer und Augustin. Zum Ursprung des hermeneutischen Universalitätsanspruches, in «Jahresgabe der Martin Heidegger-Gesellschaft», 1990, pp. 46-62, in part. p. 47. – Sul riferimento di Gadamer ad Agostino, cfr. anche Id., Einführung in die philosophische Hermeneutik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1991, pp. 42 ss. 17 L’edizione citata da von Herrmann è: Augustinus, Confessiones – Bekenntnisse (Lateinisch/Deutsch), hrsg. v. J. Bernhart, Kösel, München 1960. Qui si tiene presente, pur modificandola in alcuni casi, la seguente edizione: Agostino, Confessionum libri tredecim – Le confessioni, testo latino dell’ed. Skutella riveduto da M. Pellegrino, trad. it. e note di C. Carena, Citta Nuova («Nuova Biblioteca Agostiniana»), Roma 19936 [N.d.C.]. 12

Parte prima La ricerca fenomenologica sul tempo nelle Confessioni di Agostino

Capitolo 1 Tempo ed eternità 1. Il carattere fenomenico del tempo e la considerazione rimuovente (XI, 1-9) Di proposito parliamo di “tempo ed eternità” anziché, come si è soliti fare, di “eternità e tempo”. In questa inversione dell’ordine consueto dei concetti di “eternità” e di “tempo” si può già vedere in che modo concepiamo il procedimento metodologico di Agostino. Sebbene la trattazione dell’eternità preceda quella del tempo, Agostino perviene ad una definizione concettuale dell’eternità solo a partire dai caratteri specifici del tempo e mediante un distacco negativo da essi. Se è vero infatti che, in riferimento alla determinazione di eternità, il tempo viene interrogato in senso proprio come tempo, quest’ultima ricerca tuttavia non procede affatto ricorrendo al concetto di eternità come suo presupposto. Dopo aver spiegato, all’interno di una discussione sull’eternità, che il tempo stesso è creato, nella successiva ricerca sul tempo non si chiede dell’essere e della costituzione essenziale del tempo in quanto determinati dall’eternità, e cioè nel loro esser-creati. Piuttosto, nella sua ricerca sul tempo, Agostino non si domanda più dell’essere e dell’essenza del tempo fenomenico in senso speculativo, ma in senso appunto fenomenico, cioè così come esso si mostra nella comprensione naturale e quotidiana. Questo modo di procedere metodologico di Agostino il più delle volte viene tralasciato nella letteratura critica. Già con la prima proposizione del capitolo 1 è introdotta la tematica dell’XI libro delle Confessioni, dove l’eternità di Dio viene contrapposta all’essere-nel-tempo dell’uomo e delle sue azioni. Le Confessioni sono un confessarsi davanti a Dio, a Dio e con Dio. Così anche l’XI libro inizia con il parlare a Dio: poiché Tu sei l’eternità stessa, comprendi, non in modo temporale (ad tempus), ciò che io, nel tempo (in tempore), Ti ho già detto nei precedenti libri, e ciò che dirò nell’XI libro che sta per cominciare. «Nel tempo» significa: nella successione temporale. Mentre il parlare dell’uomo, e il suo ascoltare ciò che è detto, si svolgono in una successione temporale, l’udire divino di ciò che è detto dall’uomo all’interno del tempo non è legato

alla successione temporale. Quanto alla successione interna al tempo, essa è negata nell’eternità di Dio. Poiché l’eterno creatore divino è al contempo onnisciente, egli conosce in anticipo ciò che ha da dirgli l’uomo che gli parla. Il parlare a Dio non è neanche finalizzato a comunicare al Dio eterno ciò che questi ancora non saprebbe. Esso vorrebbe piuttosto suscitare, in colui che parla a Dio, l’amore per Dio. In questo contesto emerge anche il verbo confiteri, “confessare”. Confiteri e confessio hanno per Agostino un quadruplice significato. Colui che parla a Dio gli manifesta il suo amore, nella misura in cui riconosce davanti a Lui la sua miseria, ma al contempo anche la misericordia divina. In tal modo sono chiamati in causa i primi due significati di confiteri: 1) il riconoscimento della propria miseria, ovvero dell’esser peccatore, dunque l’ammissione dei peccati; 2) il riconoscimento della pietà divina, come lode del Dio misericordioso che ha liberato l’uomo dal suo peccato, e in particolare ha condotto lo stesso Agostino dall’ostinata lontananza da Dio alla ricerca e alla conoscenza di Dio. 3) Confessio significa poi la professione della fede, mentre 4) l’ultimo significato viene introdotto per la prima volta nel capitolo 2 dell’XI libro: esso riguarda la chiarificazione del fatto che anche il domandare circa la vera eternità o circa l’essere e la costituzione essenziale del tempo – nella misura in cui si tratta di ricerche filosoficoteologiche – hanno il carattere di una confessione. Nel capitolo 2 Agostino fornisce delle indicazioni su ciò di cui si occuperà nei successivi libri delle Confessioni. Egli vorrebbe riflettere sulla legge divina (meditari in lege tua), ovvero sulla Parola di Dio rivelata nelle Sacre Scritture, comprenderla dal punto di vista filosofico-teologico, dunque concettualmente, e confidare a Dio la sua conoscenza e la sua ignoranza in proposito (in ea tibi confiteri scientia et imperitiam mea). Il quarto significato di confiteri vuol dire che il domandare e la ricerca di una comprensione concettuale accadono in un rivolgersi a Dio, inteso come un dichiararsi davanti a Lui su ciò che va compreso concettualmente. In questo dichiararsi davanti a Dio, Agostino confessa ciò che egli comprende concettualmente e che guadagna come conoscenza, ma al tempo stesso riconosce anche ciò che sfugge alla sua conoscenza concettuale. Quello che è cercato ed è trovato, e in quanto tale deve costituire un sapere (scientia) in forma di confessione, è spiegato da Agostino come primordia inluminationis tuae, come l’inizio di un’illuminazione che avviene grazie a Te, mentre ciò che rimane sconosciuto

(imperitia) viene caratterizzato come il residuo della mia oscurità (reliquias tenebrarum mearum). La parola “inluminatio” deriva dalla dottrina agostiniana dell’illuminazione. La dottrina teologico-filosofica dell’illuminazione divina non significa che per suo tramite all’uomo piova dal cielo la conoscenza. L’illuminazione divina non dispensa l’animo umano dallo sforzo della ricerca e del raggiungimento della conoscenza. Ma per lo spirito umano finito, la conoscenza raggiunta di volta in volta non è dovuta semplicemente a sé stesso e al suo sforzo concettuale, bensì alla sua attitudine alla visione spirituale attraverso la luce divina. Non è solamente in sé stesso, ma è nella luce dell’illuminazione divina che l’intelletto umano contempla la verità della conoscenza acquisita attraverso la riflessione. Nel momento in cui si mette in cammino per raggiungere una conoscenza concettuale del contenuto della parola rivelata di Dio, Agostino sa già in partenza che, qualora vi riuscisse, dovrà ringraziare per il suo sapere l’illuminazione divina. In tal modo, l’esporre il sapere riconosciuto come vero è al contempo anche una confessio, nel senso di un riconoscente render lode a Dio per aver concesso l’agognata conoscenza. Agostino, come egli stesso dice nel capitolo 2, vorrebbe offrire il servizio del pensiero e della parola (famulatum cogitationis et linguae meae) come sacrificio a Dio, cioè come sacrificio di lode. Per questo chiede a Dio di dargli quello che lui vorrebbe offrirgli. Ciò che qui viene invocata è l’illuminazione divina. «Voglio confessarti tutto ciò che trovo nei Tuoi libri» (Confitear tibi quidquid invenero in libris tuis). Il raggiungere la conoscenza teologico-filosofica e l’esporla in forma di confessione devono essere un render lode a Dio come alla fonte prima di ogni verità. Qui compare anche la prima indicazione del fatto che Agostino vorrebbe innanzitutto comprendere la parola rivelata di Dio riguardo al “principio” in cui Dio ha creato il cielo e la terra. All’inizio del capitolo 3, Agostino chiede: lascia che io ascolti e comprenda in che modo Tu «hai creato in principio il cielo e la terra» (quomodo in principio fecisti caelum et terram). Egli non chiede appena di credere a questa parola, ma di comprenderla concettualmente (intelligere). Ma la comprensione concettuale resta accordata ad un ascoltare (audire) che apprende, nell’interiorità dello spirito pensante, la parola dell’illuminazione divina.

Con il capitolo 4 ha inizio l’esposizione filosofico-teologica del primo versetto del Genesi. Quale punto di partenza sceglie Agostino per il suo proposito? Ecco, il cielo e la terra esistono; essi proclamano che sono creati (Ecce sunt caelum et terra, clamant, quod facta sint). Agostino prende dunque le mosse dal cielo e dalla terra, dalla totalità dell’ente visibile nel suo essere (esse), che ha il significato di esser-presente, di esser-reale. Questo ente gli si mostra nel suo essere come un esser-creato. Il clamare va inteso qui non solo in senso figurato, ma nel suo significato fondamentale di mostrarsi. L’essercreato è il senso dell’essere di questo ente che percepiamo. Il fatto che questo ente si manifesti nel suo essere come un esser-creato, è motivato in riferimento al mutare (mutari) e al variare (variari). Il mutare ed il variare sono in effetti un carattere fenomenico del cielo e della terra e di tutto ciò che circonda queste regioni dell’ente. Ciò che muta e varia è in movimento. Ma tutti i movimenti si svolgono nel tempo. Poiché nel mutare e nel variare è incluso il tempo, diviene chiara anche la seguente proposizione: ma in ciò che non è stato creato, e tuttavia è, non c’è niente che non ci fosse anche prima (ante), quindi non c’è alcun mutare (mutari) e alcun variare (variari). Tutto ciò che è soggetto alla variazione e al mutamento ha la caratteristica di essere, ora, ciò che prima non era ancora, e ciò che dopo non sarà più. Ora, prima e dopo indicano i tre orizzonti del tempo. Per poter formare il concetto di essere come un non-esser-creato, Agostino deve partire dall’essere come esser-creato. Il carattere dell’esser-creato è il mostrantesi mutare e variare che accade nella successione del tempo. Al contrario, l’essere increato ha la caratteristica di poter essere pensato solo pensando la rimozione del non-ancora e del non-più propri di ogni mutare e di ogni variare interni al tempo. In latino “rimuovere” [entfernen] si dice removere, cosicché noi con Heidegger1 possiamo denominare un tale pensiero di rimozione come il modo di considerare rimuovente. Dal punto di vista metodologico, Agostino procede rigorosamente in questa maniera: l’ente “cielo e terra” gli si mostra nel carattere fenomenico del variare e del mutare interno al tempo. Dalla fonte della rivelazione egli sa della creazione divina, della relazione tra il Creatore increato e il mondo creato da Lui. Per poter cogliere concettualmente il Creatore divino e il Suo atto di creazione, Agostino non può determinarli direttamente, ma solo

indirettamente, partendo dall’ente dato fenomenicamente, i cui caratteri fenomenici del variare e del mutare vengono ormai spiegati e afferrati concettualmente, per mezzo della parola rivelata del Creatore divino, come un esser-creato. Dal canto suo l’esser-creato rimanda ad un ente creante increato, ma che può essere pensato solo in una considerazione rimuovente . Il cielo e la terra non proclamano solo di esser creati nel loro essere, ma anche di non essersi creati da sé, di non essersi portati da sé all’essere, bensì di esser creati attraverso un Altro. Infatti, per portarsi all’essere da se stessi, essi avrebbero dovuto “essere” già prima del loro essere, per poi portarsi ad essere come enti. E poiché essere prima di essere uno stesso ente è una contraddizione, risulta con la massima evidenza il rifiuto del pensiero di un’auto-creazione. L’Altro, colui che ha creato il cielo e la terra, non può che esser già, senza però esser creato da un altro. L’ente che muta nel tempo, e che come tale è creato, è bello (pulchrum), ma solo nella misura in cui esso è creato dalla bellezza di Dio. Lo stesso ente è buono (bonum), ma solo perché è creato da Dio, che è il bene. Innanzi tutto sono (sunt) il cielo e la terra: essi sono, ma solo perché sono creati da Dio, che è l’essere per eccellenza. Ma l’ente creato non è essente, buono e bello allo stesso modo in cui Dio è il bello, il bene e l’essere per eccellenza. L’ente creato partecipa solo in modo finito dell’essere, del bene, della bellezza. Qui, come vediamo, si delinea già quello che il pensiero scolastico chiamerà i transcendentia e l’analogia entis, e che costituirà il nucleo della metafisica medievale. Anche l’essere, la bontà e la bellezza di Dio vengono pensati sulla scorta di una considerazione rimuovente. Dopo aver pensato, nel capitolo 4, la relazione dell’ente creato con il creatore increato, nel capitolo 5 si pone la questione sul come della creazione. In che modo hai creato il cielo e la terra e di quali mezzi Ti sei servito? Il creare è un produrre. È una cosa che conosciamo per esperienza diretta, dal momento che noi stessi produciamo molti enti. Tuttavia, il produrre umano che ci è familiare, quello attraverso il quale ciò che ancora non è viene portato all’essere, è un produrre essenzialmente finito, cioè un produrre qualcosa tramite la trasformazione di qualcos’altro che già c’era. Al contrario, il produrre divino può esser pensato come un produrre in-finito, che non produce qualcosa da qualcos’altro, ma che dal nulla porta all’essere la totalità di ciò che esiste al di fuori di Dio. Anche il modo del produrre divino non può essere capito immediatamente e afferrato concettualmente, se

non sulla scorta di una considerazione rimuovente, a partire dal produrre fenomenico umano. Per questo Agostino dice che Dio non produce come l’artista umano (homo artifex). Ne segue una descrizione di come l’umano produrre sia limitato in molteplici modi. L’uomo forgia un corpo a partire da un altro corpo, e dunque a discrezione della sua anima, che possiede la capacità di dargli la forma che essa vede in se stessa con il suo occhio interiore. Tuttavia l’anima umana non è in grado di fare questo da sé, ma solo nella misura in cui essa stessa è stata portata all’essere, ovvero è stata creata. La forma vista all’interno dell’anima viene assegnata dall’uomo, mediante il suo corpo e la configurazione corporea, a ciò che è già presente, all’essere già dotato di materia, il quale riceve il suo essere dal creatore divino. Il produrre divino dev’essere considerato libero da tutte le condizioni che si trovano nel produrre umano. Mentre l’uomo può produrre qualcosa solo nella misura in cui egli è portato da un Altro all’essere, nella sua totalità di anima (spirito) e corpo, il creatore divino crea invece come un essere increato. Qui si trova già un rinvio all’aeternitas. Mentre l’uomo può produrre qualcosa di nuovo solo dando forma ad una materia già esistente, il creare divino non è vincolato ad alcunché di già dato. In questo la dottrina cristiana della creazione di Agostino si distingue dalla dottrina platonica della fondazione del mondo attraverso il Demiurgo, che, guardando alle idee eterne, dà alla Chora, la materia originaria totalmente informe, la forma di cosmo2. Certamente Agostino include nella sua dottrina della creazione l’idea a lui familiare di una materia informe (materia informis), ma in modo tale che nel capitolo 8 del XII libro dice: Tu Signore, hai creato il mondo dalla materia informe, e hai creato questa materia dal nulla portandola al quasi nulla (Tu enim, domine, fecisti mundum de materia informi, quam fecisti de nulla re paene nullam rem). La materia informe è per Agostino uno stadio intermedio interno alla creazione divina, che quindi precede il mondo dotato di forma, ma che è creata essa stessa dal nulla. Nel capitolo 5 Agostino si domanda in che modo Dio abbia creato il mondo. Anche la risposta che ne segue si attiene ad una considerazione rimuovente, in un rimuovere che nega tutte le condizioni del produrre umano. Mentre l’uomo produce sulla terra e sotto il cielo, Dio non ha creato il cielo e la terra nel cielo visibile o sulla terra, né nell’aria o nell’acqua. Dio non ha

creato l’universo (universum mundum) nell’universo (in universo mundo). Infatti prima che il mondo nascesse non c’era nulla “in cui” esso sarebbe potuto nascere. Ciò è detto in due sensi. L’espressione universus mundus designa la totalità dell’ente al di fuori di Dio. Prima che questa fosse portata all’essere, non c’era assolutamente alcun altro ente non divino in cui l’universo sarebbe potuto nascere. Con questo è di nuovo sottolineato che l’universo non è creato da qualcosa, ma dal nulla. Ma allo stesso tempo è anche detto che prima della creazione non c’era assolutamente nessun dove (ubi), dunque nessuno spazio, poiché lo spazio è creato insieme all’universo. Mentre il produrre umano accade in qualche luogo, il creare divino è libero dal legame con lo spazio, il quale appartiene esso stesso a ciò che è creato. Proprio per questo, la successiva proposizione del capitolo 5 chiarisce direttamente che Dio, per creare l’universo da una materia, non si serve di qualcosa allo stesso modo dell’uomo. Innanzitutto qui viene respinta l’antica idea di una materia originaria, che sarebbe anteriore al creare divino, come è anteriore al Demiurgo platonico. Se anche all’interno dell’atto creatore dovesse esserci qualcosa come una materia originaria informe, essa non potrebbe essere increata, ma dovrebbe essere prodotta anch’essa dal Creatore. Tutto ciò che è qualcosa e non è Dio stesso, riceve il suo essere solo dall’unico essere increato di Dio. Dopo il triplice “non” – non come il produttore umano, non in qualche luogo già esistente e non da una materia originaria già data – segue una risposta positiva alla domanda sul modo in cui Dio ha creato l’universo. Il creare divino accade come un parlare, il parlare della parola creatrice, di cui si fa menzione anche nel Genesi. Con questo, però, non possiamo affatto dire di aver compreso il parlare divino della parola creatrice. Anche il parlare, infatti, ci è noto anzitutto come un parlare umano o fenomenico, quello che inizia nel tempo, risuona per un po’ di tempo e poi di nuovo cessa. Il parlare divino non si svolge all’interno del tempo; esso è infatti l’eterna parola di Dio. L’eternità della parola creatrice deve perciò essere pensata prima di ogni cosa. Anche il concetto del parlare divino può essere guadagnato solo partendo dal parlare fenomenico umano, quello che ci è familiare come un parlare vocale che si svolge nel tempo. Il concetto di eternità può essere guadagnato solo nel salto negante e rimuovente a partire dai caratteri del tempo e di ciò che è interno al tempo.

Sennonché nelle Sacre Scritture – che Agostino si sforza di penetrare da una prospettiva teologico-filosofica – ci sono dei passi che dicono che anche il parlare divino si è servito della voce che procede nel tempo. Nel capitolo 6, lì dove Agostino cerca di cogliere il concetto di eternità partendo dal parlare interno al tempo e in un allontanamento negante i caratteri del tempo, egli non si basa sul suo proprio parlare umano, bensì su quel parlare, pur svolgentesi nel tempo, che è servito però alla manifestazione di una parola divina. Agostino sceglie proprio un esempio di questo genere per mettere in rilievo il carattere di eternità della parola creatrice, anche quando il parlare divino si serve di una parola che risuona all’interno del tempo. Egli ricorda un racconto tratto dal Vangelo di Matteo, capitolo 17: Gesù va su una montagna con i suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni; in quel luogo i discepoli vedono Gesù trasfigurato davanti a loro, e vedono Mosè ed Elia venire verso Gesù e parlare con lui. Allorché Pietro si rivolge a Gesù trasfigurato, una nube luminosa li avvolge con la sua ombra, e da essa parla una voce: «Questo è il mio figlio prediletto». Facendo riferimento a questo parlare di Dio, udito dai discepoli come un parlare vocale che si svolge nel tempo, Agostino sottolinea che il parlare della parola creatrice non può essere di questo tipo. Descrivendo il modo d’essere della voce udita dai discepoli, quello che viene caratterizzato nel suo modo d’essere è il linguaggio fenomenico in generale. La voce si è mossa (acta est) e si è spostata (transacta est). Il suo muoversi è uno spostarsi. Il “trans” significa il “trapasso” [“hinüber”] dall’ora di questo momento nel non-più-ora. Il trans dice anche il carattere fondamentale del tempo: l’avvicendarsi dell’ora e di ciò che, di volta in volta, è il presente di questo ora. La voce ha avuto inizio (coepta) ed è cessata (finita). Essa si estende fra l’ora del suo inizio e l’ora della sua fine. Ma come si estende in questo “fra”? Le sillabe delle parole dette hanno risuonato e sono passate (transierunt). Anche nella successiva indagine sul tempo Agostino caratterizzerà quest’ultimo con l’aiuto di tale transire. Adesso la descrizione guarda alle singole sillabe della voce che risuona, per mostrare che, nell’ora, a risuonare in senso stretto è sempre solo una sillaba. La seconda sillaba è, ora, solo dopo (post) la prima, la terza dopo la seconda. Se ora risuona la terza sillaba, la seconda e la prima sono già passate dal loro ora nel loro non-più-ora. Il passare delle sillabe, che nel loro insieme formano la totalità della voce che risuona, accade ex ordine, secondo l’ordine del tempo,

ossia secondo la successione in quanto carattere fondamentale del tempo. Poiché questa voce udita dai discepoli era legata all’ordine del tempo, essa non poteva essere la stessa parola divina, ma una voce prodotta dal Creatore, la quale, nel suo carattere temporale, è servita a trasmettere la volontà eterna (aeternae voluntati tuae). Se il divino Creatore avesse pronunciato la sua parola creatrice con le parole che risuonano e che passano (verbis sonantibus et praetereuntibus), allora prima della creazione dell’universo avrebbe già dovuto esserci una creazione corporea attraverso il cui movimento interno al tempo fosse passata in modo temporale la voce per la parola creatrice. Ma poiché il cielo e la terra rappresentano la totalità dell’ente al di fuori di Dio, prima (ante) della creazione del cielo e della terra non può esserci stata nessun’altra creatura corporea attraverso la cui voce prodotta all’interno del tempo fosse stata pronunciata la parola divina della creazione. Tuttavia, anche qualora fosse esistita una qualche creatura corporea prima della creazione del cielo e della terra, essa non sarebbe potuta essere increata, bensì sarebbe stata anch’essa creata da Dio, ma di nuovo non tramite una voce che passa dall’ora all’ora (transitoria voce). Per questo il capitolo 6 ritorna alla domanda iniziale. Posto che nella creazione del cielo e della terra la parola creatrice si sia servita di una voce corporea interna al tempo, rimane da domandarsi quale mai possa essere il genere di parola adoperata da un essere corporeo la cui voce è stata creata all’interno del tempo per trasmettere la parola creatrice del cielo e della terra, se non una parola che passa nel tempo dall’ora all’ora. Se questa parola creatrice è eterna, allora la domanda è rivolta al modo in cui questa eternità è determinabile concettualmente. Per capire tutto ciò, è di particolare importanza il fatto che Agostino, per la caratterizzazione del tempo e dell’essere-nel-tempo, adoperi i verbi transire e praeterire: transire come il passare dall’altra parte [Hinübergehen], praeterire come il passar-via [Vorbeigehen] nel senso dello svanire [Vergehen]. Il praeter spiega il trans del passar-oltre, poiché il passare dall’altra parte è un’andar via nel passato. Finora è stato solo detto che la parola divina della creazione non può essere una parola pronunciata all’interno del tempo. La caratterizzazione positiva del parlare divino, finora mancante, viene acquisita nel capitolo 7. La parola creatrice non è pronunciata temporalmente (temporaliter), ma perennemente (sempiterne). La prima determinazione positiva del parlare

divino è l’avverbio “sempiterne”, o meglio l’aggettivo “sempiternus”. Ma la determinazione positiva del parlare divino dice anche che, attraverso la parola creatrice perennemente pronunciata, viene detta ogni cosa (omnia). La spiegazione del “sempiterne” e dell’“omnia” viene raggiunta anch’essa in una considerazione di tipo rimuovente, non solo perché viene semplicemente negato il temporaliter, ma anche perché lo specifico carattere dell’esser temporale viene estrapolato e rimosso, in modo da chiarificare positivamente il significato con cui pensare l’eternità. Non basta solamente contrapporre al temporale – ovvero all’essere interno al tempo – il perenne, ma bisogna domandare in che modo il perenne vada espressamente pensato. Esso però può essere pensato concettualmente solo attraverso uno salto rimuovente orientato in un determinato modo. Quello che vien detto nel parlare divino non finisce (non finitur) come il parlare interno al tempo. Il perenne, dunque, viene pensato innanzitutto come negazione della fine interna al tempo. Ma questo potrebbe significare che il parlare divino si distingue da quello umano unicamente perché, a differenza di quest’ultimo, esso non finisce prima o poi nel corso tempo, ma perdura nel tempo, accade all’infinito. Il fatto che nel parlare eterno della parola creatrice venga detta ogni cosa (omnia), è spiegato attraverso l’indicazione che nient’altro (neque aliud) è detto, affinché tutto possa esser detto. In questa indicazione è di nuovo indicata la caratteristica tipica del parlare interno al tempo. In che senso? Se noi pronunciamo una frase, questo nostro parlare ha luogo nella successione del tempo, ovvero nel susseguirsi degli ora. In ciascun ora è detta sempre solo una parte, una sillaba dell’intera frase. Ogni singolo ora di quel lasso di tempo di cui ha bisogno il pronunciamento dell’intera frase, contiene sempre, di volta in volta, qualcosa di diverso, un’altra sillaba delle parole della mia frase completa. Per poter pronunciare la totalità della frase e il suo significato, io ho bisogno della successione degli ora, in cui è sempre pronunciato, di volta in volta, qualcosa di diverso della totalità della mia frase. Il parlare divino della parola creatrice, al contrario, non dice di volta in volta qualcosa di sempre diverso, per poter dire il tutto, ma dice perennemente tutto insieme (simul). Così come “perennemente” è il termine positivo opposto a “temporalmente finito”, allo stesso modo ora “tutto insieme” è il termine positivo opposto a “uno dopo l’altro”. Mentre ciò che si

deve dire nel parlare fenomenico, considerato nella sua totalità, è un avvicendamento nella successione del tempo, la totalità di ciò che è detto nella parola creatrice non è affatto un avvicendamento, né una successione. Nel “simul” è quindi negata la successione dell’ora. Tuttavia noi conosciamo, innanzitutto, anche il “simul” inteso come la contemporaneità fenomenica. Ciò che, in questo senso, è “contemporaneo” o “simultaneo”, sta insieme a qualcos’altro in uno stesso tempo, ovvero in uno stesso ora. L’ora fenomenico, tuttavia, è tale da passare continuamente nel non-più-ora e da emergere continuamente come qualcosa di nuovo dal nonancora-ora. Per questo non basta ancora contrapporre alla successione temporale del parlare umano la contemporaneità del parlare divino. Questa contemporaneità, in cui è detto tutto, in cui è detta la totalità della parola creatrice, ha bisogno ancora di ulteriori chiarimenti. Se nel parlare della parola creatrice non fosse detto “tutto” contemporaneamente e perennemente, allora esso avrebbe a che fare con il tempo (tempus) e il mutamento (mutatio) e non con la vera eternità (vera aeternitas) e con la vera immortalità (vera immortalitas). Ma tempo significa: successione dell’ora, e mutamento significa che l’ente interno al tempo non è stabile, ma si trasforma da un ora all’altro ora, e nel trasformarsi svanisce, passa nel non-più. Perciò diviene sempre più chiaro che noi dobbiamo rimuovere espressamente con il pensiero i diversi caratteri del “non” che appartengono come tali al tempo per poter pensare il concetto della vera eternità come la vera immortalità. Prima di procedere oltre, sempre nel capitolo 7, emerge ancora una volta il carattere di confessione del sapere finora raggiunto da Agostino. Ciò che egli ha guadagnato finora nella comprensione intellettuale, e che caratterizza come una verità certa (certa veritas), lo confessa davanti a Dio: e a Dio rende lode per avergli concesso questa comprensione concettuale. La concessione di questa comprensione intellettuale avviene a partire da un’illuminazione divina, ed è questo il motivo per cui il quarto significato di confessio – vale a dire il riconoscimento davanti a Dio delle vere conoscenze guadagnate, come un’azione di lode verso di Lui – scaturisce dalla dottrina dell’illuminazione. Nella seconda metà del capitolo 7 si acutizza – com’era necessario – il procedimento del salto rimuovente a partire dai caratteri “negativi” del tempo. Ciò che è determinato dal morire (mori) e dal nascere (oriri), ciò che accade nel tempo, è tale che, ora, esso non è più ciò che era (non est quod

erat), ed è ciò che prima ancora non era (est quod non erat). Il parlare umano, quando è già iniziato da un po’ di tempo, con la sillaba che risuona ora, non è già più quelle sillabe che risuonavano in precedenza. Al contempo, con la stessa sillaba che risuona ora, il parlare umano è ciò che non era ancora nella sillaba immediatamente precedente, quando quest’ultima era nell’ora. Il fenomeno a cui Agostino rivolge il suo sguardo può essere descritto anche in questo modo: la voce che si propaga nella successione temporale non è più, con la sillaba che risuona ora, la sillaba immediatamente precedente, e non è ancora la sillaba immediatamente successiva. Ogni ora e ogni presente è circondato da un non-più e da un non-ancora; più precisamente, l’ora non rimane come questo ora, ma passa scorrendo nel nonpiù-ora, e tuttavia senza creare con ciò un buco nel tempo, bensì in modo tale che l’ora che passa nel non-più-ora sia rimpiazzato da un nuovo ora che passa scorrendo dal non-ancora-ora. Con lo sguardo rivolto a questo duplice carattere “negativo” del parlare interno al tempo, Agostino afferma che, per quel che riguarda il parlare della parola creatrice, non c’è niente che ceda il posto (cedit) e niente che succeda (succedit). La vera immortalità e la vera eternità della parola creatrice è libera dallo sparire nel non-più e dal seguire e avvicinarsi a partire dal non-ancora. Entrambi questi caratteri-non attinenti al tempo sono quelli che devono essere espressamente tenuti lontani nel pensare, per lasciar libero lo sguardo per un essere senza passaggio nel non-più e senza aggiunta a partire dal non-ancora. Quello che Tu pronunci – dice Agostino rivolgendosi a Dio – lo pronunci attraverso la parola a Te coeterna “in un tutto simultaneo e sempiterno”. Ma una volta che il non-più e il non-ancora sono stati rimossi dal parlare divino, viene negata soprattutto la successione temporale. Infatti la successione è tale solamente in relazione al non-più, in cui passa l’ora attuale, e in relazione al non-ancora, dal quale emerge un nuovo ora. “Sempiterno”, perciò, non può più significare l’“infinito” in cui si mantiene la successione degli ora. Nel “sempiterno” è negata la stessa successione degli ora, il non-più così come pure il non-ancora. La totalità di ciò che è detto nella parola creatrice non viene detto in successione, ma tutto insieme. Noi ora traduciamo il simul non più come «nello stesso tempo» [Zugleich], bensì come «una volta che» [o «tutto in una volta»: Zumal], per lasciar intendere in tal modo che il simul non può essere pensato nel senso della contemporaneità. Lo “stesso” tempo significa lo

stesso ora per più cose. Così, per esempio, due voci possono risuonare contemporaneamente. Ogni ora è lo stesso ora per ciascuna delle sillabe pronunciate ora dall’una voce come dall’altra. Che tutto ciò che viene detto nella parola creatrice venga detto simul, tutto in una volta [Zumal], non significa che, invece di esser detto in una successione di ora, uno dopo l’altro, venga detto in un solo ora, ovvero contemporaneamente. Questo ora infatti sarebbe pur sempre un ora nella successione degli ora, solo che tutto ciò che viene detto sarebbe, per così dire, concentrato in un singolo ora. Così come nel “sempiterno” sono negate la successione, e con essa il non-più e il nonancora, così anche il simul dev’essere lasciato libero dalla contemporaneità. Ma mentre il parlare divino, vale a dire il creare, accade tutto in una volta e in maniera sempiterna, e in questo senso è eterno, dell’ente creato non si può dire che è causato tutto in una volta e in maniera sempiterna. Questo significa due cose. L’ente creato, a differenza del creare divino da cui esso ha origine, non è determinato attraverso il simul nel senso del tutto in una volta sovratemporale, o attraverso il sempiterne nel senso dell’eternità sovratemporale. Ma soprattutto, il fatto che l’ente creato scaturisca dal simul del parlare divino, non vuol dire che esso nasca contemporaneamente a tutto il resto. Inoltre, per quanto il fondamento del suo essere si trovi nel sempiterne del parlare divino, esso tuttavia non nasce come un ente che non muoia e si mantenga perennemente nell’essere. Uno sguardo all’ente creato e interno al tempo mostra che esso non è tutto contemporaneamente, in uno stesso unico ora, bensì che è in una successione di ora, e che finisce di nuovo nel tempo. La difficoltà concettuale che emerge in questo contesto viene risolta nel capitolo 8. La difficoltà consiste nel riuscire a pensare il conflitto tra il “tutto in una volta e sempiterno” del creare divino appena considerato, e la successione, come pure il finire, dell’ente creato interno al tempo. Agostino risponde a questo proposito: tutto ciò che inizia ad essere nel tempo, e che nel tempo cessa di essere, inizia e cessa di essere quando il suo dover iniziare e finire interni al tempo sono stati riconosciuti, ovvero posti, nella ragione eterna del Dio creatore. Questo porre e questo riconoscere nella ragione divina appartengono al modo di parlare della parola creatrice, che, come si è spiegato, dice tutto in una volta e in maniera sempiterna, dunque eterna, cosicché in esso non vi sono nessun inizio e nessuna fine interni al tempo. Il quando dell’iniziare e del finire dell’ente creato interni al tempo non è anche

il quando in cui il Dio creatore si decide a far nascere e morire l’ente. L’ordine del tempo e l’ordine del nascere e del morire interni al tempo hanno la propria origine totalmente nella ragione del Dio creatore. Tuttavia, in base a ciò che da essa scaturisce e che da essa è prodotto, non è possibile risalire alla loro origine. L’origine che li fa scaturire non può essere pensata e determinata a partire da ciò che da essa scaturisce, ma solo nel salto rimuovente che si allontana da ciò che è scaturito. Il parlare della parola creatrice è il principio (principium) in cui sono creati il cielo e la terra e l’ente al di fuori di Dio. Tutto ciò che finora è stato detto, secondo una considerazione rimuovente, della parola della creazione divina, e che è stato sintetizzato nel “simul et sempiterne omnia”, getta una luce anche sull’“origine”. Essa non è l’inizio nel tempo, il quale si colloca in un ora che è circondato da un non-più e da un non-ancora, bensì è il principio che permane (principium…, nisi maneret). Solo che esso non permane come ciò che resta nel tempo da un ora a un altro ora, ma permane invariabile nel suo essere, libero rispetto al non-più e al non-ancora. Anche il permanere, il non-cambiare del principio può essere pensato solo nel distacco rimuovente dal persistere interno al tempo, ossia dal relativo resistere di qualcosa attraverso il fluire dell’ora nel non-più e del non-ancora-ora nell’ora. Il principio in cui Dio ha creato il cielo e la terra è, in quanto principium, l’origine da cui tutto l’essere creato – che in quanto tale nasce nel tempo, ha una durata temporale e passa di nuovo – riceve il proprio essere. Nel capitolo 9 Agostino dice qualcosa di essenziale sul carattere proprio di quella conoscenza filosofico-teologica nella quale viene cercata la visione concettuale dell’eternità nel distacco rimuovente dai diversi caratteri del tempo. La parola divina della creazione è detta in modo prodigioso (miro modo), dunque inafferrabile, in un modo cioè che l’uomo creato e finito non può cogliere né spiegare. Ma questo non vuol dire negare la comprensione guadagnata fino ad ora, come se, a posteriori, dicessimo che non abbiamo potuto guadagnare in generale nessuna conoscenza concettuale riguardo all’eternità della parola creatrice. Ciò che ora viene negato è piuttosto il fatto che noi, anche in una considerazione di tipo rimuovente, non giungiamo mai ad una visione completa dell’essenza dell’eternità. L’eternità della parola creatrice si dà a comprendere alla nostra visione solo nel modo di un balenare (interlucet). Solo nel preciso istante in cui il pensiero si distacca dal carattere temporale balena qualcosa dell’eternità, che poi torna rapidamente ad

oscurarsi, per riaccendersi all’improvviso nel momento in cui il pensiero torna a distanziarsi nuovamente dai caratteri temporali. Questa è in effetti un’esatta descrizione del carattere peculiare di quella conoscenza che avviene solo nell’istante del salto rimuovente. Compiuto questo salto, noi non stiamo davanti all’eternità per guardarla e afferrarla continuamente in se stessa.

2. I tempi che non sussistono mai, il distacco rimuovente e l’eternità che sussiste sempre (XI, 10-13) Nel capitolo 10 Agostino solleva un’obiezione che gli serve ad affinare – attraverso un progressivo distacco – il concetto di eternità sovratemporale guadagnato sinora e a mettere in rilievo l’esser creato del tempo. L’obiezione si formula attraverso una serie di domande. Nel Genesi si dice: “In principio” Dio creò il cielo e la terra, ma allora cosa faceva Dio prima (antequam) di creare il cielo e la terra? Colui che avanza questa obiezione, dà subito anche la risposta: prima della creazione, Dio era inattivo (vacabat) e non compiva alcuna azione (non operabatur aliquid). Da questa risposta nasce la seconda domanda: perché, dunque, anche dopo, Dio non è rimasto sempre (non semper et deinceps) altrettanto inattivo, esattamente come, prima della creazione, si era sempre (semper) astenuto da ogni agire? Colui che pone questa domanda ne dà anche la risposta: in Dio dev’essere sorto un qualche impulso e una nuova volontà, una decisione volontaria di produrre delle creature che mai prima di allora (ante) aveva prodotto. Questa risposta porta alla terza domanda: in che modo si può ancora parlare di vera eternità (vera aeternitas), lì dove sorge una decisione volontaria che prima non c’era (non erat)? Con le argomentazioni che vengono addotte da colui che pone l’obiezione si cerca di compromettere completamente la vera eternità di Dio. L’eternità, così come è stata posta finora in questione, e cioè in comparazione all’essere-nel tempo, non si può limitare – come fa colui che solleva l’obiezione – al volere e alla decisione volontaria di Dio, come se ci fosse una differenza fra Dio e il suo volere. La volontà divina non è essa stessa qualcosa di creato e come tale interna al tempo. Ciò che è creato può esser creato solo sulla base del volere divino, che in quanto tale precede tutto ciò che è creato. Ma da ciò segue che la volontà di Dio, e quindi il volere della creazione, appartiene alla sostanza stessa di

Dio (ad ipsam dei substantiam pertinet). Perciò il sorgere della decisione volontaria della creazione va posto nella sostanza stessa di Dio. Ma se in quest’ultima è sorta la decisione volontaria della creazione, che prima (prius) non sussisteva, la stessa sostanza divina non può esser definita veramente eterna. E se poi si replicasse a questa obiezione che la volontà creatrice della sostanza divina non è affatto sorta, ma era una volontà sempiterna (sempiterna), allora ci si dovrebbe domandare – da parte di chi solleva l’obiezione – perché mai anche la creazione non sia sempiterna, ovvero senza origine. O la volontà creatrice è sorta nella sostanza divina, e in questo caso l’origine è interna al tempo, oppure la volontà creatrice era già sempre senza un’origine interna al tempo, e in tal caso anche la creazione è già sempre infinita nel tempo. Fin qui l’obiezione. Da quali presupposti prenda le mosse questa obiezione, lo si vede subito: il tempo in quanto tale – a prescindere dall’ente creato interno al tempo – ci sarebbe già prima della creazione dell’ente al di fuori di Dio. Perciò, all’inizio del capitolo 11, Agostino replica a colui che ha formulato questa osservazione, affermando che questi tenta di cogliere concettualmente l’eterno, ma con i caratteri del tempo, anziché distaccarsi con il pensiero dai caratteri temporali e scorgere così per un istante la vera eternità. La vera eternità viene ora chiamata «l’eternità che sempre sussiste» (semper stans aeternitas) distaccandosi dai tempi che invece non sussistono mai (tempora numquam stantia). Il non-esser-stabili dei tempi, degli intervalli di tempo, è il loro transire e praeterire, è il loro trascorrere e passare. Il non-sussistere riferito al tempo è il carattere del suo duplice passare: dal non-ancora-ora nell’ora, e da questo nel non-più-ora. Se l’ora è il presente nel tempo, il nonpiù ora è il passato e il non-ancora-ora il futuro, allora la vera eternità è il presente che non passa nel passato e che non accade di nuovo nel futuro, ovvero che non si trasforma, bensì è il presente che permane. Coloro che avanzano quella obiezione – dice Agostino nel capitolo 11 – non comprendono ancora (nondum intellegunt) in che modo accada quello che accade attraverso Dio e in Dio, ossia la creazione dell’ente al di fuori di Dio. L’“intelligere” significa qui la comprensione filosofico-concettuale. Essi tentano di cogliere l’eterno, ma, per comprendere l’eternità della creazione divina, si orientano nei movimenti passati e futuri, nei movimenti interni al tempo di quelle cose che sono determinate attraverso il passaggio del non-

ancora-ora nell’ora e dell’ora nel non-più-ora. Quello che essi non comprendono è il distaccarsi con il pensiero dai caratteri temporali per cogliere concettualmente, nella prospettiva aperta dal distacco rimuovente, l’eternità sovratemporale. In questo distaccarsi da parte del pensiero nasce il concetto della vera eternità. Tuttavia l’aeternitas, in quanto “sempre sussistente”, può essere pensata solo nel distacco dal tempo e dal suo “non esser mai sussistente”. I “tempi mai sussistenti” sono gli intervalli temporali in cui l’ente interno al tempo è e dura. Nella durata del tempo, lungo la quale una cosa temporale sta nel tempo, non si mostra nulla che “permanga”. La durata temporale di ciò che è interno al tempo è determinata in se stessa attraverso il passaggio continuo dell’ora nel non-più ora e del non-ancora-ora nell’ora. Questo carattere del continuo passare è ciò che Agostino chiama il non-esser-sussistente del tempo. Se ci allontaniamo con il pensiero da questo duplice carattere di passaggio del tempo, noi riusciamo a vedere un ora che non passa in un nonpiù e che non viene soppiantato da un non-ancora-ora. Questo ora non toccato dal non-più e dal non-ancora è l’ora che non passa, l’ora che permane, il nunc stans. Il tempo che non sussiste mai e l’eternità che sempre sussiste sono “incomparabili”. Ciò vuol dire che la vera eternità può essere pensata solo in un distacco rimuovente, correttamente condotto, dai caratteri temporali. Ma il senso di questo salto rimuovente è che i caratteri temporali non falsifichino di nuovo a posteriori, o in modo velato, il concetto della vera eternità. È lo stesso avvertimento espresso nelle frasi seguenti: l’eternità non può essere pensata sul modello di un «tempo che dura a lungo» (longum tempus), come se una lunga durata fosse un pezzo di eternità. Il tempo in cui qualcosa dura a lungo diventa una lunga durata solo «a partire dalle molte fasi del movimento che passano» (ex multis praetereuntibus motibus), le quali non sono simultanee (simul), ma possono estendersi solo nella successione. Anche il lungo tempo in cui qualcosa dura non è sussistente, ma è in sé continuo transito dall’ora nel non-più. Al contrario, nell’eterno (in aeterno) non avviene in assoluto alcun passare (praeterire), alcun transito di un presente che passa nel passato. La totalità dell’eterno non si estende a lungo, e neanche infinitamente, nel tempo e nel suo passare, bensì, come un tutto sovratemporale, è presente (praesens): ma presente in un presente che, non conoscendo alcun praeterire, non passa

nel non-più-ora. Contrariamente a ciò, per un ente interno al tempo, non vi è alcun tempo che sia nella sua totalità solamente presente, senza passaggio nel non-più. L’essenziale della successione nel tempo, il suo duplice carattere di passaggio, viene descritto in questo modo da Agostino: tutto il passato è passato, dall’ora è andato a finire nel non-più-ora, poiché esso viene scalzato via dall’ora da parte del futuro, cioè nel passaggio del non-ancora-ora nell’ora. Tutto il futuro segue al passato, nella misura in cui segue all’ora che passa nel non-più-ora, ma lo segue come il passaggio del non-ancora-ora nell’ora. Nella conclusione del capitolo 11, viene pensato per la prima volta il provenire del tempo dall’eternità. Tutto il passato e tutto ciò che verrà (omne praeteritum ac futurum) viene creato da ciò che è sempre presente (quod semper est praesens), in modo tale da provenire da esso. Pensando la relazione tra il tempo – come ciò che è scaturito – e l’origine che lo ha fatto scaturire – cioè l’eternità –, il tempo viene considerato relativamente all’orizzonte del passato e del futuro, senza menzionare il presente. Perché questo? Perché è esattamente per queste due dimensioni che il presente non è mai puramente sussistente, ma in sé stesso solo transitante. Il presente sussistente, non toccato dal passaggio del non-ancora nell’ora e dell’ora nel non-più-ora, è l’origine del tempo con le sue tre dimensioni. L’eternità sussistente (stans aeternitas), che in quanto tale è libera da ciò che avverrà (futura) e da ciò che è passato (praeterita), dispone del tempo – in qualità di principio originante del tempo – nei suoi tre orizzonti: il presente che passa, il passato e il futuro. Nel capitolo 12 Agostino stesso risponde alla domanda che l’obiettore aveva posto nel capitolo 10 e a cui aveva anche dato risposta in una maniera inammissibile. Alla domanda su cosa abbia fatto Dio “prima” della creazione, la risposta deve suonare così: prima che egli creasse il cielo e la terra, cioè la totalità dell’essere extra-divino, egli non ha fatto assolutamente niente. Ma adesso è importante pensare questo “antequam” non come interno al tempo, perché anche il “principio” non è interno al tempo. Piuttosto questo “in principio” dev’essere pensato sulla scorta del distacco rimuovente, in cui si mostra che l’“in principio” va pensato come presente sussistente senza un prima e un dopo. Nel capitolo 13 si dimostra che la domanda posta nel capitolo 10 su cosa

abbia fatto Dio prima della creazione dell’essere extra-divino è una falsa domanda. Essa, infatti, stabilisce un tempo di lunga durata, infinito, prima della creazione, senza considerare che anche questo tempo infinito, col suo passato e il suo futuro, è creato. L’ente divino increato viene determinato da Agostino come colui che tutto può (omnipotens), tutto crea (omnicreans) e tutto tiene (omnitenens). L’onnipotenza significa che Dio ha potere su tutto l’extra-divino. Questa onnipotenza si esprime nel fatto che Dio porta all’essere tutto ciò che non è divino e lo mantiene nell’essere per la durata del suo essere finito. Ma all’extra-divino appartiene anche il tempo con il suo non-più e non-ancora, cosicché il Creatore divino è anche l’autore (auctor) e il fondatore (conditor) di tutti i tempi, anche del tempo considerato infinito. Per questo non può esservi stato alcun tempo lungo o infinitamente lungo prima della creazione, perché anche questo tempo ha origine solo nella creazione. Il tempo, con la sua successione, il suo passaggio, il suo transito, non c’era prima della creazione dell’ente extra-divino, ma è stato creato insieme a questo ente come sua forma temporale. Il creare stesso e l’“in principio” devono essere pensati lasciandoli liberi da quei caratteri temporali che appartengono al passaggio dal non-ancora nel non-più. Poiché non c’era alcun tempo prima della creazione dell’ente extra-divino, non c’era nemmeno alcun «allora» (tunc). In che modo l’ente divino, che tutto crea, precede l’ente creato e la sua forma temporale? Questo precedere (praecedere) non ha alcun significato temporale. Dio, come origine del tempo in quanto tale e dei suoi caratteri, non può precedere il tempo “nel” tempo, ma solo nel modo in cui l’eternità, in quanto origine del tempo, precede il tempo. L’eternità sempre presente di Dio (semper praesens aeternitas) precede tutto ciò che è passato (praecedis omnia praeterita), ma non nel modo in cui un ora che viene prima precede quello successivo, cioè non in modo temporale, bensì sovratemporale. L’eternità sempre presente precede tutto ciò che è passato, precede il passato come il solo orizzonte temporale, esattamente come l’origine che lascia scaturire da sé precede ciò che vi scaturisce. L’eternità sempre presente supera tutte le cose future (superas omnia futura). Mentre a proposito del rapporto dell’eternità col passato, Agostino parla di praecedere, egli invece caratterizza il rapporto tra l’eternità ed il futuro come un superare (superare). Anche questo superare, nel senso del precedere proprio del futuro, non è del tipo di un ora futuro che viene

superato da un ora ancora più lontano nel futuro. Il modo in cui l’eternità sempre presente supera anche la dimensione futura del tempo è anch’esso di tipo sovratemporale. L’eternità sempre presente, il presente permanente, è origine per il futuro così come per il passato e dunque anche per il presente non permanente. Il capitolo 13 si conclude con un confronto fra l’eternità e il tempo. Anche questo confronto dev’essere inteso nel senso che quella che adesso viene definita come una caratterizzazione conclusiva della vera eternità, è guadagnata solo nel distacco rimuovente dai corrispondenti caratteri temporali. L’eternità dell’essere di Dio viene compresa come l’idem ipse esse, come lo stesso essere immutabile, guadagnato come determinazione concettuale nel distacco rispetto al mutare interno del tempo. Nel salto che si allontana da tutto ciò che riguarda l’essere temporale, si può dire che l’eternità di Dio è libera dal diminuire e dal finire (deficere), mentre invece ciò che è nel tempo perde il suo essere nel passare da un ora a un altro ora. L’aeternitas non conosce nessun ire e nessun venire, né l’andare inteso come passare dell’ora nel non-più-ora, né il venire dal non-ancora-ora nell’ora. Il trascorrere e il venire può essere accordato all’eternità solo distaccandosi dal trascorrere e dal venire temporali. Il fatto che Agostino, nel confronto tra l’eternità e il tempo, prima definisca l’eternità e poi le contrapponga il tempo, non deve farci pensare che la caratterizzazione del tempo sia derivata dall’eternità. Piuttosto le cose stanno al contrario. La totalità dell’essere interno al tempo è completa solo nella successione dell’ora, del non-più-ora e del non-ancora-ora, mentre la totalità dell’essere divino è la totalità sovratemporale-immutabile. L’eternità dell’essere divino è un simul stare, il permanere tutto in una volta. Questo stare viene concepito nel salto rimuovente dall’ire, dal venire e dal transire legati al tempo. L’essere temporale di ciò che è interno al tempo è esteso nell’esteriorità e nella successione del tempo, è esteso tra ciascun ora, non-ancora-ora e nonpiù-ora. Esso raggiunge la sua totalità solo nell’istante in cui esso non è già più questa totalità. Infatti, quando esso ha raggiunto il suo ultimo ora, il continuum degli ora precedenti è già passato. L’eternità di Dio è un giorno unico (dies unus). Come unico giorno esso non è un giorno che si trovi tra un giorno precedente e uno futuro, non è un giorno che si trasformi nel non-più e che accada di nuovo a partire dal non-

ancora. L’eternità di Dio, in quanto è questo giorno unico e in sé non trasformabile, è un oggi (hodie) che non cede il posto ad un cras, ad un “domani”, ad un imminente non-ancora-ora, e che non è preceduto da un heri, da uno “ieri”: dunque è un hodie che non è diventato un heri quando il cras è diventato hodie. Di questo hodie, di questo unico hodiernus dies, si dice che esso sia l’eternità. L’eternità guadagnata concettualmente nel distacco rimuovente da tutti i caratteri del tempo legati al nulla, è la vera eternità. Solo la vera eternità porta il nome di aeternitas, mentre la falsa eternità, la durata interminabile interna al tempo, è denominata sempiternitas. Con questa determinazione dell’eternità – l’oggi permanente come il presente permanente, libero dal passaggio nel non-più e dal non-ancora – si conclude il capitolo 13 e con esso la determinazione filosofico-teologica dell’eternità. Con il capitolo 14 comincia la ricerca sul tempo, che ormai è una ricerca puramente filosofica e non più filosofico-teologica. 1

