ACAB. All cops are bastards 9788806194697, 8806194690

"ACAB". All Cops Are Bastards. Il refrain di un celebre motivo skin anni Settanta diventa richiamo universale

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ACAB. All cops are bastards
 9788806194697, 8806194690

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Carlo Bonini

ACAB ALL COPS ARE BASTARDS

(2009)

Ai miei figli, Michele, Pietro e Giacomo.

INDICE Prologo......................................................................................................... 4 1. La macelleria di Michelangelo............................................................... 10 2. Drago...................................................................................................... 25 3. Lo Sciatto............................................................................................... 30 4. Chat........................................................................................................ 35 5. Cpt.......................................................................................................... 48 6. Mentalità.................................................................................................53 7. Due incisivi............................................................................................ 62 8. Carletto................................................................................................... 70 9. Mailat..................................................................................................... 76 10. Omer.....................................................................................................83 11. Padroni a casa nostra............................................................................ 89 12. In nome del popolo italiano..................................................................99 13. La notte di Roma............................................................................... 114 14. Teste matte..........................................................................................131 Epilogo..................................................................................................... 144

Acab

[...] Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte | coi poliziotti, | io simpatizzavo coi poliziotti! | Perché i poliziotti sono figli di poveri. | Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. | [...] Hanno vent'anni, la vostra età, cari e care. | Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia. | Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! | I ragazzi poliziotti | che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione | risorgimentale) | di figli di papà, avete bastonato, | appartengono all'altra classe sociale. | A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento | di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte | della ragione) eravate i ricchi, | mentre i poliziotti (che erano dalla parte | del torto) erano i poveri. [...] Pier Paolo Pasolini, Il Pci ai giovani!!, 1968. [...] Bisogno di pane, di lavoro, di istruzione, di casa. Bisogno di seconda casa, di cellulare, di cashemire, di Barbados, di caviale, di Nike. Bisogno d'aria pulita per i nostri bimbi, d'un po' di tenerezza, di ideali, di sacro... Bisogno di odio. Solo a prendere atto del «bisogno d'odio» che soffrigge in ciascuno di noi, ci renderemo conto alla buonora che non tutti i bisogni possono essere impunemente soddisfatti. Vittorio Sermonti, L'odio è un bisogno, ammettiamolo. E reprimiamolo, in «Corriere della Sera», 2 dicembre 1992. [...] Quando alcune centinaia di ultras o di autonomi sono schierati a cinquanta metri da te con spranghe, catene, bombe carta e coltelli, io ritengo opportuno fargli così tanto schifo e paura che non devono pensare di poterci attaccare senza lasciarci le ossa! L'Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino. B., agente del reparto celere di Padova, post nel blog DoppiaVela, 2007.

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Al lettore. Questa è una storia vera. Non una verità definitiva. È una storia narrata attraverso la scrupolosa raccolta di documenti, atti processuali e testimonianze dirette di chi ne è stato partecipe, disponibili al momento della sua stesura. Roma, ottobre 2008.

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Prologo Cinghie Autostrada del Sole, settembre 2007

– 'A Cipolla, ma 'sto cesso non lo riesci a fa' cammina'? O pensi che aspettano noi all'Olimpico? Forse aveva ragione, er Cicoria. Ma con tutto che andava a tavoletta e il rumore nell'abitacolo era quello di un biplano, la Multipla di più non poteva dare. La lancetta del tachimetro era inchiodata sui centodieci. Come se le avessero dato del mastice. E, comunque, non erano neanche le 10 del mattino. A Roma-Juve mancavano ancora cinque ore. I cartelli dell'A1 avevano appena indicato l'uscita per Frosinone. Novanta chilometri, un'ora o giù di lì, e l'Olimpico li avrebbe accolti come ogni domenica. Con un occhio allo specchietto, Cipolla controllò compiaciuto il retro dell'abitacolo. La bandiera giallorossa, a mo' di drappo, era distesa sulla cappelliera, le sciarpe piegate sui sedili. La stecca di sigarette aperta da poco era incastrata tra il freno a mano e il sedile anteriore. La puzza di nicotina era già pungente. La trasferta aveva i suoi riti e nel rispetto dei dettagli si misurava quello per la scaramanzia. Cicoria si era messo a smanettare con lo stereo senza riuscire a cavarne un solo segno di vita. – Cazzo, manco la radio funziona su 'sto biroccio. – A che serve? Che vòi senti', Onda verde? Hai paura del traffico? Nun c'è 'n'anima pe' strada. – No. Vorrei sape' 'ndo' giocheno quelle merde dei napoletani. – A Empoli, perché? – Così. Cicoria si era fatto serio. – Se pò sape' che te frega? – Così. Il volante si era messo a vibrare come un martello pneumatico e Cipolla continuava a fissare il tachimetro. Il piede sinistro era anchilosato sull'acceleratore. Finché l'Opel Zafira grigio fucile non gli fu addosso come una frustata. – Ma che cazzo è? Che fa 'sto stronzo? Gli era arrivata alle spalle come una saetta. Lo aveva sorpassato scartando sulla corsia di sinistra e quindi era rientrata a destra, 4