Heidegger, Geschichte der Philosophie cit. Plat., Timeo, 48 e 2 e ss, in Ioannes Burnet (ed.), Platonis Opera, e typographeo Clarendoniano, Oxonii 1905-1910, vol. IV. 2

Capitolo 2 Struttura costruttiva e forma dinamica della ricerca sul tempo 1. La struttura costruttiva della ricerca sul tempo Potrebbe stupire il fatto che nella letteratura agostiniana, non solo in quella più datata, ma anche in quella più recente, domini ancora una scarsa chiarezza e una visione non ancora sicura riguardo alla costruzione e all’andamento della ricerca sul tempo1. Certamente è stato spesso osservato che essa è suddivisa in due parti e che ciascuna di queste è guidata da una propria domanda. E tuttavia il carattere di queste domande, nonché il loro nesso interno, è stato il più delle volte tralasciato. Ma per una comprensione soddisfacente dei singoli passi della ricerca è di importanza decisiva che la struttura costruttiva dell’indagine sia conosciuta sin dall’inizio. La conoscenza della struttura costruttiva di un testo filosofico contribuisce al formarsi della precomprensione necessaria del testo da interpretare, la quale a sua volta fornisce una guida sicura ai passi dell’interpretazione. La determinazione preliminare della struttura costruttiva rientra nella chiarificazione della situazione ermeneutica di una tale interpretazione del testo. Il modo più sicuro di prendere visione della struttura costruttiva di un testo è raggiunto quando l’interpretazione si affida al metodo fenomenologico nella forma della modalità fenomenologica dell’accesso e della trattazione. Un procedere verso il testo che si lasci guidare dalla massima fenomenologica «Alle cose stesse!» dà al testo da interpretare la possibilità di mostrarsi in sé stesso e da sé stesso. Se ci avviciniamo in questo modo al testo della ricerca agostiniana sul tempo, ci si dischiude in maniera evidente la struttura costruttiva concepita da Agostino. Dopo i capitoli 1-13, nei quali Agostino, attraverso il ricorso alla comprensione fenomenica del tempo nel modo di procedere rimuovente, ha guadagnato il concetto di eternità come “presente permanente”, nel capitolo 14 egli apre la ricerca sul tempo con la domanda: Quid est enim tempus? – Cos’è dunque il tempo? In questa domanda ci si interroga in senso strettamente filosofico sull’essenza, intesa come costituzione essenziale del

tempo. Tuttavia, guardando ai tre orizzonti temporali del passato, del presente e del futuro, riemerge il sospetto che il tempo non “sia” affatto nel senso stretto dell’essere. Ma ciò che non “è” non può neanche avere una costituzione essenziale. Perciò, prima che possa essere espressa in maniera problematica la domanda sull’essenza del tempo, dev’essere innanzitutto posta la domanda sull’essere o sul non-essere del tempo, e ad essa si deve dare una risposta. Per questo, ancora nel capitolo 14, la domanda appena formulata sull’essenza viene messa da parte, per decidere anzitutto se al tempo, considerato nei suoi tre orizzonti, si addica un proprio modo di essere. A differenza della domanda sull’essenza (quid, essentia) del tempo, qui si tratta della domanda sul modo di essere (esse, existentia) del tempo. I capitoli 14-20, che costituiscono la prima parte della ricerca sul tempo, sono guidati dalla domanda sull’essere (esse) o sul non-essere (non esse) del tempo. Nel capitolo 20 viene formulato il risultato di questa prima posizione della domanda. Ai tre orizzonti del tempo si addice un tipo di essere, ma solo nel suo riferimento ai tre atteggiamenti temporali dell’anima, al ricordare, all’attendere e al percepire. I tre modi di essere sono tre modi del presente nel senso della presenza (praesens). Il luogo per l’essere dei tre orizzonti temporali è l’anima che comprende il tempo. Che la prima parte della ricerca sul tempo si interroghi sull’essere o nonessere del tempo, è una cosa assodata nella letteratura agostiniana. Ma poiché il capitolo 21 – quello con cui inizia la seconda parte – si occupa della misurazione del tempo, e poiché nei capitoli successivi di questa parte si continua sempre a domandare come sia possibile una tale misurazione della durata del tempo, nella letteratura agostiniana la domanda sulla misurazione del tempo è considerata abitualmente come la domanda-guida di questa parte. Ma così non si tiene conto del fatto che la domanda sul come della misurazione del tempo quotidiano è al servizio di un’altra domanda, che è la vera domanda-guida della seconda parte: la domanda sull’essenza intesa come costituzione essenziale del tempo. Nella seconda parte, infatti, la domanda sull’essenza posta all’inizio della prima parte (e subito tralasciata a favore della domanda preliminare sull’essere o sul non-essere del tempo) viene nuovamente ripresa e riceve una risposta conclusiva nel capitolo 28. E difatti, una volta che nel capitolo 20 la domanda preliminare ha potuto avere una risposta positiva, si fornisce il presupposto per porre la domanda sulla costituzione essenziale del tempo. Nel capitolo 23 viene poi anche

espressamente ripetuta la domanda sul quid. All’inizio del capitolo 25 Agostino ammette che, nonostante abbia a lungo domandato, egli non sa ancora quid sit tempus, cosa sia il tempo. Per questo, nel capitolo 26 si presenta la visione, a lungo cercata, dell’essenza del tempo. Il tempo è costituito nei suoi tre orizzonti come una distentio, come un’estensione, come una distentio animi, un distendersi dello spirito che comprende il tempo. Ciò che quasi sempre viene trascurato nella letteratura agostiniana è che la caratterizzazione del tempo come distentio animi rappresenta la risposta di Agostino alla domanda sulla costituzione essenziale del tempo. Solo la risposta alla domanda sull’essenza del tempo come distentio animi fa chiarezza sul come, all’interno della comprensione naturale del tempo e del commercio con il tempo, ci sia possibile qualcosa come il misurare gli intervalli temporali.

2. La forma dinamica della ricerca sul tempo come dialogo tra la comprensione naturale-quotidiana e quella filosofica del tempo Il chiarimento della situazione ermeneutica non implica solo la visione della struttura costruttiva della ricerca sul tempo, ma anche, e prima ancora, la conoscenza della sua interna forma dinamica. Quest’ultima si mostra nel fatto che il domandare, il cercare e il determinare ciò che viene trovato si sviluppa come un dialogo tra la comprensione filosofica e quella naturalequotidiana del tempo2. Al filosofo che si interroga sull’essere e sull’essenza del tempo, quest’ultimo è dato come ciò che egli deve interrogare all’interno della sua specifica comprensione naturale del tempo. Ma contemporaneamente questo dialogo è collocato all’interno del dialogo confessante del filosofo con Dio come fonte dell’illuminazione. Il capitolo 14, con cui ha inizio la ricerca filosofica sul tempo fenomenico, quale è dato nella comprensione naturale del tempo, incomincia anzitutto con una sintesi del risultato raggiunto nel capitolo 13, ovvero la presa di coscienza del rapporto tra l’eternità e il tempo. Prima della produzione dell’ente extra-divino nella sua essenza e nella sua modalità d’essere [Was- und Wiesein], non c’era affatto il tempo, perché esso è stato creato proprio con l’ente extra-divino. Se il tempo non fosse esso stesso creato, sarebbe co-eterno col creatore divino. Ma il tempo che non permane mai, e che nella sua essenza è sempre in trasformazione, non può essere co-

eterno con l’eternità. Co-eterno significherebbe eterno al pari dell’eternità, come questo presente permanente. Se il tempo fosse co-eterno con l’eterno Creatore dovrebbe rinunciare al suo carattere fondamentale, ossia al nonesser-permanente, al passare dal non-ancora nell’ora e dall’ora nel non-più e dunque dovrebbe rimanere stabile come l’eterno Creatore. Il permanere utilizzato qui per l’eternità di Dio significa il rimanere stabile nel senso del presente che permane. Se il tempo non fosse creato, ma fosse co-eterno con l’eterno Dio, dovrebbe rimanere stabile come l’eternità, ovvero rinunciare a sé stesso come tempo. Se gli intervalli temporali rimanessero stabili come l’eternità, non sarebbero affatto intervalli temporali, bensì eternità. Già con la frase successiva Agostino pone la domanda: Quid est enim tempus? Lo «enim» indica che il modo di rappresentarsi il rapporto tra l’eternità permanente e il tempo che non permane mai – quale era emerso all’inizio del capitolo 14 – dipende strettamente dalla domanda sul tempo. Questa rappresentazione dirige infatti lo sguardo sul carattere fenomenico del tempo, sul fatto che esso è il costante passaggio del non-ancora-ora nell’ora e dell’ora nel non-più-ora. Quid est enim tempus? Cos’è dunque il tempo in questo suo duplice carattere di passaggio? Nei capitoli precedenti Agostino aveva spiegato il carattere di passaggio del tempo come essere-creato. Ma intanto era partito dal carattere fenomenico del duplice passaggio, per poter pensare con un salto rimuovente il presente permanente, non toccato da quel passaggio. Dall’eternità così ottenuta, poi, egli aveva potuto interpretare – nella prospettiva inversa – il tempo nel suo carattere di passaggio come ciò che scaturisce dall’origine, come il creato dell’eterno Creatore. Se Agostino pensasse che per determinare concettualmente il tempo fosse sufficiente il suo essere creato, la domanda posta ora nel capitolo 14 su cosa sia il tempo sarebbe superflua. Poiché invece egli solleva proprio ora la domanda sul tempo, diviene chiaro che Agostino adesso non chiede più dell’esser-creato, dell’origine non-fenomenica del tempo fenomenico, ma del tempo fenomenico in quanto tale. Poiché per rispondere alla domanda sul tempo fenomenico egli non ricorre più alla sua origine non-fenomenica in quanto eternità, ma solo al carattere fenomenico del tempo, la ricerca sul tempo che sta per iniziare ora è una discussione puramente filosofica, e non più teologico-filosofica come quella sull’eternità. Con la domanda: Quid est enim tempus? Agostino assume una nuova

prospettiva sul tempo: non più la prospettiva dell’eternità e dell’esser creato del tempo dall’eternità, ma la prospettiva del tempo fenomenico. Quest’ultima dev’essere percorsa concettualmente solo per quanto riguarda gli aspetti rimasti velati nella discussione sinora condotta sul tempo e sull’eternità. Agostino fa vedere in che modo le vere difficoltà per la determinazione concettuale del tempo emergano proprio con la domanda sull’essenza fenomenica del tempo, ponendo il seguente interrogativo: chi potrebbe spiegare cosa sia il tempo, in modo facile e breve, senza giri di parole? Porre una tale domanda, e cercare di rispondervi, mette in evidenza enormi difficoltà e necessita di un lungo percorso di ricerca. Il fatto che per portare avanti una tale ricerca sia necessario un grande sforzo mentale viene evidenziato da Agostino con questa domanda: chi sarebbe in grado di concepire cos’è il tempo attraverso il pensiero (cogitatione comprehenderit) e di esprimere questo concetto a parole (ad verbum proferendum)? Sviluppare l’interrogazione sul tempo non richiede solo di afferrare con il pensiero, ma anche di portare a parola in maniera adeguata ciò che è stato afferrato. Ma ciò che ci sorprende è il dato di fatto fenomenico che queste difficoltà mentali e linguistiche che si parano davanti alla domanda filosofica sul tempo siano precedute da una familiarità e da una preliminare conoscenza del tempo. Infatti – così Agostino – cos’è che, quando parliamo, ci risulta più familiare e più noto della parola “tempo”? (Quid autem familiarius et notius in loquendo commemoramus quam ‘tempus’?). Con ciò Agostino punta lo sguardo sulla nostra comprensione prefilosofica, naturale e quotidiana del tempo, la quale precede ogni domanda filosofica su di esso. Il compiersi quotidiano della nostra vita si muove sempre in una comprensione del tempo che è propriamente preconcettuale, ma non per questo meno valida. Questa comprensione quotidiana del tempo si è anche già sempre espressa nella lingua che noi parliamo nel compiersi quotidiano della vita. La parola “tempo” non è un concetto guadagnato inizialmente a livello filosofico, ma è una parola della lingua naturale che, quando parliamo tra di noi, esprimiamo in molteplici modi. Quando Agostino richiama l’attenzione sulla notorietà e sulla familiarità della parola “tempo”, da noi già sempre pronunciata, fa vedere che la domanda sul tempo si origina dalla nostra comprensione naturale e preconcettuale del tempo. Infatti, la nostra comprensione quotidiana del

tempo è quella in cui il tempo – vale a dire ciò su cui verte la domanda – è già dato ed è offerto in anticipo al nostro domandare. Il domandare filosofico sull’essenza del tempo è già preceduto dalla comprensione naturale del tempo come ciò che rende possibile un tale domandare. Nella comprensione naturale del tempo noi non comprendiamo solamente la “parola” tempo, e dunque il fatto che essa ci sia tanto familiare e nota non dipende solo dal fatto che la pronunciamo varie volte. Al contrario, quando pronunciamo questa parola nelle diverse locuzioni linguistiche, noi comprendiamo innanzitutto ciò che essa significa (intelligimus utique, cum id loquimur). La comprensione naturale del tempo non è la mera comprensione di una parola, ma è la comprensione della cosa che nella parola “tempo” è nominata. E non solo ciascuno comprende per sé ciò che significa la parola “tempo” quando egli la pronuncia in questa o in quella locuzione, ma la comprende anche quando un altro, conversando con lui, parla del tempo di cui ha bisogno per questa o quella cosa. Per questo Agostino fa notare che la comprensione naturale del tempo è una comprensione del tempo condivisa nell’essere l’uno con l’altro. Il tempo già compreso nel compiersi naturale della vita è il tempo comune dell’avere a che fare l’uno con l’altro. Se qualcuno mi domanda: hai tempo per una passeggiata insieme?, io comprendo che egli con la parola “tempo” intende quell’intervallo temporale in cui possiamo fare una passeggiata insieme. Nel quotidiano stare insieme, noi parliamo sotto molti punti di vista del tempo che è il tempo del compiersi della nostra vita. Per una certa cosa io ho bisogno di un determinato tempo, per un’altra cosa non ho tempo; mi prendo del tempo per una cosa, mi concedo del tempo per un’altra; passo del tempo, qualcuno mi ruba il tempo, ho passato tempi difficili, di quando in quando qualcuno viene a trovarmi – e molte altre locuzioni, con le quali si esprime la nostra comprensione naturale del tempo. Nel compiersi naturale della vita noi comprendiamo già ogni volta cos’è il tempo di cui abbiamo bisogno, il tempo che ci prendiamo o che non ci prendiamo, e così via. Quid est ergo tempus? Cos’è allora il tempo? Se nel compimento quotidiano della mia vita io comprendo già sempre il tempo ed esprimo già questa comprensione del tempo nel senso di ciò che si compie, cos’è mai questo tempo? Alla domanda filosofica sulla costituzione essenziale del tempo non si può forse rispondere immediatamente in base al

tempo già compreso in modo naturale? La comprensione quotidiana e preconcettuale del tempo non può dunque essere introdotta, senza tante storie, nella comprensione concettuale del tempo? A questa domanda Agostino risponde: Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio: «Se nessuno mi domanda cos’è il tempo, lo so; se voglio spiegarlo a qualcuno che me lo domanda, non lo so». In questa frase altamente significativa Agostino formula il rapporto di opposizione tra la comprensione naturale del tempo ed il volerlo afferrare filosoficamente. Finché non mi pongo la domanda filosofica sull’essenza del tempo, ma rimango nella mia comprensione quotidiana del tempo, so cos’è il tempo. Nella mia comprensione del tempo naturale mi rapporto già al tempo nei suoi tre orizzonti, presente, passato e futuro. Se ora mi prendo del tempo per questa o quella cosa, vuol dire che capisco l’ora e il presente del mio fare attuale. Se ripenso a ciò che ho fatto ieri, capisco senz’altro lo ieri e il passato del mio fare del giorno prima. Se penso a quello che farò domani, comprendo senza dubbio il domani come il futuro del mio fare di domani. In tutti questi atteggiamenti verso il tempo del mio fare o non fare, io comprendo il tempo nella sua successione come esteso, cosicché ci sono tratti di tempo e durate che possono essere più brevi o più lunghi. In questa comprensione del tempo si trova anche una comprensione di ciò che il tempo “è” o “non è” nei suoi tre orizzonti. Una tale comprensione del tempo non la ottengo tramite una riflessione sul tempo, per una tematizzazione del tempo, poiché tutto ciò che so del tempo nel compiersi e per il compiersi quotidiano della mia vita, lo so prima di ogni tematizzazione teoretica. La comprensione naturale del tempo non è infatti un sapere tematico, ma un sapere nel senso del compiersi. Come comprensione nel senso del compimento, la si ritiene un’ovvietà senza problemi. Ciò che comprendo del tempo per il compiersi della mia vita, non ha bisogno di alcuna problematizzazione, di alcuna tematizzazione, perché si comprende da sé senza problemi, in quanto come comprensione del tempo è già sempre qualcosa che si compie. Perciò, nel compiersi naturale della mia vita, il tempo appartiene a ciò che è più familiare e conosciuto. La familiarità e la notorietà contraddistinguono la comprensione naturale del tempo come una comprensione nel senso del compimento. Ma non appena qualcuno pone la domanda filosofico-tematizzante, non appena io stesso, muovendo dalla comprensione naturale del tempo, pongo la domanda filosofica sulla costituzione essenziale del tempo, e intraprendo il

tentativo di rispondere alla domanda sulla base della mia comprensione naturale del tempo, sperimento che il tempo solitamente inteso nel senso del compimento diventa enigmatico e inafferrabile. Il sapere quotidiano del tempo si trasforma in un non-sapere filosofico. È il non-sapere di colui che, partendo dal sapere naturale e preconcettuale del tempo, cerca una comprensione concettuale del tempo. Ma questo non-sapere non significa che io perda la mia comprensione naturale del tempo nel senso del compimento. Questa piuttosto continua a rimanere sempre nel compimento. Ma quando, nel porre la questione sull’essenza del tempo, miro ad una comprensione tematico-concettuale del tempo, mi ritrovo in un non-sapere concettuale, e ciò non solo per i primi momenti, ma per molto. Voler-afferrare il tempo in senso filosofico non significa qualcosa come un voler smascherare e rigettare come falsa la comprensione naturale del tempo, bensì piuttosto tematizzare, afferrare e attraversare ciò che comprendiamo senza problemi nella comprensione naturale del tempo nel senso del compimento. La frase secondo cui, finché nessuno mi domanda del tempo, so cosa esso sia, ma non lo so se devo spiegarlo tematicamente e concettualmente a chi me lo chiede, mostra inequivocabilmente che Agostino ha un occhio di riguardo per la comprensione prefilosofica e naturale del tempo. Per questo egli sa che il domandare filosofico sul tempo deve accadere a partire dalla comprensione naturale del tempo, già intesa ogni volta nel senso del compimento, e che la comprensione concettuale del tempo di cui si va in cerca sta in un rapporto di opposizione con la comprensione preconcettuale del tempo nel senso del compimento. Agostino parla di questo non-sapere, che nasce immediatamente con l’affiorare della domanda sull’essenza costitutiva del tempo, con uno sguardo rivolto sin d’ora a tutte quelle difficoltà e perplessità che si presenteranno quando verrà tematizzato e verificato criticamente il sapere naturale del tempo. Poiché nella ricerca agostiniana sul tempo la comprensione naturale del tempo non rappresenta solo l’inizio del domandare, ma accompagna il percorso della ricerca in ogni suo passo, quella frase sul sapere naturale e sul non-sapere filosofico rappresenta il motto della ricerca sul tempo nel suo complesso. Già con la frase successiva del capitolo 14 comincia il dialogo tra il voler-comprendere filosoficamente il tempo e la comprensione prefilosofica e naturale del tempo. 1

Sulla costruzione e sull’andamento della ricerca del tempo, così come sull’interpretazione generale dell’XI libro delle Confessioni, cfr. J. Weis, Die Zeitontologie des Kirchenlehres Augustinus

nach seinen Bekenntnissen, Peter Lang, Frankfurt a.M.-Bern-New York 1984 (scritto tra il 1937 e il 1939). – G. Eigler, Metaphysische Voraussetzungen in Husserls Zeitanalysen, Anton Hain KG, Meisenheim am Glan 1961, pp. 36-48. – R. Berlinger, Augustinus dialogische Metaphysik, Klostermann, Frankfurt a.M. 1962, pp. 42-66. – O. Lechner, Idee und Zeit in der Metaphysik Augustinus, Pustet, München 1964. – B. Schmitt, Der Geist als Grund der Zeit (die Zeitauslegung des Aurelius Augustinus), Dissertation, Freiburg im Breisgau 1967. – A. Schöpf, Augustinus. Einführung in sein Philosophieren, Alber, Freiburg-München 1970, pp. 55 ss. – E. P. Meijering, Augustin über Schöpfung, Ewigkeit und Zeit. Das elfte Buch der Bekenntnisse, Brill, Leiden 1979 («Philosophia patrum» 4). – K. Flasch, Augustin. Einführung in sein Denken, Reclam, Stuttgart 1980, pp. 263-286 [trad. it., Agostino d’Ippona. Introduzione all’opera filosofica, il Mulino, Bologna 2002]. – S. Böhm, La temporalité dans l’anthropologie augustinienne, Cerf, Paris 1984. – G. Haeffner S.J., Bemerkungen zur augustinische Frage nach dem Wesen der Zeit im XI. Buch der Confessiones, «Theologie und Philosophie», 63 (1988), pp. 569-578, in part. pp. 571-573. – R. Enskat, Zeit, Bewegung, Handlung und Bewusstsein im XI. Buch der Confessiones des hl. Augustinus, in E. Rudolph (hrsg.), Zeit, Bewegung, Handlung. Studien zur Zeitabhandlung des Aristoteles, Klett-Cotta, Stuttgart 1988, pp. 193-221. – K. Flasch, Was ist Zeit? Augustinus von Hippo: das 11. Buch der Confessiones. Historish-philosophische Studie. Text, Übersetzung, Kommentar, Klostermann, Frankfurt a.M. 20042. – Sul rapporto tra Agostino e Plotino, cfr. W. Beierwaltes, Einleitung in Plotin, Über Ewigkeit und Zeit (Enneade III 7), Übersetzt, eingeleitet und kommentiert v. W. Beierwaltes, Klostermann, Frankfurt a.M. 1967, pp. 7-88, in part. pp. 70 ss. 2 Cfr. in proposito Heidegger, Des hl. Augustinus cit. – Weis, Die Zeitontologie cit., § 3. – Haeffner, Bemerkungen zur cit., p. 571.

Capitolo 3 La domanda sull’essere o sul non-essere del tempo 1. Il differimento della domanda sull’essenza del tempo a favore della domanda preliminare sull’essere o sul non essere del tempo. La prima verifica filosofica dell’essere del tempo (XI, 14) Quid est ergo tempus? Con questa domanda viene posto il problema strettamente filosofico della costituzione essenziale del tempo. In base alla mia comprensione naturale del tempo, io non sono in grado di rispondere a questa domanda in maniera immediata. Ho appena formulato questa domanda, e già sperimento che non sono capace di cogliere in modo immediato l’essenza ricercata del tempo. Questo non-poter-cogliere è il nonsapere nel perseguire una conoscenza tematico-concettuale. Ciononostante sostengo con fiducia di sapere (fidenter dico scire me) che, se nulla passasse, non ci sarebbe alcun tempo passato (non esset praeteritum tempus), e se nulla venisse, non ci sarebbe alcun tempo futuro (non esset futurum tempus), e se nulla fosse attualmente presente (esset), non ci sarebbe alcun tempo presente. La fiducia che qui esprime il suo sapere è la comprensione naturale del tempo. Il domandare filosofico circa l’essenza del tempo ha inizio con l’esprimersi della conoscenza quotidiana del tempo. La domanda sul tempo viene così impostata come una domanda sulla comprensione naturale del tempo. Cosa ritengo di sapere con fiducia sul tempo a partire dalla mia comprensione quotidiana del tempo? Che il tempo è un tempo che è passato (passato), un tempo che viene (futuro) e un tempo che è presente (presente). Questa è la prima cosa che ritengo di sapere indiscutibilmente nella mia comprensione naturale del tempo. In questo sapere naturale, dunque, è compreso anche che il passato, il futuro e il presente “sono” i tre orizzonti temporali. Questo lo so dalla mia conoscenza naturale di ciò che passa, di ciò che viene e di ciò che è presente. Se non ci fosse ciò che passa, non ci sarebbe neanche alcun passato. Formulato in maniera positiva, ciò significa: poiché c’è quello che passa, c’è il passato. Poiché c’è continuamente quello che viene, c’è il futuro. Poiché

c’è qualcosa di presente, c’è il presente. In che modo, dunque, Agostino guarda al tempo, lasciando che sia la comprensione naturale ad esprimersi su ciò che essa sa del tempo? Egli lo fa partendo da ciò che è interno-al-tempo, da ciò che passa, che viene, che è presente. Dal passato interno al tempo egli guarda all’orizzonte temporale del passato; da ciò che viene all’interno del tempo guarda all’orizzonte temporale del futuro; dal presente interno al tempo guarda all’orizzonte temporale del presente. Rispetto a questo modo di procedere si potrebbe forse rimproverare ad Agostino che, così facendo, egli faccia dipendere il tempo dagli oggetti temporali. Gli si potrebbe cioè rimproverare il fatto che in tal modo le dimensioni del tempo presuppongano l’intratemporalità, mentre invece dovrebbe essere quest’ultima a presupporre le dimensioni del tempo e ad ordinarsi sulla loro base. Un tale rimprovero, però, mostrerebbe di aver frainteso il modo di procedere di Agostino. Egli non vuole sostenere alcuna dipendenza del tempo (della forma del tempo) da ciò che è interno-al-tempo. Piuttosto egli vuole solo mostrare in che modo noi giungiamo ad un sapere del tempo a differenza di come giungiamo ad un sapere di ciò che è internoal-tempo: non in modo da comprendere e cogliere immediatamente il tempo come forma del tempo, ma in modo tale che, partendo da ciò che è interno-altempo, possiamo giungere ad una comprensione del tempo come forma del tempo. Ciò che è interno-al-tempo è anzitutto ciò che ci segnala la presenza del tempo stesso, che ci consente di capire che c’è il tempo e che “sono” le sue tre dimensioni. La comprensione naturale del tempo, esprimendosi, fa sì che si espliciti ciò che altrimenti resterebbe nell’implicito, vale a dire si assicura che c’è il tempo, della cui essenza chiede la domanda filosofica: Quid est tempus? Solo dopo che la comprensione naturale del tempo si è espressa riguardo all’essere ovvio dei tre orizzonti temporali, si potrebbe tentare, guardando al tempo così “essente”, di porre la domanda filosofica sulla sua essenza. Ma in riferimento all’essere del tempo affermato con tale fiducia, sorge ora, nella comprensione filosofica del tempo, il sospetto che gli orizzonti temporali “non siano”, specialmente quelli del passato e del futuro. Si tratta di un sospetto filosofico che emerge nella verifica critica di ciò che la comprensione naturale del tempo pretende di comprendere. Infatti la comprensione naturale del tempo non si pone mai la questione di una verifica critica del suo sapere sul tempo, considerato nel senso del compimento,

poiché lo ritiene una cosa scontata. Ma nel momento in cui l’essere del tempo diventa sospetto per la comprensione filosofica, essa mette da parte la sua domanda iniziale sull’essenza del tempo per dedicarsi alla domanda sull’essere o sul nonessere del tempo. Difatti, solo quando è certo che il tempo, nei suoi tre orizzonti, in qualche modo “sia”, piuttosto che “non essere”, si può porre anche la domanda sull’essenza di un tale tempo “essente”. Dovesse al contrario risultare vero il sospetto che il tempo “non è”, la domanda sull’essenza sarebbe inutile. Nella seconda parte del capitolo 141 è posta la domanda sull’essere del tempo. Questa domanda domina la prima parte della ricerca sul tempo fino al capitolo 20 incluso. In che modo “sono” (quomodo sunt) soprattutto quei due orizzonti del tempo (illa tempora), passato e futuro, dal momento che il passato non è più (iam non est) e il futuro non è ancora (nondum est)? Il “non più” dice che il passato “non è”. Allo stesso modo il “non ancora” dice che il futuro “non è”. Il passato non è, nella misura in cui non è più, e il futuro non è, nella misura in cui non è ancora. Tanto al passato quanto al futuro appartiene un “non” che nega l’essere del passato e l’essere del futuro. All’essere del passato e del futuro affermato con fiducia dalla comprensione naturale del tempo, si contrappone adesso, a partire dalla verifica critica del voler comprendere filosofico del tempo, il non-essere. La comprensione filosofica del tempo deve contraddire per il momento quella naturale. Ma come stanno le cose con l’essere del presente? Perlomeno il presente dovrebbe essere quella parte del tempo di cui la comprensione naturale del tempo può sostenere a ragione che essa “è”. Forse il tempo è “essente” solo in quanto presente? Il presente è l’unica delle tre dimensioni del tempo che risulta libera da un “non”? Nient’affatto, poiché esso trascorre costantemente nel non-più. Se non trascorresse (transiret) costantemente nel passato, esso sarebbe sempre presente (semper esset praesens), vale a dire sarebbe eternità, e non tempo. Il presente è in generale una dimensione del tempo solo perché trascorre costantemente nel passato. Dunque anche il presente è caratterizzato a proprio modo da un “non”. Esso non è sempre presente, ma trascorre essenzialmente nel passato. Ma se con il presente le cose stanno così, come

possiamo allora anche solo voler dire che esso “è”? La ragione del suo essere risiede nel fatto che esso non sarà più (cui causa, ut sit, illa est, quia non erit). Infatti, non appena il non-ancora-ora trascorre nell’ora, anche quest’ora trascorre nel non-più-ora. Per questo Agostino può dire che noi siamo autorizzati a definire il presente come tempo proprio in quanto esso tende al non-essere (non-esse). Anche per quel che riguarda l’essere del presente, la comprensione filosofica del tempo deve contraddire quella naturale. Il risultato della prima verifica critica dell’essere (esse) del tempo dice che ciò che è proprio dei tre orizzonti temporali non è l’essere, bensì – contrariamente alla fiducia propria della comprensione naturale del tempo – il non-essere. Il tempo sembra così scadere totalmente nel non-essere. Se la comprensione naturale del tempo ha sostenuto fiduciosamente che tutte e tre le dimensioni del tempo “sono”, allora si è trattato di una comprensione dell’essere ovvia e indeterminata. Questa comprensione dell’essere del tempo in generale si è ora trasformata in un non-essere verificato criticamente. Con questo risultato si chiude il capitolo 14. Ma la comprensione naturale del tempo non si ritiene affatto soddisfatta da un tale risultato. Essa indicherà un altro reperto fenomenico del suo sapere sul tempo, in base al quale verrà mostrato in che modo, nonostante il risultato della prima verifica critica, al tempo si addica un tipo di essere. Già la prima verifica critica dell’essere del tempo ha mostrato che la ricerca sul tempo si muove come un dialogo tra la comprensione filosofica e quella naturale del tempo. In questo dialogo, la comprensione naturale del tempo svolge una funzione decisiva. Essa non solo sta all’inizio della ricerca sul tempo, ma l’accompagna in ciascuno dei sui passi. La comprensione filosofica del tempo non rimane ferma al suo primo risultato, proprio perché la comprensione naturale del tempo evidenzierà un fenomeno che rimetterà di nuovo in movimento il voler-comprendere filosofico e indurrà a una seconda verifica critica dell’essere del tempo. Nella storia del concetto filosofico di tempo, questo modo di porre la questione, suddividendola immediatamente in una domanda sull’essere del tempo – insidiato dal non-essere – e in una domanda sull’essenza del tempo, non emerge per la prima volta con Agostino. Esattamente lo stesso modo di domandare viene proposto e utilizzato2 nella ricerca sul tempo svolta da

Aristotele nel IV Libro della Fisica3. Per prima cosa – così inizia Aristotele – è bene avanzare il dubbio «se il tempo in generale appartenga all’essente o al non-essente» (πότερον τῶν ὄντων ἑστὶν ἢ τῶν μὴ ὄντων); pertanto occorre discutere «quale sia la natura del tempo» (εἶτα τίς ἡ φύσις αὐτοῦ)4. Solo dopo aver deciso se il tempo appartenga a ciò che è, o piuttosto a ciò che non è, si può ricercare quale sia la sua natura, la sua essenza, la sua costituzione essenziale. Ma perché mai ci si debba occupare per prima cosa della questione sull’essere o sul non-essere del tempo, lo dice la frase seguente: «Che il tempo o in generale non esista (ὅτι μὲν οὖν ἢ ὅλως οὐκ ἔστιν) oppure esista solo a mala pena (ἢ μόλις) e in modo oscuro (καὶ ἀμυδρῶς), lo si può arguire da questo: per un verso esso è passato (γέγονε) e non è più (οὐκ ἔστιν), ma per l’altro verso esso verrà (μέλλει) e non è ancora (οὔπω ἔστιν). Ma è in queste due cose che consiste il tempo infinito così come anche il tempo di volta in volta limitato. Ma ciò che consiste nel non-essente (τὸ δ’ἐκ μὴ ὄντων συγκείμενον), non è possibile – così sembra – che possa partecipare all’essere (μετέχειν οὐσίας)»5. Mentre passato e futuro come parti del tempo non sono, poiché non sono più e non sono ancora, il presente, in quanto ora (τὸ νῦν), non è una parte (οὐ μέρος)6, ma è il confine (πέρας)7 tra il passato e il futuro. Sebbene in un primo momento sembri che il tempo manchi di essere anche nel suo ora, tuttavia la conclusione di Aristotele è che l’essere del tempo sta proprio in questo ora che riemerge sempre di nuovo. Nel capitolo 118 egli fornisce la propria determinazione essenziale del tempo: «Questo dunque è il tempo, il numerato del movimento secondo il prima e il poi» (τοῦτο γάρ ἐστιν ὁ χρόνος, ἀριθμὸς κινήσεως κατὰ τὸ πρότερον καὶ ὕστερον). Il tempo nel quale si svolge un movimento è la determinata lunghezza della sua durata, la quale viene misurata e contata nella sua misura9. Come Aristotele, così anche Agostino cerca anzitutto di determinare l’essere del tempo per poter poi ottenere una visione della sua costituzione essenziale.

2. L’obiezione mossa dalla comprensione naturale del tempo nei confronti del risultato della prima verifica critica sull’essere del tempo e la seconda verifica che ne consegue (XI, 15)

Quando Agostino, all’inizio del capitolo 15, dice: eppure noi parliamo di un tempo lungo e di un tempo breve (longum tempus et breve tempus) riferendoci soltanto al passato e al futuro (de praeterito aut futuro), egli fa parlare la sua comprensione naturale del tempo. Noi parliamo di tempo lungo e di tempo breve, nella nostra comprensione naturale del tempo, quando diciamo per esempio che una certa azione ha richiesto molto tempo, ossia un tempo lungo, o che ciò che intendo fare domani richiederà solo poco tempo, cioè un tempo breve. Gli esempi di Agostino sono presi da quel calcolo del tempo che si fa in base ad un calendario, e che fa parte del nostro atteggiamento naturale nei confronti del tempo. Cent’anni prima di oggi sono un lungo tempo passato (praeteritum tempus longum) e cent’anni dopo oggi sono un lungo futuro (futurum longum). Parliamo di un «breve passato» (breve praeteritum) quando qualcosa è accaduto, ad esempio, dieci giorni fa, e di un «prossimo futuro» (breve futurum), quando qualcosa accadrà fra dieci giorni. Il domandare filosofico sul tempo deve prendere sul serio simili dati di fatto fenomenici della comprensione naturale del tempo. La comprensione naturale del tempo contiene dei genuini fenomeni temporali, anche quando non li comprende in modo concettuale. Il fatto che il sapere naturale del tempo non disponga di un sapere concettuale non significa che esso non sia un sapere vero. Per compiersi come comprensione naturale del tempo nell’attuazione quotidiana della vita, quel sapere non ha bisogno di un’elaborazione e di un’interpretazione concettuali. Anzi, esso potrebbe anche mantenersi in uno stato interpretativo che non è in grado di reggere alla comprensione filosofico-concettuale. Ma in tal caso, a non essere vero, sarebbe solo lo stato interpretativo, mentre i fenomeni temporali compresi nel loro compiersi resterebbero veri. Se la comprensione naturale del tempo insiste sul fatto che non è vero che gli orizzonti del tempo “non esistono”, e che invece essi “esistono”, si potrebbe dimostrare che in effetti gli orizzonti temporali “esistono” in un certo modo, e che a questo riguardo la comprensione naturale del tempo è nel vero; solo che lo stato interpretativo naturale dell’essere del tempo ha bisogno di una correzione concettuale. Lo stesso potrebbe accadere per l’esser-lungo o breve, e dunque per l’esser-esteso del tempo, anche di quello passato e futuro. Si potrebbe dimostrare che il tempo passato non solo in un certo modo “è”, ma, in quanto “essente” in questa maniera, esso è anche lungo o breve, dunque esteso; solo

che l’interpretazione dell’estensione temporale fornita dalla comprensione naturale del tempo ha bisogno altresì di una correzione da parte della comprensione filosofica del tempo. Quelli che la comprensione naturale del tempo segnala di volta in volta, anche nello stato attuale della ricerca, sono dei fenomeni genuini, che è necessario penetrare concettualmente e cogliere linguisticamente. Se ora la comprensione naturale del tempo richiama l’attenzione sul discorso naturale a proposito di un passato e di un futuro lunghi o brevi, con ciò essa dice implicitamente che quello che è lungo o breve deve anche “essere”. Il riferimento al fatto che noi, nel compiersi quotidiano della vita, abbiamo a che fare con parti lunghe o brevi di tempo è inteso come la prova dell’essere del tempo passato e futuro. A questa indicazione proveniente dalla comprensione del tempo nel senso del compimento, ribatte la comprensione filosofica del tempo, con la sua verifica critica, attraverso una domanda che esprime stupore e meraviglia: ma in che modo può essere lungo o breve ciò che non è? La comprensione filosofica del tempo si attesta sul risultato della prima verifica. Ma contemporaneamente sa che l’esser-lungo o l’esser-breve appartengono alla categoria della quantità e che il quanto-è-grande può esser detto solo di un ente che ne stia alla base. Nel IV libro delle Confessioni, Agostino racconta di aver studiato seriamente lo scritto sulle Categorie di Aristotele, che gli era accessibile nella traduzione latina. Nel capitolo 16 del IV libro, egli enumera persino le dieci categorie di Aristotele: come prima la categoria di sostanza (οὐσία), rispetto alla quale possono esser dette tutte le altre nove categorie, tra cui anche la quantità di qualcosa (ποσόν). L’esser-lungo o breve come determinazione della quantità rimanda ad un qualcosa che “è” e che solo in quanto essente può essere determinato tramite la quantità. Non c’è nessun esser-lungo o breve senza l’essere di qualcosa che, appunto sulla base del suo essere, possa essere lungo o breve. La comprensione filosofica del tempo si attesta sul risultato della sua prima verifica dell’essere: ciò che è passato non è più, ciò che è futuro non è ancora; ciascuno dei due, a suo modo, non è. Ma come può, ciò che non è, essere lungo o breve? Se il tempo in quanto passato non è più, e in quanto futuro non è ancora, e noi tuttavia parliamo senza dubbio di un tempo lungo o breve, e abbiamo a che fare con un tempo lungo o breve, allora – seguendo la comprensione filosofica del tempo – non dovremmo dire che il tempo passato

“è” lungo, ma piuttosto che il tempo passato “è stato” (fuit) lungo. In quanto passato, esso ha smesso di essere e perciò ha smesso anche di essere lungo. Allo stesso modo pare proprio che non dovremmo dire che il tempo futuro è lungo, ma piuttosto che esso sarà (erit) lungo. In quanto futuro, infatti, esso non è ancora, ma sarà; ma solo allora potrà anche essere lungo. La comprensione filosofica del tempo opera così una correzione volta a precisare il parlare naturale di tempo lungo o breve, passato o futuro. Dopo la correzione linguistica segue una verifica del fatto che il tempo passato sia stato lungo e di come lo sia stato. Il fuit viene interrogato circa il suo senso. Questo interrogare viene introdotto rivolgendosi a Dio: «Oh mio Signore, mia luce, la Tua verità non deriderà forse noi uomini anche in questo caso?». Questa interlocuzione ci ricorda che la ricerca di Agostino sul tempo, vale a dire il dialogo tra la sua comprensione naturale e la sua comprensione filosofica del tempo, trova la sua giustificazione all’interno del dialogo tra l’uomo finito che confessa e il Dio infinito che lo illumina. Il longum fuit può significare due cose: in primo luogo, l’esser stato lungo del tempo in quanto passato, in secondo luogo, l’esser stato lungo quando era ancora presente (adhuc praesens esset). Il primo significato va scartato sulla base del risultato della prima verifica: in quanto passato, infatti, il tempo non era più, ma ciò che non era più non poteva neanche essere lungo. Invece il secondo significato del longum fuit può essere preso in considerazione e verificato. Il tempo che è stato lungo, lo è stato nel momento in cui era ancora presente. Allora, infatti, esso era essente, e in quanto essente capace di estendersi a lungo. Se le cose stanno così, c’è bisogno di un’ulteriore correzione al nostro parlare di un passato che è stato lungo. Dal momento che il longum fuit può significare anche che il tempo passato è stato lungo in quanto passato, al longum fuit bisogna aggiungere qualcos’altro: longum fuit illo praesens tempus, un tempo passato è stato lungo come tempo presente, quando era ancora presente. Solo quando era presente, esso era essente, e in quanto essente anche lungo o breve. Quando il tempo, che ora è passato, era ancora presente, non era ancora passato (praeterierat) e dunque non era ancora senza essere, bensì era ciò che poteva esser lungo. Ma una volta passato, esso ha anche smesso di essere lungo (longum esse destitit), poiché ha semplicemente smesso di essere (quod esse destitit). Il voler-comprendere il tempo in senso filosofico porta quindi a capire

che ora dev’essere verificato se un tempo presente possa essere lungo. È vero che, nell’ambito della prima verifica sull’essere del tempo (capitolo 14) era stato negato l’essere anche al presente, nella misura in cui esso trascorre continuamente nel non-più. Ma poiché è un fatto innegabile che noi abbiamo a che fare con periodi di tempo più o meno estesi, e poiché la seconda verifica ha dato come risultato che solo il tempo presente, in quanto non ancora passato, può essere lungo, si deve ora indagare se i periodi di tempo presenti possano davvero essere lunghi. Se ciò dovesse risultare vero, allora prendendo in esame il poter-essere-lungo del tempo presente, si comprenderebbe anche l’essere del presente. Infatti, può essere lungo solo ciò che “è”. Tu, anima umana, dice Agostino, lasciaci vedere se un tempo presente può essere lungo. L’anima umana a cui ci si rivolge qui è la propria anima. Questo modo di rivolgersi rende chiaro che la ricerca sul tempo è un dialogo tra l’anima che indaga sul tempo e l’anima che comprende il tempo nel suo compiersi. Il voler-afferrare filosoficamente il tempo si rivolge alla comprensione naturale del tempo, per far vedere se un tempo che diciamo esser presente possa essere lungo. Alla comprensione naturale del tempo è possibile percepire e misurare (sentire moras atque metiri) il tempo che perdura nel presente. A questo punto della ricerca sul tempo, vengono nominati per la prima volta due atteggiamenti temporali dell’anima: il percepire il tempo presente e il misurare il tempo percepito. Questo metiri non va inteso nel senso della misurazione fisico-scientifica del tempo. Infatti, prima di misurare il tempo in senso fisico, noi abbiamo a che fare con il tempo proprio del compimento naturale della nostra vita, misurandolo in senso prescientifico. Questa misurazione naturale del tempo appartiene al modo in cui nella vita quotidiana abbiamo a che fare col tempo, il tempo in cui facciamo qualcosa e lasciamo perdere qualcos’altro. Ora, la comprensione naturale del tempo non solo ci dice che noi parliamo di tempo lungo o breve, e dunque di un tempo che si estende, ma mette in luce anche il dato di fatto fenomenico che, per il compiersi della nostra vita, noi abbiamo a che fare con un tempo che perdura-nel-presente, mentre lo comprendiamo percependolo come perdurante-nel-presente e lo suddividiamo misurandolo per il nostro fare e per il nostro lasciar perdere. Anche quando parliamo del nostro secolo, quello in cui viviamo, lo

chiamiamo il secolo “presente”. Questo secolo lo definiamo come un tempo lungo. Perciò ora occorre verificare se il secolo presente sia un tempo lungo. Prima si è detto che un tempo può essere lungo solo in quanto presente. Per questo bisogna anzitutto verificare se il secolo presente nel suo complesso possa essere presente. Cento anni possono esser lunghi solo in quanto presenti, e solo in quanto tali essi sono; ma solo in quanto presenti possono anche essere lunghi. Noi viviamo in questo secolo, che chiamiamo presente, e solo quando lo abbracciamo per intero con lo sguardo percepiamo la sua estensione come una lunga estensione. Questo esser-lungo ed esteso del secolo presente è forse solo un inganno? Se non lo è, allora l’esser-lungo del secolo racchiude in sé, con il suo presente, l’essere del tempo ricercato come presente. La comprensione naturale del tempo ha a che fare con il secolo presente in modo tale che questo viene ritenuto presente nel suo complesso. E tuttavia, non appena la comprensione filosofica del tempo tematizza l’estensione temporale di cento anni, le si fa chiaro che, dei cento anni, solo uno è quello presente, mentre gli anni precedenti sono già passati e quelli successivi ancora non sono. Mentre nel caso di un’estensione spaziale le parti dello spazio che la formano sono contemporaneamente l’una accanto all’altra, nel caso di un’estensione temporale, le parti di tempo che la compongono sono solo una dopo l’altra. Il risultato della verifica, se cento anni possano essere contemporaneamente presenti, dice: cento anni non sono presenti nel senso che essi sono tutti contemporaneamente, bensì sono presenti solo l’uno dopo l’altro. Così il presente di cento anni si restringe al presente di ogni singolo anno. Per questo bisogna ora verificare se almeno l’anno attualmente presente possa essere presente nel suo complesso. Ma anche qui si fa chiaro che, in senso stretto, è sempre e solo un mese ad esser presente, mentre alcuni mesi sono già passati, e gli altri sono ancora futuri. Anche dell’anno attualmente presente si deve dire che esso è presente non nel suo complesso, cioè non nella sua intera estensione, ma solo nel suo mese attuale. La verifica successiva si dirige dunque al mese attuale, per vedere se esso sia presente, in senso stretto, nel suo complesso. Anche qui si fa chiaro che, ogni volta, è solo un giorno del mese ad essere presente, mentre alcuni giorni non sono più, e gli altri non sono ancora. Ma anche la verifica relativa al giorno di volta in volta presente dà come risultato che solo una delle 24 ore è presente, mentre quelle passate non sono

più, e quelle a venire non sono ancora. Preso nel suo complesso, anche un giorno non è presente in senso proprio. Il presente è ristretto ormai all’ora di volta in volta attuale. Quanto più corti diventano gli intervalli del tempo presente, tanto più pensiamo di avere a che fare con un intervallo di tempo presente nel suo complesso. Ora occorre domandare se l’estensione temporale di un’ora possa essere presente nel suo insieme. Ma anche qui la risposta è negativa. Infatti l’ora che è ogni volta presente fluisce in piccole parti fugaci (fugitivis particulis agitur), cosicché è sempre e solo una di queste piccole parti ad essere presente, mentre le altre sono passate o future. Così sorge la domanda, se almeno queste piccole parti fugaci del tempo siano presenti, nel senso che non si suddividano ulteriormente nel non-più e nel non-ancora. Solo se si potesse pensare a qualcosa del tempo (si quid intelligitur temporis) – così il voler-comprendere filosofico del tempo – che non possa esser suddiviso nemmeno in minuscole parti di istanti (quod in nulla iam vel minutissimas momentorum partes dividi possit), solo questo qualcosa potrebbe chiamarsi presente (id solum est, quod praesens dicatur). Un tale presente sarebbe la particella indivisibile del tempo, per così dire l’atomo temporale. Ma se prestiamo attenzione alle più piccole fasi del tempo, per individuare in esse la particella indivisibile del presente, vedremo allora che tale particella indivisibile del presente non esiste. Infatti, anche la più piccola particella di tempo si divide inesorabilmente nel non-più e nel non-ancora. Essa trapassa in modo così rapido e impetuoso dal futuro nel passato (ita raptim a futuro in praeteritum transvolat), da non poter avere la minima durata (ut nulla morula extendatur). Infatti, se anche sembra estendersi, essa si suddivide già sempre in passato e futuro. Se prestiamo attenzione alla sua durata, non c’è alcuna particella del presente che si estenda nel suo complesso, ma ciò che, nell’ambito del piccolissimo, chiamiamo presente, si divide in passato e futuro. Il risultato della verifica, se il tempo possa essere presente, nella sua interezza, in intervalli più lunghi o più brevi, dice: il presente non ha alcuna estensione (praesens autem nullum habet spatium). Il presente non ha alcuna estensione nel senso di un presente intero, indivisibile. Questo risultato provvisorio della verifica filosofica, tuttavia, può essere inteso in modo corretto solo se non viene considerato isolatamente, ma viene pensato in relazione alla comprensione naturale del tempo, nella quale abbiamo a che

fare col presente solo in quanto esso possiede uno spatium, un’estensione in quanto presente. L’indagine sull’estensione del presente, la quale rappresenta probabilmente un reperto fenomenico difficilmente contestabile, deve prendere dunque un’altra strada, quella della comprensione concettuale. Il risultato della seconda verifica dell’essere del presente afferma: se cento anni non sono presenti nel loro insieme, dal momento che essi, al pari di tutti gli intervalli temporali più piccoli, possono sempre sciogliersi nel non-più e nel non-ancora, questo vuol dire allora che gli intervalli temporali non possono nemmeno essere lunghi. Infatti, in quanto non sono interamente presenti, essi non sono neppure interamente essenti, e in quanto non essenti non possono nemmeno esser lunghi. La verifica condotta a diversi livelli nel capitolo 15, se un tempo possa essere presente nella sua interezza, e in quanto tale possa essere lungo, ha avuto origine nella domanda sull’essere del tempo come presente. Tale verifica è stata indotta dal discorso naturale, secondo cui diciamo che il tempo passato è stato lungo. Ma la possibilità che esso, in quanto passato, sia stato lungo, ha dovuto essere esclusa. Mentre invece si è dovuta prendere in esame la possibilità che il tempo ora passato sia stato lungo quando era ancora presente. La ricerca ha dato il seguente risultato: il tempo passato non può essere stato presente nel suo complesso, neanche quando era ancora tempo presente. Infatti, quando era ancora tempo presente, non c’era nemmeno una piccolissima particella indivisibile del presente. Perciò il tempo passato non poteva essere lungo neanche quando era ancora presente – non poteva essere lungo, cioè, in base al puro presente che si estende, in base al puro essere che non passa nel non-più. Nel capitolo 15 è stato verificato cosa significhi che il tempo passato non è stato lungo; in seguito si è indagato se il tempo presente possa essere presente nella sua interezza, se in quanto presente possa essere essente e in quanto essente possa essere lungo, e dopo che questa indagine è pervenuta al risultato negativo secondo cui non solo il tempo passato, ma anche il tempo presente non può essere lungo, rimane ancora da domandare se possa essere lungo il tempo futuro. Noi, infatti, parliamo e abbiamo a che fare anche con lunghi intervalli di tempo futuro. Dov’è mai il tempo che possiamo chiamare lungo, se esso non è il passato e non è nemmeno il presente? È forse il futuro? – così si chiede la comprensione filosofica del tempo. Come all’inizio del capitolo 15 la locuzione longum est, riferita al passato, era stata corretta in longum fuit, così anche ora il longum est riferito al futuro viene modificato

nel longum erit. Infatti, fino a quando l’intervallo di tempo in questione resta futuro, esso ancora non è, e in quanto non essente, non può a quanto pare nemmeno essere lungo. Come il tempo passato poteva in apparenza essere lungo solo quando era ancora presente, così anche il tempo futuro sembra poter essere lungo solo quando questo intervallo temporale non è più futuro, ma è passato nel presente. Il tempo futuro sembra essere lungo solo allorquando esso dal futuro – che non è ancora – ha iniziato ad essere ed è diventato presente (esse iam coeperit et praesens factum erit). Infatti solo ora, in quanto essente-presente, esso può, come sembra, anche esser lungo. Ma noi sappiamo già, a proposito del tempo presente, che esso passa nel non-più senza estensione, dunque non può essere essente, e in quanto tale, neanche lungo. All’inizio del capitolo 15, la comprensione naturale del tempo aveva obiettato a quella filosofica e al risultato della sua prima verifica che noi parliamo di tempo lungo e breve e che nel compiersi quotidiano della nostra vita ci rapportiamo, percependoli e misurandoli, a intervalli di tempo lunghi o brevi del nostro fare e del nostro lasciar perdere. Ma se ci rapportiamo ad un tempo lungo o breve, questo tempo deve anche essere essente. La comprensione filosofica del tempo ha iniziato perciò a verificare se il tempo passato, presente e futuro possa essere lungo. All’inizio il tempo presente è parso essere lungo, e dunque esteso. Ma il risultato di questa seconda verifica dell’essere dei tre orizzonti temporali afferma nuovamente che passato, presente e futuro non possono essere estesi, né essenti e neppure lunghi.

3. Il ritorno all’atteggiamento temporale del percepire, del paragonare e del misurare il tempo e la domanda sull’essere del presente (XI, 16) Rispetto al risultato della seconda verifica sull’essere del tempo, la comprensione naturale del tempo richiama di nuovo, e con forza, l’attenzione del voler-comprendere filosofico del tempo sui dati di fatto fenomenici, che valgono come degli indicatori per l’essere-esteso del presente e di conseguenza per l’essere del tempo presente. La seconda verifica dell’essere del presente ha dato come risultato che quest’ultimo non esiste nella sua interezza, ma piuttosto si scioglie continuamente nel non-più e nel nonancora. Et tamen – e ciononostante, ribatte la comprensione naturale del

tempo nel capitolo 16 – noi percepiamo gli intervalli temporali e li paragoniamo gli uni con gli altri (sentimus intervalla temporum et conparamus sibimet). La comprensione naturale del tempo oppone questo dato di fatto fenomenico al risultato della ricerca filosofica sull’essere del presente. Nel capitolo 15 erano già stati citati gli atteggiamenti naturali del percepire e del misurare l’estensione del tempo, senza però tematizzarli espressamente in vista della risposta alla domanda sull’essere del presente. Il percepire e il paragonare intervalli temporali di diversa lunghezza appartiene alla comprensione del tempo che si compie nella nostra vita quotidiana. Nel nostro fare e nel nostro lasciar perdere, noi comprendiamo anche il tempo in cui essi si estendono. Io comprendo che la mia azione attuale durerà più o meno a lungo. Questa durata la paragono con la durata di un’altra azione. Dico per esempio a me stesso: per questa cosa ho bisogno di un tempo più lungo, per quell’altra di un tempo più breve. La comprensione naturale del tempo fa anche presente che noi misuriamo persino la durata percepita e paragonata. Così diciamo: questo è durato il doppio di quello. Il metiri dobbiamo intenderlo nel senso della suddivisione naturale del tempo, che appartiene al compiersi della comprensione del tempo. Quando oggi sentiamo parlare della misurazione del tempo, pensiamo immediatamente all’esatta misurazione scientifica del tempo. In tal modo dimentichiamo che alla nostra comprensione naturale del tempo appartiene un modo proprio di suddividere il tempo, una suddivisione del tempo per il compiersi naturale della nostra vita. Facendo riferimento al percepire, al paragonare e al misurare le suddivisioni del tempo a livello naturale, la comprensione naturale del tempo vuole anzitutto dire che i tempi da noi così percepiti, paragonati e misurati tramite la suddivisione, “sono” anche. Il riferimento al naturale percepire, paragonare e misurare i tempi si intende come una conferma dell’essere dei tempi percepiti e misurati. Come può essere negato l’essere al tempo, e specialmente al presente, se è un dato di fatto fenomenico innegabile che nel compiersi della nostra vita quotidiana noi percepiamo, paragoniamo e misuriamo un tempo che perdura? A questa obiezione della comprensione naturale del tempo, la volontà di cogliere filosoficamente il tempo risponde con la frase: ma quando noi misuriamo la durata del tempo, attraverso la percezione, la misuriamo solo

come qualcosa che passa (Sed praetereuntia metimur tempora, cum sentiendo metimur). I praetereuntia tempora sono i tempi che attualmente passano a differenza dei praeterita tempora, i tempi passati, trascorsi. Noi misuriamo solo tali durate, quelle che si estendono attualmente nel passare di ora in ora. Infatti noi percepiamo solo il tempo che attualmente passa, e solo il tempo percepito possiamo misurarlo nella sua durata. Se i tempi sono passati senza che io li abbia percepiti e misurati come ciò che passa, non posso più percepirli e misurarli come passati. In quanto passati essi non sono più, e in quanto tali non hanno alcuna lunghezza che possa esser misurata. Proprio per questo noi non misuriamo i tempi futuri (futura tempora). Infatti, in quanto futuri, essi non sono ancora, e in quanto tali non possono essere estesi e venir misurati nella loro lunghezza. Cosa accade in questa risposta della comprensione filosofica del tempo? Evidentemente qualcosa di decisivo, non solo per la fase attuale dell’indagine, ma soprattutto per l’ulteriore corso della ricerca sul tempo. Ora, infatti, per la prima volta, la comprensione filosofica del tempo prende sul serio il fenomeno del percepire e del misurare il tempo. D’ora in poi essa pone la domanda sull’essere del presente e del tempo presente solo a partire dalla prospettiva tematizzata nell’atteggiamento del percepire e, con il percepire, del misurare il tempo che attualmente passa e che in tal modo si estende. Nel capitolo 15 era stata posta la questione dell’essere del presente dirigendo lo sguardo direttamente verso il presente stesso. In tale posizione, non si prendeva ancora in considerazione l’atteggiamento consistente nel percepire il tempo che attualmente passa. Ma ora, nel capitolo 16, la comprensione filosofica del tempo abbandona la posizione finora assunta, consistente nel dirigersi direttamente verso il presente, e tematizza l’atteggiamento temporale del misurare percependo. D’ora in poi si domanderà dell’essere del presente solo a partire dalla tematizzazione di questo atteggiamento temporale, nel quale ho a che fare col presente. L’atteggiamento temporale del percepire costituisce da questo momento il filo conduttore per il domandare relativo all’essere del presente. Di conseguenza, la comprensione filosofica del tempo cambia quella che è stata finora l’impostazione della questione. Essa non domanda più dell’essere del presente rivolgendosi direttamente al presente stesso, ma prende in considerazione l’essere del presente partendo dal già citato filo conduttore

della percezione del tempo. Questo cambiamento nella formulazione della domanda possiamo chiamarlo il ritorno della comprensione filosofica del tempo dal dirigersi direttamente verso il tempo all’avere a che fare con il tempo. Mentre prima si è cercato di cogliere l’essere del presente rivolgendo lo sguardo direttamente ad esso, d’ora in avanti si tenterà di fissare l’essere del presente a partire dalla co-tematizzazione del modo in cui si ha a che fare col presente. L’ultima proposizione del capitolo 16 riassume il risultato: quando il tempo presente passa (cum ergo praeterit tempus), lo si può percepire e misurare (sentiri et metiri potest); ma quando esso è passato (cum autem praeterierit), non lo si può più percepire e misurare, poiché esso non è più (quoniam non est, non potest). Questa è l’interpretazione filosofica dello stato di cose fenomenico stabilito a partire dalla comprensione naturale del tempo, consistente nel percepire e del misurare gli intervalli temporali. Se ora la comprensione filosofica del tempo riconosce che il tempo che attualmente passa viene percepito, e la sua durata viene misurata, bisogna anche ammettere che il tempo che passa, nella misura in cui è percepito, si estende; che in quanto si estende “è” e che in quanto tale può esser misurato nella sua lunghezza. Si può pensare che sia proprio il riferimento del tempo che passa all’atteggiamento temporale del percepire, ciò che – nonostante il fluire del presente – non lo fa sciogliere nel mero non-più e nel mero non-ancora, ma lascia che esso si estenda come presente. In che modo però il presente si estenda, senza che le parti di tale estensione presente siano contemporanee tra loro, rimane per il momento ancora oscuro. Ma se si è ammesso che noi misuriamo, percependola, la lunghezza del tempo che attualmente passa, allora si è giunti a vedere che il tempo, misurato nella percezione, “è”. Ciò significa che l’essere in questione si addice al tempo che attualmente passa solo in quanto esso è percepibile, e cioè solo in riferimento all’atteggiamento temporale del comprendere che percepisce il presente. Perciò nei capitoli 14 e 15 l’essere del presente non ha potuto mostrarsi, perché il presente non è stato considerato anche dal punto di vista della tematizzazione dell’avere a che fare con il presente. Ma in che modo gli intervalli temporali che attualmente passano “siano” in virtù del loro essere percepiti, cioè attraverso il loro riferimento all’avere a che fare con il tempo, rimane ancora un enigma.

4. Il ritorno all’atteggiamento temporale del ricordo e dell’attesa e la questione sull’essere del passato e del futuro (XI, 17) Ciò che di decisivo è stato visto nel capitolo 16 è che, quando si tematizza lo specifico atteggiamento verso il presente, al tempo stesso si mostra in qualche modo l’essere stesso del presente che si è messo in questione. E questo non permette forse di vedere che un certo modo di essere spetta anche agli orizzonti temporali del passato e del futuro? Se l’essere del tempo presente si è mostrato in riferimento allo specifico atteggiamento verso il presente, non ci sono anche atteggiamenti temporali specifici verso il passato e il futuro, cosicché, in riferimento ad essi e alle loro tematizzazioni, si mostri come anche i tempi passati e futuri “sono”? Chi è che mi dice – così domanda la comprensione naturale del tempo all’inizio del capitolo 17 – che non ci sono tre dimensioni temporali (non esse tria tempora), cioè passato, presente e futuro, ma che solo il presente è, poiché le altre due non sono? Alla comprensione filosofica del tempo finora si è mostrato solo l’essere del presente. Ma la comprensione naturale del tempo rimane fedele alla certezza della sua conoscenza del tempo, secondo la quale non solo il presente e ciò che è presente, ma anche il passato e ciò che è passato, e così pure il futuro e ciò che è futuro “sono”. Così come, nel capitolo 16, la comprensione naturale del tempo ha richiamato l’attenzione di quella filosofica sullo specifico atteggiamento verso il presente, così adesso essa richiama l’attenzione sull’atteggiamento naturale verso il futuro e verso il passato. La comprensione naturale del tempo si limita ora semplicemente a far notare che nella predizione di ciò che è futuro noi non abbiamo a che fare con un “niente”, e che, allo stesso modo, nel racconto di ciò che è passato, abbiamo a che fare con qualcosa che “è”. Così come la comprensione filosofica del tempo aveva preso sul serio il riferimento al dato di fatto fenomenico dell’atteggiamento percipiente verso il presente, così ora essa accetta di riferirsi – come ad un reperto fenomenico – anche all’atteggiamento consistente nel predire il futuro e a quello consistente nel raccontare il passato. E anche in questo caso si realizza una retrocessione dalla posizione del dirigersi direttamente verso il futuro e verso il passato, perseguita finora, all’atteggiamento temporale dell’avere a che fare con essi. Il prendere sul serio il riferimento ai dati fenomenici consiste nel fatto che d’ora in poi, a partire dalla contemporanea tematizzazione di questi

atteggiamenti temporali, verrà posto nuovamente in questione l’essere del passato e del futuro. Nella seconda domanda del capitolo 17 – «O forse anche questi [passato e futuro] sono?…» – parla la comprensione filosofica del tempo, che immediatamente inizia a domandare dell’essere del futuro e del passato, ormai a partire dagli atteggiamenti temporale tematizzati verso il futuro e verso il passato. Forse anche il futuro e il passato sono (An et ipsa sunt)? Il futuro è forse tale da uscire dal nascondimento, allorquando da futuro diventa presente (ex aliquo procedit occulto, cum ex futuro fit praesens)? Il futuro che riteniamo in qualche modo “sia”, si tiene forse nascosto, ed “è” come qualcosa che si mantiene nel nascondimento? Al futuro, considerato in questo suo nascondimento, spetta allora un certo modo di essere, cosicché, quando esso dal futuro passa nel presente, non vi passa come dal mero non-essere (non-essere-ancora), ma passa dall’essere in quanto futuro nell’essere in quanto presente? Questo è il primo tentativo di interpretare la predizione del futuro. Quando il futuro viene predetto, esso dev’essere in qualche modo previsto. Ma solo ciò che in qualche modo “è” può esser visto. Finora il risultato della verifica dell’essere del futuro recitava che esso, in quanto non-ancora, non è. La predizione del futuro è un dato di fatto fenomenico. Ciò che in essa viene visto e predetto come futuro che può diventare presente, deve in qualche modo essere. Non potrebbe forse “essere” nella modalità del tenersi nascosto, tale che al nascondimento stesso spetti un tipo di essere? Allo stesso modo si deve domandare dell’essere del passato. Il passato è forse tale da retrocedere in qualche modo nel nascondimento, quando esso da presente passa nel passato (in aliquod recedit occultum, cum ex praesenti fit praeteritum)? Anche il passato si tiene nascosto ed “è” in quanto qualcosa che si nasconde alla vista? Non spetta in tal modo anche al passato, come sua forma di essere, quella di tenersi nascosto, in maniera tale che esso non sia semplicemente ciò che non è più, ma ciò che “è” in qualche modo? Non spetta forse al passato, in quanto esso si tiene nel nascondimento, ancora un modo di essere tale che, quando passa dal presente nel passato, e diventa appunto passato, non passa dall’essere nel mero non-esser-più, ma dall’essere del presente nell’essere del passato? Anche questo è solo il primo tentativo di interpretare il racconto del passato. Coloro che raccontano il passato (qui narrant praeterita) non

potrebbero raccontare cose vere (non utique vera narrarent) se non le avessero guardate nel loro spirito (si animo illa non cernerent). Così come il predire il futuro è l’atteggiamento temporale dell’attesa, allo stesso modo il raccontare il passato è l’atteggiamento temporale del ricordo. Il rammemorante esser-riferito al passato è un guardare questo passato. Il rammemorante guardare al passato si compie come un atteggiamento dello spirito (animus), come un atteggiamento dell’anima (anima). Perciò il ricordare è un guardare il passato nello spirito, così come l’attendere è un guardare il futuro nello spirito. Questo passato guardato nel ricordo non può – in quanto così guardato – non essere. Esso deve in qualche modo essere, forse in modo tale che, in quanto passato, esso, nel nascondimento, ancora in qualche modo è. Così come non si potrebbe guardare, attendendolo, il futuro, se esso in assoluto non fosse ancora, allo stesso modo non si potrebbe neanche guardare, ricordandolo, il passato, se esso in assoluto non fosse più. Se il futuro non fosse affatto, non potrebbe essere atteso e guardato nell’attesa. Se il passato non fosse affatto, non potrebbe essere ricordato e guardato nel ricordo. Il capitolo 17 termina con questa convinzione: “sono”, dunque, sia il futuro che il passato (Sunt ergo et futura et praeterita). Il “sono”, posto all’inizio, sottolinea l’essere del passato e del futuro. Nei capitoli 14 e 15 non si era mostrata alcuna possibilità di attribuire al passato e al futuro un proprio modo di essere. E questo a motivo del fatto che lo sguardo era rivolto direttamente a questi fenomeni in se stessi, a prescindere dunque dagli specifici atteggiamenti temporali verso il passato e verso il futuro. Ma una volta che la comprensione filosofica del tempo ha scelto, per il suo domandare relativo all’essere del passato e del futuro, il filo conduttore di una tematizzazione dell’atteggiamento temporale dell’attesa del futuro e del ricordo del passato, si mostra per la prima volta qualcosa come un modo di essere del futuro e del passato. Così come l’essere del presente e degli intervalli del tempo presente è legato retroattivamente allo specifico atteggiamento verso il presente, così anche l’essere del passato si mostra ora legato retroattivamente all’atteggiamento verso il passato e l’essere del futuro si mostra legato retroattivamente all’atteggiamento verso il futuro. Ma in che modo il passato e i tempi passati “siano” a partire dal loro riferimento all’atteggiamento del ricordo, come spetti al passato, attraverso questo riferimento, un proprio modo di essere, nel capitolo 17 non viene ancora

discusso. E in che modo il futuro e gli intervalli temporali futuri “siano” a partire dal loro riferimento all’atteggiamento dell’attesa, come spetti al futuro, attraverso questo riferimento, un proprio modo di essere, rimane anch’esso non chiarito. Nei capitoli 16 e 17 la ricerca sul tempo viene ad assumere una prospettiva dello sguardo che risulta conforme al tempo che va indagato di volta in volta, sebbene ciò non possa essere ancora compiuto in modo sufficientemente chiaro. Questa nuova prospettiva dello sguardo comporta che la domanda sull’essere dei tre tempi (tempora) non vada discussa rivolgendo lo sguardo direttamente alle dimensioni del tempo considerate in se stesse, ma vada esposta ed elaborata a partire dalla tematizzazione degli atteggiamenti verso i tre tempi. Gli atteggiamenti temporali sono quelli dell’uomo che comprende il tempo. Nella mia quotidiana attuazione della vita, io ho a che fare, tramite la percezione, col presente; tramite il ricordo, col passato; tramite l’attesa, col futuro. Ma se d’ora in avanti si deve porre la domanda sull’essere del presente percepito, del passato ricordato e del futuro atteso, in modo da seguire, come filo conduttore, questi tre atteggiamenti temporali, bisognerà che tale domandare sia compiuto in modo corretto. E questo può accadere solo se noi ci portiamo esplicitamente in questi tre atteggiamenti temporali. O meglio, se soggiorniamo stabilmente in essi, ma in modo da scioglierci in questi atteggiamenti temporali, lasciandoli insieme inosservati. Nel compimento naturale di questi atteggiamenti temporali, noi viviamo il presente percepito, viviamo il passato ricordato e viviamo il futuro atteso, in modo tale da lasciare sempre velata la maniera in cui il presente, il passato e il futuro si riferiscono retroattivamente agli atteggiamenti temporali. Quando si tratta di tematizzare filosoficamente questi atteggiamenti temporali, c’è sempre il pericolo di considerarli come qualcosa che ci stia di fronte alla stregua di un oggetto, anziché lasciare che essi si esprimano nel loro carattere di compimento. Il contenuto strutturale di questi atteggiamenti si mostra solo se arriviamo a interpretarli non in una contrapposizione oggettuale, ma a partire dal loro stesso compiersi. Per Agostino è naturale compiere la tematizzazione del percepente esserriferito al presente percepito, del rammemorante esser-riferito al passato ricordato, e dell’attendente esser-riferito al futuro atteso, a partire dall’atteggiamento di attuazione. Ma lo stesso deve valere anche per noi. E

noi – in maniera conforme al testo e conforme alla cosa in questione – potremo interpretare la ricerca agostiniana intorno alla domanda sull’essere dei tre orizzonti temporali a partire dalla tematizzazione della prospettiva dello sguardo propria dei tre atteggiamenti temporali, solo se l’interpretazione prenderà le mosse dalla tematizzazione di questi atteggiamenti temporali considerati nel loro compiersi. La domanda sull’essere del presente percepito nella percezione, sull’essere del passato ricordato nel ricordo e sull’essere del futuro atteso nell’attesa può esser posta solo da colui che riesca ad esplicitare i propri atteggiamenti temporali e, assumendoli come filo conduttore, volga lo sguardo all’essere del presente percepito, all’essere del passato ricordato e all’essere del futuro atteso.

5. L’essere del passato ricordato e del futuro atteso come un modo del presente (presenza) (XI, 18-19) Ora, però, bisogna domandarsi come, in che maniera il futuro atteso e il passato ricordato “sono”. Se il futuro e il passato “sono” – così inizia la comprensione filosofica del tempo nel capitolo 18 –, allora voglio sapere dove essi sono (volo scire, ubi sint). Nel capitolo 17 era stata avanzata l’ipotesi che il futuro e il passato, nella misura in cui essi “sono” in qualche modo, si tengono in un qualche nascondimento. Quando invece all’inizio del capitolo 18 ci si chiede dove essi siano, si domanda sul dove di questo nascondimento. Dove “sono” in senso proprio il futuro e il passato, se essi vengono considerati nell’attesa e nel ricordo e “sono”, appunto, in quanto considerati così? La comprensione filosofica del tempo per il momento non è ancora pronta per rispondere a questa domanda sul “dove”. Ma se non sono ancora capace di dare una risposta riguardo al dove – così la comprensione filosofica del tempo –, so però che dovunque “siano” (ubicumque sint) il futuro atteso e il passato ricordato, essi non sono né futuro né passato, bensì presenti (non ibi ea futura esse aut praeterita, sed praesentia). Per poter rispondere alla domanda sul dove, la ricerca deve anzitutto dedicarsi alla domanda sul come, ossia alla domanda su come il futuro atteso e il passato ricordato, di volta in volta, “sono”. Ma la domanda sul come non è nient’altro che la domanda sul modo dell’essere, sul modo-di-essere del futuro atteso e del passato ricordato. La domanda sul come ha trovato una risposta nel capitolo 18, sotto forma

di una tesi. Tutto ciò che segue è da intendersi come esposizione e dimostrazione di questa tesi. Non dobbiamo stupirci se una tesi di portata così vasta viene formulata qui in maniera paradossale. Lì dove il futuro e il passato, ciascuno a modo suo, “sono”, proprio lì il futuro non è qualcosa di futuro, ma qualcosa di presente. La comprensione filosofica del tempo vuol dire questo: il futuro che si trova nell’attesa, che in quanto tale viene considerato nel modo dell’attendere, non è mero futuro, non è mero nonancora, ma è qualcosa di futuro che, per colui che attende, è presente, è una presenza, in un modo suo proprio. Il passato che si trova nel ricordo, che viene considerato nel ricordare, non è mero passato, non è mero non-più, ma è qualcosa di passato che, per colui che ricorda, è presente, è una presenza, in un modo suo proprio. Il modo di essere peculiare del futuro atteso e del passato ricordato non è l’esser-presente del presente, ma è un modo proprio dell’esser presente e della presenza. Il dove e l’essere in un certo luogo sono stati caratterizzati, nel capitolo 17, come qualcosa di nascosto. Nella misura in cui, in qualche modo, il passato è ancora e il futuro è già, cioè è presente, esso si mantiene in un qualche nascondimento. L’esser nascosto del passato che in qualche modo è ancora presente, e l’esser nascosto del futuro che in qualche modo è già presente si distinguono dal non-essere-nascosto, dall’esser-manifesto del presente in senso proprio. Se il futuro fosse qualcosa di futuro anche lì dov’è nascosto, allora esso non sarebbe ancora, in assoluto non sarebbe ancora, e non gli spetterebbe alcun modo di essere. Se il passato fosse qualcosa di passato anche lì dov’è nascosto, allora esso non sarebbe più assolutamente. Il passato, nel suo riferimento al ricordo, “è” il passato ricordato nel senso che, in quanto è qualcosa di passato, esso è presente per me, nel mio ricordare. Certo, esso non è presente per me come lo è il presente, ma come qualcosa di passato e di assente, e in quanto tale esso è per me – vale a dire per il mio essermigli riferito nel ricordo – al tempo stesso presente. Il futuro, nel suo riferimento all’attesa, “è” il futuro atteso nel senso che, in quanto è qualcosa di futuro, esso è presente per me, nel mio attendere. Tuttavia esso non è presente per me, non è per me una presenza come lo è il presente, ma come qualcosa di futuro, ed essendo in questo senso qualcosa di assente, esso è presente per me, nel mio essermigli riferito nell’attesa. Come si caratterizza la differenza tra il presente (la presenza) del presente, da un lato, e il presente (la presenza) del passato ricordato e del

futuro atteso, dall’altro? Nella percezione, il presente percepito è presente in carne e ossa. Al contrario, nel ricordo del passato ricordato esso non è più presente in carne e ossa, così come nell’attesa del futuro atteso esso non è ancora presente in carne e ossa. La presenza del presente percepito è determinata attraverso l’essere in carne e ossa della presenza. Al contrario, la presenza del passato ricordato e del futuro atteso è caratterizzata dal mancare del darsi in carne e ossa. Per il momento la comprensione filosofica del tempo conclude con questo pensiero: ovunque siano, e comunque siano, il passato e il futuro (Ubicumque ergo sunt, quaecumque sunt), essi “sono” solo come presente (non sunt nisi praesentia). L’“ovunque” solleva di nuovo la domanda sul dove, che per ora rimane ancora senza risposta. Il “comunque” si riferisce all’essere-che-cosa, all’essenza, alla domanda sull’essenza che qui viene messa da parte: qualunque cosa sia il tempo in riferimento alla sua dimensione del passato e del futuro, qualunque essenza gli appartenga. La domanda sul che-cosa era stata messa da parte a favore della domanda sull’essere, che aveva appena ricevuto una risposta determinata: l’essere del passato come presente del passato, nella misura in cui quest’ultimo è ricordato; l’essere del futuro come presente del futuro, nella misura in cui quest’ultimo è atteso. Nell’ambito di ciò che qui vene denominato come “ovunque”, si fa chiaro adesso che la domanda sul dove abbraccia sia la domanda sull’essere, che la domanda sull’essenza del tempo. Se si mostra “dove” mai i tre orizzonti del tempo ricevano il loro proprio modo di essere come un modo del presente, allora con questo “dove” viene trovato anche il “posto” per l’essenza del tempo. Solo lì dove ai tre orizzonti del tempo si addice un loro peculiare modo di essere, anche il tempo si mostra nella sua costituzione essenziale. La domanda sul dove riguarda il dominio in cui risiede l’essere e l’essenza del tempo. a) Il modo di essere del passato ricordato come un modo del presente Nel corso del capitolo 18, la comprensione filosofica del tempo fornisce una spiegazione del modo in cui al passato del ricordo si addice una peculiare modalità del presente. La comprensione filosofica del tempo dice: Quamquam praeterita cum vera narrantur, ex memoria proferuntur non res ipsae, quae praeterierunt, sed verba concepta ex imaginibus earum, quae in

animo velut vestigia per sensus praetereundo fixerunt. Questa frase, se tradotta in maniera adeguata10, dice: «Eppure, se si racconta in maniera veritiera il passato, non sono le cose stesse, che son passate, ad essere estratte dalla memoria, bensì le parole generate dalle immagini delle cose (earum), che (quae) hanno impresso quasi delle tracce nello spirito, allorché esse [le cose] sono passate attraverso i nostri sensi». La spiegazione di come, nel ricordo, al passato si addice un modo del presente si sviluppa come una descrizione dell’atteggiamento temporale del ricordo. Seguendo il filo conduttore dell’atteggiamento verso il passato, si tenta di descrivere in che modo il passato ricordato sia presente per colui che ricorda. La domanda iniziale chiede: com’è che nel racconto verosimile del passato, che un tempo è stato presente, si compie il ricordo di questo passato? Questo modo di domandare corrisponde alla domanda posta nel capitolo 17. In che modo la comprensione filosofica del tempo descrive il riferirsi rammemorante al passato ricordato? Come viene caratterizzato da essa il passato ricordato, e in quanto tale per me presente? Il ricordare è un ex memoria proferre, un tirar fuori dalla memoria. La memoria [Gedächtnis] non è la stessa cosa del ricordo [Wiedererinnerung]. Nella misura in cui la memoria è memoria del passato, essa indica quel modo di conoscere nel quale io conosco il passato in un modo velato. Il conoscere il passato tramite la memoria è un modo velato di conoscere il passato. Al contrario, il ricordo è un atteggiamento in cui io disvelo ciò che è trattenuto nella memoria, ovvero il sapere velato del passato. Lo svelare, tramite il ricordo, del passato velato tenuto nella memoria ha il carattere di un rappresentare [Vergegenwärtigen] intuitivo. Ogni ricordare è un tirar fuori il passato, conosciuto nel modo del trattenere, dal nascondimento della memoria alla rappresentazione intuitiva. Il passato ricordato è il rappresentato più o meno intuitivo a seconda del modo di attuarsi del ricordare. Il ricordare è un rappresentare [Ver-gegenwärtigen], mentre il percepire è un presentare11 [Gegenwärtigen]. Infatti il percepire fa sì che il percepito sia presente nella sua presenza in carne e ossa. Il ricordare non rende presente, ma rappresenta; esso fa in modo che per me il passato emerga in un presente proprio. Nel ricordare – così la comprensione filosofica del tempo – non sono le res stesse ad essere estratte dalla memoria, poiché esse sono passate. Cosa sono le res ipsae? Esse sono il presente in carne e ossa della mia percezione

che rende presente. Poiché questo presente in carne e ossa manca al passato del ricordare, il ricordo non è mai ciò che rende presente, ma ciò che rappresenta. Ciò che è rappresentato non è la res ipsa, giacché essa, in quanto rappresentata, non è più data nel suo presente in carne e ossa. Com’è data la res rappresentata nel ricordo? Cos’è quella cosa che, nel corso dell’atteggiamento temporale del ricordare, viene chiarita in quanto trattenuta dalla memoria e rappresentata? La comprensione filosofica del tempo dice: imagines rerum, immagini di quelle res ipsae, che non sono più. Ma cosa sono le immagini? La comprensione filosofica del tempo risponde così: come se le cose e gli accadimenti reali passati attraverso i sensi (per sensus praetereundo), nella percezione che rende presente, avessero impresso delle tracce nello spirito (in animo velut vestigia fixerunt). Queste tracce hanno il carattere di immagini come riproduzioni. Una riproduzione porta in sé il riferimento alla cosa riprodotta. L’immagine è, in quanto riproduzione, il riproducente che riproduce qualcos’altro. Ciò in cui le cose sono riprodotte è ciò che le riproduce, la riproduzione. La risposta alla domanda su cosa siano le immagini della memoria e del ricordo, tirate fuori nella memoria e nel ricordo, viene fornita attraverso una descrizione della percezione che rende presente. L’inclusione della percezione e della sua descrizione nella descrizione del ricordo è appropriata se il ricordare è, nella sua essenza, una ripetizione della percezione già avvenuta nella modalità del quasi. Il passato ricordato è reso presente come un esser stato-percepito. Un’interpretazione dettagliata della percezione viene fornita da Agostino nella sua importante analisi della memoria del libro X delle Confessioni. In quel contesto, nel capitolo 8, si parla dei campi e dei vasti quartieri della memoria «dove si trovano i molti tesori delle innumerevoli immagini che i miei sensi hanno raccolto da ogni sorta di cose» (ubi sunt thesauri innumerabilium imaginum de cuiuscemodi rebus sensis invectarum). Poco dopo si dice che tutto ciò che abbiamo percepito tramite i sensi entra nella memoria, ogni cosa attraverso la sua porta, il visibile attraverso la vista, ciò che può esser toccato attraverso il tatto, e così via; tutto ciò che, tramite le diverse vie dei sensi, è entrato nella memoria, viene in essa conservato. Tuttavia non sono le cose stesse percepite tramite i sensi ad entrare nella memoria (Nec ipsa tamen intrant), ma sono le immagini delle cose sensibili che vengono rese presenti in quella sede (sed rerum sensarum imagines illic

praesto sunt); esse sono presenti nella memoria per il pensiero che le ricorda (cogitationi reminiscenti eas). E continuando, nello stesso capitolo, si afferma che nessuno può dire in che modo queste immagini sono prodotte (Quae quomodo fabricatae sint), nonostante sia evidente attraverso quali sensi esse vengono assimilate e conservate nel nostro intimo Verso la fine del capitolo 8 si dice: io non avrei potuto parlare dei fiumi e delle stelle che ho visto, e dell’oceano di cui ho sentito dire, se non li avessi visti nella mia memoria (intus in memoria mea), così estesi nello spazio come se li vedessi fuori di me (quasi foris viderem). Da questi passi emerge chiaramente che, secondo Agostino, nel rivolgermi percepente alle cose percepite, io non sono rivolto direttamente alle cose percepite stesse, ma alle loro immagini percettive immanenti allo spirito. Il mio sapere percettivo immediato delle cose percepite è costituito dalle immagini percettive interiori, che si formano nel corso del percepire. Ma come giunge Agostino a stabilire tali immagini percettive? Perché secondo lui il nostro sapere percettivo deve avere il carattere di immagini percettive interiori? La sua risposta è che le cose percepite non entrano esse stesse nell’interno del mio spirito percepente, ma ne restano all’esterno. Dal momento però che, nella percezione, le cose percepite restano lì dove sono, è proprio necessario spiegare il sapere percettivo come un sapere che riproduce? Il mio sapere percettivo delle cose percepite e degli accadimenti reali è nel mio intimo solo nella forma di una riproduzione che rimanda fuori di sé alle cose riprodotte? Nel percepire non sono forse io direttamente presso le cose percepite, cosicché il mio sapere percettivo è il modo in cui le cose stesse mi sono date? Se io osservo la relazione del percepire e della cosa percepita, non dall’esterno, ma seguendo il senso di compimento della percezione, trovo forse qualcosa come un’immagine percettiva interiore che rimanda alla cosa esterna come ciò che viene riprodotto? Porre in relazione l’intus e il foris, un dentro e un fuori, non si oppone forse al dato di fatto fenomenico del rivolgersi percepente alla cosa percepita? Stabilendo un interno e un esterno, non si perde forse la vera intenzionalità della percezione? E in effetti suonerebbe così la critica fenomenologica di Husserl a questo approccio. Poiché Agostino spiega già il sapere percettivo come un avere immagini percettive, egli deve determinare anche il sapere della memoria e del ricordo del passato come un esser-stato-percepito, come un avere e un tirar fuori

immagini rammemorate e ricordate. Il passato che è presente nel ricordo come esser-stato-percepito, ha, in quanto rappresentato, il carattere di imago. Nel ricordo svelante, io sono rivolto, secondo Agostino, alle immagini rammemorate chiarite come immagini ricordate. Ma anche qui bisogna domandare: corrisponde al senso di compimento del ricordo dire che in esso io mi rapporto direttamente alle immagini ricordate, e solo nella misura in cui queste rimandano alle cose passate stesse in esse rappresentate, io mi rapporto direttamente alle cose passate stesse? Non si perde anche qui la vera intenzionalità, il vero rivolgersi al passato ricordato? Nel capitolo 18, Agostino fornisce un esempio di cosa sia il presente del passato ricordato in un’immagine ricordata. Si tratta del ricordo della propria fanciullezza, ovvero di tutto ciò che da ragazzo egli ha percepito e sperimentato. La fanciullezza è insieme un esempio di cosa sia un lungo intervallo di tempo passato. La fanciullezza, e tutto ciò di cui Agostino ha fatto esperienza in essa, non è più, e appartiene al tempo passato (in tempore praeterito est) che non è più (quod iam non est). Se nel ricordo ripenso alla mia giovinezza e la racconto, non la guardo come la stessa giovinezza in cui mi trovavo un tempo, e di cui ho fatto esperienza. Per Agostino ciò significa: io vedo una sua immagine nel tempo presente (imaginem eius in praesenti tempore intueor), perché questa immagine è ancora nella mia memoria e nel mio ricordo. In praesenti tempore: il presente, in cui vedo l’immagine ricordata della mia fanciullezza, è il presente del mio ricordo. In questo è presente il mio atteggiamento ricordante e la mia immagine ricordata, a cui sono rivolto nel ricordare. Ma poiché l’immagine ricordata ha il carattere di una riproduzione, nel mio ricordo io non sono rivolto solo all’immagine presente ma, tramite essa, sono rivolto alla fanciullezza passata che viene riprodotta. Attraverso il presente dell’immagine ricordata, immanente allo spirito, il passato che dev’essere propriamente ricordato ottiene un modo di essere presente. Il presente dell’immagine ricordata nel ricordare può chiarire in che modo il passato ricordato abbia per noi una sua propria modalità di essere presente. Se io percepisco una riproduzione, diciamo il disegno di un edificio, essa è presente in carne e ossa, proprio in quanto immagine percepita. Tuttavia, in questa percezione dell’immagine, io non percepisco tematicamente la cosa stessa di cui ho l’immagine. Ciò a cui il mio sguardo tematico è rivolto è ciò

che è riprodotto nell’immagine. L’edificio stesso riprodotto (disegnato) nell’immagine non è presente allo stesso modo del disegno che lo riproduce. L’edificio riprodotto nell’immagine presente non è dato esso stesso in carne e ossa. Ma, attraverso la raffigurazione nell’immagine percepita, esso ottiene per me un suo proprio modo di essere presente. In quanto non presente in carne e ossa, l’edificio è presente – attraverso l’immagine presente in carne e ossa – in un modo suo proprio, vale a dire nel modo della raffigurazione. La domanda decisiva ora si chiede: possiamo spiegare, grazie all’aiuto della percezione delle immagini, il rivolgersi con il ricordo al passato che viene ricordato? La percezione delle immagini è un atteggiamento che ha in sé diversi livelli, in quanto è rivolto ad un presente in carne e ossa, e ad un presente non in carne e ossa che appare nel primo. In modo analogo, si può dire che anche il ricordo costituisce un atteggiamento che ha in sé diversi livelli? La rappresentazione del passato è una variazione della percezione di un’immagine? Poiché Agostino spiega anche la percezione delle cose con l’aiuto delle immagini percettive, occorre domandarsi anche qui se la percezione delle cose sia un modo della percezione delle immagini. O se invece la percezione e il ricordo siano di un’essenza diversa rispetto alla percezione delle immagini. In tal caso la percezione delle immagini non può servire come modello esplicativo per la percezione e per il ricordo. Con queste domande indichiamo la direzione in cui si muove la critica di Husserl all’interpretazione raffigurativo-teoretica dell’atteggiamento intenzionale, il quale per sua natura è semplice, non suddiviso in diversi livelli: una critica che sarà condivisa in pieno anche da Heidegger. All’inizio del capitolo 18 si era detto: ovunque sia il passato, lì dove esso “è”, e dove gli si addice un suo proprio modo di essere, esso “è” nel modo del presente, della presenza, il modo di essere presente del passato, in quanto esso viene rap-presentato nel ricordo. Intanto la comprensione filosofica del tempo ha guadagnato la visione del dove che ricercava. La praesentia del passato nel ricordo è il presente dell’immagine di quella cosa che è essa stessa passata, mentre la sua immagine percettiva è d’ora in poi presente nell’animus che ricorda come un’immagine ricordata nella memoria. Questo presente dell’immagine ricordata nell’animus che è presente per sé stesso conferisce alla cosa passata – ma raffigurata nell’immagine del ricordo – un modo di essere presente per me. Il dove è così la memoria dell’animus. L’animus o l’anima è la sfera

dell’atteggiamento percepente e ricordante. Solo per lo spirito che percepisce, che trattiene nella memoria e che ricorda, c’è un essere del presente e del passato. Questo modo di vedere viene guadagnato dalla comprensione filosofica del tempo allorquando essa, nel domandare quale sia il modo di essere del presente e del passato, cambia l’impostazione della domanda e comincia a seguire il filo conduttore della modalità di accesso al presente e al passato. Resta però problematico se in questa direzione dello sguardo l’animus che comprende il tempo debba esser inteso come una sfera dell’interiorità, distinta dalla sfera dell’esteriorità. Il primo passo per il superamento di questa suddivisione in sfere distinte, che ha poi bisogno della mediazione delle immagini conoscitive, è la visione husserliana delle essenze, che si dirige verso la vera costituzione intenzionale della coscienza e dei suoi vissuti come atti. Questa visione delle essenze è il presupposto per la visione di Heidegger, secondo cui l’essenza dell’uomo non è solo la coscienza costituita in senso intenzionale, ma l’esserci estatico-orizzontale. b) Il modo di essere del futuro atteso come un modo del presente Nella seconda parte del capitolo 18, Agostino cerca di capire se il futuro che si riferisce ad un’attesa, cioè il futuro che si dà nel modo dell’essereatteso, sia tale che gli si addica una sua propria modalità di esser presente per me. La predizione di ciò che avverrà, diretta nell’orizzonte del futuro, assume così per Agostino un significato particolare, poiché include anche la visione del futuro dei profeti veterotestamentari. Con l’interpretazione dell’attesa e del modo di essere del futuro atteso, Agostino cerca contemporaneamente un’interpretazione filosofica della possibilità della profezia. La comprensione filosofica del tempo domanda come prima cosa se, riguardo alla predizione del futuro, vi sia una causa simile (similis causa) a quella che vale per il racconto del passato. Essa pone la domanda se, per quel che riguarda l’attesa di ciò che ancora non è, vengano percepite in anticipo immagini già presenti (ut rerum, quae nondum sunt, iam exsistentes praesentiantur imagines). La somiglianza su cui ci si interroga è, innanzi tutto, quella tra le immagini dell’attesa e le immagini del ricordo. Nella predizione che attende il futuro, siamo forse rivolti a quest’ultimo, in modo da vederlo nelle immagini rappresentate, come immagini dell’attesa? Il

futuro, come ciò che è atteso dall’attendere, guadagna forse il suo modo proprio di essere presente per me, attraverso l’esser presente delle immagini dell’attesa? Ma questa somiglianza tra attesa e ricordo non è la sola cosa su cui ci si interroga. La somiglianza a cui si fa riferimento nella domanda riguarda anzitutto l’origine delle immagini dell’attesa, ossia se tra la loro origine e quella delle immagini del ricordo vi sia una corrispondenza. Se per ricordare il passato bisogna aver prima percepito qualcosa che una volta è già stato presente, allora anche per attendere il futuro bisognerà forse percepire prima ciò che sarà presente solo poi. Se nel percepire quanto è successo in precedenza vengono ottenute le percezioni o immagini del ricordo, forse, in maniera corrispondente, nel percepire in anticipo ciò che avverrà dopo, possono essere formate le immagini dell’attesa. Agostino utilizza il verbo praesentire. Sentire significa percepire, praesentire vuol dire allora, in senso stretto, percepire in anticipo. Il sentire è un percepire che è dato come presente in carne e ossa. Il praesentire dovrebbe essere tale che in esso il futuro sia già presente, cosicché – analogamente al modo in cui si percepisce ciò che è presente in carne ed ossa – il futuro possa essere percepito in anticipo. In questo percepire in anticipo dovrebbero essere guadagnate le immagini dell’attesa del futuro. Ma la comprensione filosofica del tempo risponde alla domanda da essa stessa posta con un nescio. Il praesentire del futuro viene respinto come un tipo di conoscenza impossibile allo spirito umano. La provenienza e la formazione delle immagini dell’attesa non sta dunque in una corrispondenza con l’origine delle immagini del ricordo. A fronte di questo praesentire inadeguato per il chiarimento filosofico dell’atteggiamento che attende il futuro e del modo di essere presente del futuro atteso, Agostino parla invece di un praemeditari: «Ma questo so con certezza, che noi di solito premeditiamo le nostre azioni future (praemeditari futuras actiones nostras), e che questo premeditare è presente (eamque praemeditationen esse praesentem), mentre l’agire stesso che premeditiamo non è ancora, poiché esso è futuro». Qui Agostino richiama l’attenzione sul fenomeno del nostro quotidiano atteggiamento verso il futuro. Nelle nostre azioni quotidiane, noi viviamo non solo riferendoci al presente, ma anche al futuro, poiché premeditiamo le azioni da compiere nel presente. La nostra vita si compie essenzialmente a partire da questa anticipazione premeditata di

ciò che vivremo nel presente. Il praemeditari sta qui per l’atteggiamento verso il futuro dell’attesa. La praemeditatio è presente. Presente è l’attendere e ciò che in esso è atteso, le azioni che compirò in futuro nel modo del loro essere premeditate. Al contrario, le azioni stesse, così come successivamente saranno compiute, non sono ancora. La praemeditatio nel suo presente racchiude l’atteggiamento del premeditare, come anche ciò a cui io sono rivolto in questo atteggiamento, ciò che in questo atteggiamento vedo premeditando. Alle azioni future spetta un modo di essere, una modalità di esser presente per me a cui io sono riferito premeditandole. Per il momento non si parla ancora delle immagini dell’attesa, perché dev’essere innanzitutto chiarito come in generale possano esser formate le immagini rappresentative del futuro, se non seguendo la strada di un praesentire. Nella sua ricerca sul tempo, Agostino ambisce ad una conoscenza evidente, comprensibile. La percezione anticipata del futuro, avvolta ancora nel mistero, non è dunque per lui argomento di una conoscenza comprensibile. Al contrario, vi è per lui una conoscenza comprensibile nella proposizione secondo cui «si può vedere solo ciò che ‘è’ (videri nisi quod est non potest), ma ciò che già ‘è’ non è futuro, bensì presente». Ciò che Agostino vuol dire qui lo si comprende solo se si presta attenzione al fatto che egli usa il verbo videre nel significato del vedere [Sehen] sensoriale, che è implicato sia nel sentire che nel praesentire. Può essere visto con i sensi solo ciò che è già presente in carne e ossa; quindi ciò che è futuro non può esser percepito in anticipo, non può esser visto in anticipo tramite i sensi. Cosa diversa dal vedere sensoriale è il guardare [Schauen], ricordandolo, il passato ricordato, o il guardare, attendendolo, il futuro atteso. Per questo guardare Agostino utilizza i verbi cernere o intueri: un guardare che non è un osservare [Anblicken] il dato sensibile e presente in carne e ossa. Il fatto che Agostino, nel suo uso del verbo videre, non si riferisca al vedere sensoriale di un dato sensibile, diventa del tutto chiaro in questo passo: «Quando dunque si dice che il futuro viene visto (videri futura), questo vedere non si riferisce al futuro stesso, che ancora non è e che quindi è futuro, bensì vengono viste le sue cause o i suoi segni, che già sono (eorum causae vel signa forsitan videntur, quae iam sunt)». Le cause e i segni non sono le immagini dell’attesa, ma qualcosa che – in quanto visto sensibilmente come presente in carne e ossa – può essere percepito. Le cause e i segni sono essi stessi un presente in carne e ossa che, nel suo essere causa di

qualcos’altro e nel suo indicare qualcos’altro, mostra qualcosa di successivo, che non è ancora presente in carne e ossa come le cause e i segni. In che modo, sulla base della percezione sensibile delle cause e dei segni, ciò che è futuro viene atteso e rappresentato, ma non visto in senso proprio? Coloro che percepiscono sensibilmente le cause o i segni dell’essere futuro predicono – a partire da queste cause o segni presenti, percepiti in carne e ossa – il futuro che essi indicano, in quanto compreso nell’animo (animo concepta). In seguito si dice: Quae rursus conceptiones iam sunt, et eas praesentes apud se intuentur, qui illa praedicunt – «Queste conceptiones, inoltre, esistono già, e coloro che predicono il futuro le guardano presenti in sé stessi». Quelle che vengono chiamate qui conceptiones sono, per loro natura, lo stesso che le imagines, ossia le immagini dell’attesa. Esse però non vengono intese qui esattamente come immagini, poiché, in quanto immagini del futuro atteso, non hanno lo stesso carattere raffigurativo delle immagini del ricordo. Ciò che io attendo in quanto futuro, non posso rappresentarlo con la stessa chiarezza del passato ricordato. Di quest’ultimo infatti io so già, a partire dalla percezione passata, come esso si è mostrato in carne e ossa, mentre questa chiarezza percettiva manca ancora per il futuro atteso. Per il guardare in sé proprio delle conceptiones del futuro, Agostino usa, a differenza di videre, il verbo intueri. Intueri significa il guardare rappresentante il futuro rappresentato, il quale non è esso stesso presente, ma che, in quanto non-ancora-presente, è solo rappresentato. Di contro, il vedere significa un guardare che presenta, cioè un guardare alle cause e ai segni presenti in carne e ossa. Ma come si formano le rappresentazioni (conceptiones) del futuro atteso in occasione della percezione sensibile delle sue cause e dei suoi segni? Quando io percepisco le cause e i segni, in questa percezione si formano le immagini percettive del presente percepito. Tuttavia queste immagini percettive non sono le conceptiones nelle quali io mi rappresento, attendendolo, il futuro. In che modo si formi qualcosa come le immagini dell’attesa, se esse non nascono da una percezione precedente, come avviene per le immagini del ricordo, è ciò di cui Agostino tratta nella sua analisi della memoria nel X libro. In quel contesto si dice (8, 14): «Sulla base di questa copiosa riserva [di immagini contenute nella mia memoria], io associo sempre nuove immagini (similitudines) di cose di cui ho fatto io stesso

esperienza o che ho creduto sulla scorta dell’esperienza altrui, in quanto corrispondente alla mia, con immagini passate, e a partire da questa associazione di immagini considero anche le mie azioni future, il modo in cui esse andranno a finire e ciò che da esse posso sperare (atque ex his etiam futuras actiones et eventa et spes), e per di più considero tutto ciò come in un certo senso presente (et haec omnia rursus quasi praesentia meditor)». Dalle immagini percettive o immagini della memoria che si ripetono, vengono formate le più generali immagini dell’esperienza, alle quali ogni volta si ricorre per l’attesa del futuro. Agostino distingue due modi del presente, considerato nel suo riferimento al futuro, nell’attesa del futuro stesso: 1. le cause e i segni presenti in carne e ossa; 2. le immagini dell’attesa presenti in quanto immanenti nel nostro spirito, le quali, nella loro funzione raffigurativa, rinviano al non-ancoraessente. Ma ciò non significa che entrambi questi modi del presente debbano essere costitutivi di ogni attesa. Ad essere costitutivi in maniera assolutamente necessaria per quanto riguarda l’esser riferito ad un futuro atteso, da parte dell’attesa, sono solo le conceptiones formate immaginativamente, nelle quali, secondo Agostino, io guardo il futuro preimmaginato e dunque rappresentato. Se Agostino, quale esempio per l’attesa del futuro, ricorre al caso in cui gioca il suo ruolo la percezione di cause e di segni presenti in carne e ossa per un futuro non ancora presente in carne e ossa, lo fa unicamente perché vuole mostrare che solo in questo caso si può parlare di un videre, come un percepire, in relazione ad un’attesa, ad una predizione del futuro: non il cernere o l’intueri, non il guardare rappresentante del futuro nell’immagine rappresentante dell’attesa, ma solo la percezione sensibile, che ha luogo in certi casi, di quelle cose che precedono temporalmente il futuro e presentano il futuro successivo. Per un simile caso di predizione di un presente che non è ancora, Agostino fornisce un esempio: il preannuncio dell’imminente sorgere del sole, sulla base della mia percezione dell’aurora. Egli dice: «Io osservo l’aurora». Qui utilizza il verbo intueri per l’intuizione sensibile, mentre in precedenza aveva utilizzato questo verbo per il guardare interiore delle immagini dell’attesa. Nell’intuizione sensibile dell’aurora «preannuncio l’imminente sorgere del sole». Segue l’interpretazione della predizione del futuro, che viene accompagnata dall’intuizione del presente. «Ciò che osservo nell’intuizione sensibile (intueor) è presente (praesens est)», è

presente in carne e ossa. «Ciò che preannuncio [a partire dall’aurora percepita] è ancora futuro». Agostino opera delle distinzioni quando sottolinea che, durante la predizione del sorgere del sole, non è il sole stesso ad essere futuro, ma il suo sorgere. Mentre percepisco l’aurora, il sole stesso certamente non mi è dato ancora in carne e ossa nell’intuizione che rende presente. Ma io so che anch’esso è presente, al di fuori del mio campo percettivo, assieme al presente in carne e ossa. Se io, nella percezione dell’aurora, penso al sole e al suo stato attuale al di sotto dell’orizzonte, faccio riferimento anche ad esso, rappresentandomelo. Tuttavia questa rappresentazione non si riferisce all’orizzonte del futuro, dunque non è un’attesa, e non si riferisce nemmeno all’orizzonte del passato, dunque non è un ricordo, ma è rivolto all’orizzonte del presente. Infatti l’orizzonte del presente non è solo quello del mio campo percettivo immediato, ma anche il presente di ciò che è presente al di là dei confini del mio attuale campo percettivo. Quello che, contemporaneamente a ciò che è dato in carne e ossa all’interno del campo percettivo, è presente al di fuori del mio campo percettivo, non viene reso presente da me come il presente in carne e ossa, bensì viene rappresentato non come presente in carne e ossa, ma piuttosto come presente o più precisamente come co-presente all’interno del vasto orizzonte del presente. Questo modo della rappresentazione è chiamato da Husserl – per differenziarlo dal ricordo (inteso come la rappresentazione del passato) e dall’attesa (intesa come la rappresentazione del futuro) – la rappresentazione del presente. Durante la predizione del sorgere del sole, che si compie in occasione della percezione dell’aurora, non è il sole stesso, ma il suo stato successivo, il suo sorgere, ad essere rappresentato come futuro. Tuttavia, questo futuro sorgere del sole «io non potrei predirlo se non lo rappresentassi immaginativamente nello spirito (nisi animo imaginarer)». L’animo imaginari designa il rappresentare immaginativo del futuro sorgere del sole in un’immagine rappresentativa riferita al futuro, cioè nell’immagine dell’attesa. Agostino distingue dunque il sorgere del sole preannunciato e atteso come futuro, sia dall’aurora attualmente percepita (nec illa aurora, quam in caelo video), sia da ciò che è atteso nel mio spirito (nec illa imaginatio in animo meo). Ma entrambe, aurora e immagine dell’attesa, vengono «guardate come qualcosa di presente» (praesentia cernuntur), per

poter predire l’imminente sorgere del sole. Però l’aurora non viene vista come presente allo stesso modo dell’immagine dell’attesa immanente all’animo. Il cernere, che Agostino usa come verbo riassuntivo di entrambi i tipi del guardare, nel caso dell’aurora è il videre, il guardare sensibile, nel caso dell’immagine dell’attesa interiore, è l’intueri, il guardare interiore. L’aurora, in quanto qualcosa di presente, è un presente in carne e ossa, mentre l’immagine dell’attesa non è un presente che ricada sotto i sensi, ma un presente immanente allo spirito, che ha lo stesso tipo di essere dell’animo. Il presente di ciò che è atteso immaginativamente come immanente allo spirito – presente cioè in quel presente che lo spirito è per sé stesso – è il presente del riferimento pre-immaginante al futuro preimmaginato. Questo futuro, in quanto ancora assente, è presente per me nella rappresentazione. In quanto non-ancora-presente, esso ottiene il suo modo di esser presente o di presenza in virtù del presente del riferimento attualmente pre-immaginato con l’immagine dell’attesa. In tal modo abbiamo compiuto un’interpretazione [Auslegung] fenomenologica dell’interpretazione [Interpretation] agostiniana del fenomeno dell’attesa. La nostra interpretazione fenomenologica si è mantenuta nei confini dell’impostazione agostiniana e si è sforzata di rendere visibile la cosa così come Agostino l’ha vista e interpretata. Essa è stata fenomenologica solo dal punto di vista del metodo, mentre dal punto di vista tematico è rimasto ancora indeciso se Agostino, nella sua interpretazione del dato di fatto fenomenico, lo abbia inteso così come esso si mostra in sé stesso e a partire da sé stesso. Qui si potrebbe dimostrare – lo abbiamo già fatto notare – che la sua interpretazione in riferimento all’immagine percettiva non coglie la costituzione fenomenica essenziale dell’attesa, così come non coglie la costituzione fenomenica essenziale del ricordo e della percezione, dal momento che egli ha interpretato anche il suo rivolgersi intenzionale al passato ricordato e al presente percepito con l’aiuto delle immagini rappresentative. Tuttavia, dal punto di vista puramente metodologico, l’interpretazione [Auslegung] fenomenologica di un’interpretazione [Interpretation] che, dal punto di vista tematico, manca di una vera struttura fenomenica, non solo è possibile ma è persino necessaria. Essa è possibile, perché il modo in cui Agostino spiega determinati fenomeni può essere in gran parte rappresentato intuitivamente, come accade nell’abituale interpretazione del testo.

Quest’ultima si accontenta della semplice menzione di fatti che emergono nel procedimento interpretativo di Agostino. Essa constata che Agostino determina l’essere del futuro come un esser-presente del futuro nell’attesa e nelle sue immagini. Ma così ci si limita a designare uno stato di cose [Sachverhalt], senza che il contenuto cosale [Sachgehalt] spiegabile intuitivamente venga a sua volta spiegato. Ci si appella tacitamente al fatto che si sa cosa sia l’attesa di qualcosa. Simili menzioni constatative, alle quali vengono fatte seguire riflessioni e osservazioni acute, tralasciano il disvelamento intuitivo di ciò che in quelle menzioni è solo indicato in maniera non intuitiva. Le mere menzioni che compaiono nelle interpretazioni non fenomenologiche del testo hanno il carattere di intenzioni vuote, mentre l’interpretazione fenomenologica del testo ha luogo nel riempimento intuitivo delle intenzioni vuote. Un’interpretazione del testo si muove nell’ambito di intenzioni vuote, quando essa menziona solamente, nel vuoto intuitivo, i fenomeni da interpretare e con ciò li indica. Al contrario, un’interpretazione del testo si svolge nel riempimento intuitivo quando porta intuitivamente alla datità – al mostrarsi-in-sé-stesso – ciò che nelle intuizioni vuote è solamente indicato. Ma l’interpretazione fenomenologica di un testo pensato, dal punto di vista tematico, in maniera non integralmente fenomenologica, è anche necessaria, poiché la mancanza o l’insufficienza fenomenologica può esser resa visibile fenomenologicamente solo attraverso un’interpretazione [Auslegung] fenomenologica, ossia tramite una spiegazione intuitiva dell’interpretazione [Deutung] del fenomeno insufficiente o addirittura mancante. Dopo aver raggiunto, nel capitolo 18, una visione essenziale della predizione del futuro, nel breve capitolo 19 Agostino fornisce una spiegazione riassuntiva del guardare profetico al futuro. Precisamente la profezia accade attraverso l’insegnamento e l’ispirazione divini. Questa parte divina della profezia rimane inaccessibile per la conoscenza finita degli uomini. Ma nel momento in cui la predizione profetica si compie nell’ambito della finitudine umana, nel momento in cui avvenimenti sensibilmente percepibili vengono profeticamente predetti come futuri, questa predizione deve anche essere comprensibile. Perciò Agostino dice: Dio insegnò ai profeti il futuro, in modo da insegnar loro il presente in relazione al futuro (de futuris doces praesentia). Questo presente si trova da un lato in qualche

messaggio, causa, indicazione già attualmente percepibili in vista di un presente che non è ancora; e dall’altro si trova nelle immagini dell’attesa guardate nello spirito. Infatti il futuro, che ora non è ancora e che sarà solo in seguito, può esser per me già ora in un certo senso presente, nella misura in cui esso viene mostrato nei messaggi già ora percepibili sensibilmente e viene rappresentato in quelle immagini dell’attesa presenti con il mio stesso esser presente. In tal modo, la domanda sui modi di essere dei tre orizzonti temporali, che guida la prima parte della ricerca sul tempo, trova una risposta determinata. La sua conquista può essere formulata ora in maniera riassuntiva nel capitolo 20.

6. L’anima che comprende il tempo, i suoi tre atteggiamenti temporali e i modi di essere del passato, del presente e del futuro (XI, 20) Riassumendo le conoscenze guadagnate sin dal capitolo 14, Agostino inizia così: «Questo ora è chiaro e limpido: né il futuro né il passato ‘sono’ e non si può propriamente dire: ci ‘sono’ tre tempi». Egli dunque ripete la convinzione già acquisita nella prima verifica dell’essere del tempo nel capitolo 14. Questa visione permane, infatti, nonostante il cambiamento nell’impostazione della domanda operato a partire dal capitolo 16: il futuro e il passato “non sono” in quanto mero futuro e mero passato. Essi non sono al di fuori del loro riferimento agli atteggiamenti temporali. A questo riguardo, il discorso naturale della comprensione naturale del tempo, secondo cui le tre dimensioni del tempo “sono”, non è corretto, poiché ritiene che il futuro ed il passato “siano in sé”. Questo primo risultato del capitolo 14, che è stato tenuto fermo anche nei capitoli successivi, necessita ora di essere circoscritto, poiché non può essere assunto in senso assoluto. La limitazione proviene da quelle argomentazioni che sono state progressivamente elaborate sin dal capitolo 16, con il cambiamento dell’impostazione della domanda. Il primo risultato della verifica riguardo all’essere del tempo era stato inteso in senso assoluto, allorché esso affermava che agli orizzonti del tempo non spetta, da nessun punto di vista, un esse. Ma un modo di essere degli orizzonti temporali si mostra solo quando essi vengono interrogati non più dirigendo lo sguardo

direttamente verso di essi, bensì a partire della tematizzazione degli atteggiamenti temporali. Ma allora il discorso naturale secondo cui “tre tempi ‘sono’” dev’essere conseguentemente ampliato. Questo ampliamento deve dire in che modo ai tre tempi spetta un esse: «In maniera più appropriata si dovrebbe forse dire (proprie diceretur): i tempi ‘sono’ tre, un presente del passato (praesens de praeteritis), un presente del presente (praesens de praesentibus) e un presente del futuro (praesens de futuris)». Ma dove, in che ambito, il passato, il presente e il futuro sono in un certo modo presenti? Questa domanda sul dove è stata posta per la prima volta all’inizio del capitolo 18. Ora, nel capitolo 20, essa riceve la sua risposta, dopo che si è mostrato che il presente “è” nel suo presente solo in quanto percepito (capitolo 16), il passato “è” nel suo passato solo in quanto trattenuto e ricordato (capitolo 17 e 18), il futuro “è” nel suo futuro solo in quanto atteso (capitolo 17 e 18). Ora, nel capitolo 20, la comprensione filosofica del tempo dice: «Questi tempi, infatti, sono una sorta di triade nell’anima (Sunt enim haec in anima tria quaedam), e io non li vedo da nessun’altra parte (et alibi ea non video)». L’ambito in cui si mostra l’essere dei tre orizzonti temporali è l’anima che comprende il tempo. Solo se, in risposta alla domanda sull’essere del tempo, viene tematizzata l’anima che comprende il tempo, si potranno mostrare i modi di essere del passato, del futuro e del presente. La tematizzazione dell’anima che comprende il tempo è la tematizzazione del filo conduttore lungo il quale il passato, il futuro e il presente – compresi negli atteggiamenti temporali – vengono interrogati riguardo al loro esse. La comprensione filosofica del tempo dice che io vedo l’essere dei tre orizzonti temporali solo nell’anima, in riferimento agli atteggiamenti temporali. Adesso per la prima volta i tre atteggiamenti temporali vengono indicati con un termine proprio, mentre finora Agostino ha parlato solo di percezione del presente, racconto del passato e predizione o previsione del futuro. Al contrario, nella nostra interpretazione, avevamo chiamato il raccontare ricordo, e il predire attesa. L’essere in quanto presente, o meglio in quanto presenza del passato, è nell’anima come memoria (praesens de praeteritis memoria). L’essere in quanto presente, o meglio in quanto presenza del presente, è nell’anima come contuitus (praesens de praesentibus contuitus). L’essere in quanto presente, o meglio in quanto presenza del futuro, è nell’anima come expectatio (praesens de futuris expectatio).

L’anima che comprende il tempo viene così interpretata da tre riguardi, e ciascuno di questi riguardi è un atteggiamento temporale. Memoria significa qui non solo “memoria” nel senso stretto del trattenere, ma “memoria” nel senso ampio del ricordo. Contuitus può essere tradotto con osservazione delle cose, intuizione, intendendo con ciò l’intuizione del presente in carne e ossa nella percezione. Expectatio significa attesa ed è il penetrare, rappresentandoselo, nell’orizzonte futuro, così come memoria è il penetrare, rappresentandoselo, nell’orizzonte del passato. I tre modi di essere dei tre orizzonti temporali si possono esprimere così: essere come presente del passato ricordato nel ricordare (memoria), essere come presente del futuro atteso nell’attendere (expectatio), essere come presente del presente percepito nel percepire (contuitus). Se l’essere delle tre dimensioni temporali viene espresso linguisticamente in questo modo, ciò significa che la comprensione filosofica del tempo intende linguisticamente e concettualmente ciò che era evidente per la comprensione naturale del tempo, ossia che le tre dimensioni del tempo “sono”. Tuttavia, la comprensione naturale del tempo non sa nulla del fatto che queste dimensioni “sono” solamente per i tre atteggiamenti temporali dell’anima, e non valgono anche separatamente da essi, cioè in modo assoluto. Dopo aver inteso concettualmente in che maniera alle tre dimensioni del tempo spetti un modo proprio di essere, si può nuovamente tornare – come ammette Agostino – al consueto modo semplificato di parlare, tipico della comprensione naturale del tempo, la quale afferma che le tre dimensioni del tempo “sono”, senza aggiungere come esse sono. Il modo di parlare semplificato può essere tuttavia mantenuto dalla comprensione filosofica del tempo solo se essa rimane memore del fatto che le tre dimensioni del tempo “sono” solo per l’anima che trattiene ricordando, che attende e che percepisce. Il modo di parlare semplificato non può far pensare che il futuro stesso “sia” già come presente, o che il passato stesso “sia” ancora come presente. Il futuro “è” solo nel modo dell’essere-atteso, il passato “è” solo nel modo dell’esser-ricordato. Agostino conclude il capitolo 20 con un’osservazione interessante relativa ai diversi modi di parlare: ci sono solo poche cose di cui parliamo in maniera appropriata, dunque corretta (proprie loquimur), mentre nella maggior parte dei casi parliamo in maniera imprecisa (non proprie). E tuttavia, ciascuno comprende ciò che propriamente vogliamo dire. Questa

osservazione è significativa, perché mostra come Agostino sappia esplicitamente che una conoscenza concettuale deve anche essere espressa in maniera adeguata; che, al contrario, il parlare naturale spesso non è corretto; e che anche le conoscenze concettuali non sempre giungono all’espressione linguistica nel modo richiesto dalla cosa. 1

Il testo porta «Con l’ultimo capoverso del capitolo 14». Lo modifico con «Nella seconda parte del capitolo 14», seguendo la suddivisione canonica delle Confessioni [N.d.C.]. 2 Cfr. in proposito: Weis, Die Zeitontologie cit., pp. 123 ss. – Eigler, Metaphysische Voraussetzungen cit., pp. 12-36. 3 W. D. Ross (ed.), Aristotelis Physica, e typographeo Clarendoniano, Oxonii 1960. 4 Arist., Phys., 217 b 31 f. 5 Arist., Phys., 217 b 32-218 a 3. 6 Arist., Phys., 218 a 6. 7 Arist., Phys., 218 a 24. 8 Arist., Phys., 219 b 1-2. 9 Cfr., a proposito del trattato sul tempo di Aristotele, Heidegger, Sein und Zeit cit., pp. 432-433, nota 1; trad. it. cit., pp. 505-506, nota 30. – Id., Die Grundprobleme cit., § 19 a), α) e β). – W. Wieland, Die aristotelische Physik, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19702, § 18. 10 Nel testo tedesco von Herrmann nota a questo proposito: «L’edizione delle Confessioni di Joseph Bernhart, che è alla base della nostra traduzione, ha il difetto di non interpretare questo passo in modo corretto. Ogni traduzione presuppone un’interpretazione». Bernhart infatti traduce: «Eppure, se si racconta il passato in maniera fedele al vero, non sono le realtà stesse, che sono già passate, ad essere estratte [dalla memoria], bensì solo le parole generate dalle immagini che hanno impresso quasi delle tracce nello spirito, allorché sono passate attraverso i nostri sensi» (cfr. Augustinus, Confessiones / Bekenntnisse, Lateinisch und Deutsch, Kösel-Verlag, München 1966, p. 637). Nella trad. di Bernhart, dunque, a lasciare traccia in animo sono le immagini delle cose; nella trad. di von Herrmann, invece, a lasciare traccia sono le cose stesse [N.d.C.]. 11 Nel senso di “rendere presente”. Di seguito, perciò, Gegenwärtigung sarà tradotto anche come “rendere-presente” [N.d.T.].

Capitolo 4 La domanda sull’essenza del tempo 1. La situazione aporetica: la misurazione del tempo che passa e l’apparente mancanza di estensione del tempo (XI, 21) La domanda sull’essenza (quid) del tempo, posta inizialmente nel capitolo 14 della ricerca sul tempo, e che sempre nello stesso capitolo era stata accantonata a favore della domanda preliminare sull’essere (esse) del tempo, viene nuovamente ripresa nel capitolo 21. Ciò tuttavia non accade mediante una semplice ripetizione della domanda Quid est enim tempus? La seconda parte della ricerca sul tempo inizia invece rinviando al risultato fenomenico raggiunto dalla comprensione naturale del tempo, e cioè che noi misuriamo i tempi che passano, per poi arrivare alla costatazione della comprensione filosofica del tempo, secondo cui il tempo presente che passa non ha alcuna estensione (spatium), ma dovrebbe essere esteso come tempo misurato. Poiché, all’inizio della seconda parte, e anche in seguito, si tratta di primo acchito della domanda sul come della misurazione del tempo, si ritiene di frequente nella letteratura agostiniana che qui si tratti soltanto del problema della misurabilità del tempo. Ci si lascia sfuggire il fatto che la domanda sul come della misurazione del tempo sta al servizio della domanda sulla costituzione essenziale del tempo. Che cos’è il tempo che passa, se noi lo percepiamo nel suo passare e ne misuriamo la lunghezza? Per poterne misurare la lunghezza, esso deve essere esteso, disteso. Dunque la domanda sul che cosa, sulla costituzione essenziale del tempo, è la domanda che chiede in che modo, al tempo percepito e misurato, possa addirsi un’estensione. L’essenza del tempo viene cercata come sua estensione e lunghezza. Una chiara prova del fatto che, con la domanda sul come della misurabilità del tempo, viene posta anche la domanda sulla sua essenza, è il capitolo 25. In esso la formulazione già nota dal capitolo 14 viene ripetuta alla lettera. Allo stesso tempo la comprensione filosofica del tempo constata di non sapere in che modo al tempo si addica una durata e un’estensione. Se si capisce in che modo l’estensione e la lunghezza si addicano al tempo nel suo trascorrere, si

risponde anche alla domanda sulla sua costituzione essenziale. All’inizio del capitolo 21, viene ricordato che, nel capitolo 16, la comprensione naturale del tempo si era riferita per la prima volta al reperto fenomenico della misurazione del tempo e che la comprensione filosofica del tempo aveva ricondotto a intervalli temporali questo riferimento naturale alla misurazione dei tempi presenti che passano. Se alla mia comprensione filosofica del tempo dovesse essere rivolta la domanda su come faccia a sapere di misurare solo il tempo che passa, allora essa risponderebbe così: so di poter misurare solo i tempi che attualmente passano (praetereuntia tempora), perché so innanzitutto di misurare intervalli temporali, e perché so, in secondo luogo, che noi non possiamo misurare ciò che non è, ma il passato e il futuro non “sono”. Ma la risposta alla domanda sull’essere del passato e del futuro, guadagnata nella prima parte della ricerca, non diceva forse che il passato “è” in quanto ricordato, e il futuro “è” in quanto atteso? È vero. Tuttavia Agostino non si avvale subito di questa conoscenza all’inizio della seconda parte. Piuttosto, seguendo la sua propria via, quella del ricercare interrogante, e a partire dalla cosa stessa, egli vuole arrivare a vedere che al tempo si addice una distensione solo in quanto esso è tempo compreso in determinati atteggiamenti temporali dell’anima. Se noi misuriamo solo il tempo presente che passa, come lo misuriamo (quomodo metimur) se esso non ha in sé alcuna estensione (quando non habet spatium)? Questa è di nuovo una domanda della comprensione filosofica del tempo. Già nel capitolo 15 si era detto: praesens autem nullum habet spatium. Dirigendosi direttamente verso il presente in sé, risulta che esso si divide, senza estensione, nel non-più e nel non-ancora. È vero che nella prima parte è stato esaminato l’essere del presente, in quanto esso viene guardato, percependolo, nel contuitus. Ma con questa conoscenza non si è ancora ottenuta l’altra, cioè in che modo si estenda il tempo percepito che passa. La situazione aporetica della comprensione filosofica del tempo sta nel fatto che non si mostra alcuna via tramite cui poter cogliere lo spatium del tempo, e d’altro canto costituisce un reperto fenomenico il fatto che noi misuriamo il tempo quando passa, ma non quando è già passato. Una volta che il tempo sia passato, senza che noi l’abbiamo percepito e misurato, esso non è più, e dunque non può più neanche essere misurato a posteriori. Il fatto che già nel capitolo 21 riemerga la domanda sullo spatium del

tempo, indica chiaramente che nella seconda parte della ricerca si affronta il tema della chiarificazione di questo carattere essenziale del tempo. A partire da questa provvisoria aporeticità, dev’essere cercata una via d’uscita. Nonostante il risultato del capitolo 15, bisogna indagare in che senso il tempo presente che passa sia esteso. La ricerca sul come dell’estensione del tempo che passa è la ricerca sull’essenza del tempo. Per questo Agostino domanda: quando noi misuriamo il tempo presente che passa, da dove (unde), per dove (qua) e verso dove (quo) passa il tempo? La risposta a questa triplice domanda ha luogo ancora in base allo stato dell’indagine del capitolo 15, che è legato all’atteggiamento di dirigersi direttamente verso il tempo in quanto tale: il tempo che passa, passa dal futuro (ex futuro), che non è ancora (quod nondum est), attraverso il presente (per praesens), che è privo di estensione (quod spatio caret), nel passato (in praeteritum), che non è più (quod iam non est). Ma è incontestabile il dato di fatto fenomenico che noi, nella nostra comprensione naturale del tempo, misuriamo il tempo; e dunque bisogna chiedersi: «Che cosa allora misuriamo se non il tempo, in una sua qualche estensione?» (Quid autem metimur nisi tempus in aliquo spatio?) Si faccia attenzione qui al quid e allo spatium! Anche qui diviene chiaro che il quid ricercato del tempo è il suo spatium. Il tempo misurato dev’essere esteso. Ma, riferendoci al tempo misurato, noi lo misuriamo come semplice, doppio, triplo, uguale: e questo è possibile dirlo solo degli intervalli temporali (spatia temporum). In riferimento a questi spatia temporum bisogna di nuovo chiedersi: «In quale estensione, dunque, misuriamo il tempo che passa?» (In quo ergo spatio metimur tempus praeteriens?). Non può essere il futuro, a partire dal quale il tempo passa, poiché il futuro ancora non è, e in quanto non-ancora non può essere misurato. Ma non può essere neanche il passato, nel quale il tempo passa, perché il passato non è più, e in quanto non-più non può essere misurato. Allora, misuriamo il tempo nell’estensione rappresentata dal presente, ossia misuriamo il tempo che passa nel tempo presente che si estende? Misuriamo il tempo nel presente attraverso cui esso passa? Ma se il presente non ha alcuna estensione (nullum spatium), allora il tempo non lo misuriamo nemmeno in quanto presente. E tuttavia ci si deve attenere al reperto fenomenico secondo cui il tempo, se viene misurato, si deve in qualche modo estendere.

2. La comprensione quotidiana del tempo nella sua estensione e la perplessità filosofica in riferimento al come dell’estensione (XI, 22) Il problema di fronte al quale si vede posta la comprensione filosofica del tempo è un «enigma intricatissimo» (inplicatissimum aenigma). Nella confessione dialogica di Agostino, il confronto tra la comprensione filosofica e quella naturale del tempo richiama nuovamente in causa la fonte dell’illuminazione divina, proprio perché Agostino chiede l’illuminazione divina per ottenere la conoscenza filosofica di cose tanto abituali (quotidiane) e tuttavia nascoste, come è la misurazione del tempo esteso. Agostino richiama l’attenzione sul fenomeno naturale dell’invecchiamento nel corso del tempo. In tal modo egli lascia che ad esprimersi sia la stessa comprensione naturale del tempo. Dalla mia propria vita, io so che i miei giorni trascorrono, e che in questo trascorrere io divento più vecchio. Comprendendo il mio invecchiamento, comprendo come esteso il tempo che finora è già passato. Esso si estende dal mio attuale presente al passato, cosicché posso avere un’idea del tempo della mia vita già trascorso nella sua estensione. Quanto più si estende la durata della mia vita passata, tanto più divento vecchio. Tutto ciò lo comprendo, senza alcun dubbio, nello svolgersi della mia vita quotidiana. Ma se faccio il tentativo filosofico di cogliere concettualmente l’estensione della durata della mia vita, essa si ritrae in un enigma. Io so che i giorni della mia vita passano e che la vita già vissuta si estende, ma non so in che modo essa, nel passare, si estenda. In tal modo siamo di nuovo in quella situazione che si era presentata nel capitolo 14 con la famosa frase: se nessuno mi domanda cosa sia il tempo, lo so; ma se voglio spiegarlo a qualcuno che me lo domanda, non lo so; e questo riapre il rapporto di tensione tra la comprensione naturale del tempo – una comprensione che si compie con la vita – e il voler-comprendere filosoficamente il tempo già sempre compreso nel compiersi quotidiano della vita. Chi fa filosofia si trova in questa situazione fondamentale, sia per il suo domandare sull’esse, sia per il suo domandare sul quid del tempo. Per illustrare la comprensione naturale del tempo che si estende, Agostino richiama l’attenzione sul modo di parlare naturale riguardo al tempo, in cui si manifesta la comprensione naturale dell’estendersi del tempo. Ad esempio, io rivolgo a qualcuno la domanda: per quanto tempo (quamdiu)

ne ha parlato? Per quanto tempo ha fatto questo o quello? O domando a me stesso: da quanto tempo non lo vedo più? Oppure, nel misurare la lunghezza delle sillabe delle parole in versi, dico: questa sillaba, per essere pronunciata, ha bisogno del doppio del tempo rispetto a quella sillaba breve. In questi diversi modi del discorso naturale, noi abbiamo a che fare, in maniera del tutto ovvia, con un tempo più o meno esteso. In questo modo noi abbiamo a che fare col tempo e parliamo di esso, e veniamo capiti da coloro con cui parliamo; ed anche gli altri, che parlano con me in questo modo o in modo simile, io li ascolto e li capisco senza dubbio. A questo riguardo, Agostino richiama l’attenzione sulla condivisione della comprensione naturale del tempo. Noi viviamo assieme, in una comprensione condivisa del tempo, in base alla quale comprendiamo l’essere esteso del tempo di cui abbiamo bisogno per i nostri comuni commerci. Ciò che noi, nell’attuarsi quotidiano del nostro essere insieme, comprendiamo del tempo, il suo estendersi, è la cosa più evidente (manifestissima) e quella più usuale (usitatissima). Ma allo stesso tempo essa è, per il comprendere filosofico del tempo, una cosa completamente nascosta (nimis latent); e perciò dev’essere la prima ad esser trovata, vale a dire disvelata dal punto di vista concettuale (nova est inventio eorum). Qui si fa chiaro ancora una volta che Agostino vuole illuminare dal punto di vista filosofico-concettuale il modo in cui il tempo può estendersi, penetrando concettualmente la comprensione naturale e ovvia del tempo. Può darsi che l’interpretazione dell’estensione del tempo che accompagna la comprensione naturale del tempo sbagli e che dunque vada corretta attraverso la conoscenza filosofica del come dell’estensione. Ma non per questo la comprensione naturale dell’estensione del tempo va scartata e sostituita da una comprensione filosofica del tempo. Agostino parte piuttosto dal presupposto che la comprensione naturale del tempo comprende l’essere e la costituzione essenziale del tempo, sebbene in maniera pre-tematica, preconcettuale, e cioè nel modo del compiersi. E tuttavia, pur essendo preconcettuale, la comprensione naturale del tempo non è qualcosa di non-vero. La verità della comprensione naturale del tempo si esprime anche nel linguaggio naturale. Quando esprimiamo la nostra comprensione quotidiana del tempo, in ciò si rivela un sapere naturale circa l’essere del passato ricordato, del futuro atteso e del presente percepito. Similmente, quando esprimiamo la nostra comprensione naturale del tempo, in ciò che diciamo si

rivela un sapere naturale sull’estendersi del tempo. Tuttavia, una cosa è la comprensione del tempo che si attua nel compiersi naturale della vita, un’altra è il voler comprendere filosoficamente gli autentici caratteri del tempo compresi nella comprensione naturale del tempo. Questa visione del voler comprendere concettualmente il tempo a partire dalla comprensione pre-concettuale e naturale del tempo – non per sostituirla, bensì per renderla evidente dal punto di vista concettuale – è un tratto fenomenologico fondamentale della ricerca agostiniana sul tempo. Un altro aspetto fenomenologico fondamentale del filosofare agostiniano si mostra nella sua idea secondo cui alla comprensione concettuale di un fatto appartiene anche la sua corrispondente verbalizzazione. Ma in conclusione ciò testimonia di un atteggiamento fenomenologico fondamentale di Agostino, in base al quale egli, nella sua riflessione sul tempo, prende le mosse dai fenomeni e ne ascolta il linguaggio naturale, nel quale la comprensione quotidiana del tempo si è sempre già espressa.

3. La durata e l’estensione del movimento dei corpi celesti e terreni e la domanda sull’estensione del tempo (XI, 23-24) Il capitolo 22 si conclude riferendosi ancora una volta alla situazione aporetica in cui si trova la comprensione filosofica del tempo, allorché essa domanda dell’essenza del tempo. Da un lato, infatti, qualcosa come l’estensione del tempo si mostra nel nostro reciproco parlare naturale, in cui la nostra comune comprensione naturale del tempo si è già sempre espressa. Il quanto-a-lungo noi lo riferiamo al tempo presente in cui facciamo questo o quello, al tempo passato in cui abbiamo fatto quello, e al tempo futuro in cui faremo questo. Ma dall’altro lato, questo carattere dell’estensione del tempo si sottrae ai tentativi sinora condotti di penetrarlo concettualmente e di coglierlo strutturalmente. Per cercare di individuare una via d’uscita da una situazione che per il momento sembra non averne, si può domandare se forse l’estensione del tempo, compresa nella comprensione naturale del tempo, non sia tanto un carattere proprio del tempo, quanto un carattere proprio del movimento dei corpi, in particolare dei movimenti perfetti dei corpi celesti. Il capitolo 23 esamina perciò la domanda se i movimenti perfetti dei corpi celesti siano il tempo stesso, mentre il capitolo 24 esamina la domanda se il tempo sia, se

non proprio il movimento del sole, almeno il movimento degli altri corpi. In entrambi questi capitoli, la domanda cui si tenta di rispondere va intesa come derivante dalla domanda sulla costituzione essenziale del tempo, che guida la seconda parte della ricerca. Quello che si presume è che l’essenza del tempo consista nella sua estensione. Tale estensione, per il momento, non si lascia afferrare. Ma forse la cerchiamo nella direzione sbagliata. A quel che risulta, è nei movimenti dei corpi che noi facciamo esperienza di qualcosa come l’estensione e la durata che si estende. Forse è proprio nei movimenti dei corpi che dobbiamo cercare l’estensione. Forse l’estensione è un carattere del movimento, cosicché il tempo non è altro che il movimento dei corpi che si estende. Forse il tempo nella sua estensione non è assolutamente qualcosa di indipendente rispetto al movimento, ma è il movimento stesso. All’inizio del capitolo 23, la comprensione filosofica del tempo afferma di aver sentito dire da un uomo dotto che i movimenti del sole, della luna e delle stelle, più che svolgersi nel tempo, sarebbero il tempo stesso. Agostino si riferisce qui alla dottrina stoica, in particolare a quella di Zenone di Cizio (ca. 336-264)1. L’opinione secondo cui la stessa rotazione del sole (o meglio, il movimento della terra intorno al sole) sarebbe il tempo, si può proporre nel caso ci attenessimo al movimento del sole per misurare e suddividere il tempo in giorni e in anni. Ma l’identificazione dei movimenti dei corpi celesti con il tempo è respinta come insostenibile dalla comprensione filosofica del tempo. Anche se i corpi celesti interrompessero il loro movimento, i movimenti dei corpi sulla terra – ad esempio la rotazione del tornio del vasaio – si svolgerebbero nel tempo. Se i corpi celesti si fermassero, non si cancellerebbe anche il tempo in cui il tornio del vasaio ruota più o meno velocemente. Anche in questo caso potrebbe essere misurata la durata differente – più o meno veloce – del movimento rotatorio. I corpi celesti, le loro rotazioni e le loro diverse posizioni non sono il tempo stesso, ma servono solo per determinare, secondo i giorni e gli anni, gli intervalli temporali che si protraggono. Ciò che conosciamo come estensione del giorno o dell’anno non è il carattere proprio del movimento del sole, ma il carattere essenziale del tempo, in cui anche il movimento del sole ha luogo. L’estensione che percepiamo nei movimenti regolari dei corpi celesti non è la proprietà di questi movimenti: al contrario, questi movimenti sono estesi in quanto si svolgono nel tempo che si estende.

L’estensione è proprietà del tempo e non del movimento. Il tempo dà estensione anche ai movimenti dei corpi celesti, cosicché questi ultimi possono essere conosciuti in quanto estesi solo perché si svolgono nel tempo che si estende. Non è il tempo ad essere identico ai movimenti dei corpi celesti, ma sono questi ad essere movimenti interni al tempo. Rifacendosi a questa visione, Agostino spiega inequivocabilmente di cosa si tratta per lui ora, quando si esamina la domanda se il tempo non sia altro che il movimento dei corpi celesti: Ego scire cupio vim naturamque temporis, quo metimur corporum motus – Vorrei comprendere il potere e la natura del tempo, attraverso cui noi misuriamo i movimenti dei corpi. Con la locuzione vim naturamque (vis et natura) ci si interroga sull’essenza del tempo. L’essenza viene qui intesa come natura, come costituzione essenziale, e come vis, come il potere e la forza di questa costituzione essenziale. Subito dopo ci si domanda come la costituzione essenziale (natura) del tempo renda possibile (vis) che il movimento dei corpi abbia una durata e che questa possa essere misurata per quel che riguarda la sua lunghezza. La misurazione dei movimenti dei corpi è possibile solo perché essi hanno una durata. Essi hanno una durata, perché si svolgono nel tempo. Qual è la costituzione essenziale del tempo che rende possibile ai movimenti dei corpi la loro durata? Poco più avanti nello stesso capitolo, Agostino domanda cosa sia il tempo per mezzo del quale possiamo misurare la rotazione del sole e per cui potremmo dire [per esempio] che finora essa si è svolta già nella metà del tempo consueto. Qui, nel capitolo 23, riappare la stessa formulazione della domanda sull’essenza che era stata introdotta per la prima volta nel capitolo 14 – un’ulteriore prova del fatto che nella seconda parte della ricerca sul tempo si tratta di rispondere alla domanda sull’essenza e non alla domanda sulla misurazione del tempo. Il fatto che entrambi i passi si esprimano nella stessa maniera – «quid sit tempus, quo metientes solis circuitum» e «scire cupio vim naturamque temporis, quo metimur corporum motus» – conferma che nella locuzione «vim naturamque» è inteso il quid del tempo. Cos’è il tempo nella sua essenza, nella sua costituzione essenziale, cosicché, tramite esso, possiamo misurare la durata della rotazione del sole? Qual è la costituzione essenziale del tempo, che dà alla rotazione del sole una durata che poi può esser misurata da noi? Il ragionamento del capitolo 23 fa sì che la comprensione filosofica del tempo arrivi a vedere che il tempo nel suo quid, nella sua natura e nella sua

vis, è un tipo di estensione (Video igitur tempus quandam esse distentionem). Qui, per la prima volta, l’estensione non è indicata come spatium, bensì con il termine nuovo, ora introdotto, di distentio. Questo mutamento terminologico ha luogo proprio perché uno spatium o degli spatia sono intervalli, lassi temporali estesi, possibili in quanto tali solo perché il tempo in generale ha il carattere dell’estendersi. Questo estendersi che attiene all’essenza del tempo rende possibili, al suo stesso interno, dei lassi o intervalli temporali estesi. Il risultato provvisorio dell’interrogazione sull’essenza del tempo afferma: il tempo dev’essere costituito come un tipo di distentio, di distendersi, affinché possa esserci qualcosa come la durata misurabile. La visione del carattere di distentio proprio del tempo è definita da Agostino un vedere (videre). Ma egli prova anche ad accertarsi che questo vedere concettuale sia un vero vedere, che si determini cioè in base al mostrarsi della cosa che va pensata qui, e non invece un vedere solo apparente. Anche su questo punto si manifesta un tratto fenomenologico del pensiero agostiniano sul tempo. Bisogna chiedersi se la distentio temporis sia già sin d’ora un vero vedere, ossia se essa mostri il tempo così com’è costituito in sé stesso, nella sua verità, o se questo mostrarsi sia ancora in qualche modo contraffatto. Agostino parla di una quaedam distentio, di un certo tipo di estensione, poiché non si è ancora mostrato di che genere essa sia, e in che modo il tempo, considerato nel suo carattere essenziale, possa essere in generale qualcosa come una distentio. Se il capitolo 23 ha mostrato perché il tempo non può essere identificato con il movimento perfetto della rotazione solare, il capitolo 24 dovrà dimostrare perché il tempo non può essere identificato nemmeno con gli altri movimenti dei corpi. Il tempo non è il movimento di un corpo; al contrario, ogni corpo si muove nel tempo (in tempore), cosicché il tempo è il ciò-in-cui si verifica un movimento più veloce o più lento. Cosa misuro, quando misuro il movimento di un corpo? Secondo la comprensione filosofica, attraverso il tempo (tempore) io misuro quanto a lungo (quamdiu) si muove il corpo dall’inizio alla fine del suo movimento. Tra l’inizio e la fine, si estende la sua durata. Presupposto per poter misurare e indicare il quanto-a-lungo del movimento, è il vedere il suo inizio e la sua fine. Dalla prima parte, noi sappiamo già che il tempo che passa può essere

misurato solo se viene percepito in quanto tale per chi lo misura. Adesso si tratta di capire in che modo il tempo, nel quale si svolge un movimento, si estenda per questo movimento. Ma se, come si è detto, per poter misurare il quanto-a-lungo del movimento di un corpo si richiede di percepire il suo inizio e la sua fine, proprio in questo si trova la prima indicazione del fatto che l’estendersi del tempo per la durata del movimento può essere colto e compreso solo a partire dalla tematizzazione della percezione del tempo che si estende. In tal modo inizia anche il ritorno della domanda sull’essenza del tempo a quegli atteggiamenti temporali nei quali si estende il tempo. Se non ho percepito l’inizio del movimento di un corpo e se non ne percepisco la fine, se lo percepisco solo per un po’ durante il suo scorrere, allora non posso misurarne la durata tra l’inizio e la fine, ma solo tra l’inizio della mia percezione e la fine di quest’ultima. Se non percepisco il movimento del corpo dal suo inizio alla sua fine, ma lo percepisco solo durante, potrò solo stabilire che il movimento dura per un lungo tempo, ma non quanto a lungo nella sua interezza. Ciò che dev’essere misurato tra due estremi, dev’essere percepito nella sua interezza. Il misurare presuppone che si colga, percependolo, ciò che dev’essere misurato. Per questo motivo, l’estensione del tempo va riferita al percepire il tempo che passa e al movimento del corpo che in esso si svolge. Se io non mi limito a dire semplicemente che il movimento del corpo è durato a lungo, ma stabilisco di quanto tempo esso ha avuto bisogno, allora compio un paragone e dico che esso è durato esattamente quanto quell’altro movimento, oppure il doppio. Se siamo in grado di determinare la distanza spaziale – cioè da dove e sino a dove un corpo mosso è giunto nel suo movimento locale –, allora siamo anche in grado di dire in quanto tempo (quantum temporis) il corpo si è mosso da un posto a un altro. Con ciò si fa chiaro ancora una volta che il movimento di un corpo è altro rispetto a ciò con cui (quo) noi misuriamo la sua lunghezza, cioè quanto a lungo esso duri. Non è il movimento ad essere il tempo, bensì il tempo è ciò con cui misuriamo il movimento, e anche quello che di esso misuriamo, cioè la sua durata. Noi misuriamo il quanto-a-lungo temporale con una misura che è anch’essa tratta dal tempo. Misuriamo il tempo, la durata di un movimento, attraverso un’unità di misura temporale. Che il tempo non sia esso stesso il movimento si mostra anche per il fatto che noi misuriamo, nella sua durata, non solo il movimento, ma anche la

quiete di un corpo. Attraverso il tempo, misuriamo sia la durata del movimento che la durata della quiete. Non solo il movimento, ma anche la quiete, come suo caso limite, è nel tempo. Il tempo è il ciò-in-cui accadono il movimento e la quiete. Il capitolo 24 si conclude con la constatazione finale che il tempo non è lo stesso movimento dei corpi. Tempo e movimento sono differenti, ma in modo tale da esser reciprocamente riferiti. L’estensione nella forma della durata, che noi percepiamo nel movimento dei corpi, è il carattere essenziale del tempo. Solo tramite l’estensione del tempo come il ciò-in-cui accade il movimento, quest’ultimo ha una durata interna al tempo.

4. Nuova ammissione della situazione aporetica della domanda sull’essenza del tempo (XI, 25) La comprensione filosofica del tempo, alla fine del capitolo 23, ha espresso il giudizio che il tempo si mostra come un tipo di distentio, e alla fine del capitolo 24, ha formulato, come secondo giudizio, quello che il tempo e la sua distentio non coincidono con il movimento dei corpi. Adesso, all’inizio del capitolo 25, la comprensione filosofica del tempo deve riconoscere che finora non ha ancora trovato alcuna risposta alla domanda sull’essenza del tempo. Una risposta soddisfacente, infatti, potrà essere data solo se si comprende come, in che modo il tempo è una distentio, come gli possa convenire questo carattere essenziale. «Ti confesso, Signore, di non sapere ancora cosa sia il tempo» (Et confiteor tibi, domine, ignorare me adhuc, quid sit tempus) – poiché la comprensione filosofica del tempo non ha ancora conosciuto come il tempo possa estendersi. Più chiaramente che nel capitolo 23, qui nel capitolo 25 emerge la domanda sull’essenza nella sua nota formulazione. Nella seconda parte della ricerca sul tempo si tratta primariamente di una domanda sulla costituzione essenziale del tempo. Tutte le altre domande, come ad esempio quella sulla misurazione del tempo, sono al servizio della domanda sull’essenza. Viene dunque a configurarsi nuovamente una situazione aporetica. In base alla comprensione naturale del tempo, so che ciò che ho appena detto – il mio non sapere dell’essenza del tempo – l’ho detto nel tempo, e so che in questo mio dire il tempo si è esteso. So anche che parlo di tempo (de tempore) già da molto (diu) «e che anche questo ‘da molto’ è possibile solo

in riferimento alla durata del tempo (mora temporis)». Se perciò so che già da molto tempo parlo di tempo, del suo esse e del suo quid, so anche che ciò è possibile solo perché il tempo fornisce la durata per il mio parlare. Da un lato, so che il tempo deve estendersi per il mio domandare sulla distentio; dall’altro lato, non so che cosa sia il tempo, cioè come esso possa estendersi. Com’è possibile che io sappia solo che il tempo mette a disposizione la durata per il mio parlare, mentre, dal punto di vista concettuale, che io non sappia che cos’è il tempo (quid est tempus)? Qui si mostra di nuovo il rapporto paradossale di scire e non scire. Sapere che il mio parlare riceve una durata misurabile dal tempo stesso, fa parte della comprensione naturale del tempo. Il non scire è il non-sapere filosofico su come al tempo, nel suo passare, possa convenire un’estensione grazie a cui poter conoscere non solo il tempo presente che passa, ma anche quello già passato e quello non ancora passato. Ma di che tipo è questo non-sapere? – si domanda il voler comprendere filosofico del tempo. Forse so come al tempo convenga la distentio, e ciò che non so è solo come devo esprimere ciò che so? Questa domanda del volercomprendere filosofico del tempo mostra che Agostino è vicino alla visione decisiva del come dell’estendersi del tempo, e cioè che egli guarda già nella direzione dalla quale c’è da attendersi la risposta alla domanda sull’essenza. Questa risposta già inizia ad annunciarsi, ma egli non è ancora capace di esprimere a parole ciò che inizia a vedere. Qui, infatti, comincia a profilarsi una visione che è guadagnata per la prima volta, e per la quale, dunque, non c’è ancora un’espressione linguistica.

5. L’essenza del tempo come distentio animi (XI, 26) Nel capitolo 26 si giunge alla visione, lungamente ricercata, del modo in cui la distentio si addica al tempo2. Agostino parte di nuovo dal reperto fenomenico della comprensione naturale del tempo, secondo cui noi abbiamo continuamente a che fare, misurandolo e suddividendolo, con il tempo del compiersi quotidiano della nostra vita. Questo sapere naturale si contrappone al non-sapere cosa sia il tempo e come esso renda possibile la misurazione della durata dei movimenti. Cosa significa quindi misurare il tempo? Quando misuro il movimento di un corpo, lo misuro attraverso il tempo (tempore). Attraverso il tempo, io

misuro il tempo stesso (ipsum tempus) nel quale si svolge il movimento. Quanto a lungo duri il movimento di un corpo, posso solo misurarlo se in questo movimento misuro il tratto di tempo che gli occorre. Ma ora viene posta la domanda decisiva, la cui risposta condurrà alla prima visione del come dell’estensione del tempo. Quando misuriamo il tempo in cui si svolge un movimento, unde metior, con che cosa misuro la durata? Cosa significa l’unità con la quale misuro le differenti durate di ciò che si svolge nel tempo? La comprensione naturale del tempo si chiede se, con un tempo più breve (tempore breviore), possiamo misurarne uno più lungo (longius), così come con la lunghezza di un cubito misuriamo quella di una trave. Noi conosciamo diverse unità di misura dello spazio, con le quali misuriamo le distanze spaziali nella loro lunghezza. Ci sono analogamente anche una o diverse unità di misura del tempo? Se sì, come ci sono? C’è un’unità di misura del tempo allo stesso modo di un’unità di misura dello spazio? Una tale possibile unità di misura del tempo è, ad esempio, la durata di una sillaba breve (spatium brevis syllabae), con la quale misuriamo la durata di una sillaba lunga (spatium longae syllabae). La durata della sillaba lunga è il doppio della durata della sillaba breve. Come misuriamo la durata delle sillabe lunghe attraverso la durata di quelle brevi? Non certo sul foglio sul quale sono scritte i versi, le parole e le sillabe. Ora non si tratta di una misurazione spaziale, ma temporale; non si tratta di un’estensione spaziale, ma di un’estensione temporale. Noi misuriamo la lunghezza temporale mentre le parole sono pronunciate, durante il loro trascorrere nel corso del tempo. E così diciamo che questa sillaba è lunga perché è il doppio di una breve, e che quest’ultima è appunto una sillaba breve. Abbiamo in tal modo un’unità di misura fissa del tempo, come il cubito è un’unità di misura fissa dello spazio? Vi è in generale un’unità di misura del tempo, paragonabile a quella dello spazio? Evidentemente la sillaba breve non è un’unità di misura fissa per il tempo (certa mensura temporis), «infatti può certamente succedere che una sillaba breve, se viene recitata lentamente, richieda più tempo (ampliore spatio temporis) di una sillaba lunga pronunciata rapidamente». È a partire da un’esperienza di questo genere, che si va alla ricerca di qualcosa di portata più ampia, vale a dire il come dell’estensione del tempo. L’esperienza è quella per cui io stesso posso estendere o accorciare, a mia discrezione, l’unità di misura del tempo della

sillaba pronunciata. Questo fatto scontato per la comprensione naturale del tempo, conduce ora la comprensione filosofica del tempo all’improvvisa visione del come dell’estensione del tempo. Innanzitutto, l’esperienza per cui io posso pronunciare lentamente una sillaba breve conferma la visione già espressa nel capitolo 23, e cioè che il tempo nella sua costituzione essenziale è un tipo di distentio. Ma l’esperienza di me stesso [Selbsterfahrung], espressa ora nel capitolo 26, e cioè che posso anche pronunciare lentamente una sillaba breve, va al di là di una mera conferma, e giunge sino alla visione decisiva di come al tempo spetti il carattere dell’estensione. Inizialmente, rifacendosi alla suddetta esperienza di me stesso, la comprensione filosofica del tempo dice: «Da ciò mi sembra che il tempo non sia nient’altro che un tipo di distensione (Inde mihi visum est nihil esse aliud tempus quam distentionem): ma distensione di cosa, non lo so (sed cuius rei, nescio)». In tal modo è solo richiamato alla mente lo stato della visione del capitolo 23. Ma subito dopo si dice: «Ma mi sorprenderebbe se non fosse una distensione dello spirito stesso (et mirum, si non ipsius animi)». L’esperienza di me stesso come colui che può estendere a sua discrezione la durata delle sillabe, delle parole o dei versi pronunciati, porta a vedere che l’estensione del tempo è il distendersi dello spirito. Ma in che senso? In che senso si distende lo spirito, se esso è colui che può estendere a sua discrezione la durata delle sillabe e delle parole pronunciate? Che carattere ha questo distendersi? Evidentemente quello di un distendermi [Michausspannen]. Nel comprendere la durata breve della sillaba, io abbraccio [umspanne] questa durata. Se pronuncio la sillaba in modo più esteso, allora abbraccio, comprendendola, la sillaba più lunga. Ma questo mostra che la durata in generale è estesa solo nel retro-riferimento al mio spirito che comprende il tempo e la durata, e che in questa comprensione si distende. Tuttavia, con ciò, non si è ancora mostrato come, nella distentio animi che comprende il tempo, il tempo che è compreso ottenga la sua estensione, vale a dire in che modo nel distendersi dello spirito che comprende il tempo si estenda il tempo che passa, così da rendere possibile qualcosa come i lassi di tempo, gli intervalli temporali, i tratti di tempo o le durate estese. Dopo aver fornito la prima risposta decisiva alla domanda sul come della distentio temporis, e cioè che la distentio del tempo è la distentio dello spirito

che comprende il tempo, la comprensione filosofica del tempo fornisce la sua prima spiegazione della tesi finora solo enunciata. La comprensione filosofica del tempo domanda di nuovo: cosa misuro quando dico che questo tempo è più lungo di quello? La risposta è che misuro il tempo. Ma quale tempo? Non il tempo futuro, poiché non è ancora; e neanche il tempo passato, poiché non è più; ma nemmeno il tempo presente, poiché non ha alcuna estensione. Ma com’è che esso non ha estensione? Il fatto è che l’ora, in quanto ora, non è esteso nel senso di una particella di presente. L’ora è semplicemente il confine tra il non-più e il non-ancora. Ma allora cosa misuro, quando misuro il tempo? E qui viene data una risposta che indica la strada, sebbene ancora sotto forma di una domanda: An praetereuntia tempora, non praeterita? Misuro forse il tempo che, nel suo attuale passare, non è già del tutto e semplicemente passato? La comprensione filosofica del tempo, con il «Sic enim dixeram» rimanda al capitolo 16, lì dove, nel corso della domanda sull’essere del presente, era stato fatto notare che noi misuriamo nella sua durata il tempo che passa, se lo percepiamo. Affermando che noi misuriamo il tempo che nel passare non è già passato, la comprensione filosofica del tempo indica in quale direzione si deve continuare a guardare, se si vuole determinare in che modo la distentio del tempo sia la distentio dello spirito che comprende il tempo. In questa percezione del tempo che passa devono trovarsi, anche se ancora nascosti, quegli specifici atteggiamenti temporali dello spirito che comprende il tempo, dai quali il tempo che passa riceve la sua distentio, vale a dire la sua estensione e la sua durata. Questi specifici atteggiamenti temporali non saranno presumibilmente quegli stessi che finora abbiamo conosciuto con il nome di percezione, ricordo e attesa. Questi atteggiamenti temporali a noi ancora sconosciuti, che si attuano nascostamente nella percezione del tempo che passa, saranno presumibilmente ciò in cui si distende lo spirito che comprende il tempo, in modo tale che in questa sua distensione, il tempo che passa – nonostante il suo passare nel non-più e nonostante il suo provenire dal non-ancora – si estenda per delle durate che possono essere misurate. Com’è possibile un’estensione del tempo fra il non-più e il non-ancora? Questa domanda verrà sviluppata negli ultimi due capitoli della ricerca sul tempo, e alla fine riceverà una risposta.

6. Ritorno agli atteggiamenti temporali dello spirito che si distende (XI, 27) L’esperienza del poter estendere a mia discrezione l’unità di misura temporale che io stesso ho stabilito essere quella di una sillaba breve, nel capitolo 26, porta lo sguardo sul fatto che il tempo che passa ricava la sua estensione dal distendersi dello spirito che comprende il tempo. Ma intanto rimane ancora aperta la questione su cosa sia il distendersi dello spirito e come il tempo che passa ottenga la propria estensione da questo distendersi. Com’è possibile un’estensione del tempo presente nel suo trascorrere nel non più e nel non ancora? Cosa fa sì che lo spirito che comprende il tempo – distendendosi nel passare del tempo che esso comprende – sia ciò grazie a cui il tempo si estende? A questa domanda è dedicato il capitolo 27. Per chiarire come si estenda nel presente il passare di ciò che accade nel tempo, e per mezzo di cosa esso si estenda, Agostino prende le mosse dall’atteggiamento temporale del misurare, per poter comprendere filosoficamente – nello sguardo tematizzante sull’atteggiamento che misura il tempo che passa – il come dell’estendersi del tempo. La tematizzazione degli atteggiamenti temporali del cogliere e del misurare, percependolo, il tempo che passa, implica dal punto di vista metodologico il ritorno da una considerazione esplicitamente diretta sulla mia comprensione del tempo agli atteggiamenti temporali, perché, seguendo il filo conduttore di questi ultimi, si faccia luce sull’estensione del tempo compreso negli stessi atteggiamenti temporali. Nella prima parte della ricerca sul tempo, il ritorno da una considerazione esplicitamente diretta sulla nostra comprensione del tempo agli atteggiamenti temporali era avvenuto per determinare, a partire dalla loro tematizzazione e seguendo il filo conduttore degli atteggiamenti tematizzati, il modo di essere del presente percepito, del passato ricordato e del futuro atteso. Adesso, nella seconda parte della ricerca sul tempo, il ritorno agli atteggiamenti temporali e l’interrogarsi su di essi avviene in vista della domanda sull’essenza del tempo e sulla sua estensione nel passare. Nella prima parte erano gli atteggiamenti temporali della percezione, del ricordo e dell’attesa a costituire il filo conduttore della domanda sul modo di essere dei tre orizzonti temporali. Adesso, nella seconda parte, sembrano essere gli atteggiamenti temporali del misurare e allo stesso modo del percepire a

rappresentare il filo conduttore del domandare. Tuttavia vedremo che questi atteggiamenti costituiscono solo il punto di partenza per scoprire atteggiamenti temporali più originari, nei quali si distende l’animo che comprende il tempo e dai quali il tempo che passa ottiene la sua estensione. All’inizio del capitolo 27, come esempio di un accadimento che si svolge nel corso del tempo e che dev’essere misurato nella sua durata, è addotto quello del risuonare di una voce corporea, il recitare a voce un verso o il levarsi di un canto. Questa voce inizia ora a risuonare, risuona per un momento e poi smette. In questo accadimento che si svolge all’interno del tempo sono da distinguere l’inizio, la fine e la durata che si estende fra di essi. Prima che la voce cominciasse a risuonare, essa era ancora totalmente futura, e in quanto tale non ancora essente: dunque non ancora misurabile. Una volta cessata, essa è passata, non è più essente e perciò non può più essere misurata. Essa poteva essere misurata solo mentre risuonava, poiché in quel caso essa “era” qualcosa che poteva essere misurato. Ma in che modo era presente la voce durante il suo risuonare? Non nel modo di uno star fermo (stare). Come voce attualmente risuonante, essa non si estendeva tra il suo inizio e la sua fine come un presente fisso. Anche come voce attualmente risuonante essa andava (ibat) e passava (praeteribat). Il suo non era un presente fisso, ma un presente che essenzialmente passa. Ma proprio in quanto tale, essa poteva venir misurata. Infatti, in quanto passava (praeteriens), essa si estendeva in un determinato lasso di tempo (tendebatur in aliquod spatium temporis). Mentre la voce che passava e che si estendeva nel passare poteva essere misurata rispetto alla sua lunghezza, il presente in quanto tale non ha alcuna estensione (praesens nullum habet spatium). Il presente in quanto tale, cioè il presente differente dal passato e dal futuro, non ha alcuna estensione, come se fosse un pezzo non passeggero, ma fisso, del presente. Tuttavia, il tempo che attualmente passa e che è colto percettivamente, ovvero compreso, si estende (tenditur) e, in quanto estendentesi, può essere misurato. Perciò la domanda-guida ora si chiede: per mezzo di cosa e come il tempo che attualmente passa (e la voce che in esso risuona) ha la sua estensione? Se l’estensione del tempo – a quanto si è detto nel capitolo 26 – è il distendersi dello spirito che comprende il tempo, come si estende, nel distendersi dell’animo, il tempo presente che passa? Di che tipo è il distendersi e l’estendersi del presente che passa, se questo presente non puro è diverso dal

non-più e dal non-ancora? Poiché nella prima parte del paragrafo 343 la riflessione conduce al risultato provvisorio che la voce che risuonava poteva essere misurata solo durante il suo risuonare e il suo passare, dal momento che solo durante il suo attuale passare essa si estendeva in una durata misurabile, nella seconda parte dello stesso paragrafo4 Agostino ricorre al secondo esempio di una voce che risuona. Questa inizia a risuonare e risuona sempre, senza interruzioni. Essa dev’esser misurata ora, durante il suo risuonare, perché solo ora essa si estende. Non appena essa ha smesso di risuonare, ha anche smesso di estendersi. Se non l’abbiamo misurata durante il suo attuale risuonare, dopo che essa ha smesso, non può più esser misurata. Ma misurare significa misurare la sua durata fra l’inizio e la fine. Poiché la voce risuona sempre, e non è ancora giunta alla fine, allora sembra che io non possa ancora misurare la voce che ancora risuona e che non è ancora giunta alla fine. Così pare che io debba aspettare la sua fine per poi poter misurare e determinare la sua durata fra l’inizio e la fine. Ma se per misurarla aspetto che la voce giunga alla fine, essa a quel punto è passata e non può più esser misurata. La durata della voce, infatti, non permane dal suo inizio alla sua fine, cosicché io possa misurarla dall’inizio alla fine come misuro una distanza spaziale tra i suoi estremi dati contemporaneamente. Tuttavia è un reperto fenomenico della comprensione naturale del tempo, il fatto che noi misuriamo la voce che risuona trascorrendo nel presente. Noi misuriamo intervalli temporali, lassi temporali, durate, ma non quelli che non “sono” ancora, e nemmeno quelli che non “sono” più. Ma non misuriamo neanche quei tempi «che non si estendono per alcuna durata (quae nulla mora extenduntur)». In conclusione, noi non misuriamo alcun tempo che non abbia confini, perché misurare è possibile solo entro confini, entro l’inizio e la fine di un movimento interno al tempo. I tempi che non si estendono in una durata sono tempi privi di estensione. Il presente in quanto tale, a differenza del nonancora e del non-più, è un tale tempo privo di estensione. Perciò la comprensione filosofica del tempo può dire: noi non misuriamo né i tempi futuri, né quelli passati, né quelli presenti (praesentia tempora), se il mero presente non ha come confine alcuna estensione; noi non misuriamo nemmeno il tempo che passa (praetereuntia tempora), se esso, in quanto ciò che sta passando, non ha ancora raggiunto la fine sino a cui viene misurato.

Allo stato attuale della ricerca non sembra ancora possibile capire in che modo, una volta che la voce abbia iniziato a risuonare, noi, percependola, iniziamo già a misurarla senza ancora aver percepito la fine del suo risuonare. Per avvicinarsi alla soluzione dell’enigma su come il tempo presente che passa possa estendersi nella durata di ciò che è interno al tempo, Agostino, nel paragrafo 355, sceglie come esempio la misurazione di una sillaba lunga tramite una breve. Anzitutto lascio risuonare la sillaba breve nella sua durata – prendendola come unità di misura del tempo. Poi lascio risuonare la sillaba lunga come quella che deve essere misurata con la sillaba breve. Solo che quando devo misurare la sillaba lunga che risuona, la sillaba breve, con la quale voglio misurare, non risuona già più. Evidentemente, per misurare la sillaba lunga, devo trattenere in qualche modo, durante il suo risuonare, la sillaba corta, affinché essa, in quanto ancora lì, possa essere applicata alla sillaba lunga che risuona. Per questo la comprensione filosofica del tempo domanda: «Come trattengo la sillaba breve (quomodo tenebo brevem) e come la uso per misurare la lunga e per scoprire che questa ha una durata doppia, se la sillaba lunga inizia a risuonare solo quando la breve ha smesso di farlo?». La parola decisiva in questa frase è il tenere, trattenere. Questa parola indica quel compiersi dello spirito comprendente, in cui esso si distende nella durata presente della sillaba. Durante la percezione della sillaba breve che risuona per prima, deve compiersi un tenere, un “trattenere” della sillaba breve che scorre. Ma la sillaba lunga, si chiede la comprensione filosofica del tempo, la misuro forse anch’essa come ancora attualmente risuonante (Ipsamque longam num praesentem metior), dal momento che la posso misurare solo in quanto conclusasi, sebbene essa in quanto conclusasi non “sia” più? Presumibilmente anche nel cogliere percettivo della sillaba lunga che passa nel risuonare, si compie un tenere, un trattenere, il quale rende possibile che, non appena la sillaba lunga si sia conclusa, io possa abbracciare e misurare la sua durata dall’inizio alla fine. Per questo la comprensione filosofica del tempo si chiede ora, sempre all’interno del paragrafo 356: «Cos’è, dunque, ciò che io misuro? (Quid ergo est, quod metior?)». Con questa domanda, essa riprende quella posta immediatamente prima, la quale si domandava se io forse misuro la sillaba lunga stessa come attualmente risuonante. Ora invece il voler-comprendere filosofico del tempo si domanda: ciò che misuro come sillaba lunga è la

sillaba lunga stessa, oppure è qualcosa di diverso? Qui potrebbe anche starci la domanda: cos’è ciò con cui misuro? È la sillaba breve stessa, o qualcosa di diverso? Alla domanda, cos’è che misuro, seguono le due domande: «Dov’è la sillaba breve con cui misuro? (Ubi est qua metior brevis?)». «Dov’è la lunga, che misuro? (Ubi est longa, quam metior?)». La domanda sul che cosa – che cos’è ciò che misuro – viene spiegata attraverso la domanda sul dove. Ciò che misuro è la stessa sillaba lunga che sta fuori, all’esterno del mio spirito percepente-misurante o forse all’interno, nell’interiorità del mio spirito percepente-misurante? La stessa sillaba lunga, la misuro all’esterno o piuttosto all’interno, in me? Quando la comprensione filosofica del tempo domanda che cos’è che misuriamo nella comprensione naturale del tempo, con questa domanda essa chiede anche dove sia la sillaba misurata. Infatti il “che cosa” significa o la sillaba lunga in se stessa, o qualcos’altro rispetto ad essa. Il “dove” della sillaba lunga, però, non è lo stesso “dove” in cui si trova l’altro che viene misurato al posto della stessa sillaba lunga. Un dove è all’esterno, l’altro all’interno dell’animo. Questa domanda sul dove l’abbiamo già incontrata nella prima parte della ricerca sul tempo, quando ci si chiedeva dove mai i tre tempi (i tre orizzonti temporali) guadagnino il proprio modo di essere, se all’esterno o all’interno dell’anima che comprende il tempo. Ora invece, nella seconda parte, ci si chiede dove il tempo guadagni l’estensione ricercata, se all’esterno o all’interno dell’anima. Dov’è la sillaba pronunciata per prima, se io la prendo come unità di misura? Dov’è la sillaba pronunciata successivamente, e di cui vorrei misurare la durata? La risposta della comprensione filosofica del tempo dice: la sillaba lunga e quella breve hanno risuonato (sonuerunt), si sono dileguate (avolaverunt), sono passate (praeterierunt), e in quanto tali non sono più (iam non sunt). Esse non sono più ciò che risuona attualmente al di fuori del mio spirito percepente-misurante. E tuttavia, con la sillaba breve e con la sua durata, io misuro la durata della sillaba lunga. L’indicazione che la sillaba ha il doppio della durata (in spatio temporis) è possibile solo perché, nel momento della misurazione, sia la sillaba lunga che quella corta sono passate e si sono concluse. Da ciò la comprensione filosofica del tempo trae la seguente visione: «Io non misuro le sillabe stesse che ho udito, le quali non sono più, ma qualcosa

nella mia memoria, che vi rimane impresso (Non ergo ipsas, quae iam non sunt, sed aliquid in memoria mea metior quod infixum manet)». Qui la ricerca sulla costituzione essenziale del tempo si collega al risultato della prima parte, in cui si era raggiunta la visione che il presente “è”, cioè è presente, solo in quanto percepito in immagini percettive interiori. Al di fuori di queste immagini percettive presenti nel nostro intimo, il presente si suddivide, privo di estensione, nel non-più e nel non-ancora. Il riferimento alle immagini percettive presenti nel nostro intimo, nelle quali il percepito ha una durata misurabile, era servito provvisoriamente ad assicurare, nei capitoli 16 e 20, solo il modo di essere del presente e di ciò che in esso è presente. Ma allorché nel capitolo 16 ci si era riferiti al fatto che noi percepiamo il tempo presente che passa e, per quel che concerne la sua lunghezza, ne misuriamo la durata, tale riferimento implicava che durante il percepire e per esso è necessario anche un trattenere ciò che di volta in volta passa, e che questo trattenere (tenere) costitutivo per il compimento della percezione, e per la formazione delle immagini percettive interiori, costituisce la durata interiore di un’immagine percettiva. Tuttavia, nel capitolo 16 questo atteggiamento temporale del trattenere non era ancora tematizzato. Ora invece, poiché ci si domanda in che modo al tempo possa spettare il carattere essenziale dell’estensione, viene tematizzato proprio questo trattenere costitutivo per il compimento della percezione e della misurazione. Cosa significhi che io «nella mia memoria, misuro qualcosa che vi rimane impresso», mentre il risuonare esterno della sillaba è passato, lo spiega il paragrafo 367. «In te, spirito mio, misuro i tempi (In te, anime meus, tempora metior)». Con ciò è già detto: l’estensione spetta al tempo solo all’interno del mio spirito che comprende il tempo. In quanto estendentisi, gli intervalli temporali “sono”, ma essi “sono” solo in anima, come ha mostrato la prima parte della ricerca. «L’impressione che le cose che passano hanno suscitato in te, e che rimane anche quando esse sono passate, è ciò che io misuro internamente come presente, non le cose stesse che sono passate (Affectionem, quam res praetereuntes in te faciunt et, cum illae praeterierint, manet, ipsam metior praesentem, non ea quae praeterierunt)». E subito dopo si dice: «Dunque, o gli intervalli temporali sono le impressioni, oppure io non misuro alcun tempo». Quando misuro la durata temporale della sillaba lunga

che risuona, allora misuro la durata temporale delle impressioni in me. Ciò che Agostino chiama affectio è, in quanto impressione, il percepito sensibile in modo immanente, che però per Agostino ha il carattere di un’immagine, poiché sostituisce la sillaba stessa che passa e che è passata al di fuori dell’interiorità. Ma come odo la sillaba che passa? Essa stessa risuona nella successione da un ora a un altro ora. All’ora appartiene un percepito interiore. Al di fuori dell’interiorità senziente, ogni ora passa nel mero non-più. Ma interiormente io trattengo il primo ora, quando al primo ne segue un secondo con il suo percepito, e più precisamente non lo trattengo come un ora che permane, ma come un non-più-ora. Ma se nel nuovo ora viene trattenuto il suo precedente non-più-ora, esso non scompare, come al di fuori dell’interiorità, nel puro non-più, bensì ottiene, tramite il suo esser-trattenuto come non-più-ora, un modo di essere, un modo di essere presente o di presenza. Questo trattenere l’ora che si trasforma nel non-più-ora è un modo di compiersi dello spirito o dell’anima che comprende il tempo. In questo trattenere l’ora che si trasforma continuamente nel continuum dei non-più-ora che segue ad ogni nuovo ora, lo spirito si distende dal suo ora di volta in volta presente, al continuum di una durata che è già terminata, ma che viene trattenuta proprio in quanto già passata. È in questo modo che io ascolto all’inizio il risuonare della sillaba breve, la cui durata si basa, in me, su questo trattenere l’ora che si trasforma. Quando la sillaba breve ha smesso di risuonare, si è formata nell’interiorità della mia anima che comprende il tempo – per mezzo di questo tenere, per mezzo di questo particolare trattenere l’ora che scorre – la durata della sillaba. Questo trattenere il continuum allungantesi di ciò che ora-non-è-più-percepito, un trattenere che è costitutivo per la percezione della durata, è ciò che mi permette di conservare nella memoria la sillaba breve e quella lunga. Perciò la comprensione filosofica del tempo può dire di misurare nella mia memoria la sillaba lunga con l’aiuto della sillaba breve. Ancora nel paragrafo 368, viene detto infine che a questo trattenere appartengono ancora due ulteriori atteggiamenti temporali, e che tutti e tre insieme, nel comprendere percepente della durata, sono costitutivi di ciò che è interno al tempo. Innanzitutto viene detto che noi, oltre alla durata della voce che risuona, possiamo misurare anche la durata del silenzio in cui essa

non risuona. Come prima cosa, noi percepiamo la voce nella sua durata. Questa durata si forma in maniera immanente, nel modo descritto. Poi percepisco il silenzio nella sua durata, che si costituisce in maniera immanente allo stesso modo. Ora, per poter misurare la lunghezza della durata in cui la voce non risuona «volgiamo l’animo verso l’unità di misura temporale della voce, come se essa ancora risuonasse (cogitationem tendimus ad mensuram vocis, quasi sonaret)», per poter dire qualcosa sulla durata del silenzio. Qui è importante la locuzione «cogitationem tendimus». Cogitatio sta qui per animus, ma tendere appartiene a distendere e a distentio. Distendere lo spirito nella durata della voce che si è udita, in maniera tale che la voce in un certo qual modo risuoni, non significa altro che l’atteggiamento temporale del ricordo. In esso io rappresento la durata della voce. Ma un tale rappresentare ricordando è possibile solo perché, nella percezione, questa durata si è fondata primariamente sul tenere, sul trattenere il non-più-ora che scorre. La durata così costituitasi nel trattenere può oscurarsi e contrarsi in un ulteriore sprofondamento, per poi, però, poter essere rischiarata e rappresentata nella sua durata originaria. Sia nel primario trattenere dell’ora che si trasforma di volta in volta nel non-più-ora, sia nel rappresentare tramite il ricordo, il comportamento dello spirito che comprende il tempo è quello del distendersi. Esso si distende sia nella durata che si forma primariamente, sia in quella che viene rappresentata. Come ulteriore prova del fatto che l’estensione del tempo nella durata e la misurazione di questa durata si compiono nell’interiorità dello spirito che comprende il tempo, ci si può riferire al fatto che noi, anche senza voce e senza muovere le labbra, recitiamo poesie e versi nel pensiero (cogitando), e nel farlo ci riferiamo alla loro estensione temporale (de spatiis temporum), come se stessimo parlando. Ciò che adesso segue, sempre nel paragrafo 369, è un primo riferimento a quei tre atteggiamenti temporali che si co-appartengono, nei quali si distende primariamente lo spirito che comprende il tempo, cosicché, in questo tripliceunitario distendersi, si costituisce la durata della voce pronunciata e che risuona nel presente. Questo l’esempio che viene addotto: qualcuno ha intenzione di emettere la propria voce per un certo lasso di tempo. Nella sua riflessione (praemeditando), egli stabilisce quanto a lungo deve risuonare la sua voce, e lo fa misurando in silenzio un certo intervallo di tempo. Per

questo l’animo si distende in una durata che esso stesso forma nel suo distendersi. Ma questo atteggiamento è una rappresentazione diretta al futuro, dunque un’attesa. In questa, io mi rappresento anticipatamente ciò che farò e che percepirò come un presente. Perciò Agostino dice che questa durata stabilita nell’attesa sarà consegnata alla memoria, il che significa che la durata rappresentata nell’attesa sarà conservata. Se ora passo ad eseguire nel presente ciò che mi ero rappresentato anticipatamente, e comincio a far risuonare la voce, non indugio oltre nella rappresentazione anticipata, ma vivo nella percezione presente, che sta iniziando ora, della voce da me emessa. Ma come si svolge la percezione della voce che risuona, e che nel risuonare passa? In che modo colgo la voce che passa nella sua durata? La comprensione filosofica del tempo dice a questo proposito: «Nel percepire la voce che risuona e la sua durata, il rivolgersi presente a ciò che ora è percepito di volta in volta porta il futuro nel passato (praesens intentio futurum in praeteritum traicit)». La praesens intentio designa, nello svolgersi della percezione, quella fase specifica in cui io comprendo di volta in volta l’ora e ciò che proprio ora è percepito, o meglio è sentito. È in questa praesens intentio, che il mio percepire si tiene primariamente. In questo modo io sono sempre orientato, di volta in volta, verso l’ora. Però, con questo ora di volta in volta presente, io comprendo anche il non-ancora-ora che immediatamente lo segue, cioè il subito-dopo. La mia comprensione dell’ora è essenzialmente aperta al subito-dopo, che a sua volta diverrà esso stesso ora. Nella comprensione dell’ora, io ho già davanti a me il non-ancora-ora, come il subito-dopo. Ma la comprensione del subito-dopo non è limitata ad un singolo non-ancora-ora. Ogni volta che comprendo l’ora, io ho davanti a me un continuum di non-ancora-ora. La mia comprensione del tempo consiste specialmente in un comprendere l’ora di volta in volta presente e il non-ancora-ora che lo segue. Il subito-dopo non è da intendersi qui come completamente vuoto, ma (per restare al nostro esempio) come ciò che è riempito dalla durata della voce che deve ancora iniziare. Ma nel comprendere l’ora, e con ciò stesso il non-ancora-ora che ho davanti, io comprendo anche il non-più-ora in cui si trasforma l’ora di volta in volta presente. Lo comprendo in quel trattenere (tenere) che già conosciamo. Questo trattenere [Festhalten] è un ritenere [Zurückhalten]; invece comprendere il non-ancora-ora è un tenere-davanti [Vorhalten]. Come

nel ritenere il non-più-ora che scorre, questo ottiene il suo modo di esser presente (esse), così il continuum del non-ancora-ora guadagna il suo modo di esser presente (esse), in quanto compreso nel tenere-davanti. Adesso vediamo più chiaramente cosa significhi che l’estensione del tempo è il distendersi dello spirito che comprende il tempo. Lo spirito si distende nella percezione della voce che risuona nel presente e che così passa, in un triplice modo: nell’ora di volta in volta presente, nel continuum del non-ancora-ora tenuto davanti e nel continuum trattenuto del non-piùora. Non è solo nel ricordo e nell’attesa che io mi distendo nell’orizzonte del passato e del futuro, ma già nella percezione. Infatti la durata di ciò che percepisco, colta nella percezione, in quanto già passata si estende dall’ora di volta in volta presente sino al continuum trattenuto dei non-più-ora. Comprendendo la fase dell’ora di volta in volta presente, e del continuum della durata già passata che ad essa appartiene, io comprendo anche il continuum della durata non ancora risuonata, che pure appartiene alla fase presente. Perciò Agostino può dire che, con la percezione presente della voce che risuona, cresce la durata già risuonata, mentre diminuisce la durata di cui siamo ancora in attesa. Ora la durata futura, o ciò che della durata futura è ancora atteso come futuro, può ridursi, poiché la durata futura in un certo senso già “è” – “è” in quanto già presente nel tener-davanti il futuro. Ora anche la durata già passata può aumentare, poiché essa viene trattenuta in quanto passata e, in questo esser trattenuta, ottiene un modo di essere come presente. In questi tre atteggiamenti temporali del comprendere l’ora, del comprendere assieme il non-ancora-ora e il non-più-ora, il mio spirito che comprende il tempo si distende nel modo della distentio.

7. Attentio, expectatio primaria e memoria primaria come originari atteggiamenti temporali (XI, 28) Nel capitolo 27, parlando del fatto che, attraverso la nostra percezione, noi cogliamo il risuonare nel presente di una voce che passa, è emerso per la prima volta il riferimento a quell’originaria distentio animi, insieme triplice e unitaria, su cui si fonda la durata di quella voce nell’immanenza dello spirito che comprende il tempo. La locuzione decisiva diceva: praesens intentio

futurum in praeteritum traicit, il rivolgersi presente a ciò che è di volta in volta attuale porta il futuro nel passato, passando per l’ora. Sebbene – dal punto di vista terminologico – in questa locuzione linguistica sia nominato all’inizio solo uno degli atteggiamenti temporali originari, vale a dire solo la praesens intentio, il modo in cui quest’ultima viene descritta include gli altri due atteggiamenti temporali originari. Questi altri due atteggiamenti temporali inclusi nella praesens intentio e ad essa appartenenti in maniera essenziale, noi li abbiamo messi in risalto nominandoli rispettivamente come il tener-davanti il non-ancora-ora nel significato del subito-dopo, e il ritenere o trattenere (conservare) il non-più-ora come il poco-fa. Nel capitolo 28, ciascuno di questi due atteggiamenti temporali originari, ottiene anch’esso una propria designazione terminologica. Solo in questo capitolo della ricerca sul tempo viene davvero mostrato come, nella sua immanenza, lo spirito che comprende il tempo sia disteso nei tre atteggiamenti temporali originari, e come, in questo triplice-unitario distendersi, il tempo che scorre ottenga la sua estensione, che a sua volta rende possibili le durate limitate di ciò che è interno al tempo. Verso la fine del capitolo 27 si diceva: nella percezione del risuonare di una voce che passa nel corso del tempo, io vivo in maniera tale che il rivolgersi presente all’ora di volta in volta attuale porta il futuro inteso come il subito-dopo – passando per l’ora – nel passato inteso come il poco-fa. Mentre in questo modo si compie la mia percezione della voce che risuona, il futuro si riduce e il passato cresce. Il capitolo 28 si apre con la domanda su come allora il futuro, che ancora non “è”, venga ridotto ed esaurito; e in che modo il passato, che non “è” più, cresca e aumenti. Ridursi significa diminuire di lunghezza. Ma, per poter essere lungo, il futuro deve “essere”. Lo stesso vale per la crescita del passato. Affinché si allunghi, esso deve “essere”. Come “è”, dunque, il futuro, in modo da poter essere lungo e da poter diminuire la propria lunghezza? Come “è” il passato, in modo da potersi allungare? La risposta dice: «Solo perché nello spirito che lo attua vi sono tre elementi (nisi quia in animo, qui illud agit, tria sunt)». Lo agit riprende di nuovo il traicit: il portare è un’azione dello spirito che appartiene al suo originario comprendere il tempo e che noi traduciamo come un compiersi. Cosa siano questi tre elementi nello spirito, grazie ai quali il futuro diminuisce e il passato aumenta, lo dice la proposizione successiva: «Infatti

lo spirito attende e tende verso… e si ricorda (Nam et expectat et adtendit et meminit), cosicché dunque ciò che esso attende, tramite ciò verso cui esso tende, passa in ciò che esso ricorda (ut id quod expectat per id quod adtendit transeat in id quod meminerit)». I tre elementi nello spirito sono dunque l’expectare, l’adtendere e il meminisse. In tal modo sono nominati i tre atteggiamenti temporali originari, che nella loro coappartenenza formano il decorso presente della percezione. Ciò che ora Agostino chiama l’adtendere indica la stessa cosa della praesens intentio del capitolo 27. Adtendere e intendere significano il rivolgersi a… Portare il subito-dopo nell’ora presente è quello che accade nell’atteggiamento temporale dell’expectare. Ma poiché qui si intende la comprensione del subito-dopo che appartiene alla comprensione dell’ora di volta in volta presente, e poiché entrambi, il comprendere l’ora e il comprendere il subito-dopo, appartengono all’unità del decorso presente della percezione, questo expectare ha un carattere essenzialmente diverso rispetto a ciò che nel capitolo 20 era stata chiamata expectatio, cioè l’attesa. Il portare l’ora nel passato, inteso come l’esser-stato-poco-fa, è quello che accade nell’atteggiamento temporale del meminisse. Ma poiché con questo si intende la comprensione dell’esser-stato-poco-fa, la quale, come la comprensione del subito-dopo, appartiene alla comprensione dell’ora di volta in volta presente, e poiché essa, insieme alle altre due, forma l’unità del decorso presente della percezione, anche ciò che ora è chiamato meminisse ha un carattere essenzialmente diverso rispetto a ciò che nel capitolo 20 era stato chiamato ricordo. Il meminisse non significa tanto un ricordarsi, quanto piuttosto un conservare l’ora che poco fa è passato nel non-più-ora. In questo conservare, l’ora che è passato di volta in volta nel non-più rimane legato, in quanto poco-fa, a ciascun nuovo ora. In tal modo, ciò che del risuonare del suono è già trascorso si allunga in una durata trattenuta e conservata in quel meminisse. Il meminisse come trattenere è la stessa cosa che nel capitolo 27 era stata intesa come il tenere. Nel tenere come meminisse si fonda la durata intesa come un continuum dei non-più-ora che si allunga nel risuonare della voce. Questo continuum delle durate già trascorse si allunga con ogni nuovo passaggio dell’ora nel non-più-ora. Attraverso il tenere, attraverso il trattenere inteso come meminisse, come conservare, ciascun ora che si trasforma nel non-più – e con esso anche il continuum crescente della durata

– ottiene un modo di essere tale per cui la durata conservata “è” per me come colui che conserva. L’expectare, che, come il meminisse, appartiene costitutivamente alla percezione presente della voce che risuona, non significa tanto un attendere, quanto piuttosto quel tenere-anticipatamente il non-ancora-ora, che in questo tenere-anticipatamente è compreso come un non-ancora-ora che subito-dopo sarà ora. Anche questo subito-dopo, compreso assieme alla comprensione dell’ora di volta in volta presente, ha il carattere di un continuum di nonancora-ora. In tale continuum del non-ancora-ora compreso assieme alla comprensione di ciascun nuovo ora attuale, io comprendo come futura quella durata che prima ho determinato in un’attesa o rappresentazione anticipante. Finché definisco la lunghezza della durata in cui la voce deve risuonare, io vivo nell’atteggiamento della rappresentazione anticipante. Ma quando passo a far risuonare la voce e a percepirla nel risuonare, non vivo più nella rappresentazione anticipante, ma nella percezione. Ma la percezione, come abbiamo visto, non è solo una comprensione del presente inteso come ora, bensì anche – e in una ben determinata maniera – una comprensione del nonancora-ora e del non-più-ora. All’inizio della percezione, io comprendo anzitutto la durata della voce scorta nella rappresentazione anticipante come ciò che passa continuamente dal non-ancora-ora tenuto-anticipatamente a ciascun nuovo ora. In questo tenere-anticipatamente che appartiene alla comprensione dell’ora, la voce è compresa come ciò che è ancora futuro, ma che subito-dopo passerà nell’ora. In questa comprensione che tieneanticipatamente, alla durata futura spetta un modo di essere tale da poter avere la durata da me stabilita e da poter diminuire nella sua lunghezza, passando continuamente nell’ora di volta in volta presente. Nel mio atteggiamento percepente, io vivo primariamente nella praesens intentio, nell’adtendere, nel mio rivolgermi verso l’ora che continuamente si rinnova e verso il suo esser-ora. Ma questo adtendere è un atteggiamento temporale non autonomo all’interno della percezione. Esso non coincide con ciò che nel capitolo 20 è chiamato contuitus. Quest’ultimo nomina l’intuizione nel senso della percezione in carne e ossa. L’adtendere è invece solo un’attività parziale della struttura della percezione. Mentre il contuitus, la percezione, è un atteggiamento temporale autonomo, la praesens intentio, l’adtendere, è un momento non autonomo all’interno dell’autonomo atteggiamento temporale della percezione.

L’adtendere è un atteggiamento non autonomo, poiché si attua solo in unità con il meminisse e con l’expectare. Ma anche questi ultimi sono degli atteggiamenti non autonomi, poiché anch’essi si compiono solo in unità con l’adtendere. Il meminisse non coincide con ciò che nel capitolo 20 è chiamata memoria, poiché in quel caso si trattava dell’atteggiamento autonomo del ricordo inteso come una rappresentazione rivolta al passato. Tantomeno l’expectare coincide con l’expectatio tematizzata nel capitolo 20. Con essa si intendeva l’atteggiamento autonomo dell’attesa concepita come una rappresentazione anticipante. Ma né questo meminisse che appartiene all’adtendere è una rappresentazione rivolta al passato, né l’expectare, anch’esso appartenente all’adtendere, è una rappresentazione anticipante. Essi non sono in assoluto delle rappresentazioni, bensì appartengono alla struttura temporale della percezione che rende presente il percepito. Negli atteggiamenti temporali autonomi, io vivo in un’attesa, o in un ricordo, o in una percezione. Nella percezione che rende presente, io non vivo contemporaneamente in un’attesa raffigurante o in un ricordo raffigurante. Ma in essa vivo in modo tale che, con l’esser rivolto verso l’ora di volta in volta presente, conservo ciò che è stato poco-fa e tengo anticipatamente ciò che sarà subito-dopo. I tre elementi presenti nello spirito, il suo triplice distendersi, non accade solo nei tre atteggiamenti temporali della percezione, del ricordo e dell’attesa che ci sono noti dalla prima parte della ricerca sul tempo, ma già prima, nei tre suddetti atteggiamenti temporali non autonomi e reciprocamente appartenentesi. Infatti, questi tre atteggiamenti temporali non autonomi già costituiscono dal canto loro la percezione. Già per il compimento della percezione, lo spirito che comprende il tempo è disteso nei tre orizzonti temporali. Quanto al passato, esso non lo comprende per la prima volta nell’atteggiamento autonomo del ricordo, bensì già prima nell’atteggiamento non autonomo del comprendere – conservandolo – ciò che è stato poco-fa. Quanto al futuro, lo spirito non lo comprende per la prima volta nell’atteggiamento autonomo dell’attesa, bensì già prima nell’atteggiamento non autonomo del comprendere – tenendolo anticipatamente – il subito-dopo. Perciò i tre atteggiamenti temporali non autonomi sono gli atteggiamenti originari verso i tre orizzonti del tempo. Quando nel testo si dice «ciò che esso attende», non si intende qui l’attesa autonoma, ma la comprensione primaria del futuro come del presente-subito-

dopo. Quando nel testo si dice ancora che ciò che lo spirito attende «passa attraverso ciò che esso percepisce (adtendit)», non si pensa all’atteggiamento autonomo della percezione, bensì alla particolare fase percettiva, facente parte dell’atteggiamento della percezione, nella quale viene compreso l’ora di volta in volta presente e il suo esser-ora. Quando infine si dice che ciò che l’animo percepisce passa «in ciò di cui esso si ricorda», questo ricordarsi non significa l’atteggiamento autonomo del ricordo nel senso di una rappresentazione rivolta al passato, ma il conservare ciò che è stato-poco-fa, che si compie trattenendosi nel continuo passaggio dell’ora nel non-più-ora. Nella prospettiva della distinzione – che abbiamo compiuta assieme ad Agostino – fra i tre atteggiamenti temporali non autonomi e i tre autonomi, possiamo interpretare il prosieguo del capitolo 28: «Chi nega che il futuro ancora non ‘è’?». Il futuro significa qui il presente-subito-dopo. Esso “non è ancora”, vale a dire che, al di fuori dell’atteggiamento temporale immanente allo spirito, non gli spetta alcun tipo di essere. L’atteggiamento temporale che corrisponde al presente-subito-dopo non è l’attesa autonoma, ma il non autonomo comprendere – tenendolo anticipatamente – il continuum del presente-subito-dopo. Più precisamente, al di fuori dello spirito che comprende il tempo, il futuro inteso come l’ora-subito-dopo ancora non “è”. Ma «nell’animo c’è già attesa del futuro (iam est in animo expectatio futurorum)». Qui si intende il futuro che, per il decorso presente della percezione, viene compreso nel tenere-anticipatamente il non-ancora-ora, il quale è appunto tenuto anticipatamente come ciò che non-è-ancora-percepito, ma che verrà percepito subito-dopo. «E chi nega che il passato non ‘è’ più?». Qui il passato significa ciò che è-stato-poco-fa, e non “è” più, vale a dire ciò a cui, al di fuori dello spirito, non conviene alcun tipo di essere. Ma se a ciò che è-stato-poco-fa non spetta alcun modo di esser presente al di fuori dell’immanenza dello spirito che comprende il tempo, «tuttavia continua ad esserci nell’animo il ricordo del passato (tamen est adhuc in animo memoria praeteritorum)». Anche qui la memoria riguarda il conservare trattenente, che si compie nel decorso presente della percezione, di ciò che è-stato-percepito-poco-fa. «E chi nega che il presente è senza estensione perché passa in questo istante (quia in puncto praeterit)?». Al di fuori dell’immanenza dello spirito, il presente del percepito non ha alcuna estensione. Qui l’ora è il puro confine tra il non essente non-più e il non essente non-ancora. Più precisamente, il

presente (praesens tempus), senza riferimento al corrispondente atteggiamento temporale e al di fuori dell’immanenza dell’animo, è senza estensione. «E tuttavia dura la percezione attraverso la quale continua ad accadere che ciò che sarà presente è già di nuovo assente (Sed tamen perdurat attentio, per quam pergat abesse quod aderit)». La «perdurante percezione» (perdurat attentio) non è l’atteggiamento della percezione nella sua interezza, ma quella particolare fase nel decorso percettivo in cui io sono rivolto proprio verso l’ora di volta in volta presente. L’attentio perdurans è la praesens intentio. Questa fase della percezione è quella centrale nel decorso percettivo in cui io vivo primariamente. Perciò Agostino chiama questa parte centrale intentio o attentio. All’interno del decorso presente della percezione, io sono primariamente rivolto all’ora di ogni ora presente di volta in volta, e solo a partire da questa intentio o attentio rivolgo lo sguardo, comprendendolo, al continuum di ciò che sarà-percepito-subito-dopo e che è tenuto-davanti, così come al continuum di ciò che è-stato-percepito-poco-fa e che è conservato. Secondo Agostino tutti e tre gli atteggiamenti originari si compiono nell’immanenza dello spirito che comprende il tempo, separata dall’esteriorità. Poiché all’immanente attentio perdurans appartiene la memoria intesa come il conservare non autonomo di ciò che è stato-percepito-poco-fa, la durata percepita si estende nell’immanenza di ogni ora di volta in volta percepito, nel continuum dei non-più-ora conservati. Prima che la durata della voce che risuona venga percepita, essa può estendersi in quell’atteggiamento non autonomo, appartenente all’attentio perdurans, che è il tener-anticipatamente un continuum di non-ancora-ora, come ciò che sarà-percepito-subito-dopo. Dato che Agostino, per indicare gli atteggiamenti temporali non autonomi, ha utilizzato non solo i verbi expectare e meminisse, ma anche i sostantivi expectatio e memoria, noi dobbiamo chiarire, ancora una volta e con insistenza, che nella seconda parte della sua ricerca sul tempo egli utilizza questi termini in un significato diverso rispetto a quello della prima parte. Nell’ambito della domanda sull’esse del tempo, i termini expectatio e memoria designavano gli atteggiamenti autonomi dell’attesa e del ricordo. Ma adesso, nell’ambito della domanda sul quid, sulla costituzione essenziale del tempo, memoria ed expectatio designano gli atteggiamenti temporali non autonomi, ovvero il conservare, trattenendolo, ciò che è-stato-poco-fa e il tener-anticipatamente il presente-subito-dopo. Questi atteggiamenti non

autonomi indicano un modo di comprendere il passato e il futuro totalmente diverso rispetto agli atteggiamenti autonomi. Come atteggiamenti temporali non autonomi, ma originari, essi – insieme all’intentio e all’attentio, cioè insieme alla comprensione dell’ora di volta in volta presente – costituiscono la base dell’atteggiamento autonomo della percezione del presente. Ancor più, essi costituiscono in generale la base di ogni atteggiamento che ha luogo nel presente, anche del ricordo e dell’attesa. Anche questi due, infatti, si svolgono nel presente, che dal canto suo si estende solo nel comprenderel’ora proprio dell’attentio, che include in sé il tener-anticipatamente il subitodopo e il trattenere il poco-fa. Riassumendo, la comprensione filosofica del tempo può dire: «Ad essere lungo non è dunque il tempo futuro, che non è». Esso “non è” al di fuori (foris) dello spirito, non è al di fuori del suo esser-tenuto-anticipatamente nell’expectatio. «Un lungo futuro (longum futurum) è una lunga attesa del futuro (longa expectatio futuri)». Qui l’expectatio significa il non autonomo tener-anticipatamente il subito-dopo. Se abbiamo distinto precisamente questo significato rispetto all’attesa come rappresentazione autonoma, potremo allora anche descrivere come un’attesa l’atteggiamento non autonomo del tener-anticipatamente il subito-dopo: l’attesa, che si compie nel decorso presente della percezione, del subito-dopo che in essa viene atteso. La parola “attesa” indica l’attendere e quello che in esso è atteso. Ciò non vale solo per l’attesa come atteggiamento non autonomo, ma anche per l’attesa come atteggiamento autonomo. Quando Agostino dice che un lungo futuro è una lunga attesa del futuro, allora l’expectatio dev’essere presa nel senso di ciò che viene atteso e non in quello dell’attendere. Un lungo tempo futuro non è lungo perché l’attendere si estenda a lungo; piuttosto, è in quanto atteso, cioè in quanto è tenutoanticipatamente, che esso costituisce una lunga durata futura. In quanto futuro, gli spetta una durata estesa solo perché esso, nell’atteggiamento non autonomo, è compreso come atteso (tenuto-anticipatamente). La stessa cosa vale analogamente quando la comprensione filosofica del tempo dice: «Ad essere lungo non è il tempo passato, che non è, ma un lungo passato è un lungo ricordo del passato (neque longum praeteritum tempus, quod non est, sed longum praeteritum longa memoria praeteriti est)». Il tempo passato non “è” al di fuori del suo esser-conservato nella memoria. Il tempo passato, qui, è ciò che è-stato-poco-fa, e la memoria indica

l’atteggiamento non autonomo del conservare ciò che è-stato-poco-fa. Se osserviamo scrupolosamente la distinzione tra memoria come ricordo autonomo e memoria come conservare non autonomo, si potrà designare come ricordo anche l’atteggiamento non autonomo del trattenere ciò che èstato-poco-fa: il ricordarsi, che si compie costitutivamente nel decorso presente della percezione, del poco-fa in esso ricordato. In tal modo vediamo anche che ricordo significa tanto il ricordare quanto ciò che in esso viene ricordato. Quando perciò Agostino dice che un lungo passato è un lungo ricordo del passato, egli non intende un lungo ricordo che si estenda, ma una lunga durata passata che viene ricordata e che è trattenuta nel suo fluire. Alla stessa maniera, il tener-anticipatamente attendendo non deve avere la stessa lunghezza della durata futura di ciò che in esso è atteso e tenutoanticipatamente. Quanto è stato esposto nel capitolo 28 viene chiarito in conclusione da Agostino con un esempio. Io voglio cantare una canzone. Prima di iniziare, «la mia attesa si protende alla canzone intera (in totum expectatio mea tenditur)». Qui expectatio non significa l’atteggiamento non autonomo del tener-anticipatamente, ma l’atteggiamento autonomo dell’attesa. Io compio quest’ultima quando vivo in essa in modo da rappresentarmi la canzone nella sua interezza. Questa rappresentazione si svolge, da parte sua, nel tempo che passa, cosicché anch’essa si compie nell’interazione dei tre atteggiamenti temporali non autonomi. Se subito dopo passo a cantare la canzone, trasformo l’attesa rappresentante nella percezione che rende presente. Adesso nella mia attentio io sono rivolto direttamente a ciascun ora, e solo a partire dall’attentio, guardo – comprendendola nel modo del tener-anticipatamente – il tratto di durata che non è ancora risuonato, ma che risuonerà subito-dopo. Nel modo di comprendere non autonomo il continuum del subito-dopo, che appartiene all’attentio, la durata della canzone che dev’essere ancora cantata è data per me in un altro modo rispetto a come si dava precedentemente nell’autonoma attesa. Una volta poi che ho iniziato a cantare e a percepire il canto che risuona, «la mia memoria (memoria mea) si distende nella misura di quello che da essa (dall’expectatio) consegno al passato». Expectatio e memoria designano qui gli atteggiamenti non autonomi che appartengono all’attentio. Nell’esser-

rivolto, con la mia attenzione, direttamente a ciascun ora, io comprendo il subito-dopo tenendolo anticipatamente e procedo nella mia comprensione con il passaggio continuo del già compreso subito-dopo-ora nell’ora. Nello stesso esser-rivolto, con la mia attenzione, direttamente a ciascun ora, io procedo con il passaggio continuo di ciascun ora in ciò che è-statopoco-fa e lo trattengo nel conservare non autonomo. È importante notare che, con il procedere della comprensione nel passaggio dell’ora nel poco-fa, io non sono rivolto a ciò che è-stato-poco-fa allo stesso modo di come lo sono verso l’ora compreso con l’attenzione. Lo stesso vale per il subito-dopo che è compreso insieme alla comprensione dell’ora nella mia attenzione, al quale io non guardo alla stessa maniera di come guardo all’ora. Guardando all’unità di questi tre atteggiamenti temporali non autonomi, la comprensione filosofica del tempo dice: atque distenditur vita huius actionis – «ed estesa è la vita della mia azione». Prima Agostino aveva utilizzato due volte il verbo tendere, l’estendersi nel modo del teneranticipatamente il subito-dopo e l’estendersi nel modo del trattenere e conservare il poco-fa. Entrambi i modi di estendersi appartengono all’attentio, all’essere-rivolto verso l’ora. È guardando a questo triplice estendersi, che Agostino parla della distentio. Nella sua comprensione originaria del tempo, lo spirito si estende nei tre orizzonti temporali del presente nell’ora, del passato nell’esser-stato-poco-fa e del futuro nell’essersubito-dopo. La vita della mia azione, che in questo caso è il cantare e il percepire il canto che risuona, è estesa nella memoria in riferimento a quanto io ho già cantato, ed è estesa nell’expectatio in riferimento a quanto io ancora canterò. Memoria ed expectatio, trattenere il poco-fa e tener-anticipatamente il subito-dopo, appartengono alla mia attentio, al mio essere-rivolto verso l’ora di volta in volta presente. Di questa attentio si dice ancora una volta che essa, attraverso l’ora, porta ciò che nel tener-anticipatamente del futuro è compreso come il subito-dopo, nel passato compreso nel trattenere come il poco-fa. Nella sua Introduzione allo studio di sant’Agostino così scrive Étienne Gilson riferendosi al termine distentio: «Per cogliere nella maniera più precisa possibile la relazione tra il persistere e il fluire […], Agostino ricorre ad un’immagine; egli suggerisce di guardare il tempo come un tipo di tensione, di dis-tensione dell’anima, dis-tentio animi, che rende possibile l’esistenza contemporanea del futuro e del passato nel presente, e così lascia

percepire e misurare la durata»10. Ma a questo proposito bisogna dire che la distentio animi non è un’immagine in cui raffigurarsi un pensiero. La distentio animi è piuttosto un concetto che, entro i confini dell’approccio agostiniano, è attinto nel confronto con le cose stesse, in base a ciò che si mostra, cioè in base ai fenomeni. La cosa stessa da cui il concetto è attinto è la comprensione umana del tempo che viene interpretata filosoficamente da Agostino. Ciò che gli si mostra come struttura fondamentale della comprensione umana del tempo, egli lo esprime nel concetto di distentio animi. La distentio animi non è un’immagine letteraria più o meno azzeccata, che in quanto tale viene ripresa e utilizzata da qualche parte per descrivere l’animo che comprende il tempo. La stessa comprensione del tempo ha una struttura che va intesa come distentio, come un triplice distendersi. Il distendersi non è un’immagine per la comprensione del tempo, ma è la stessa comprensione del tempo. 1

Stoicorum veterum fragmenta, collegit I, vol. I, in H. v. Arnim (hrsg.), Zeno et Zenonis discipuli, in aedibus B. G. Teubneri, Lipsiae 1905. Frammento 93, p. 26: Zήνων ἔφησε χρόνον εἶναι κινήσεως διάστημα […]. 2 Per quel che riguarda l’interpretazione della distentio animi, cfr. K. Held, Zeit als Zahl. Der phytagorische Zug im Zeitverständnis der Antike, in Zeiterfahrung und Personalität, hrsg. v. Forum für Philosophie Bad Homburg, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992, pp. 13-33, in part. pp. 27 ss. 3 Il testo porta «nel primo capoverso». Lo modifico con «nella prima parte del paragrafo 34», seguendo la suddivisione canonica delle Confessioni [N.d.C.]. 4 Il testo porta «nel secondo capoverso». Lo modifico con «nella seconda parte dello stesso paragrafo», seguendo la suddivisione canonica delle Confessioni [N.d.C.]. 5 Il testo porta «nel terzo capoverso del capitolo 27». Lo modifico con «nel paragrafo 35», seguendo la suddivisione canonica delle Confessioni [N.d.C.]. 6 Il testo porta «all’inizio del quarto capoverso». Lo modifico con «sempre all’interno del paragrafo 35», seguendo la suddivisione canonica delle Confessioni [N.d.C.]. 7 Il testo porta «il quinto capoverso del capitolo 27». Lo modifico con «il paragrafo 36», seguendo la suddivisione canonica delle Confessioni [N.d.C.]. 8 Il testo porta «il sesto e ultimo capoverso del capitolo 27». Lo modifico con «Ancora nel paragrafo 36», seguendo la suddivisione canonica delle Confessioni [N.d.C.]. 9 Il testo porta «nel quinto capoverso». Lo modifico con «sempre nel paragrafo 36», seguendo la suddivisione canonica delle Confessioni [N.d.C.]. 10 é. Gilson, Der Heilige Augustin. Eine Einführung in seine Lehre, Hegner, Hellerau 1930, p. 342; trad. it. a cura di V. Venanzi Ventisette, Introduzione allo studio di sant’Agostino, Marietti, Casale Monferrato 1983, p. 223 (trad. modificata).

Parte seconda Il significato della ricerca fenomenologica di Agostino sul tempo per Husserl e Heidegger

Capitolo 1 La domanda fenomenologica di Husserl sul tempo come analisi fenomenologica della coscienza del tempo 1. Il ritorno di Agostino all’immanenza dello spirito che comprende il tempo e la coscienza soggettiva del tempo come punto di partenza di Husserl Il primo documento pubblico delle ricerche fenomenologiche sul tempo condotte da Husserl, risalente in gran parte al manoscritto di un corso di lezioni tenuto a Gottinga del 1905 e apparso nel 1928 a cura di Heidegger, porta il titolo di Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo1. Il fatto che Husserl faccia iniziare queste ricerche con un riferimento alla ricerca sul tempo di Agostino, e che inviti chiunque si occupi del problema del tempo a studiare accuratamente i capitoli 14-28 dell’XI libro delle Confessioni, mostra con sufficiente chiarezza quale significato egli attribuisca proprio a questa ricerca sul tempo. Rifacendosi ad Agostino, egli riconosce alla sua ricerca sul tempo un posto di spicco nell’ambito della storia del concetto filosofico di tempo. Come ha mostrato il nostro esame dei capitoli 14-28 dell’XI libro delle Confessioni, la domanda agostiniana sul tempo conduce attraverso due vie – la via della domanda sull’essere, e la via della domanda sull’essenza del tempo – sin nell’interiorità dello spirito, o dell’anima, che comprende il tempo. L’essere (esse) e l’essenza (quid) del tempo vengono individuati da Agostino nell’interiorità dell’anima o dello spirito, così da scoprire questa interiorità come l’ambito dell’essere e dell’essenza del tempo. Mentre Aristotele indaga il tempo come tempo della natura, quello in cui hanno luogo i movimenti delle cose e che, come tale, viene contato e misurato dall’anima che comprende il tempo, Agostino riporta il tempo dei movimenti che accadono nella natura all’interiorità dello spirito che comprende il tempo, così che, proprio a partire da questa interiorità, il tempo venga determinato concettualmente riguardo al suo essere e alla sua essenza. Il fatto che, per la

prima volta in assoluto all’interno della storia della domanda filosofica sul tempo, Agostino abbia localizzato il problema del tempo nell’immanenza dello spirito che comprende il tempo, costituisce per Husserl l’aspetto più significativo nella posizione della domanda agostiniana. Per lui, infatti, è ovvio che il problema filosofico del tempo debba essere sviluppato come analisi della coscienza del tempo. Ciò che per Agostino è l’interiorità dello spirtito che comprende il tempo, diviene per Husserl la coscienza interna del tempo. Husserl coglie l’interiorità dello spirito come l’immanenza della coscienza. Ma in questo egli si mostra l’erede di quell’approccio moderno ad ogni questione filosofica che – a partire da Descartes – si basa sul fondamento della coscienza che si pone come autocoscienza. Se in Husserl la domanda filosofica sul tempo si presenta come un’analisi fenomenologica della coscienza del tempo2, il punto di partenza dalla coscienza soggettiva del tempo va guadagnato in primo luogo dal punto di vista del metodo. Infatti, il tempo che noi comprendiamo già da sempre è innanzi tutto il tempo compreso a livello naturale, il “tempo oggettivo” che Husserl chiama anche «tempo reale» o «tempo mondano», e che noi, riferendoci ad Aristotele, abbiamo chiamato il tempo della natura3. Il tempo oggettivo è quello in cui è posta tutta la realtà mondana. Dal tempo oggettivo non è circondato solo tutto l’ente reale-cosale, che può diventare l’oggetto del soggetto conoscente, ma anche il soggetto che è posto all’interno del mondo, con la sua coscienza conoscente e vivente. In questo tempo reale unico, che comprende in sé tutto ciò che è oggettivo e soggettivo, trova la sua oggettiva durata, la sua oggettiva collocazione temporale, anche ogni vissuto della coscienza, quali la percezione o la rappresentazione. Questo tempo oggettivo non è il tema dell’analisi fenomenologica sul tempo. Infatti il tempo mondano è costituito nell’originaria coscienza soggettiva del tempo, e in quanto tempo oggettivo, reale, è determinato in conformità alla coscienza. Tuttavia, la coscienza soggettiva del tempo che costituisce il tempo oggettivo si tiene velata nell’atteggiamento naturale, il quale conosce solo il tempo oggettivo. Nel porre, costituendolo, il tempo reale, oggettivo, la stessa coscienza soggettiva del tempo, quella che costituisce originariamente il tempo, si nasconde. In questo auto-velarsi essa dimentica se stessa come il luogo dell’origine del tempo compreso oggettivamente.

Per poter fare della coscienza soggettiva del tempo, considerata nella sua essenza originaria come costituente il tempo, il tema dell’analisi fenomenologica, va anzitutto “neutralizzata” la posizione del tempo oggettivo. La «neutralizzazione del tempo oggettivo»4 significa che l’analisi fenomenologica non fa uso del tempo compreso come oggettivo. Il porrefuori-validità il tempo oggettivo fa sì che la coscienza comprendente il tempo, la quale – all’interno dell’atteggiamento naturale della coscienza – è posta essa stessa nel tempo oggettivo, venga liberata da questa posizione. Sciolta così dalla posizione del tempo reale del mondo, questa coscienza si dà nella sua pura immanenza soggettiva. “Pura” significa qui “purificata” dall’esser posta nel tempo oggettivo del mondo. Sulla base della pura coscienza soggettiva del tempo, guadagnata attraverso la neutralizzazione del tempo oggettivo, si può ormai domandare in senso fenomenologico come possa costituirsi l’«oggettività temporale» nella coscienza soggettiva del tempo5. La pura coscienza soggettiva del tempo sono i puri vissuti temporali soggettivi. L’analisi fenomenologica pone la domanda su questi vissuti temporali e sul loro contenuto fenomenologico descrivibile. Con la neutralizzazione metodologica del tempo oggettivo, io – in quanto filosofante – abbandono l’atteggiamento naturale e mi porto nell’atteggiamento filosofico, o meglio fenomenologico. È facile vedere come qui, nel metodo della neutralizzazione del tempo oggettivo posto come reale, si prepari quel metodo fondamentale che Husserl più tardi, con l’attuarsi della svolta trascendentale, denominerà epoché e riduzione fenomenologica6. L’“epoché” è il porre-fuori-validità la posizione naturale-ingenua dell’essere, la posizione del mero esser-presente-in-sé [Ansichvorhandensein], che riguarda anche il tempo oggettivo. La “riduzione” indica il ritorno dalla coscienza reale posta nella tesi generale della natura, alla vita della coscienza pura o trascendentale, purificata dalla posizione naturale dell’essere. Ciò che si mostra nell’atteggiamento fenomenologico che guarda alla pura coscienza soggettiva del tempo non è «il tempo mondano dell’esperienza», che è neutralizzato, ma «il tempo immanente del flusso della coscienza»7. La domanda filosofica sull’essenza del tempo si presenta per Husserl come domanda sull’«‘origine’ fenomenologica del tempo»8. La domanda fenomenologica sull’origine chiede come, nella coscienza

soggettiva del tempo, venga vissuto lo scaturire del tempo; in quali vissuti temporali originari siano vissuti l’ora, il non-più-ora e il non-ancora-ora; come si costituisca, in questi vissuti temporali originari, la durata temporale degli avvenimenti e degli oggetti. Il punto di partenza di questa analisi fenomenologica del tempo è costituito dalla «percezione di un oggetto temporale»9. L’oggetto del tempo o «oggetto temporale»10 è l’oggetto percepito nella percezione, che viene definito temporale perché nell’analisi fenomenologica della coscienza soggettiva del tempo si tratta di descrivere fenomenologicamente il modo in cui, nel corso della percezione, si costruisce la durata temporale dell’oggetto percepito. La percezione stessa è un rivolgersi percepente all’oggetto in essa percepito. L’oggetto percepito è quello che è inteso nel percepire. E il percepire, in quanto intendere [Intendieren] qualcosa come percepito, è una intentio: esso è dunque un percepire in senso intenzionale. Ciò a cui ci si rivolge nell’intentio percepente si chiama l’oggetto inteso o intenzionale. Lo stesso oggetto può anche essere inteso in altri vissuti intenzionali, per esempio nel ricordo. Nell’intenzione rammemorante esso è dato alla coscienza diversamente che nella percezione. Ogni modo di darsi dell’oggetto intenzionato, cioè inteso, nei vissuti intenzionali, dipende dal tipo di essenza dell’intenzione vissuta. Così, se l’intenzione percepente dà l’oggetto da essa inteso nello specifico modo di darsi dell’esser-presente-incarne-e-ossa, nel ricordo, invece, lo specifico modo di darsi dello stesso oggetto è determinato attraverso il mancare dell’esserci-in-carne-e-ossa. L’analisi fenomenologica della coscienza interna del tempo non domanda solo della temporalità dell’oggetto intenzionale della percezione, ma anche della temporalità del percepire intenzionale stesso. La percezione della durata dell’oggetto percepito include la durata del decorso percettivo. Nel tempo immanente della coscienza interna del tempo si forma tanto la durata del percepire quanto la durata del percepito. A proposito degli oggetti temporali, Husserl distingue tra quelli «trascendenti» e quelli «immanenti»11. Tuttavia questa distinzione non coincide con quella che abbiamo incontrato in Agostino, tra l’oggetto esterno e la sua riproduzione immanente allo spirito. Una tale separazione, che porterebbe in qualche modo a raddoppiare l’oggetto della conoscenza – vale a dire l’immagine interna conosciuta immediatamente e l’oggetto raffigurato e

propriamente inteso in questa immagine –, per Husserl non risulta più valida, proprio in base alla sua visione dell’essenza intenzionale di tutti i vissuti che colgono gli oggetti. Oggetti temporali trascendenti sono tutte le cose che si danno nello spazio. In quanto tali, essi sono gli oggetti intenzionali della percezione, e dunque ciò a cui siamo rivolti e riferiti nella percezione diretta, senza mediazione di qualche immagine rappresentativa interna. Oggetti temporali immanenti sono gli oggetti privi di materia spazialmente estesa, dunque non cose in senso stretto, bensì oggetti il cui essere si distende nella successione del tempo. Ad essi appartengono tutti gli oggetti percepibili acusticamente, come i suoni e le melodie. Come la casa, in qualità di oggetto temporale trascendente, anche il suono, in qualità di oggetto temporale immanente, è un oggetto intenzionale direttamente inteso nella percezione. La percezione del suono, ovvero la percezione della durata di un suono che risuona, serve ad Husserl come esempio privilegiato nella sua analisi della coscienza interna del tempo. Anche questa preferenza mostra la sua vicinanza alla ricerca agostiniana sul tempo. La domanda fenomenologica chiede: nel tempo che nasce nell’immanenza della coscienza, come si costituisce la durata temporale della mia percezione e la durata temporale del suono percepito nel decorso della percezione temporale? Prima di dedicarci a questa domanda sulla costituzione temporaleimmanente, dobbiamo mettere in evidenza due enormi differenze tra l’impostazione husserliana e quella agostiniana della domanda. L’operazione di Husserl, con la neutralizzazione del tempo oggettivo del mondo, propria dell’atteggiamento naturale, sembra corrispondere a ciò che in Agostino abbiamo caratterizzato come il percorso che risale dalla comprensione naturale del tempo, rivolta direttamente a quest’ultimo in quanto tale, sino agli atteggiamenti temporali. Questo percorso di ritorno diceva che il tempo – come presente, passato e futuro – dev’essere determinato e interrogato dalla prospettiva degli atteggiamenti temporali tematizzati, e cioè come presente percepito, passato ricordato, futuro atteso. E diceva anche che il tempo presente che passa dev’essere esaminato e colto in base a ciò che in esso è di volta in volta l’ora, il subito-dopo e il poco-fa, a partire dalle modalità tematizzate di comprensione proprie di questi modi del tempo. Ciò che, in riferimento ad Agostino, abbiamo indicato come ritorno agli atteggiamenti temporali, sarebbe per Husserl il ritorno dal tempo oggettivo alla pura

coscienza soggettiva del tempo e ai suoi vissuti temporali soggettivi. Certo, non si può negare che il ritorno agostiniano agli atteggiamenti temporali dello spirito che comprende il tempo abbia la tendenza a portare nella direzione husserliana del ritorno alla coscienza temporale soggettiva. Questa tendenza è anche quella che Husserl ha riconosciuto nel suo studio su Agostino, e che ha un grande significato per la sua stessa filosofia. Tuttavia, Agostino non è andato al di là di questa tendenza. Ciò che egli non ha visto è la differenza tra il tempo oggettivo e il tempo immanente con i puri vissuti temporali soggettivi, purificati cioè rispetto alla loro posizione all’interno del tempo oggettivo. Ciò che al contrario Agostino considera come flusso temporale nell’interiorità dello spirito comprendente il tempo, è proprio il tempo oggettivo, e precisamente il modo in cui esso viene compreso interiormente. Il tempo che fluisce, compreso interiormente, è anche il tempo del mondo reale esterno. Al di fuori dell’interiorità, il tempo che fluisce è per Agostino senza essere (presente del presente, presente del passato e presente del futuro) e senza essenza (estensione). Solo perché il tempo che abbraccia tutto l’essere creato è compreso nell’interiorità dell’anima e dei suoi atteggiamenti temporali, il presente, il passato e il futuro ottengono un proprio modo di essere e una loro propria estensione. Agostino presuppone il decorso oggettivo del tempo, per il quale ricerca, nel ritorno agli atteggiamenti temporali dell’anima, le condizioni soggettive di possibilità di un’intuizione del tempo che è e che si estende. Il tempo nel quale hanno luogo gli atteggiamenti temporali come il percepire o il ricordare, è il tempo oggettivo compreso interiormente. Agostino, quindi, non è stato così radicale da neutralizzare il tempo oggettivo e da purificare gli atteggiamenti temporali dell’anima rispetto al loro esser posti nel tempo oggettivo. Attuando metodologicamente una neutralizzazione intesa in senso radicale, Husserl rivela la pura coscienza soggettiva del tempo e il tempo immanente che in essa nasce e scorre. In questa direzione Husserl radicalizza l’impostazione della domanda agostiniana. Ma va aggiunto che una tale radicalizzazione è divenuta possibile solo dopo che Descartes ha fondato il punto di partenza di ogni filosofia nella coscienza certa di sé. La seconda differenza essenziale nell’impostazione della domanda di Husserl e di Agostino è già stata toccata quando abbiamo gettato un primo sguardo sulla costituzione intenzionale della percezione e di tutti gli altri

vissuti che colgono degli oggetti. Secondo Agostino, nella percezione io mi rivolgo alle immagini percettive immanenti al mio spirito, le quali, nella loro funzione riproduttiva, rimandano alle cose stesse (res ipsae) esterne allo spirito, e in questo senso trascendenti. Ancor di più, per Agostino, io mi riferisco alle immagini rappresentative interne, secondo le diverse modalità della rappresentazione. Così, nella rappresentazione diretta verso il presente, le immagini rappresentative rappresentano quelle cose che io presumo essere contemporaneamente presenti assieme a quelle che possono essere attualmente percepite in carne e ossa all’interno del mio campo percettivo. Nella rappresentazione diretta verso il passato, secondo Agostino, io sono rivolto alle immagini del ricordo, che rappresentano come il passato le cose che sono-state-percepite. Nella rappresentazione che si riferisce al futuro, le immagini dell’attesa rinviano, nella loro funzione rappresentativa, alle cose che saranno-percepite nel futuro. Una tale interpretazione del coglimento delle cose si riferisce a un determinato tipo di rappresentazione, chiamata rappresentazione figurativa o percezione dell’immagine, senza che però, mediante tale riferimento, si arrivi a interpretare la percezione dell’immagine, in quanto tale, nella sua genuina essenza intenzionale. Se invece ciò avvenisse, si arriverebbe a vedere che né la percezione né la rappresentazione possono essere interpretate sulla scorta della percezione dell’immagine. La teoria che crede di dover spiegare la relazione all’oggetto, propria dei vissuti-che-colgono-oggetti, con l’aiuto delle immagini conoscitive interne, viene chiamata da Husserl la «teoria delle immagini» [Bildertheorie]12. Come un’immagine percepita rimanda all’oggetto in essa riprodotto, ma non presente in carne e ossa, così analogamente le immagini conoscitive interne devono rimandare agli oggetti esterni stessi, cioè al presente esterno, al passato esterno e al futuro esterno. Questa spiegazione teoretico-raffigurativa della relazione all’oggetto nei vissuti che colgono oggetti, è definita da Husserl «assurda»13. Essa è assurda perché in contrasto con il senso del riferimento percepente, rammemorante e attendente all’oggetto rispettivamente percepito, ricordato e atteso. Questi vissuti che colgono oggetti devono invece essere interpretati a partire da se stessi. L’analisi fenomenologica si pone sotto la massima «Alle cose stesse», cioè lontano da teorie che non siano attinte dall’interpretazione primaria delle

cose stesse. La teoria delle immagini non è attinta dalle cose stesse, ovvero dai vissuti stessi, bensì è una teoria che approccia le cose dal di fuori, e che altera le cose stesse e i vissuti nella loro propria essenza. Giungere ai vissuti stessi, in modo che essi possano mostrarsi per come sono in sé stessi, significa seguire, interpretandolo, il senso della loro peculiare direzionalità. Nella percezione, nel ricordo e nell’attesa, io sono rivolto – in un modo di volta in volta specifico – al presente percepito, al passato ricordato e al futuro atteso. Se io, guardando fenomenologicamente, seguo solo il senso della loro direzionalità, non mi si mostrano immagini rappresentative interiori. Piuttosto, il senso intenzionale della direzione di questi vissuti o atti mi fa capire che in essi io colgo direttamente e immediatamente l’oggetto inteso percependo, ricordando e attendendo. Gli oggetti trascendenti, come le cose presenti nello spazio, sono essi stessi gli oggetti intenzionali immediati di quei vissuti intenzionali. Essi non sono trascendenti nel senso che – come per Agostino – si trovano al di fuori della coscienza e dell’immanenza dello spirito, in modo tale che tra l’immanenza dello spirito che coglie l’oggetto e la trascendenza dell’oggetto da cogliere vi sia un divario da colmare attraverso delle immagini conoscitive immanenti e il loro rinviare riproduttivo. Gli oggetti esterni, spazio-temporali-materiali, sono intesi e colti immediatamente nelle intenzioni della coscienza. In quanto tali, essi solo sono gli oggetti intenzionali di quei vissuti. In quanto oggetti intenzionali, essi sono trascendenti rispetto alla reale immanenza dei vissuti o atti. Essi non sono lo stesso contenuto degli atti, bensì sono distinti da questi ultimi; ma in quanto distinti, sono tuttavia direttamente intesi e colti da quegli atti. In quanto oggetti intesi nelle intenzioni degli atti, hanno il modo di essere proprio della realtà mondana. Essi mantengono il loro modo di essere quando vengono intenzionati negli atti della coscienza. Anche in quanto colti dai vissuti della coscienza, essi non acquisiscono il modo di essere della coscienza, ma rimangono distinti, nel loro modo di essere tipico della realtà, dal modo di essere della coscienza. Mediante la visione fenomenologica della vera e genuina intenzionalità di tutti i vissuti, di tutti gli atteggiamenti, si vede al tempo stesso l’insostenibilità della distinzione tra un interno e un esterno della coscienza (dello spirito, dell’anima). La pura coscienza soggettiva del tempo, che Husserl guadagna con la neutralizzazione metodologica del tempo oggettivo, non equivale perciò a quella che per Agostino è l’immanenza dello spirito che comprende il tempo.

Poiché ad essa, nonostante il suo ritorno ai diversi atteggiamenti temporali, manca la vera costituzione intenzionale degli atteggiamenti temporali, l’immanenza dello spirito è separata da ciò che per Husserl sono i veri oggetti intenzionali. Se le immagini della percezione, del ricordo e dell’attesa non sono provate come strutture fondamentali dei vissuti, ciò significa che al presente percepito, al passato ricordato e al futuro atteso spetta l’essere e l’estensione non solo sulla base della formazione delle immagini rappresentative interne. Percezione, ricordo e attesa sono, sulla base della loro essenza intenzionale, atti che guardano senza mediazioni, nei quali cioè l’oggetto intenzionato viene guardato, con la sua durata temporale, come dato-da-sé-stesso [selbstgegeben]. Nella percezione che rende presente, l’oggetto percepito non è dato da sé solo in generale, ma in una maniera particolare. Il suo darsi-da-sé ha infatti il carattere del presente in carne e ossa. La presenza in carne e ossa è per Husserl il modo particolare dell’auto-datità. Il criterio per questa caratterizzazione è la più grande quantità possibile di intuizioni, che in quanto tale è legata al darsi in carne e ossa. Questa grande quantità di intuizioni, in cui è dato lo stesso oggetto percepito, non può mai dare il suo oggetto in modo rappresentativo. Se ora facciamo attenzione al fatto che nella percezione noi non guardiamo solo in generale il dato in carne e ossa, ma che questo dato in carne e ossa, dal punto di vista temporale, è presente nella sua durata, allora ciò significa che nella percezione noi guardiamo immediatamente il presente e la durata presente dell’oggetto percepito – e non, come per Agostino, solo le immagini percettive immanenti. Nella percezione noi guardiamo non solo lo stesso dato in carne e ossa senza immagini che facciano da mediatrici, ma anche la temporalità del percepito, la sua durata temporale. La comprensione del tempo come comprensione del presente non è per Husserl un comprendere il presente in immagini immanenti, ma un comprendere la stessa durata oggettiva percepita. Nel mio vissuto temporale come vissuto di presente, io non resto nell’interiorità chiusa in se stessa del mio spirito rivolto alle immagini rappresentative. Nel mio vissuto temporale che comprende il presente io sono rivolto intenzionalmente all’oggetto percepito nella sua durata oggettiva. Lo stesso vale anche per il ricordo del passato e per l’attesa del futuro. Il ricordo è un tipo di rappresentazione. Anche in esso io sono rivolto

direttamente, dunque senza immagini interiori, all’oggetto che è stato percepito. Anche la rappresentazione consistente nel ricordare è un atto che consiste nel guardare senza mediazioni. In essa l’oggetto percepito nel passato vicino o lontano è rappresentato e in quanto tale dato da sé stesso come ciò che è-stato-percepito, da sé stesso e non mediato attraverso un’immagine interiore. Tuttavia, il darsi dell’esser-stato-percepito, del ricordato, è caratterizzato dal mancare della presenza in carne e ossa. Darsi in carne e ossa e darsi-da-sé non sono la stessa cosa. Certamente il darsi in carne e ossa di qualcosa è anche il darsi-da-sé. Ma, di contro, non ogni darsida-sé implica anche il darsi in carne e ossa. Un oggetto non è dato da sé solo per il fatto che è anche dato in carne e ossa. Il permanere della presenza in carne e ossa in tutti i tipi di rappresentazione induce facilmente all’ipotesi di immagini rappresentative interiori. In questi casi sfugge il fatto che il senso della direzionalità, ad esempio, della rappresentazione rammemorante, fa capire che anche rappresentandomi ciò che è stato, io guardo a questo stesso come al passato. Nel ricordo io guardo direttamente il tempo come passato. È in esso che io colgo direttamente la durata dell’oggetto che è-stato-percepito, e non, come in Agostino, nelle immagini immanenti del ricordo. Anche l’attesa è, in quanto rappresentazione riferita al futuro, un atto consistente nel guardare senza mediazioni, in cui ciò che è atteso, l’oggetto che sarà-percepito, è dato da sé in questo modo del suo essere intenzionato. L’oggetto in quanto atteso, in quanto ciò che sarà-percepito in futuro, è dato nell’attesa stessa e non attraverso immagini interiori dell’attesa. Anche il darsi-da-sé dell’atteso è caratterizzato dal mancare-ancora della presenza in carne e ossa. Tuttavia, la mancanza di presenza in carne e ossa non è anche mancanza del darsi-da-sé. Nell’attesa io non guardo solo all’oggetto stesso che sarà percepito in futuro, ma guardo anche alla sua stessa temporalità, al suo stesso esser-futuro, alla sua stessa durata futura. Nell’attesa io guardo alla temporalità stessa dell’oggetto atteso, e non, come in Agostino, solo all’immagine immanente dell’attesa, che è separata dall’oggetto che sarà percepito. Sino ad ora si è parlato della vera intenzionalità degli atti autonomi della percezione, del ricordo e dell’attesa. Ma in Agostino noi abbiamo incontrato anche gli atteggiamenti temporali non autonomi, bensì originari, che dal canto loro formano gli atteggiamenti temporali autonomi nella loro temporalità: il comprendere nell’attenzione l’ora di volta in volta presente, in

unità con il comprendere, tenendolo anticipatamente, il subito-dopo-ora, e con il comprendere, trattenendolo, ciò che è-stato-poco-fa. Vedremo che Husserl attribuisce proprio a questa scoperta di Agostino – cioè alla scoperta dei modi originari di essere della coscienza, costituenti il tempo, come Husserl li chiamerà – la massima importanza. Agostino spiega questi atteggiamenti temporali originari, esattamente come gli atteggiamenti autonomi, con l’aiuto di immagini interiori. Attraverso il chiarimento fenomenologico dell’intenzionalità, Husserl libererà anche questi modi originari di essere della coscienza, costituenti il tempo, dalla loro interpretazione teoretico-raffigurativa e porterà alla luce la loro genuina essenza intenzionale.

2. La durata degli oggetti temporali costituentesi nel flusso temporale immanente della pura coscienza soggettiva e la coscienza dei modi di apparire temporale di oggetti temporali identici. Impressione originaria e ritenzione (ricordo primario) La neutralizzazione del tempo oggettivo conduce a guadagnare l’immanenza della coscienza del tempo colta in modo puramente intenzionale14. Ciò costituisce ora il terreno su cui s’impianta la descrizione fenomenologica della temporalità della percezione di un suono come oggetto temporale immanente. Qui si delineano due differenti direzioni della descrizione: 1. La coscienza percettiva del suono che dura; 2. La coscienza percettiva dei diversi modi di apparire temporale della stessa identica durata del suono. Nella prima direzione, io descrivo ciò che è dato per me nella percezione del suono: che il suono inizia ora; che ancora dura; che una parte della sua durata è già passata; che ogni singolo ora del suono che dura ricade continuamente nel non-più-ora, nel passato; che con il fluire della fase di ciascun ora attualmente presente emerge un nuova fase attuale di ora; che la durata del suono finisce ora; che la durata passata si allontana dall’ora attuale, il quale da parte sua non appartiene più alla durata del suono; che questa lontananza aumenta con il continuo fluire di fasi sempre nuove dell’ora che non sono più riempite da un contenuto sonoro, ma da qualche altra cosa percepita da me; che la durata percepita del suono alla fine sprofonda nell’oscurità del passato.

La seconda direzione della descrizione guarda a quei modi della coscienza in cui diventano consapevoli le differenze di apparizione del suono e della sua durata, di cui aveva parlato la prima direzione della descrizione. Nella descrizione fenomenologica, infatti, io non guardo solo a ciò che è dato come suono e durata del suono, ma a come esso è dato per me nella coscienza. La stessa durata del suono è data nella coscienza in un flusso continuo di diversi modi di apparire. Nella coscienza del suono iniziato, il primo istante della durata del suono è ciò di cui sono cosciente nel modo dell’ora, la coscienza-di-ora, il vissutoora del suono che adesso sta iniziando. La coscienza-di-ora del suono non rimane tuttavia confinata al singolo ora del suo inizio. Il suono è ciò di cui sono cosciente come dato-ora, finché una qualunque delle sue fasi è data ora nella coscienza. La mia coscienza attuale del suono è la coscienza dell’ora sempre nuova e attuale di esso. Fino a che, nella durata del suono, una fase dell’ora è attualmente ora, vale a dire, fino a che la durata del suono continua a costituirsi attualmente di ora in ora, io sono cosciente di un continuum di fasi nella durata-del-suono come “poco prima”. La durata del suono sentita finora – dall’ora dell’inizio fino all’ora di volta in volta attuale – è ciò di cui sono cosciente come durata trascorsa. E il tratto di suono ancora mancante, o non è ancora dato alla coscienza, oppure lo è già, ma come ciò che ancora manca, come ciò che sopraggiungerà subito-dopo. Dopo che l’ultimo ora della durata del suono si è trasformato in non-piùora, l’intera durata è data nella coscienza come trascorsa. In questa coscienza della durata del suono ormai trascorsa, quest’ultima costituisce una lunghezza temporale di cui sono ancora cosciente, appunto come durata del suono che è già-stata. Questo aver-ancora-nella-coscienza ciò che non è più sentito o percepito attualmente, è un trattenere nella coscienza, un ritenere ciò che sta per sprofondare nell’oscurità del passato. Questo ritenere che trattiene ciò che è passato dall’ora attuale al non-più-ora, e che abbiamo già incontrato nel tenere di cui parla Agostino, è chiamato da Husserl la ritenzione [Retention]. Ad ogni coscienza dell’ora attuale appartiene anche la coscienza ritenzionale di ciò che è-stato-poco-fa. Quando il suono ha finito la sua durata, di esso io sono cosciente nella ritenzione, per così dire, come se fosse qualcosa di “morto”. Fino a che, nella durata del suono, una fase dell’ora continua ad essere attualmente ora, la durata del suono si mostra come qualcosa di vivo, che si produce e si costruisce. Ogni nuovo ora di volta in volta attuale nella

durata del suono è un suo punto di produzione, a partire dal quale essa si costruisce continuamente. Ma in quanto la durata del suono non può prodursi ulteriormente, essa è ancora data alla coscienza solo in senso ritenzionale, in maniera tale da modificarsi costantemente nel suo continuo ricadere nell’oscurità del passato. La modificazione riguarda il modo in cui la durata trascorsa del suono, nella sua sempre maggiore distanza da ogni nuovo ora attuale, mi appare nella coscienza. Il suono, assieme alla sua durata già conclusa, rimane lo stesso. È invece sempre diverso il modo in cui esso mi appare e mi è dato ancora adesso nella coscienza ritenzionale. Fino a che il suono dura, noi parliamo della percezione del suono15. La durata del suono è percepita finché si protrae una fase della sua durata in ciascun ora di volta in volta attuale. Tuttavia, intendendo la percezione in senso stretto, ciò che è percepito è sempre e solo la fase della durata del suono di volta in volta attuale, cioè data nell’ora attuale. Sulla base del fatto che ogni fase della durata del suono è attualmente percepita ora, noi possiamo dire, in riferimento alla durata del suono nel suo insieme, che essa viene percepita, sebbene il tratto della durata del suono che è già trascorso non sia più percepito in senso stretto. Ciò che Husserl indica come percezione in senso stretto, ovvero come percezione di ciò che è dato attualmente proprio ora, era espresso da Agostino con i concetti di praesens intentio o di attentio. Ma non è solo la durata trascorsa del suono ad essere una lunghezza temporale ancora data alla coscienza in modo ritenzionale: anche ciò che è già passato durante il trascorrere della durata è ugualmente dato alla coscienza nelle sue ritenzioni. Quelle fasi della durata del suono che sono le più vicine all’ora attuale della durata del suono sono date alla coscienza più chiaramente delle fasi più lontane, che hanno avuto luogo molto tempo prima. La maggiore o minore chiarezza riguarda le differenze nell’intensità dell’intuizione. Quanto più le fasi della durata del suono, o meglio la durata trascorsa del suono è ricaduta interamente nel passato immanente, tanto più la coscienza ritenzionale di ciò che è-stato diventa povera di intuizione. Prima che la coscienza ritenzionale della durata trascorsa svanisca completamente, essa è una coscienza ritenzionale vuota, priva di intuizioni. Ciò che caratterizza la coscienza ritenzionale di ciò che è stato-poco-fa è il fatto che essa si distingue nettamente nella sua chiarezza, mentre con l’aumentare della distanza temporale dall’ora attuale diventa sfumata e

indistinta. Questo fenomeno all’interno della coscienza ritenzionale del passato viene chiamato da Husserl la prospetticità temporale [zeitliche Perspektivität]. Nella coscienza ritenzionale del passato, si modifica continuamente la prospettiva temporale nella quale è dato, o meglio appare, il passato ritenzionale di cui siamo coscienti. Le differenti modalità in cui un oggetto temporale come il suono appare da sé nella mia coscienza percettiva, queste modalità dell’apparire temporale, sono chiamate da Husserl anche i modi del decorso [Ablaufsmodi]16. Ogni essere temporale, ogni oggetto temporale appare in una modalità di svolgimento che si trasforma continuamente nel fluire del tempo immanente. Certo, il suono resta sempre lo stesso nella sua durata; ma questa stessa durata è sempre diversa in ciascuno dei modi del suo decorso. La mia coscienza percettiva si riferisce di volta in volta al suono stesso, attraverso il suo rispettivo modo di decorso, nel quale un suono viene dato nel suo come temporale. La durata del suono scorre. In ciascuna fase dell’ora, nella durata del suono che scorre, quest’ultima è data in un modalità diversa. Ciascun nuovo modo del decorso è esso stessa una continuità, e precisamente nella misura in cui, ad ogni nuovo ora del suono, non solo l’ora del suono immediatamente precedente si trasforma nel non-più, ma con questo anche l’intero continuum del tratto della durata del suono già trascorsa si modifica, cioè cambia in senso ritenzionale. Ma se, con ciascun nuovo ora del suono, la durata del suono finora trascorsa cambia nel suo insieme, in modo tale da esser data alla coscienza in senso ritenzionale, ciò significa che in ciascun nuovo ora del suono, la durata del suono nel suo insieme è data alla coscienza in una nuova modalità di decorso. La coscienza dell’ora attuale è chiamata da Husserl anche impressione originaria [Urimpression]17, che corrisponde poi a ciò che in Agostino è la praesens intentio o attentio. Husserl la spiega come il punto di origine [Quellpunkt] da cui scaturisce ciascun ora attuale con il suo contenuto, con il suo attuale esser-ora. L’impressione originaria dell’ora attuale del suono è colta in costante cambiamento. Infatti l’ora del suono in carne e ossa – come anche Husserl chiama l’ora del suono che è presente nella coscienza sotto forma di impressione originaria – si trasforma costantemente nel non-più-ora di cui sono cosciente, in senso ritenzionale, come ciò che è-stato-poco-fa. All’impressione originaria trasformata in senso ritenzionale segue

costantemente una nuova impressione originaria. È importante capire correttamente cosa Husserl intenda quando dice che, quando la coscienza dell’ora-del-suono, l’impressione originaria, diventa ritenzione, questa ritenzione stessa è di nuovo un ora. Nella ritenzione c’è da distinguere la ritenzione stessa come coscienza ritenzionale di… e ciò di cui si ha coscienza in senso ritenzionale. Questa è la sua intenzionalità, nella sua differenza tra intentio e intentum. Come ritenzione di… essa è attuale e appartiene all’ora dell’impressione originaria. Nella coscienza attuale dell’ora c’è contemporaneamente la coscienza come impressione originaria e la coscienza ritenzionale. Mentre nell’impressione originaria c’è l’ora attuale della durata del suono, nella coscienza ritenzionale attuale c’è il suono appena-stato. L’impressione originaria è coscienza dell’ora del suono in carne e ossa. La coscienza ritenzionale, che appartiene alla stessa coscienza-di-ora, è ritenzione del suono appena-stato. Ciò di cui sono cosciente in maniera ritenzionale è passato, ma la ritenzione stessa è in ogni ora. La ritenzione appartiene all’ora attuale della coscienza. Poiché ciascun ora attuale si trasforma nel non-più-ora, esso, nel passaggio dell’ora della ritenzione attuale nel non-più-ora, passa nella ritenzione della ritenzione precedente. La ritenzione, che ora è ritenzione della ritenzione precedente, è di nuovo ritenzione attuale. Con essa accade la stessa cosa accaduta con la ritenzione precedente. La ritenzione forma così un continuum. Ogni nuovo punto-ora attuale è ritenzione non solo per la ritenzione immediatamente precedente, ma per l’intero continuum delle ritenzioni. L’impressione originaria della durata che scorre passa continuamente in una coscienza ritenzionale sempre nuova e viene sostituita da un’impressione originaria sempre nuova. Ogni nuova coscienza ritenzionale, che nasce dal passaggio dell’impressione originaria nella ritenzione, non è solo una modificazione dell’impressione originaria, ma modifica tutte le precedenti modificazioni ritenzionali, nella misura in cui esse appartengono al punto d’attacco della durata del suono. Abbiamo già spiegato che, dopo la fine della durata del suono che si produce attualmente, la coscienza ritenzionale del suono passato è ancora viva per un tratto di tempo, e con un’attenuata intensità delle intuizioni. La ritenzione che si associa continuamente alla coscienza percettiva già conclusa, viene chiamata da Husserl ricordo primario [primäre Erinnerung]. L’aver-coscienza ritenzionale del passato che si forma con il passare dell’ora è, in quanto tener vivo, ricordo primario a differenza del ricordo secondario,

che Husserl denomina rimemorazione [Wiedererinnerung] o retrorappresentazione [Rückveregegenwärtigung]. Quando Agostino, nei capitoli 27 e 28 dell’XI libro delle Confessioni, parla di meminisse e della memoria nel senso del ricordo, si tratta del ricordo primario e non di quello secondario. Fino a che la durata del suono si svolge ancora in una fase attuale dell’ora, quest’ultima costituisce, come dice Husserl, il nucleo di una coda di cometa di ritenzioni, che sono riferite alle fasi passate della durata del suono. All’ultima fase percettiva della durata del suono si associa una prima fase di ricordo primario o ritenzione della durata passata, a questa ancora un’altra, e così via. Ogni nuova fase di ricordo primario, o come Husserl dice, fresco, sospinge sempre più profondamente nel passato la durata passata di cui si ha coscienza in modo ritenzionale. Con ogni successiva spinta nel passato, ha luogo una nuova modificazione ritenzionale, finché la coscienza ritenzionale svanisce. In questo contesto, Husserl nota come il campo temporale originario sia sempre delimitato. Il campo temporale originario è il presente di cui si è coscienti nell’impressione originaria, con il suo passaggio nel passato di cui si è coscienti in modo ritenzionale. La delimitazione del campo temporale significa che questo ha sempre la stessa estensione, che il passato tenuto nella coscienza in modo ritenzionale ha la stessa estensione limitata. L’impressione originaria, la coscienza di ciascun ora attuale, è spiegata da Husserl come l’inizio assoluto [absoluten Anfang]18, come la fonte originaria da cui si producono le modificazioni ritenzionali. Queste modificazioni, le variazioni ritenzionali, in quanto realizzazioni della coscienza, sono delle produzioni conformi alla coscienza. Al contrario, l’impressione originaria non viene prodotta dalla coscienza. L’impressione originaria dell’ora attuale non nasce, come la ritenzione, come un prodotto della coscienza. Essa nasce piuttosto attraverso una genesis spontanea, come dice Husserl. Essa è generazione originaria, creazione originaria, che non cresce da un germe come la ritenzione, la quale nasce dall’impressione originaria. La produzione della coscienza è solo la variazione ritenzionale che si attua di volta in volta. L’ora che scaturisce di volta in volta dall’impressione originaria non è qualcosa di prodotto dalla coscienza, ma è il prodotto originario, ciò che è ogni volta nuovo, ciò che è divenuto estraneo alla coscienza, ciò che è ricevuto dalla coscienza nell’impressione originaria. Al contrario, ogni

modificazione ritenzionale è qualcosa che è prodotto attraverso la spontaneità della coscienza. La spontaneità della coscienza è finita. Essa, infatti, è capace solo di far sviluppare il prodotto originario tramite la variazione ritenzionale. Ma non è capace di creare qualcosa di nuovo, come l’ora dell’impressione originaria. La modificazione ritenzionale, in quanto spontaneità della coscienza, è una spontaneità originaria. Per Husserl è una legge a priori19 il fatto che il ricordo primario, dunque la ritenzione, sia possibile solo come ciò che si associa continuamente alla precedente sensazione o impressione originaria. A ciò si aggiunge il fatto che ogni fase dell’ora dell’impressione originaria è pensabile solo come fase, cioè come limite di un continuum di ritenzioni. Poiché con ogni nuovo ora, che va pensato solo come fase dell’ora, è data una nuova ritenzione, anche questa è pensabile solo come fase, senza la possibilità di una estensione. Poiché ogni nuova ritenzione modifica radicalmente il continuum di ritenzioni finora costituito, anche la serie di ritenzioni che appartengono ad un ora attuale è presente nella coscienza solo come una fase che varia continuamente con ogni nuova modificazione ritenzionale. Nel § 13 delle sue Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo, Husserl respinge espressamente l’interpretazione teoreticoraffigurativa del ricordo primario così come l’abbiamo vista in Agostino. Sarebbe profondamente sbagliato ritenere che l’essenza del ricordo primario consista nell’ammettere un’immagine presente nell’ora al posto di un’altra cosa ad essa simile, che non è più presente. La ritenzione, per quel che riguarda la sua essenza intenzionale, è qualcosa di totalmente altro rispetto alla coscienza di immagini [Bildbewußtsein]. Nella percezione e nella sua impressione originaria io vedo l’essere-ora. Nella percezione estesa, come nella percezione del suono, io vedo l’oggetto che dura da ora a ora, e anche nel ricordo primario, nella ritenzione, io vedo il passato. Il passato come ciò che è-stato-poco-fa, è dato nella stessa coscienza ritenzionale. Il ricordo primario è perciò l’auto-datità del passato.

3. La temporalità del ricordo secondario, della percezione e dell’attesa secondaria. L’attesa primaria come protenzione Con ricordo secondario20 Husserl intende ciò che noi di solito chiamiamo il ricordo, la rimemorazione. La differenza essenziale tra il ricordo secondario

e quello primario (ritenzione) la si vede facilmente quando si osserva che il ricordo primario appartiene al passato, nel senso di ciò che si è svolto-pocofa, come la coda della cometa della percezione che si svolge o si è svolta a partire da un’impressione originaria, e che riguarda la durata del suono che attualmente si forma; la rimemorazione, invece, non rientra nella costruzione del decorso percettivo. Il ricordo primario è una coscienza non autonoma, ma originaria e costituente il tempo, al contrario del ricordo secondario, che è un atto autonomo della coscienza. La rimemorazione si chiama ricordo secondario perché essa stessa diviene possibile solo sulla base del ricordo primario. Infatti, il passato originariamente costituitosi nel continuum delle fasi del ricordo primario, che sprofonda nell’oscurità della distanza temporale della coscienza, può essere rischiarato e rappresentato tramite un atto autonomo di rimemorazione. L’autonomia dell’atto di rimemorazione si mostra nel fatto che esso è costituito in maniera analoga alla percezione. Come esempio scegliamo la rappresentazione di una melodia percepita, ovvero udita. Il decorso temporale della rimemorazione, al pari del decorso della percezione, mostra come suo punto privilegiato la fase attuale dell’ora. Come la percezione inizia in un ora attuale, che si rinnova continuamente, così anche la rimemorazione incomincia in un ora attuale che si rinnova costantemente. Nel decorso del ricordo secondario io rappresento, di ora in ora, la melodia percepita fase per fase. Io sento ora, per così dire, la prima nota, poi sento la seconda nota della melodia. In ogni ora attuale del ricordo, l’ora della nota percepita precedentemente (che appartiene al passato) è rappresentato, per così dire, come un ora. Come gli ora della percezione fluiti nel non-più rimangono modificati e coscienti in senso ritenzionale, così, anche nella costituzione temporale del decorso della rimemorazione, la ritenzione si associa all’ora attuale. Nella rimemorazione, le note che appartenevano per così dire all’ora (dunque le note rappresentate), vengono modificate e trattenute in senso ritenzionale. Noi abbiamo allora, all’interno della rimemorazione, il ricordo primario delle note udite, per così dire, pocofa. Ma all’ora attuale della rimemorazione appartiene, oltre al continuum trattenuto in senso ritenzionale, anche l’attesa primaria, la coscienza protenzionale delle note che ancora mancano della melodia, e che io sentirò, per così dire, subito-dopo. La protenzione è quella coscienza non autonoma, ma originaria e costitutiva del tempo, in cui io guardo in anticipo il non-

ancora-ora come il subito-dopo. Nella nostra interpretazione di Agostino ci siamo imbattuti in questo fenomeno (nei capitoli 27 e 28 del X libro delle Confessioni), che Agostino designa, proprio come l’atto autonomo dell’attesa, col termine di expectatio. Come l’atto autonomo del ricordo secondario è possibile solo sul terreno della coscienza ritenzionale del passato, così anche l’atto autonomo dell’attesa è possibile solo sulla base della coscienza protenzionale del futuro. Perciò Husserl chiama quest’ultima anche attesa primaria21, per distinguerla dall’attesa secondaria. Anche il punto-ora, o ciascuna fase di volta in volta attuale dell’ora nel decorso rammemorativo, ha un alone temporale, il quale, da un lato, si distende nel continuum del passato delle note della melodia già, per così dire, udite e di cui si è coscienti in senso ritenzionale; e dall’altro lato, si distende nel continuum del futuro delle note che saranno, per così dire, udite subitodopo, e di cui si è coscienti in senso protenzionale. In questo distendersi della coscienza originaria costituente la temporalità in un campo temporale, o meglio in un alone temporale, si mostra di nuovo la vicinanza di Husserl a ciò che Agostino chiama la distentio animi. Alla formazione parallela della rimemorazione appartiene anche il fatto che, una volta cessato l’ascolto presentificante della melodia precedentemente percepita, a quel quasi-ascolto si associa un continuum ritenzionale. Tuttavia, la somiglianza che si riscontra tra la costituzione della rimemorazione e quella della percezione non impedisce di coglierne le differenze essenziali. Nella percezione la durata del suono è percepita in carne e ossa: il presente in essa ogni volta attuale è percepito in carne e ossa, e il passato che si costituisce nella modificazione ritenzionale dell’ora in ciò che è stato-poco-fa è dato in carne e ossa. Al contrario, nel ricordo secondario, il presente della melodia precedentemente percepita non è dato in carne e ossa, bensì come rappresentato. Allo stesso modo, nel ricordo secondario, il passato di ciò che è stato udito, e di cui si è coscienti in senso ritenzionale, non è più dato, come nella percezione, in carne e ossa, ma è dato come passato rappresentato. Esso non è più un passato dato primariamente e primariamente guardato nella coscienza ritenzionale, ma è un passato dato e guardato secondariamente, dunque un passato rappresentato.

Per altro verso, il presente e il passato primario rappresentati nella rimemorazione devono essere distinti dalla temporalità attuale del rimemorare stesso. Qui si tratta di un presente dato in carne e ossa, di un ora dato in carne e ossa e di un passato – il continuum dei non-più-ora del mio ricordo che attualmente trascorre – dato in carne e ossa nella coscienza ritenzionale. L’atto percettivo significa in Husserl rendere-presente [Gegenwärtigung]22, poiché in esso ciò che è intenzionato attraverso la percezione è presente in carne e ossa. Un tale atto percettivo è costituito dalla coscienza dell’impressione originaria, della ritenzione e della protenzione. L’oggetto temporale percepito, nel senso ampio di percezione, non solo è presente nel senso stretto dell’ora, ma racchiude anche delle differenze temporali: il passato di cui si è coscienti in senso ritenzionale come ciò che è stato-poco-fa, e il futuro di cui si è coscienti in senso protenzionale, come il subito-dopo. Le differenze temporali nel darsi dell’oggetto temporale percepito si costituiscono in quei momenti non autonomi e costituenti il tempo che sono gli atti dell’impressione originaria, della ritenzione e della protensione. Tuttavia l’atto percettivo non è solo percezione in riferimento a ciascun ora attuale: esso si può chiamare così anche perché per suo tramite noi percepiamo il passato di cui siamo coscienti in senso ritenzionale, e precisamente non come un ora, ma come un passato che si sta costituendo23. Noi percepiamo, dice Husserl, il passare dell’ora dell’impressione originaria nel non-più-ora ritenzionale. Nella coscienza ritenzionale noi siamo direttamente presso ciò che è stato-poco-fa, passato poco-fa, e che è dato in carne e ossa. Impressione originaria, ritenzione e protenzione sono perciò momenti di atti che costituiscono il tempo, poiché costituiscono il tempo immanente come il presente dell’impressione originaria, come il passato ritenzionale e come il futuro protenzionale. Solo nel ricordo primario si costituisce il passato, e noi vediamo qualcosa di passato. Il ricordo primario costituisce il passato presentativamente, così come l’impressione originaria dà il presente presentativamente. Solo nel ricordo primario noi guardiamo direttamente il passato che si costituisce come ciò che è stato-prima e ciò che è stato poco-fa, a differenza di ciò che è ora. Come la percezione-dell’ora porta l’ora ad esser

visto intuitivamente in carne e ossa, così il ricordo primario porta il passato ad esser visto intuitivamente in carne e ossa. Al contrario, il ricordo secondario è solo rappresentazione. E precisamente esso rappresenta il passato in modo tale che sia dato esso stesso e non solo una sua immagine. Ma in quanto rap-presentazione esso non presenta il passato come il ricordo primario, ma lo rap-presenta. Il ricordo secondario non porta il passato ad esser visto in carne e ossa, poiché esso semplicemente rap-presenta il passato già portato ad esser visto in carne e ossa nella precedente ritenzione. Ciò che vale per il ricordo secondario, vale anche per l’atto dell’attesa, come attesa secondaria24. Anch’esso si costruisce fondamentalmente allo stesso modo di una percezione. Come il ricordo secondario è la coscienza di ciò che è stato-percepito, così l’attesa secondaria è, per così dire, ricordo capovolto, coscienza di ciò-che-sarà-percepito. Nell’attesa secondaria io rappresento una percezione futura. Come la coscienza ritenzionale e primaria del ricordo tiene aperto l’orizzonte del passato per il ricordo secondario che poi lo rappresenta così anche la coscienza protenzionale e primaria dell’attesa tiene aperto l’orizzonte del futuro per una possibile attesa secondaria rappresentante. L’intenzionalità di un tale atto di attesa si può interpretare appropriatamente solo se io mi sposto in un tale atto di rappresentazione e descrivo in esso la mia vita intenzionale. In ogni ora attuale del mio atto di attesa che si svolge nel presente, io rappresento un non-ancora-ora dell’oggetto temporale che in futuro sarà percepito. Ogni ora rappresentato anticipatamente viene modificato in senso ritenzionale in ciò che è stato rappresentato anticipatamente poco-fa. Quando la melodia attesa si è svolta nella rappresentazione anticipante, nell’attesa segue una coscienza ritenzionale della melodia che, per così dire, è già stata udita. Si tratta allora di un passato atteso secondariamente, presente nella coscienza in modo ritenzionale. Lo sguardo con cui abbiamo attraversato le analisi fenomenologiche husserliane sulla coscienza soggettiva o interna del tempo è stato esercitato entro i confini tracciati dalla ricerca agostiniana sul tempo. Esso dovrebbe mostrarci come Husserl riprenda il fenomeno della comprensione del tempo visto per la prima volta nell’approccio di Agostino, e in modo particolare la

differenza essenziale tra gli atteggiamenti temporali autonomi e quelli non autonomi, e li rielabori, dal punto di vista del metodo e dell’oggetto, in maniera più radicale e differenziata. Fondamentalmente si può dire che le analisi fenomenologiche di Husserl sulla coscienza interna del tempo si muovono su quel terreno che Agostino ha dissodato per la prima volta nella storia del problema filosofico del tempo e che ha reso fertile per il domandare filosofico sul tempo. 1

Husserl, Vorlesung zur Phänomenologie cit. Sulle analisi fenomenologiche di Husserl sulla coscienza interna del tempo, cfr. Eigler, Metaphysische Voraussetzungen cit., soprattutto pp. 49-115. – K. Held, Lebendige Gegenwart. Die Frage nach der Seinsweise des transzendentalen Ich bei Edmund Husserl, entwickelt am Leitfaden der Zeitproblematik, Martinus Nijhoff, Den Haag 1966 («Phaenomenologica» 23). – Id., Einleitung, in E. Husserl, Phänomenologie der Lebenswelt. Ausgewählte Texte II, hrsg. v. K. Held, Reclam, Stuttgart 1986, pp. 5-53, in part. pp. 23 ss. – F.-W. v. Herrmann, Bewußtsein, Zeit und Weltverständnis, Klostermann, Frankfurt a.M. 1971, §§ 14-16. – E. Ströker, Husserls transzendentale Phänomenologie, Klostermann, Frankfurt a.M. 1987. 3 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., p. 4; trad. it. cit., p. 44. 4 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., p. 5; trad. it. cit., p. 45. 5 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., p. 3; trad. it. cit., p. 43. 6 Cfr. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, in Id., HUA III, hrsg. v. W. Biemel, Martinus Nijhoff, Den Haag 1950, §§ 32 e 33. 7 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., p. 5; trad. it. cit., p. 44. 8 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., p. 9; trad. it. cit., p. 48. 9 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., p. 22; trad. it. cit., p. 59. 10 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., p. 22; trad. it. cit., p. 59. 11 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., p. 22; trad. it. cit., p. 59. 12 Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Zweiter Band, Erster Teil: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, in Id., HUA XIX/1, hrsg. v. U. Panzer, Martinus Nijhoff, Den Haag 1984, pp. 436 ss.; trad. it. a cura di G. Piana, Ricerche logiche, 2 voll., Il Saggiatore, Milano 1968, vol. 2, pp. 206 ss. 13 Husserl, Logische Untersuchungen cit., p. 439; trad. it. cit., p. 208. 14 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., § 8. 15 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., § 9. 16 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., § 10. 17 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., § 11. 18 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., appendice I, pp. 99 ss.; trad. it. cit., pp. 123 ss. 19 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., § 13. 20 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., § 14. 21 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., p. 39; trad. it. cit., p. 73 (trad. modificata). 22 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., § 16. 23 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., §§ 16 e 17. 24 Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie cit., § 26. 2

Capitolo 2 La domanda fenomenologica di Heidegger sul tempo come domanda sul tempo originario e sul tempo ordinario che da esso scaturisce 1. La distentio animi come riflesso del distendersi dell’esserci nella sua temporalità estatico-orizzontale La precedente panoramica sugli aspetti fondamentali delle analisi fenomenologiche di Husserl sulla coscienza interna del tempo ha mostrato il grande significato che riveste la distentio animi – così come essa è stata vista e sviluppata per la prima volta da Agostino – per la stessa domanda husserliana sul tempo. Husserl, infatti, vede nella distentio animi di Agostino una forma preliminare di ciò che lui stesso, in modo più radicale, ha presentato fenomenologicamente come la reciproca appartenenza dei tre modi originari della coscienza costituenti il tempo, all’interno della pura coscienza soggettiva del tempo. Anche per Heidegger, la determinazione agostiniana dell’essenza del tempo come distentio animi è l’aspetto decisivo della ricerca sul tempo contenuta nelle Confessioni. Ma mentre per Husserl la distentio animi allude all’impressione originaria dell’ora, alla coscienza ritenzionale del poco-fa e alla coscienza protenzionale del subito-dopo, per Heidegger invece essa va interpretata in una direzione essenzialmente diversa. Nella distentio animi Heidegger vede un riflesso di ciò che egli presenta, dal punto di vista fenomenologico-ermeneutico, come tempo originario. Ma il tempo originario non è per lui, come invece è per Husserl, il tempo soggettivo della coscienza interna del tempo, ben distinto dal tempo oggettivo e reale, bensì il tripliceunitario distendersi della temporalità estatico-orizzontale. Perciò anche Heidegger traduce la distentio animi come la distensione o il distendersi dello spirito; ma ciò a cui egli si riferisce con questi termini è l’originaria costituzione d’essere dell’uomo. L’uomo però, proprio in virtù della sua costituzione ontologica, non viene concepito come soggetto, coscienza o autocoscienza, bensì come esserci [Dasein]. Il distendersi dell’esserci nel

modo della temporalità estatico-orizzontale viene dunque definito da Heidegger come tempo originario, perché esso è quell’ambito dell’origine da cui scaturisce la comprensione del tempo che abbiamo incontrato in Agostino e in Husserl. In questi due pensatori si trattava del tempo che passa dal nonancora-ora nell’ora, e dall’ora nel non-più-ora, e cioè si trattava di un tempo orientato sull’ora. Esso non è altro che il tempo che comprendiamo nel compiersi della vita quotidiana, anche senza una riflessione filosofica, come quando ad esempio diciamo: ora sbrigo questa faccenda, prima mi sono dedicato a quella cosa, più tardi mi dedicherò a quell’altra. La riflessione filosofica sul tempo, così come l’abbiamo seguita in Agostino e Husserl, si riallaccia fondamentalmente a quella comprensione del tempo nella quale ci muoviamo anche già prima della riflessione filosofica. Il tempo già sempre compreso pre-filosoficamente, e anche quello compreso filosoficamente, è il tempo orientato sull’ora. La comprensione pre-filosofica e la comprensione filosofica tradizionale del tempo hanno in comune il fatto di intendere il presente come ora, il passato come non-più-ora e il futuro come non-ancora-ora. Heidegger chiama perciò il tempo, così compreso, il tempo-ora [Jetzt-Zeit]. Esso è il tempo ordinario, abituale. Tuttavia l’essenza del tempo non si esaurisce per Heidegger nel tempo compreso a partire dall’ora. Il tempo-ora non esaurisce per lui il fenomeno del tempo. Non solo la comprensione pre-filosofica, ma anche quella filosofica del tempo orientato sull’ora, nascondono la sua essenza, vale a dire il tempo originario. Certamente il tempo interpretato come ora, non-ancora-ora e non-più-ora è un genuino fenomeno temporale. Ma non può pretendere di esaurire il fenomeno del tempo nel suo complesso. Piuttosto il tempo-ora è un fenomeno temporale derivato, scaturito dal tempo originario. Nel § 81 di Essere e tempo, che tratta della genesi del concetto ordinario di tempo, si dice che la caratteristica ordinaria del tempo, inteso come un’infinita, irreversibile successione di ora che passano, scaturisce dalla temporalità dell’esserci1. È grazie a tale origine che la rappresentazione ordinaria del tempo riceve la sua naturale giustificazione; essa però non può pretendere di rappresentare l’unico ed esaustivo concetto di tempo. E tuttavia, la rappresentazione del tempo-ora avanza continuamente questa pretesa, proprio perché essa nasconde e non sa nulla circa la sua vera origine, ossia la temporalità dell’esserci nella sua triplice distensione.

In tutte le tappe del percorso storico del concetto filosofico di tempo si guarda solo ed esclusivamente al tempo come tempo-ora. Come Heidegger sottolinea ripetutamente, Aristotele è stato il primo ad elaborare – e nella maniera concettualmente più incisiva – il tempo-ora, cosicché tutte le successive trattazioni del tempo si sono attenute alle strutture fondamentali del tempo-ora elaborate da lui. Nella concezione fondamentale del tempo dipendente da Aristotele rientra anche la comprensione fenomenologica husserliana del tempo immanente alla coscienza soggettiva del tempo2. Anche nella fenomenologia husserliana del tempo costituentesi nell’immanenza della coscienza e della temporalità di tutti gli oggetti temporali rimane nascosto il tempo originario, come Heidegger lo presenta dal punto di vista fenomenologico-ermeneutico, e dunque rimane nascosta l’origine del tempo-ora, sia del tempo oggettivo che di quello soggettivo3. La concezione husserliana del tempo si accorda con quella agostiniana per il fatto che entrambi i pensatori tematizzano fondamentalmente il tempo-ora. Mentre Husserl vede nella distentio animi di Agostino una prima considerazione filosofica dei modi della coscienza costituenti il tempo, Heidegger interpreta la distentio animi in direzione del tempo originario, sebbene Agostino non abbia mai espressamente tematizzato qualcosa a proposito di questo tempo originario. Vedere nella distentio animi un riflesso del tempo originario come origine del tempo-ora è possibile solo a chi abbia già una comprensione ben sviluppata di questo tempo originario. Husserl si riallaccia al fenomeno del tempo visto per la prima volta da Agostino e lo radicalizza a partire dai presupposti fondamentali che determinano la sua propria posizione filosofica. Tuttavia, questa radicalizzazione, se osservata a fondo, rimane all’interno della comprensione del tempo inteso come tempo-ora. Quando al contrario Heidegger vede nella distentio animi un cenno decisivo al tempo originario, inteso come la temporalità estatico-orizzontale dell’esserci, ha già abbandonato il riferimento di Agostino e di Husserl al tempo-ora. Ma ciò non vuol dire che Heidegger respinga il tempo orientato sull’ora come un’idea sbagliata del tempo. Ciò che egli pone in questione filosoficamente è solo l’opinione, apparentemente incontestabile, che il tempo trovi la sua propria specificità solo nell’ora, nel non-più-ora e nel non-ancora-ora. Come già accennato, ciò che interessa ad Heidegger è dar prova del tempo-ora come un

genuino fenomeno temporale, proprio a partire dalla sua origine, cioè dal tempo originario. Sebbene per Heidegger la ricerca aristotelica sul tempo abbia raggiunto la determinazione concettuale più incisiva del tempo-ora, egli vede tuttavia in alcuni aspetti della ricerca agostiniana sul tempo una posizione interrogativa più radicale. Ma fino a che punto quest’ultima può essere definita più radicale se anch’essa si pone al seguito dell’elaborazione aristotelica del tempo-ora e in fin dei conti non oltrepassa i confini della comprensione del tempo ordinario? Essa è più radicale perché, se è vero che la domanda sul tempo deve risalire allo spirito che comprende il tempo e alla sua distentio, ciò costituisce una prima indicazione del fatto che la domanda sull’essenza del tempo deve a sua volta chiedersi quale sia la costituzione ontologica dello spirito che comprende il tempo. Se questo risalire della domanda fosse stato attuato in maniera più radicale da Agostino, avrebbe potuto condurre al tempo originario e al distendersi della temporalità estatico-orizzontale dell’esserci. Ma per poter compiere un movimento di risalita più radicale nella sua interrogazione, Agostino avrebbe dovuto assumere come guida la domanda sull’essere posta in maniera più radicale. Porre la domanda sull’essere in maniera più radicale di come hanno fatto Parmenide, Platone e Aristotele significa non solo domandare dell’ente in quanto ente – cioè non di questo o di quell’altro ente, ma dell’ente in generale –, bensì domandare dell’essere in quanto tale, dell’essere stesso e della sua propria disvelatezza. Perciò domandare dell’essere significa domandare come l’essere in quanto essere debba essere disvelato, e compreso in quanto disvelato, affinché, nell’apertura dell’essere così compreso (cioè nella comprensione dell’essere), noi comprendiamo l’ente, al quale ci rapportiamo in un modo o nell’altro, come l’ente della sua costituzione d’essere. Porre ed elaborare in questo modo la questione dell’essere significa domandare per la prima volta della comprensione dell’essere in quanto essere nella sua disvelatezza. Interrogandosi sulla specifica modalità di questo comprendere, il filosofare arriva a vedere la modalità peculiare secondo cui l’uomo è colui che comprende l’essere. La domanda sulla comprensione dell’essere in quanto essere nella sua propria disvelatezza si trasforma nella domanda sul modo di essere più appropriato, e quindi più proprio dell’uomo, quello che Heidegger

chiama l’esistenza4. Nell’ambito della domanda sull’essere posta in maniera più radicale, esistenza non significa existentia, realtà effettiva, presenza sottomano, ma quel modo di essere della cui struttura dobbiamo dire che nel mio essere ne va del mio essere, che io nel mio essere mi rapporto a quest’essere stesso. Esistenza come modo di essere dell’uomo ha un carattere di compimento. Nel mio essere io mi rapporto al mio essere stesso, in modo tale che per me ne va del mio essere. In questa modalità di compimento io comprendo il mio proprio essere, vale a dire che questo essere è disvelato per me in quanto si compie. Nella disvelatezza del mio essere che si compie, sono disvelati contemporaneamente anche l’essere, i modi di essere e i caratteri d’essere dell’ente a cui io mi rapporto esistendo. Con il compiersi dell’esistenza è disvelato l’essere in generale: non solo l’essere come esistenza, ma l’essere in totalità. Per «disvelato» [enthüllt], in Essere e tempo, Heidegger usa le espressioni «aperto» [erschlossen], «dischiuso» [aufgeschlossen], e per «disvelatezza» [Enthülltheit], «apertura» [Erschlossenheit], «dischiusura» [Aufgeschlossenheit], «radura» [Lichtung], «essere aperto nella radura» [Gelichtetheit]. Se nel modo di essere dell’esistenza ne va per me, nel mio essere, del mio essere stesso, ciò significa allora, in riferimento alla domanda sull’essere in generale, che nel compiersi della mia esistenza ne va per me della dischiusura o radura dell’essere in totalità, dell’essere in generale. Solo nella dischiusura o radura (disvelatezza) dell’essere in generale, io sono aperto a me stesso come l’ente che si rapporta all’altro ente, e questo ente a cui mi rapporto è comprensibile per me nel suo come e nel suo che cosa. Porre la questione dell’essere in maniera più radicale di come è stata posta dai predecessori di Agostino significa elaborarla seguendo il filo conduttore dell’uomo come esserci ed esistenza. Invece, il filo conduttore seguito da Parmenide, da Platone o da Aristotele nella loro interrogazione sull’essere dell’ente, era l’essenza dell’uomo, non come esserci o esistenza, ma come essere sensibile dotato di ragione. La determinazione dell’essenza guadagnata dagli antichi, secondo cui l’uomo – considerato nella sua essenza generica – è un essere sensibile, come lo è l’animale, e si distingue da quest’ultimo solo per la sua essenza specifica, cioè per la ragione, si mantiene ontologicamente all’interno della distinzione tra essere come essenza (essentia) ed essere come realtà effettiva (existentia). Sulla base di questo

modo di concepire l’essenza dell’uomo, esso condivide con tutti gli altri enti un modo di essere unico ed uniforme, vale a dire quello della realtà effettiva (existentia). Stando all’ontologia tradizionale, le differenze nell’ente non riguardano i modi di essere, ma solo l’essenza, l’essenza generica e l’essenza specifica. Il modo di essere più proprio dell’uomo, che non è mai la mera existentia, rimane fondamentalmente velato nella determinazione tradizionale dell’essenza umana. Ma finché quel modo di essere dell’uomo rimane non visto e non tematizzato, anche la questione dell’essere non può esser posta in maniera radicale come domanda sull’essere in quanto tale. Tematizzare l’essere in quanto tale, infatti, significa indagarlo nella sua stessa apertura o verità. Ma la verità propria dell’essere nella sua totalità si mostra solo se l’essenza dell’uomo è vista non nell’essere sensibile dotato di ragione, bensì nell’esistenza. Infatti, solo con il compiersi dell’esistenza è dischiusa l’apertura dell’essere come tale e in generale. Solo se viene messo a tema il più proprio modo di essere come esistenza, il filosofare arriva a vedere il tempo originario, la temporalità esistenziale-orizzontale dell’esserci. Sebbene Agostino, con la sua visione della distentio animi, arrivi a toccare la costituzione ontologica più propria dell’uomo, vale a dire il distendersi dell’esserci nel modo della temporalità esistenziale, non si spinge tuttavia sino ad essa, cioè sino al tempo originario, poiché anch’egli, come i suoi predecessori, porta avanti la sua interrogazione seguendo il filo conduttore dell’essere sensibile dotato di ragione. Nel suo compiersi, l’esistenza mostra una triplice struttura ontologica, che Heidegger esprime come cura [Sorge], intesa non in senso antropologico, ma in senso puramente ontologico. Interrogate e interpretate nel loro senso ontologico, le tre strutture esistenziali che formano la totalità costitutiva della cura si mostrano come la temporalità estatico-orizzontale dell’esserci, anch’essa articolata in tre momenti. Nel compiersi dell’esistenza come compimento della cura, l’esserci matura temporalizzandosi [zeitigt sich] nella sua temporalità. Nel compiersi della temporalità con cui l’esserci matura, è dischiusa temporalmente [temporal] l’apertura dell’essere come tale e nella sua totalità. La temporalità dell’esserci che matura in senso esistenzialeorizzontale nel compimento della cura è il tempo originario. Agostino non sviluppa la sua domanda sul tempo in connessione alla domanda più radicale sull’essere come tale, e ciò significa al contempo che egli non sviluppa la sua domanda seguendo il filo conduttore dell’esserci che

comprende l’essere, dal momento che nel suo domandare egli è guidato piuttosto da un concetto di essere secondo il quale essere significa semplicemente esser-presente sottomano o presenza [Vorhandensein und Anwesendsein], e a partire da questo concetto di essere coglie anche lo spirito che comprende il tempo. Per questo, nonostante la visione della distentio animi, gli resta precluso l’accesso al modo di essere più proprio dello spirito e al tempo originario. Solo se la distentio viene vista come un fenomeno fondamentale, e cioè come il distendersi dell’esistenza dell’esserci che matura temporalizzadosi, si arriva a vedere che il tempo che si distende nell’ora, nel non-ancora-ora e nel non-più-ora è ciò che scaturisce da un’origine: quest’origine è la temporalità esistenziale-orizzontale dell’esserci, vale a dire il tempo originario. Il tempo-ora è compreso nella sua essenza solo se viene colto come ciò che ha la sua origine nella temporalità estaticoorizzontale. Il fatto che il tempo-ora derivi da un fenomeno temporale originario che non è esso stesso comprensibile a partire dall’ora, dal non-ancora-ora e dal non-più-ora, viene provato da Heidegger in Essere e tempo. La questione fondamentale del suo pensiero consiste nella domanda – ripetuta in maniera più originaria rispetto alla tradizione – sul senso dell’essere in generale. “Senso” designa qui il campo visivo o l’orizzonte a partire dal quale vengono compresi tutti i modi e i caratteri dell’essere. La questione universale dell’essere – universale perché domanda dell’essere in generale, ossia nella totalità della sua interna molteplicità – dev’essere posta in maniera più originaria di come lo era nella tradizione, e dev’essere elaborata seguendo il filo conduttore dell’esserci, come un’analitica dell’esistenza che comprende l’essere. Alla comprensione dell’essere che si compie con l’esistenza, appartiene l’orizzonte della comprensione d’essere, che è tale solo per il comprendere. E poiché quest’orizzonte si riferisce alla comprensione dell’essere che è propria dell’esistenza, esso può essere chiarificato solo sulla via di un’analitica dell’esistenza. In quest’ultima si tratta di indagare ontologicamente l’esistenza dell’esserci, riferendosi alle strutture esistenziali (gli “esistenziali”, appunto) che lo formano. Perciò Heidegger parla di analitica ontologico-esistenziale dell’esserci. Il suo compito principale è quello di elaborare l’esserci come il filo conduttore più originario per la questione dell’essere. Dal punto di vista metodologico, l’analitica dell’esserci procede in modo

fenomenologico-ermeneutico5. Come analisi fenomenologica, essa si comprende come un lasciar-vedere che mostra e che disvela ciò che, in tale mostrare e chiarificare disvelante, si mostra in sé stesso e da sé stesso. Ciò che si mostra in questo modo, ovvero in sé stesso e da sé stesso, sono i fenomeni. Nella misura in cui il lasciar-vedere che mostra l’esserci nella sua esistenza ha il tratto fondamentale dell’interpretare, l’analisi fenomenologica è al tempo stesso fenomenologia ermeneutica. Ma il significato di interpretazione si determina propriamente sulla base di ciò che viene interpretato, e cioè sulla base dell’esistenza dell’esserci. L’interpretazione fenomenologica dell’esserci, per quel che riguarda la sua esistenza che comprende l’essere, è essa stessa un modo di compiersi dell’esistenza che dev’essere interpretata. Nell’ambito di una questione dell’essere posta in maniera più radicale attraverso l’analitica dell’esserci, il pensiero filosofico non si determina più in base all’intelletto e alla ragione – vale a dire in base alle facoltà che appartengono all’essere vivente razionale, considerato come il filo conduttore della questione tradizionale sull’essere – ma in base all’esserci e alle strutture esistenziali dell’esistenza. Attraverso la caratterizzazione ermeneutica della fenomenologia, quest’ultima si distingue chiaramente dalla fenomenologia non ermeneutica o pre-ermeneutica di Husserl, che non è fenomenologia dell’esserci, ma della coscienza. Ma al fondo questo concetto di coscienza appartiene alla comprensione tradizionale dell’essenza dell’uomo come animal rationale. Nonostante questa differenza essenziale tra la fenomenologia pre-ermeneutica e quella ermeneutica, rimane salvo però un aspetto comune nella comprensione della fenomenologia: il fatto che il filosofare si lasci guidare dalle “cose stesse”. L’analitica ontologico-esistenziale dell’esistenza si attua in Essere e tempo in due passi chiaramente distinti l’uno dall’altro. Il primo passo, compiuto nella prima sezione, è un’«analisi fondamentale dell’esserci nel suo momento preparatorio». In essa vengono portate alla luce, dal punto di vista fenomenologico-ermeneutico, le strutture fondamentali dell’esistenza attraverso delle analisi specifiche. L’analisi fondamentale è preparatoria perché in essa le strutture esistenziali vengono mostrate senza tematizzarne ancora il senso ontologico più originario. L’interpretazione ontologica delle strutture essenziali dell’esistenza (già evidenziate nella prima parte) in riferimento al loro senso d’essere ha poi

luogo, come secondo passo, nello svolgimento dell’analitica dell’esserci nella seconda sezione, intitolata Esserci e temporalità. Questo secondo passo mostra, mediante un’analisi fenomenologico-ermeneutica, come la molteplicità delle strutture ontologico-esistenziali abbia il suo senso d’essere più originario nella temporalità dell’esserci. Abbiamo già incontrato la parola temporalità nell’esposizione di alcuni tratti fondamentali della fenomenologia husserliana della coscienza interna del tempo. In quel contesto si parlava della temporalità della percezione o del ricordo, intendendo per «temporalità» il decorso temporale della percezione o del ricordo all’interno di un tempo che si costituisce nell’immanenza della coscienza, nonché la costituzione temporale della durata degli oggetti percepiti nel tempo. Quello che in tale contesto lo stesso Husserl aveva definito come temporalità, appartiene al tempo-ora. Heidegger, al contrario, usa il termine “temporalità” non per descrivere il tempo ordinario, ma per indicare la sua origine, cioè il tempo originario del maturarsi esistenziale-orizzontale dell’esserci. Nella seconda sezione di Essere e tempo (e specificamente nel terzo, quarto e quinto capitolo) Heidegger dapprima chiarifica in senso fenomenologico-ermeneutico, e seguendo diverse direzioni interpretative, il tempo originario, ossia la temporalità estatico-orizzontale dell’esserci; in seguito (nel sesto e ultimo capitolo), egli passa a mostrare gradualmente, in senso fenomenologico, in che modo la comprensione ordinaria del tempo – del tempo-ora e della successione degli ora – scaturisca dal tempo originario. Si tratta di un mostrare graduale e fenomenologico, perché viene mostrato come da una determinata modalità di maturarsi della temporalità dell’esserci scaturisca il prendersi cura del tempo e, in esso, il tempo di cui ci si prende cura. Il «tempo di cui ci si prende cura» viene chiamato da Heidegger anche tempo mondano, senza con ciò intendere la stessa cosa che intende Husserl con questo termine. Il tempo mondano di cui ci si prende cura è piuttosto quel fenomeno temporale da cui – per via di un livellamento e di un nascondimento del suo carattere mondano – scaturisce il tempo compreso in senso ordinario come successione degli ora. Per poter comprendere questa genesi nei suoi tratti essenziali, c’è bisogno anzitutto di ricalcare alcuni passi fondamentali dell’analitica ontologicoesistenziale dell’esserci, sino al disvelamento della temporalità esistenziale dell’esserci. Quel modo di essere il cui senso di compimento consiste nel fatto che per

me, nel mio essere, ne va del mio essere – vale a dire l’esistenza come modo di essere dell’esserci –, mostra una costituzione essenziale che Heidegger chiama l’essere-nel-mondo. Perciò per me, nel mio essere-nel-mondo, ne va di questo stesso essere-nel-mondo. Mondo designa in senso proprio un fenomeno ontologico, non l’universo inteso come la totalità dell’ente, ma una totalità di rapporti di senso, che Heidegger chiama significatività6. In quanto tale, il mondo appartiene alle possibilità d’esistenza in cui l’esserci di volta in volta esiste. Possibilità d’esistenza sono quelle in cui io, nella dischiusura del mondo, mi rapporto all’ente intramondano. Le possibilità d’esistenza, nelle quali, in quanto esserci, io sono colui che di volta in volta sono, costituiscono perciò dei possibili modi del mio essere-nel-mondo, modi in cui io comprendo il mondo come un contesto di significatività e in cui, a partire da questa preliminare comprensione del mondo, mi rapporto all’ente intramondano incontrato nella comprensione del mondo. L’intramondanità di questo ente, a cui io mi rapporto esistendo, è la comprensibilità che esso ha di volta in volta in base al suo significato, e nella quale esso mi si rende manifesto. La comprensione del mondo che precede e rende possibile la manifestatività dell’ente intramondano secondo il suo significato appartiene alla comprensione dell’essere intesa in senso lato, quella cioè che si compie nel mio esistere e con il mio esistere. Nel compiersi dell’esistenza, il modo di essere dell’esistenza è aperto per sé stesso; in questa auto-apertura dell’esistenza sono disvelati specialmente il mondo come orizzonte di significatività e la costituzione d’essere dell’ente intramondano. In questa sua auto-apertura, l’esistenza aperta per sé stessa è rapita nell’apertura del mondo e della costituzione d’essere dell’ente intramondano. L’esser già sempre rapito da parte dell’esserci esistente viene chiamato da Heidegger l’estaticità dell’esistenza. L’esser-rapito può anche essere definito il distendersi, o meglio l’essere disteso dell’esserci. Quando Heidegger traduce, e con ciò interpreta, la distentio animi come il distendersi e l’essere disteso dello spirito, egli vuol dire che nella distentio sperimentata da Agostino si trova la tendenza all’esistenza estatica. Ma ciò in cui è rapita l’esistenza disvelata per sé stessa è l’orizzonte, l’orizzonte del mondo e dell’essere. L’esistenza è perciò aperta in modo estatico-orizzontale. In altre parole, l’apertura dell’esistenza, del mondo e dei modi di essere degli enti

difformi dall’esserci, a cui però l’esserci si rapporta esistendo, è colta in modo estatico-orizzontale. In questo senso noi parliamo allora dell’apertura dell’essere nella sua totalità, che si dischiude con il compiersi dell’esistenza. Il fenomeno fondamentale che decide tutto, quello disvelato per la prima volta dall’analitica ontologico-esistenziale dell’esserci, è l’apertura. È a partire da essa che va visto e compreso tutto quello che viene spiegato a proposito dell’esistenza e dei suoi esistenziali, del mondo proprio dell’esserenel-mondo e dei modi di essere dell’ente difforme dall’esserci. Grazie all’apertura intesa come la disvelatezza dell’essere come tale e in generale, si può sperimentare la trasformazione più dirompente e più essenziale della metafisica e dell’ontologia tradizionale. L’apertura che si dischiude in modo estatico-orizzontale nel compiersi e con il compiersi dell’esistenza costituisce il senso ontologico di ciò che Heidegger chiama l’esserci dell’uomo. Infatti la sillaba “-ci” indica l’apertura nella sua totalità, mentre l’“esser-” indica solo il modo di essere dell’uomo, l’esistenza. Esser-ci significa che nel compimento e con il compimento dell’esistenza (esser-), è dischiusa l’apertura nella sua totalità (-ci). Quest’ultima è in sé strutturata come apertura estatica e come apertura orizzontale. Nell’apertura estatica è dischiuso il modo di essere dell’esistenza (esser-) con i suoi esistenziali. Nell’apertura orizzontale – quella in cui l’esistenza è aperta estaticamente – sono aperti i rapporti di significatività del mondo, nonché i modi di essere e i caratteri d’essere dell’ente difforme dall’esserci. Ma in che modo l’uomo è il suo ci, vale a dire l’apertura nella sua totalità come apertura del suo essere-nel-mondo e dell’essere in generale? Con questa domanda cerchiamo di portare lo sguardo su quei caratteri esistenziali che determinano il compimento peculiare dell’esistenza, quel compimento che si esprime affermando che per l’esserci, nel suo essere, ne va del suo essere. Per prima cosa, va qui nominata quella struttura esistenziale che Heidegger chiama l’esser-gettato [Geworfenheit]7. L’esserci, nella sua esistenza, si trova gettato, a partire dal movimento di un “getto” che non è a sua disposizione, nell’apertura del suo essere-nel-mondo e dell’essere in totalità. L’apertura (il ci) si apre nell’esistenza di volta in volta in modo fattuale. Questo modo di aprirsi fattuale si manifesta nelle disposizioni emotive [Gestimmtheiten] dell’esserci, cioè nel suo sentirsi ogni volta situato [Befindlichkeit].

L’apertura che si apre in modo fattuale costituisce una delle possibilità dell’esistenza, ossia una delle possibilità del mio essere-nel-mondo. Con queste possibilità sono dischiusi in modo fattuale anche gli altri modi di essere che determinano l’ente non conforme all’esserci. L’esser-gettato è uno dei modi esistenziali fondamentali dell’esistenza dell’esserci. Il carattere di compimento proprio del compiersi dell’esserci si determina a partire dal carattere ontologico-esistenziale dell’esser-gettato Il secondo modo esistenziale – ugualmente originario e fondamentale – in cui l’esserci esiste è il progetto [Entwurf]8. In quanto gettato nell’apertura delle possibilità del mio essere-nel-mondo, l’esserci esiste principalmente come un progettarsi in quella possibilità che è già data, cioè aperta di volta in volta in modo fattuale nell’esser-gettato. Così come l’esser-gettato è un essere-aperto in modo fattuale, allo stesso modo il progettare è un dischiudersi e un aprirsi nella modalità del compimento. L’esserci esiste, di volta in volta, solo a partire da una possibilità dell’essere-nel-mondo, nella misura in cui, nel progetto per la sua esistenza, esso dischiude una possibilità che può essere scelta a partire dall’apertura fattuale, e la fa propria come possibilità in cui esso esiste, in quanto è quel determinato essere-nel-mondo che è stato scelto. Già in questi due esistenziali fondamentali e cooriginari noi possiamo comprendere cosa significhi che per me, nel mio essere ne va del mio essere. Nel mio essere io mi rapporto al mio essere, quando mi progetto nelle possibilità del mio poter-essere-nel-mondo, così come esse sono già date nell’essere-gettata dell’esistenza. Heidegger chiama questo progettare anche come comprendere, il comprendersi di volta in volta secondo il proprio poter-essere, in una possibilità di essere e a partire da una possibilità di essere. Nel compiersi dell’esistenza come progetto gettato, si apre di volta in volta in modo fattuale e secondo un senso di compimento l’apertura del concreto essere-nel-mondo, e assieme ad esso l’apertura dell’essere in generale o nella sua totalità. Ma al compiersi dell’esistenza appartiene anche, e soprattutto, una terza struttura ontologico-esistenziale, la quale ci permette di vedere in che modo l’apertura gettata-progettata dei rapporti mondani di significatività lasci manifestare l’ente a cui l’esserci si rapporta esistendo come un ente

determinato in modo intramondano. Questa terza struttura esistenziale è l’essere-presso-l’ente-che-si-incontra-nel-mondo. In quanto struttura esistenziale, l’essere-presso è costituito come tutti gli esistenziali in senso estatico-orizzontale. Nell’essere-presso, infatti, io esisto rapito nell’apertura del mondo, un’apertura gettata-progettata, ovvero dischiusa in modo fattuale e secondo un senso di compimento. In esso l’apertura gettata-progettata del mondo, propria del mio essere-nel-mondo, viene tenuta aperta per il manifestarsi dell’ente che mi viene incontro come ente intramondano a partire dall’apertura estatico-orizzontale del mondo. Solo nella misura in cui, nell’esser-presso dell’esistenza, io tengo aperta l’apertura gettata-progettata dei rapporti mondani riguardanti l’ente che si incontra all’interno del mondo, io mi rapporto, nell’essere-presso, all’ente di questi rapporti mondani. L’essere-presso estatico-orizzontale è il luogo esistenziale per l’intenzionalità, la quale, nella misura in cui viene determinata dal modo di essere dell’esistenza, non è più una costituzione essenziale dei vissuti o atti della coscienza, bensì una struttura dell’esserci. Nell’essere-presso dell’esistenza, l’esserci, a partire dall’apertura del mondo gettata-progettata, lascia incontrare l’ente difforme dall’esserci come ente intramondano, o, come Heidegger dice, esso scopre questo ente come intramondano, lo lascia accedere al suo scoprimento (alla sua comprensibilità, alla sua manifestatività) intramondano. Come progetto-gettato, l’esserci esiste aprendo, cioè dischiudendo in modo finito l’apertura di volta in volta fattuale di esistenza, mondo ed essere in generale, e solo così esso esiste, come essere-presso, scoprendo l’ente. In questo scoprente e manifestante lasciar incontrare l’ente a partire dall’apertura orizzontale – gettata-progettata – del mondo, subentra un ulteriore esistenziale, che è fondato nel comprendere come progettare. È il modo d’essere esistenziale dell’interpretazione9. Nella nostra esposizione selettiva, non potevamo tralasciare questo esistenziale, poiché esso svolge una funzione decisiva nello scaturire del tempo mondano di cui ci si prende cura e del tempo-ora dalla temporalità esistenziale (come vedremo in seguito). Interpretazione, come modo di essere esistenziale dell’esserci, significa appropriazione e spiegazione di ciò che è dischiuso e compreso nel progetto gettato. Come essere-presso che scopre, l’esserci esiste interpretando, per esempio quando spiega, svelandola, l’apertura gettata-

progettata del mondo per quel che riguarda i rapporti di significatività in essa racchiusi e velati. Questi rapporti, conformi al mondo, sono chiamati da Heidegger rapporti-per-che [um-zu-Bezüge], poiché determinano l’ente a cui ci rapportiamo come ente per…, cioè da usare in un modo o nell’altro. I rapporti-per-che formano ogni volta una totalità di mondo, un orizzonte mondano. Nella misura in cui l’ente ci viene incontro come ente intramondano a partire dall’orizzonte del mondo aperto per l’esistenza estatica, esso è determinato ontologicamente nella sua intramondanità attraverso tali rapporti mondani del per-che. Heidegger chiama i rapporti-perche anche rapporti-di-appagatività [Bewandtnis-Bezüge]. Infatti ogni ente intramondano ha con sé, presso qualcosa, il suo appagamento. Nel compiersi dell’interpretazione propria dell’esistenza, l’esserci espone e spiega i rapporti mondani racchiusi nell’apertura gettata-progettata del mondo, per scoprire, nell’apertura dei rapporti mondani così spiegati, l’ente nella sua intramondanità. L’interpretazione esistenziale del gettato-progettato si compie cooriginariamente allo scoprire o al lasciare incontrare l’ente. Nel sesto e ultimo capitolo dell’analisi fondamentale a livello preparatorio viene chiarificata, in senso fenomenologico-ermeneutico, quella totalità di progetto, esser-gettato ed esser-presso che Heidegger, con un intento puramente ontologico, definisce come cura [Sorge]10. La struttura della cura, che nella sua totalità consta di tre parti, recita: davanti-a-séessere-già-in-un-mondo-come-esser-presso-l’ente-che-si-incontra-nelmondo. L’essere-davanti-a-sé è la struttura del progetto. Infatti, nel progettarmi in una possibilità dell’essere-nel-mondo, aperta di volta in volta in senso fattuale, io sono davanti a me stesso, come colui in qualità del quale io esisto. Tuttavia, questo essere-davanti-a-me-stesso è possibile solo nell’essere-già-in-un-mondo, cioè nell’esser già gettato nell’apertura fattuale del mondo che appartiene alla possibilità dell’esistenza. Ma l’essere-davantia-sé progettante non rimane sospeso in aria rispetto all’esser-gettato-già-inun-mondo-fattualmente-aperto, ma si compie in vista dell’esistere presso l’ente da scoprire all’interno del mondo. Il fatto che io possa rapportarmi all’ente, e in questo atteggiamento possa comprendere come e cosa è l’ente per il mio rapportarmi intenzionale ad esso, è possibile dal punto di vista ontologico-esistenziale per via del mio essere come esistenza e del suo compimento come cura.

Il compiersi dell’esistenza è un compiersi attraverso la cura, in cui l’esserci si fa carico della cura per l’apertura del suo essere-nel-mondo e dell’essere in totalità, e per lo scoprimento (manifestatività) dell’ente a cui esso, esistendo, si rapporta costitutivamente. Poiché il rapportarsi all’ente, proprio dell’esistenza, è reso possibile in senso ontologico-esistenziale dalla cura nella sua totalità tripartita, il modo di essere esistenziale del rapportarsi tipico dell’esistenza viene designato con la locuzione prendersi cura [Besorgen]. Solo ora siamo in grado di delineare in che modo la struttura tripartita della cura trovi il suo più originario senso d’essere nella tripartita temporalità estatico-orizzontale, cioè nel tempo originario che si determina a partire dall’apertura: esso costituisce l’origine del tempo mondano di cui ci si prende cura e del tempo-ora livellato.

2. La temporalità estatico-orizzontale dell’esserci, il tempo mondano della cura e il tempo-ora ordinario Nel § 65 di Essere e tempo, che appartiene al terzo capitolo della seconda sezione – Esserci e temporalità – viene disvelato il senso dell’essere della cura come costituzione d’essere dell’esserci, in sé strutturata in tre momenti. La questione sul senso ontologico della cura si domanda perciò cosa renda possibile la totalità dell’insieme articolato della cura, nei suoi tre momenti, «nell’unità della sua articolazione pienamente dispiegata»11. Tuttavia, prima di poterci dedicare a questa tematica, dobbiamo ancora definire uno stato di cose ontologico-esistenziale (tratto dall’analisi fondamentale nel suo momento preparatorio, contenuta nella prima sezione) che risulta irrinunciabile per la comprensione della temporalità esistenziale. Si tratta di quello stato di cose che Heidegger definisce con una coppia di concetti ontologico-esistenziale, quella di autenticità-inautenticità. Con questi concetti si indica il fatto che il compimento dell’esistenza, in quanto compimento della cura, non è uniforme, ma che il farsi carico della cura da parte dell’esistenza può compiersi in due possibili modalità fondamentali. Infatti, l’essere di cui ne va per me nel mio essere stesso, è sempre il mio, cioè è determinato attraverso l’essere-sempre-mio [Jemeinigkeit]. All’essere aperto nell’esser-sempre-mio, io mi posso rapportare in modo tale da scegliere me stesso nel mio essere, oppure da perdermi nel mio essere. Se per

me, nel mio essere, ne va del mio essere, in modo tale che io scelgo me stesso, allora esisto come un essere sé stesso autentico. “Autentico” significa qui che, in questa modalità del mio essere, io sono appropriato a me. Ma se, nel mio essere, io mi rapporto a questo essere in modo tale da perdermi in esso, allora esisto come un essere sé stesso inautentico, non appropriato a sé. Questa seconda modalità dell’essere sé stesso viene chiamata da Heidegger il si-stesso [Man-Selbst], quell’esser sé stesso che si determina a partire dall’anonimo chiunque. La cura si compie allora nella modalità fondamentale dell’autenticità se l’esserci esiste primariamente a partire dal progetto gettato che si compie nel modo che gli è proprio e, a partire dal progetto gettato così compiuto, nel suo essere prendentesi cura si porta presso l’ente intramondano. Al contrario, il curare si compie nella modalità fondamentale dell’inautenticità, se volta le spalle alla possibilità del progetto gettato che gli è proprio, ed esiste primariamente presso l’ente intramondano, a partire dal mondo e dai modi dell’essere prendentesi cura, senza aver originariamente dischiuso l’apertura del mondo e delle possibilità del prendersi cura a partire dal progetto gettato che si compie nel modo che gli è proprio. Anche nella modalità esistenziale dell’inautenticità, l’esserci esiste in modo gettato-progettante, ma con la differenza che il progetto gettato si è modificato nel suo modo di compiersi rispetto al progetto gettato nella modalità dell’autenticità. Alla quotidianità del compimento dell’esserci appartiene il fatto che l’esserci esiste “innanzitutto e per lo più” nella modalità dell’inautenticità o anche dell’indifferenza modale. Solo a partire da quest’ultima, esso guadagna la sua possibile autenticità. Poiché l’esserci, nella modalità esistenziale dell’inautenticità, si smarrisce primariamente nelle possibilità dell’essere prendentesi cura presso l’ente intramondano, senza dischiudere queste possibilità partendo dal compimento del progetto che gli è proprio, esso, nel modo d’esistenza dell’inautenticità, è scaduto dal suo proprio poter essere e decaduto nel mondo e nell’ente di cui si prende cura. La struttura esistenziale dell’inautenticità si chiama il decadimento [Verfallen]12. All’interno dell’apertura dell’essere-nel-mondo, il decadimento, come modo di compimento della cura, ha un carattere di chiusura. Nella modalità d’esistenza dell’inautenticità, l’apertura dell’esserenel-mondo, dischiusa con il compimento della cura, è dischiusa in un modo

non originario. Questo è il senso ontologico della chiusura decaduta. La non originarietà si modifica nel modo d’esistenza dell’autenticità in direzione dell’apertura originariamente dischiusa. Il fatto che l’esserci, innanzitutto e per lo più, cioè quotidianamente, sia aperto al mondo e all’ente intramondano nel modo esistenziale del decadimento, è il motivo per cui nell’analisi fondamentale preparatoria l’analitica ontologico-esistenziale proceda dall’auto-datità dell’esserci autentico alla modalità dell’apertura quotidiano-inautentica. Ma se l’analitica assume in tal modo l’esserci nella pre-disponibilità dell’interpretazione fenomenologico-esistenziale, vengono però portate allo scoperto anche quelle fondamentali strutture d’essere che costituiscono l’esserci, non solo nel modo dell’inautenticità, ma anche nella modalità esistenziale dell’autenticità. In questo senso vanno prese le tre strutture esistenziali del progetto, dell’esseregettato e dell’essere prendentesi-cura presso l’ente intramondano. La cura, nella totalità delle sue tre strutture esistenziali, si può compiere nel modo dell’inautenticità e del decadimento, oppure nel modo dell’autenticità. Oltre a ciò, nell’analisi fondamentale a livello preparatorio vengono guadagnate quelle particolari strutture esistenziali che costituiscono il modo esistenziale dell’inautenticità. Prima però che nella seconda sezione venga disvelato il senso d’essere della cura come temporalità esistenziale, viene proposta l’analisi esistenziale di ciò che Heidegger chiama il poter-essere-un-tutto [Ganzseinkönnen] dell’esserci (primo capitolo), a cui segue l’analisi esistenziale del poteressere autentico, dell’autenticità (secondo capitolo). Anche in queste analisi viene preparata l’analitica della temporalità esistenziale dell’esserci. Con la questione del poter-essere-un-tutto dell’esserci, ci si domanda in che modo l’esserci, nel suo esistere, comprenda già sempre anche la sua morte, cosicché il rapportarsi, comprendendola, alla sua stessa morte, determini in modo essenziale il compimento dell’esistenza. Il rapportarsi esistenziale alla propria morte, che in quanto tale appartiene all’esistenza, viene espresso da Heidegger con il termine di essere per la morte [Sein zum Tod]. L’esserci esiste aperto per la morte, che nel compiersi dell’esistenza è compresa come l’estrema possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci. La pura e semplice impossibilità dev’essere intesa, in base all’apertura dell’esserci, come la sua pura e semplice nientificazione e chiusura. Nella modalità esistenziale dell’inautenticità, l’esserci si rapporta alla sua

morte in modo da fuggire davanti ad essa e in questo movimento di fuga dall’esistenza, la pura e semplice impossibilità – come possibilità che appartiene all’esserci – resta inaccessibile. Diverso è nella modalità dell’autenticità, in cui l’esserci compie il suo progetto gettato nel modo del non-chiudentesi anticipare la morte, anticipando la pura e semplice impossibilità dell’esistere. La struttura esistenziale dell’autenticità, l’autentico poter-essere, viene elaborato nel secondo capitolo seguendo la strada di un’analitica esistenziale dei fenomeni della coscienza e dell’esser-colpevole. Il progetto gettato che si compie nella modalità dell’autenticità dischiude l’apertura dell’essere-nelmondo in modo originario. L’apertura che vi si dischiude viene chiamata da Heidegger la decisione [Entschlossenheit], che non significa una decisione della volontà, ma l’apertura dell’essere-nel-mondo nella modalità dell’originarietà non contraffatta. Poiché la decisione sorge solo in quell’anticipare la morte proprio dell’esistenza, Heidegger parla della decisione anticipatrice. Quando dunque nel terzo capitolo13 viene poi presentato il senso ontologico della cura dal punto di vista fenomenologico-ermeneutico, in questa analisi la cura viene assunta nella sua pre-disponibilità ermeneutica, nella modalità dell’autenticità già svelata in precedenza. Rispetto all’analisi fondamentale della prima parte, l’analitica della temporalità esistenziale dell’esserci prende la strada inversa: essa mette in evidenza dapprima la temporalità nel modo della sua autenticità e dopo nel modo della sua inautenticità. Anche in questo caso però bisogna osservare che, nel portare alla luce la temporalità nel modo dell’autenticità, viene disvelata al tempo stesso la struttura formalmente indifferente della temporalità, che in quanto tale caratterizza anche la temporalità inautentica. Ma in che senso la temporalità esistenziale14 è ciò che rende possibile la cura? La prima delle tre strutture della cura è l’esser-davanti-a-sé. Propriamente, l’esserci è davanti-a-sé quando si progetta a partire dalla possibilità del suo essere-nel-mondo come un autentico poter-essere-un-tutto, e cioè come decisione anticipatrice. In un tale esser-davanti-a-sé progettantedischiudente, l’esserci si lascia pervenire a sé. Il progettare come esseredavanti-a-sé ha il suo senso più originario in questo pervenire a sé. Questo pervenire a sé, che accade nell’essere dell’esserci, è il fenomeno originario

del futuro. Come futuro originario esso non vuol dire il non-ancora-ora inteso in senso ordinario, bensì il futuro esistenziale che appartiene al tempo originario, cioè alla temporalità esistenziale, e che dev’essere esperito a partire dall’apertura. Il secondo momento della struttura della cura è l’essere-già-in-un-mondo, l’essere-gettato nell’apertura fattuale dell’essere-nel-mondo. L’esserci esiste in modo autentico come essere-già-nel-mondo, se, nel suo compiersi come cura, assume il suo esser-gettato in maniera non contraffatta. Assumere autenticamente il proprio esser-gettato significa lasciar ricadere nel compimento dell’esistenza il suo “come già sempre era”, il suo esser-stato, l’esser-stato già sempre aperto. L’esserci perviene a sé solo così, in modo cioè da rivenire soprattutto al suo esser-stato. Nell’autentico, anticipante pervenire a sé, cioè nell’esser-futuro esistenziale, l’esserci riviene al suo più proprio esser-stato. Il rivenire al suo esser-stato è il senso ontologico più originario dell’esser-gettato o dell’essere-già-in-un-mondo. Questo senso ontologico è un senso esistenziale-temporale, vale a dire il fenomeno esistenziale dell’esser-stato, che con il futuro esistenziale appartiene al tempo originario, alla temporalità originaria. In quanto esser-stato esistenziale, esso non è il passato compreso in senso ordinario come non-più-ora, ma un carattere temporale dell’apertura estatica. Il terzo momento strutturale della cura è l’essere che si lascia incontrare (scoprire) presso l’ente intramondano. Questo esser-presso dell’esistenza si compie allora in maniera autentica, se esso mantiene dischiusa la situazione dell’apertura che un possibile essere-nel-mondo ha dischiuso nel suo progetto gettato autenticamente compiuto, in vista di un attivo lasciar-venire incontro non contraffatto l’ente intramondano. Questo lasciar-venire incontro del prendersi cura è reso originariamente possibile, in senso esistenzialetemporale, grazie a quello che Heidegger chiama la presentazione [Gegenwärtigen] dell’ente di cui ci si prende cura. Abbiamo incontrato il termine “presentazione” nella nostra panoramica sui tratti essenziali del pensiero husserliano sul tempo. Per Husserl, la presentazione è una caratterizzazione della percezione, a differenza per esempio della rappresentazione del ricordo. Quando Husserl pensa alla temporalità della percezione presentificante, egli la determina guardando al tempo immanente, che appartiene sostanzialmente al tempo-ora. Quando al contrario Heidegger tratta della presentazione, egli guarda ad un fenomeno temporale che non è

quello del tempo-ora, bensì quello del tempo originario, della temporalità esistenziale. Nell’ambito del pensiero heideggeriano sul tempo, la presentazione designa il fenomeno esistenziale del presente, non il presente come ora, ma il presente esistenziale che, come tutti i fenomeni temporali esistenziali, deve essere esperito a partire dall’apertura estatica. Nel teneredischiuso che presentifica ciò che perviene-a-sé e riviene-a-sé, nell’attuazione del futuro e dell’esser-stato esistenziale, questa presentazione apre, lascia entrare nel suo esser-scoperto l’ente come presente intramondano. Il fenomeno unitario del futuro esistenziale (pervenire-a-sé), dell’esserstato esistenziale (rivenire-a-sé) e del presente esistenziale (presentazione) viene chiamato da Heidegger la temporalità esistenziale. Essa è il senso temporale dell’essere dell’esserci, in quanto quest’ultimo è costituito dalla cura. L’esserci può compiersi nel suo essere attraverso la cura, solo perché è costituito nel suo essere come temporalità esistenziale. Il carattere di attuazione della temporalità viene espresso terminologicamente dicendo che l’esserci, nella sua temporalità, si temporalizza. La temporalizzazione della temporalità – l’andare-verso-di-sé, il ritornare-a-sé, il rendere-presente – è l’accadimento più originario nell’essere dell’esserci. Nel verso-di-sé del futuro esistenziale, nel ritorno-a-sé dell’esser-stato esistenziale e nello scoprente lasciar-venire incontro-di del presente esistenziale, l’esserci esiste nel modo dell’esser-fuori-di-sé, in greco ἐκστατιόν. I tre fenomeni esistenziali del tempo vengono perciò chiamati estasi. L’esserci esiste come il compiersi della cura, in quanto matura temporalmente nell’unità delle tre estasi della sua temporalità. In queste tre estasi della temporalità, esso è non in sé stesso al modo di un’immanenza, ma è essenzialmente fuori di sé nell’apertura. Le tre estasi della temporalità sono tre modi temporali in cui l’esserci è aperto estaticamente, tre modalità di apertura estatico-temporale. Ma ciò in cui l’esserci è rapito, in queste tre modalità di apertura estatico-temporale, è di volta in volta un orizzonte. L’unità di questi tre orizzonti forma l’apertura orizzontale. La temporalità esistenziale è costituita in modo estatico-orizzontale. Dopo aver messo in rilievo in senso fenomenologico-ermeneutico la temporalità esistenziale in riferimento alla cura autentica (§ 65), nel successivo quarto capitolo viene messa in luce la temporalità inautentica dell’esserci, in modo tale però da raggiungere contemporaneamente una determinazione più precisa della temporalità autentica. Di particolare

importanza è la sezione “a” del § 68. Qui, infatti, viene spiegata, contenutisticamente e terminologicamente, la temporalità della comprensione (progetto), e precisamente sia della comprensione autentica che di quella inautentica, nella loro struttura tripartita. Così come all’interno della temporalità autentica ciascuna delle tre estasi matura temporalmente nella modalità dell’autenticità, allo stesso modo anche all’interno della temporalità inautentica, ciascuna delle sue estasi matura temporalmente nella modalità dell’inautenticità. Per questo, dunque, ogni estasi temporale ha bisogno di due diverse designazioni terminologiche. Da questo momento, il pervenire-asé diventa il termine formale per designare indifferentemente il fenomeno esistenziale del futuro in generale. Infatti sia nella temporalità autentica che in quella inautentica, l’esserci perviene sé, ma ogni volta in una modalità diversa. D’ora in avanti, l’autentico pervenire-a-sé è chiamato da Heidegger anticipare [Vorlaufen]. Ma come perviene a sé l’esserci nel compimento inautentico della cura? In questo caso l’esserci non compie il suo progetto gettato a partire dalla modalità possibile che gli è propria, ma smarrisce il suo esistere nel mondo e nei possibili modi del commercio prendentesi cura con l’ente intramondano di cui ci si prende cura. In questa modalità di compimento della cura, l’esserci perviene a sé in modo tale da aspettarsi sé stesso a partire dalle possibilità di ciò di cui si prende cura. L’aspettarsi [Gewärtigen] è ora il termine ontologico-esistenziale per designare il fenomeno del futuro inautentico. L’autentico rivenire-a-sé, l’autentico esser-stato esistenziale dell’esserci, ottiene ora la particolare denominazione di ri-petizione [Wieder-holung], cosicché il rivenire-a-sé diventa il termine formale per designare indifferentemente l’esser-stato esistenziale in generale. Ri-petizione significa l’autentico esser-stato, poiché l’esserci, nel compiersi autentico della cura, si ri-prende nel suo esser-gettato come esser-stato aperto rispetto alla chiusura della temporalità inautentica. Nel compimento inautentico della cura, nel pervenire-a-sé che aspetta sé stesso, l’esserci tiene chiuso, insieme al progettarsi autentico, anche il suo autentico esser-gettato, il suo esser-statoaperto. Nel suo esistere, esso si rapporta così al suo autentico esser-stato, chiudendosi. Questo chiudersi Heidegger lo chiama dimenticanza [Vergessenheit]. Esso è il nome esistenziale-ontologico che designa l’inautentico esser-stato esistenziale. Il presente autentico viene ora chiamato da Heidegger l’attimo

[Augenblick]. Ma l’attimo non è inteso nel senso dell’ora o di una fase di ora, ma come l’autentica estasi del presente. In essa l’esserci è rapito nelle possibilità di cui può prendersi cura, e che si mostrano nella situazione dell’essere-nel-mondo dischiusa attraverso la ripetizione anticipante. Il presente inautentico, invece, ottiene come denominazione specifica il termine presentare [Gegenwärtigen]. Più precisamente, ogni presente esistenziale, ogni estasi esistenziale del presente è presentante; ma il presente inautentico non ha il carattere dell’attimo. L’espressione “presentare”, dunque, dapprima funge da termine formale per designare indifferentemente il fenomeno esistenziale del presente in generale, ma poi anche da nome proprio per designare il presente inautentico, a differenza dell’attimo inteso come il presente inautentico. Riassumendo: la temporalità originaria della comprensione è, nell’unità con l’essere-gettato e con l’esser-presso prendentesi cura, l’unità estatica dell’attimo anticipante-ripetente, mentre la temporalità inautentica della stessa comprensione matura temporalmente come il presentare-che si aspetta-e che dimentica. Queste due modalità esistenziali del tempo originario sono i modi in cui l’apertura estatico-orizzontale dell’esserci è dischiusa in senso temporale. Nel presentare-che si aspetta-e che dimentica, l’esserci si progetta nella significatività di un mondo possibile e nelle possibili modalità che rientrano in essa, riguardo al rapportarsi prendentesi cura all’ente intramondano di cui ci si prende cura. La temporalità inautentica della comprensione si dispiega perciò nella specifica temporalità del commercio con l’ente intramondano. Di questa temporalità esistenziale si occupa il § 69/a. Quando abbiamo definito il concetto ontologico-esistenziale di mondo, abbiamo spiegato la significatività come una totalità aperta di rapporti-per-che o di rapporti-diappagatività. Ogni ente intramondano, designato ontologicamente da Heidegger come mezzo utilizzabile a differenza della cosa semplicemente presente sottomano, è determinato ontologicamente nel suo primario checos’è, attraverso un rapporto di appagatività conforme al mondo, cioè appartenente al mondo come significatività. Sulla base di questo rapporto, l’ente chiamato mezzo appartiene ogni volta ad un circoscritto contesto di mezzi, ad una connessione di mezzi (totalità di mezzi). Consistendo il suo che-cos’è nell’appagatività, il mezzo è ciò con cui esso ha il suo appagamento presso gli altri enti appartenenti alla stessa connessione di

mezzi. Nel commercio prendentesi cura con l’ente intramondano, io comprendo la sua utilità o impiegabilità nella misura in cui il mio commercio con esso è condotto sin dall’inizio attraverso il rapporto di appagatività compreso in base alla significatività progettata-gettata. Comprendere questo rapporto nella comprensione dell’essere significa comprendere presso-che esso ha con quell’ente la sua appagatività. Questa comprensione ontologica preliminare del rispettivo presso-che-cosa dell’appagatività ha anche la struttura esistenziale-temporale dell’aspettarsi. Nell’aspettarsi del pressoche-cosa dell’appagatività, io rivengo al con-che-cosa dell’appagatività. Questo rivenire esistenziale-temporale al rispettivo con-che-cosa, viene chiamato da Heidegger il ritenimento [Behalten]. Così egli può dire: «L’aspettarsi il presso-che, unitamente al ritenimento del con-che dell’appagatività, rende possibile nella sua unità estatica la presentazione manipolativa specifica del mezzo»15. Il presentare-aspettantesi-ritenente è la temporalità esistenziale del commercio prendentesi cura con l’ente mondano. Essa si dispiega a partire dalla temporalità inautentica della comprensione, a partire dalla presentazione che si aspetta-e-si dimentica. Questa temporalità estatico-orizzontale del prendersi cura si mostra, dunque, come l’origine immediata di quella comprensione del tempo che comprende il tempo come ora, non-ancora-ora, non-più-ora, senza che il tempo che così ne scaturisce sia già rappresentato come una pura molteplicità di ora che si susseguono. Di questo scaturire parla, all’interno del sesto capitolo, l’importante § 79, sotto il titolo: La temporalità dell’esserci e il prendersi cura del tempo. Noi avevamo già menzionato quel modo d’essere esistenziale, fondato nel comprendere progettante, che è l’interpretazione. Ma ora, nello scaturire del tempo di cui ci si prende cura dalla temporalità estatico-orizzontale del prendersi cura, essa assume una funzione decisiva. La temporalità esistenziale tripartita del prendersi cura, che, proprio in quanto esistenziale, appartiene al tempo originario, si interpreta e si esprime nel compiersi del mio rapportarmi prendendomi cura all’ente di cui mi prendo cura. L’aspettarsi estatico si interpreta nel “poi”. Noi diciamo, ad alta voce o silenziosamente, “poi accadrà questo o quest’altro”. Il ritenimento estatico si interpreta nel “prima che” o “allora”. Noi diciamo, ad alta voce o silenziosamente, “prima dev’essere ancora sbrigata quell’altra cosa”. Infine, il presentare estatico si interpreta nell’“ora”, quando noi diciamo, ad alta voce

o silenziosamente, “ora faccio questa o quell’altra cosa”. Nella comprensione del “poi” si trova il “non-ancora-ora”, nella comprensione dell’“allora”, l’“ora-non-più”. Il “poi” e l’“allora” sono compresi guardando l’“ora”. Ma nell’“ora” si interpreta il presentare esistenziale. Nella temporalità inautentica della comprensione e nella temporalità del commercio prendentesi cura, il presentare mostra una certa priorità, mentre nella temporalità autentica prevale il futuro esistenziale. A motivo di questa priorità del presentare all’interno della temporalità inautentica, nel tempo interpretato che si esprime nel “poi”, nell’“allora” e nell’“ora”, è proprio l’ora a costituire il centro di orientamento temporale. Il “poi” più vicino è compreso nel “subito dopo”, il più vicino “allora” nel “poco-fa”. La temporalità dell’atteggiamento prendentesi cura si interpreta in modo tale che al “poi”, all’“allora” e all’“ora” così interpretati appartiene ogni volta un orizzonte proprio. L’orizzonte appartenente al “poi” è il “dopo”, in cui sono compresi tutti i possibili “poi”. L’orizzonte che appartiene all’“allora” è il “prima”, il quale racchiude in sé tutti gli “allora”, e l’orizzonte che appartiene all’ora è l’“oggi”, in cui sono racchiusi tutti i possibili ora. Questo rapportarsi al “poi”, all’“allora” e all’“ora”, interpretati a partire dalla temporalità esistenziale, viene chiamato da Heidegger il prendersi cura del “tempo”, cioè del tempo interpretato, che perciò si chiama il tempo di cui ci si prende cura. Ma il “tempo” di cui ci si prende cura – e dunque il “poi”, l’“allora” e l’“ora” a cui ci rapportiamo nel commercio prendentesi cura con l’ente intramondano – non vanno intesi come meri non-ancora-ora, non-piùora e ora, bensì come “poi, quando farò questo e quest’altro”, come “allora, quando ho fatto questo e quest’altro”, e come “ora, che faccio questo e quest’altro”. Questa struttura di rapporto propria del tempo interpretato e di cui ci si prende cura, secondo cui esso è ogni volta il tempo del mio fare o non fare e dei relativi avvenimenti, viene chiamata da Heidegger la sua databilità primaria, ovvero preliminare rispetto alla datazione del calendario. A questa struttura della databilità appartiene il carattere mondano del tempo di cui ci si prende cura sulla base del quale Heidegger chiama il tempo di cui ci si prende cura tempo mondano16. Il tempo interpretato nel commercio prendentesi cura con l’ente intramondano a partire dalla temporalità estatico-orizzontale del prendersi cura, è già compreso ogni volta

come tempo-per [Zeit-zu], cioè per questo o quel commercio prendentesi cura con l’ente di cui ci si prende cura. Noi ci rapportiamo ad ogni “ora che accade questo o quello”, così interpretato, in modo tale da comprenderlo come “appropriato per questo prendersi cura” o come “inappropriato per quell’altro prendersi cura”. Il tempo interpretato, di cui ci si prende cura, mostra in sé stesso la struttura dell’appropriatezza o inappropriatezza per… Nel rapportarsi prendentesi cura al tempo interpretato, noi ci rapportiamo ad esso in modo da prenderlo come tempo-per o come tempo non opportuno-per. Il tempo di cui ci si prende cura è determinato così attraverso il rapporto-perche. Esso è il tempo per fare questo o quello, per rapportarmi in esso a questa o quella cosa, prendendomene cura, secondo il suo rapporto-per-che conforme al mondo. Il rapporto-per-che, il quale struttura anche il tempo interpretato e di cui ci si prende cura, appartiene al mondo in qualità di significatività esistenzialmente dischiusa. Il tempo di cui ci si prende cura ha, in quanto tempo-per, un carattere mondano e perciò può esser reso con il termine di tempo mondano. Mentre per Husserl il “tempo mondano” è il tempo oggettivo, reale, che si distingue dal tempo soggettivo e immanente in cui si costituisce il tempo oggettivo del mondo, Heidegger invece pensa, nel concetto di “tempo mondano”, al tempo di cui ci si prende cura del nostro commercio prendentesi cura con l’ente intramondano, che in quanto tale ha la sua origine nella temporalità esistenziale. Anche il “carattere mondano” proprio del tempo del mondo, viene inteso da Husserl in maniera diversa da Heidegger. Per Husserl, il “mondo” nominato nel tempo mondano è la totalità dell’ente soggettivo e oggettivo che è presente nel tempo. Al contrario, nell’uso che fa Heidegger della locuzione «tempo del mondo», “mondo” appartiene al mondo esistenziale nel senso della significatività. Il tempo mondano di cui ci si prende cura è dunque, da parte sua, l’origine immediata di ciò che Heidegger chiama la comprensione ordinaria del tempo, in cui il tempo è compreso come pura successione-di-ora. Comprendere il tempo come mera successione-di-ora significa prenderlo come una serie di ora continuamente presenti, che di continuo passano e di continuo arrivano. La comprensione ordinaria del tempo prende il tempo come il puro susseguirsi dell’ora, come il flusso e lo scorrere dell’ora. Ma come arriva a modificarsi il tempo mondano, di cui ci si prende cura, nel mero tempo-ora? La risposta a questa domanda viene fornita da Heidegger

nel § 81, che tratta della genesi del concetto ordinario di tempo. La comprensione ordinaria del tempo si forma misurando numericamente il tempo. Nel prestare attenzione agli ora che vengono contati, la comprensione che conta il tempo ha nascosto gli ora contati per quanto concerne le strutture della databilità e la significatività mondana, senza sapere di questo nascondimento. Una volta che il tempo viene interpretato come puro susseguirsi degli ora, esso non viene più visto come tempo mondano. Col nascondimento della databilità e della significatività mondana del tempo di cui ci si prende cura, viene completamente nascosta e livellata la temporalità estatico-orizzontale del commercio prendentesi cura, la cui interpretatività è il tempo mondano di cui ci si prende cura. Ogni ora privato del proprio carattere mondano assomiglia perciò all’altro. Così nasce l’idea del tempo come la pura successione di ora. 1

Heidegger, Sein und Zeit cit., p. 426; trad. it. cit., pp. 498-499. Eigler, Metaphysische Voraussetzungen cit. 3 R. Bernet, Die Frage nach der Ursprung der Zeit bei Husserl und Heidegger, «Heidegger Studies», 3/4 (1987/88), pp. 89-104. 4 Sulla relazione cosale tra la domanda sull’essere posta in modo più radicale e l’analitica ontologico-esistenziale dell’esserci, cfr. F.-W. v. Herrmann, Hermeneutische Phänomenologie des Daseins. Eine Erläuterung von “Sein und Zeit”, Bd. 1: Einleitung: Die Exposition der Frage nach dem Sinn von Sein, Klostermann, Frankfurt a.M. 1987. 5 Sul metodo fenomenologico di Heidegger e Husserl, cfr. O. Pöggeler, Heideggers Neubestimmung des Phänomenbegriffs, in H. Rombach et. al. (Beitraege v.), Neuere Entwicklungen des Phänomenbegriffs, Alber, Freiburg-München 1980 («Phänomenologische Forschungen» 9), pp. 124162. – F.-W. v. Herrmann, Der Begriff der Phänomenologie bei Heidegger und Husserl, Klostermann, Frankfurt a.M. 19882. 6 Heidegger, Sein und Zeit cit., § 18. 7 Heidegger, Sein und Zeit cit., § 29. 8 Heidegger, Sein und Zeit cit., § 31. 9 Heidegger, Sein und Zeit cit., § 32. 10 Heidegger, Sein und Zeit cit., § 41. 11 Heidegger, Sein und Zeit cit., p. 324; trad. it. cit., p. 385. 12 Heidegger, Sein und Zeit cit., § 38. 13 Heidegger, Sein und Zeit cit., § 65, in part. pp. 325 ss.; trad. it. cit., p. 386. 14 Sulle analisi fenomenologico-ermeneutiche di Heidegger circa la temporalità esistenziale, cfr. anche W. Biemel, Heidegger, Rowohlt, Reinbek 1973, pp. 55 ss. – F.-W. v. Herrmann, Der Zeitbegriff Heideggers, «Mesotes. Zeitschrift für philosophischen Ost-West-Dialog.», Supplementband: Martin Heidegger, Wien 1991, pp. 22-34. Dello stesso autore Zeitlichkeit des Daseins und Zeit des Seins, in Id., Subjekt und Dasein. Interpretationen zu „Sein und Zeit“, Klostermann, Frankfurt a.M. 19852, pp. 76-91. 15 Heidegger, Sein und Zeit cit., p. 353; trad. it. cit., p. 418. 16 Cfr. Heidegger, Sein und Zeit cit., § 80, p. 414 ; trad. it. cit., p. 486. 2

Considerazioni conclusive Agostino nel pensiero sul tempo di Husserl e Heidegger Se un pensatore rivolge il suo sguardo alla storia del pensiero, questo sguardo sarà sempre guidato dalla sua propria impostazione della domanda. Se lo sguardo di Husserl alla storia del concetto filosofico di tempo riconosce un posto particolare all’indagine agostiniana sul tempo, ciò dipende dal suo proprio modo di domandare riguardo al tempo. Per lui il significato rilevante dell’indagine agostiniana sul tempo sta nel fatto che essa, per la prima volta nella storia del problema del tempo, si è configurata come un’indagine penetrante dello spirito e dell’anima che comprende il tempo, nonché dei suoi atteggiamenti temporali. A buon diritto Husserl ha potuto vedere, nel modo in cui Agostino risponde alla domanda sull’essere e sull’essenza del tempo, una forma preliminare della sua propria fenomenologia della coscienza interna del tempo. Certo, egli avrà percepito che Agostino, nel chiarire il fenomeno della conoscenza, è orientato verso quella teoria raffigurativa che egli stesso invece ha respinto come insostenibile in base al chiarimento essenziale della vera natura dell’intenzionalità anche nella coscienza interna del tempo. Tuttavia, il fatto che Agostino non si sia limitato a vedere e a tematizzare solo gli atteggiamenti temporali autonomi (nel linguaggio di Husserl, le esperienze vissute o gli atti) quali la percezione, il ricordo e l’attesa, ma si sia spinto fino agli atteggiamenti temporali originari e non autonomi della distentio animi, costitutivi in quanto tali per il compiersi degli atteggiamenti temporali autonomi, ha dovuto destare il massimo interesse in Husserl. Ciò che Agostino ha portato analiticamente alla luce come intentio o attentio, come expectatio e come memoria della distentio animi, nell’analisi husserliana della coscienza interna del tempo riceve il nome di impressione originaria, ritenzione e protenzione. Questo vuol dire che Agostino è stato il primo ad addentrarsi nell’ambito primario dei modi originari della coscienza costituente il tempo. Ma se è vero che, in linea di massima, Agostino si è inoltrato all’interno di quell’ambito problematico del pensiero sul tempo, che

diventerà il campo di indagine anche del pensiero husserliano sul tempo, allora il ricorso alle categorie interpretative di Husserl – quelle tratte dalla sua fenomenologia della coscienza interna del tempo – si presta anche per un’interpretazione immanente dell’indagine agostiniana sul tempo. Allo stesso modo, anche il fatto che Heidegger, guardando alla filosofia occidentale, annoveri l’indagine agostiniana sul tempo fra le tre riflessioni che hanno aperto la via per comprendere l’essenza del tempo, dipende dalla sua propria impostazione della domanda. La trattazione aristotelica sul tempo è per lui antesignana, perché in essa per la prima volta – e in modo rilevante per la successiva storia del concetto filosofico di tempo – vengono enucleate con rigore concettuale le strutture essenziali della comprensione ordinaria del tempo. La novità della riflessione kantiana sul tempo, egli la vede poi nel fatto che Kant ha visto per la prima volta, nel problema dello schematismo dei concetti puri dell’intelletto, l’effettiva coappartenenza di essere (categorie) e tempo (schemi trascendentali), sebbene la tematizzazione kantiana della temporalizzazione delle categorie rimanga all’interno del tempo-ora, mentre Heidegger presenta il senso temporale dell’essere a partire dalla temporalità estatico-orizzontale dell’esserci. L’indagine agostiniana sul tempo, invece, risulta antesignana agli occhi di Heidegger, per il fatto che in essa – dopo che Aristotele aveva semplicemente richiamato l’attenzione sul riferimento del tempo all’anima – viene esaminata a fondo per la prima volta, attraverso delle analisi penetranti, la coappartenenza di tempo e anima. All’interno dell’indagine agostiniana vi sono due cose che assumono per Heidegger un significato rilevante, a partire dal suo stesso pensiero sul tempo. La prima cosa è l’impostazione dell’indagine agostiniana a partire dall’esperienza quotidiana del tempo, quella che noi abbiamo chiamato la comprensione naturale, pre-filosofica e pre-concettuale del tempo nel compiersi della vita quotidiana. Importante a tal proposito è il fatto che Agostino definisca questa comprensione naturale del tempo, con cui dialoga la comprensione filosofica del tempo, non in base alla mera successione temporale e al tempo-ora, ma come il tempo a cui noi ci rapportiamo nel fare o non fare quotidiano, come il tempo che ci prendiamo per una cosa o di cui abbiamo bisogno per un’altra cosa. Portando il discorso sulla comprensione naturale del tempo della vita quotidiana, Agostino richiama l’attenzione su quel fenomeno temporale che Heidegger ha messo in risalto, all’interno del

suo pensiero sul tempo, come il tempo mondano di cui ci si prende cura. Ma, compreso correttamente, il tempo mondano di cui ci si prende cura indica in direzione della sua propria origine, cioè verso la temporalità estaticoorizzontale del commercio prendentesi cura con l’ente intramondano. Anche se Agostino non si è spinto fino all’ambito della temporalità esistenziale dell’esserci, tuttavia egli ha pur sempre esperito e determinato l’essenza del tempo come distentio animi. E questa, in quanto triplice distendersi dello spirito, è un cenno alla temporalità estatico-orizzontale dell’esserci elaborata per la prima volta da Heidegger. La seconda cosa che risulta essere di grande importanza per il pensiero heideggeriano sul tempo è il fatto che Agostino veda nella distentio animi l’essenza stessa del tempo. Come Husserl vede nella distentio animi una forma preliminare della coscienza interna del tempo costituita intenzionalmente, nonché dei modi della coscienza costituenti il tempo, analogamente Heidegger vede nella distentio animi un indicatore che segnala il carattere estatico dell’esserci e la temporalità estatico-orizzontale dell’esserci. Se è vero che Agostino vede l’essenza del tempo nella distentio animi, nel triplice distendersi dell’animo, allora per lui il tempo non è il mero susseguirsi di istanti che si succedono; piuttosto egli intuisce che l’essenza del tempo è l’essenza dell’esistenza dell’uomo, e che questa essenza consiste nel triplice distendersi che matura temporalmente. Agostino determina l’essenza del tempo come il triplice distendersi dello spirito, mentre Heidegger, in maniera più radicale, ma volgendo lo sguardo nella stessa direzione, determina l’essenza del tempo come l’unità delle tre estasi della temporalità esistenziale dell’esserci. Per Husserl, Agostino si trova sulla via che conduce alla coscienza interna del tempo; per Heidegger, Agostino è sulla strada della temporalità esistenziale dell’esserci. Se si paragona la posizione di Heidegger riguardo alla ricerca agostiniana sul tempo – espressa, da un lato, nei già citati corsi universitari, in Essere e tempo e nella conferenza di Marburgo intitolata Il concetto di tempo, dall’altro, nella conferenza di Beuron –, salta agli occhi una differenza nell’interpretazione che si può cogliere nel modo seguente. Nei corsi universitari, nonché nella conferenza marburghese e in Essere e tempo, viene certamente sottolineata la straordinaria importanza della riflessione agostiniana sul tempo, la sua interrogazione più radicale e la sua visione più

originaria rispetto ad Aristotele, ma vengono contemporaneamente notati anche i limiti che essa condivide con altre indagini tradizionali sul tempo. Nel corso su I problemi fondamentali della fenomenologia, nel contesto di un’interpretazione della trattazione aristotelica sul tempo, ma al tempo stesso con un occhio rivolto a Husserl, Heidegger dice: «Fintanto che non abbiamo un concetto adeguato di anima, di intelletto, cioè di esserci, resta difficile dire che cosa significhi che il tempo è nell’anima»1. Il che vuol dire: sebbene Agostino per la prima volta porti alla luce analiticamente la distentio animi come un fenomeno peculiare, egli non raggiunge ancora su questo punto un concetto adeguato di esserci. Nel corso universitario Sull’essenza della libertà umana2 leggiamo: «L’importanza delle ricerche sul tempo di Aristotele, Agostino, Kant e Hegel è dunque fuori discussione; tuttavia bisogna sempre tener conto di una considerazione fondamentale, e cioè che in esse il problema del tempo è sempre impostato e discusso senza il riferimento fondamentale ed esplicito al problema dell’essere in generale»3. Il concetto adeguato di esserci può essere guadagnato solo ponendo in modo radicale la domanda sull’essere, e viceversa, la domanda sull’essere si può porre ed elaborare radicalmente solo seguendo il filo conduttore dell’esserci. Entrambe queste cose non si verificano nemmeno nella ricerca agostiniana sul tempo. Tuttavia, nello stesso anno dell’ultimo corso universitario citato, Heidegger aveva tenuto anche una conferenza su Agostino a Beuron, in cui evita chiaramente di evidenziare i limiti della riflessione agostiniana sul tempo, preferendo piuttosto approfondire, interpretandole, le tendenze più radicali e più originarie presenti in questa ricerca sul tempo. Si tratta di quelle tendenze secondo le quali Agostino sarebbe in cammino verso il carattere estatico dell’esistenza dell’esserci e la temporalità estaticoorizzontale, sebbene Heidegger non dica allo stesso tempo perché Agostino alla fine non sia giunto sino a quest’ambito problematico. Poiché in questa conferenza Heidegger permette di rintracciare e valorizzare tranquillamente tali tendenze, egli non interpreta il discorso di Agostino sulle imagines in direzione della teoria raffigurativa, e dunque non intende imago come riproduzione, bensì come ciò che è visibile. Tale interpretazione sembra contraddire quell’altra interpretazione, nella quale vengono evidenziati invece i limiti della domanda e delle determinazioni agostiniane. Tuttavia qui non si

tratta di una contraddizione, ma di due legittime modalità interpretative, che devono essere considerate insieme. Nella seconda modalità interpretativa non si tratta solo di un’interpretazione immanente, ma di un’interpretazione che, portando alla luce una tendenza nascosta, fa vedere quale direzione deve imboccare il proprio domandare e il proprio ricercare sull’essenza dell’uomo e del tempo. Nel corso del Novecento la ricerca agostiniana sul tempo ha fornito, a due domande diverse, due diverse risposte. Alla domanda di Husserl, essa ha risposto presentandosi come un primo tentativo di una fenomenologia della coscienza interna del tempo. Quando più tardi è stata interrogata da Heidegger, essa gli ha mostrato quelle tendenze che indicano verso una possibile fenomenologia ermeneutica della temporalità esistenziale – ovvero estatico-orizzontale – dell’esserci. 1

Heidegger, Die Grundprobleme cit., p. 335; trad. it. cit., p. 227. M. Heidegger, Vom Wesen der menschlichen Freiheit. Einleitung in die Philosophie, GA 31, hrsg. v. H. Tietjen, Klostermann, Frankfurt a.M. 1982. 3 Heidegger, Vom Wesen der menschlichen Freiheit cit., p. 120. 2

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Frontespizio Il Libro Nota editoriale Premessa Introduzione

1. Agostino e la fenomenologia 2. L’andamento di questo saggio Parte prima. La ricerca fenomenologica sul tempo nelle Confessioni di Agostino

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1. Tempo ed eternità 22 1. Il carattere fenomenico del tempo e la considerazione rimuovente (XI, 1-9) 22 2. I tempi che non sussistono mai, il distacco rimuovente e l’eternità che sussiste sempre (XI, 1013) 36 2. Struttura costruttiva e forma dinamica della ricerca sul tempo 43 1. La struttura costruttiva della ricerca sul tempo 43 2. La forma dinamica della ricerca sul tempo come dialogo tra la comprensione naturale-quotidiana e quella filosofica del tempo 45 3. La domanda sull’essere o sul non-essere del tempo 52 1. Il differimento della domanda sull’essenza del tempo a favore della domanda preliminare sull’essere o sul non essere del tempo. La prima verifica filosofica dell’essere del tempo (XI, 14) 52 2. L’obiezione mossa dalla comprensione naturale del tempo nei confronti del risultato della prima verifica critica sull’essere del tempo e la seconda verifica che ne consegue (XI, 15) 56 3. Il ritorno all’atteggiamento temporale del percepire, del paragonare e del misurare il tempo e la domanda sull’essere del presente (XI, 16) 64 4. Il ritorno all’atteggiamento temporale del ricordo e dell’attesa e la questione sull’essere del passato e del futuro (XI, 17) 68 5. L’essere del passato ricordato e del futuro atteso come un modo del presente (presenza) (XI, 1819) 72 6. L’anima che comprende il tempo, i suoi tre atteggiamenti temporali e i modi di essere del passato, del presente e del futuro (XI, 20) 88 4. La domanda sull'essenza del tempo 92 1. La situazione aporetica: la misurazione del tempo che passa e l’apparente mancanza di estensione del tempo (XI, 21) 92 2. La comprensione quotidiana del tempo nella sua estensione e la perplessità filosofica in riferimento al come dell’estensione (XI, 22) 95 3. La durata e l’estensione del movimento dei corpi celesti e terreni e la domanda sull’estensione del tempo (XI, 23-24) 97 4. Nuova ammissione della situazione aporetica della domanda sull’essenza del tempo (XI, 25) 102 6. Ritorno agli atteggiamenti temporali dello spirito che si distende (XI, 27) 107 7. Attentio, expectatio primaria e memoria primaria come originari atteggiamenti temporali (XI, 28) 116 Parte seconda. Il significato della ricerca fenomenologica di Agostino sul tempo per Husserl e Heidegger

1. La domanda fenomenologica di Husserl sul tempo come analisi fenomenologica della coscienza del tempo 1. Il ritorno di Agostino all’immanenza dello spirito che comprende il tempo e la coscienza soggettiva del tempo come punto di partenza di Husserl 2. La durata degli oggetti temporali costituentesi nel flusso temporale immanente della pura coscienza soggettiva e la coscienza dei modi di apparire temporale di oggetti temporali identici. Impressione originaria e ritenzione (ricordo primario) 3. La temporalità del ricordo secondario, della percezione e dell’attesa secondaria. L’attesa primaria come protenzione 2. La domanda fenomenologica di Haidegger sul tempo come domanda sul tempo originario e sul tempo ordinario che da esso scaturisce 1. La distentio animi come riflesso del distendersi dell’esserci nella sua temporalità estaticoorizzontale 2. La temporalità estatico-orizzontale dell’esserci, il tempo mondano della cura e il tempo-ora ordinario Considerazioni conclusive. Agostino nel pensiero sul tempo di Husserl e Heidegger

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