costringendolo a un brusco colpo di freno. Ora ce l'aveva davanti. Attaccata al muso. Cicoria si era messo a gridare. – Guarda la targa, Cristo! Guarda la cazzo di targa! – Che ha 'sta targa? – Napoli. Ecco che ha 'sta targa. – Embe'? Conosci qualche napoletano che rispetta er codice? – Cipolla, ma che te sei rincojonito? Nun hai capito? L'Opel era così vicina che le si poteva guardare dentro. Sui sedili di dietro viaggiavano almeno in tre. La sciarpa bianca e azzurra annodata al collo. Le teste completamente rasate. Erano rivolti verso il lunotto posteriore e ce l'avevano con loro. Uno si era messo a mulinellare la lingua. Un altro mimava ad ampi gesti l'invito a un pompino. Il terzo stringeva nel pugno un'orribile cinghia borchiata dalla fibbia enorme. – Tranquillo, Cicoria. Ora se li levamo de mezzo. – Ah, sì? E come? Che fai, li superi? – Ce provo. Cipolla non aveva dato neppure un quarto di giro allo sterzo che lo spostamento d'aria aveva fatto rimbalzare la Multipla di nuovo a destra. Una Bmw verdina lo chiudeva a sinistra. Ma non era lì per superare. – O porca la puttana. Cipolla, semo fatti. Cipolla non aveva la forza di guardare. Il collo era di marmo. Teneva lo sguardo fisso sulla linea di mezzeria. Sul metro scarso che divideva il muso della Multipla dalla Opel che la precedeva. Sulla maledetta lancetta congelata sui centodieci. – Chi ce sta nel Bmw, Cicoria? Chi ce sta? – E chi ce deve esse'? Napoletani. Napoletani. – Che stanno a fa'? – Guarda tu. – Nun posso, Cico'. Nun me posso volta'. – Sì che pòi, invece. Guarda anche tu. Il passeggero sul lato guida della Bmw aveva abbassato il finestrino, sporgendo il viso e offrendolo alla velocità. Aveva una bocca enorme spalancata in una smorfia da Joker. Resa ancora più turpe dalle guance strizzate dal vento. Gridava come un ossesso. E il suono delle sue parole arrivava come un latrato. – Che cazzo sta a di'? – Abbassa er finestrino e senti. 5

Cipolla aveva poggiato l'indice sull'interruttore alzacristalli per fermarne quasi subito la corsa. Perché non restasse più di una sottile lama d'aria tra lui e quell'animale. Il latrato si era fatto distinto. – Omm' 'e mmerda! Omm' 'e mmerda. Scinn', omm' 'e mmerda. Scinn', si tien' 'e ppalle. – Col cazzo che me fermo. Col cazzo che scenno. Giusto, Cico'? Col cazzo che se fermamo. Cicoria si era messo a contare i tipi nella Opel e quelli nella Bmw. – Nella Zafira so' sei. E nel Bmw, quattro. In dieci nun ce danno manco er tempo de respira'. – Il punto è rimane' vivi qui dentro. La Bmw si era messa a sbandare sulla sua destra, schiacciando la Multipla verso la corsia di emergenza. Si era abbassato anche il finestrino sul lato del passeggero posteriore e ne era emerso un altro cranio rasato. Cicoria non riusciva a credere a quel che vedeva. – Se sta a sporge'. Se sporge', 'sto matto fracico. – Che? – Ho detto che se sta a sporge', porco zio. Il napoletano era ormai fuori dalla macchina con tutto il tronco. La mano sinistra stretta sul montante della Bmw per resistere allo spostamento d'aria. La destra, libera nel brandire una cinghia gigantesca. – Che vòi fa'? Che vòi fa'? L'urlo di Cipolla si era spento in un frastuono di lamiera. La cinghia aveva raggiunto il tetto della Multipla con un boato. – Merda! Merdaaa! Cicoria era come impazzito. Si agitava sul sedile con gli scatti di una marionetta. La cinghia aveva colpito una seconda e una terza volta, facendo esplodere il vetro posteriore della Multipla. Cipolla sapeva di non poter frenare. Perché frenare significava morire. Centodieci, indicava ancora il tachimetro. Poi, l'occhio era finito sullo specchietto retrovisore. – Dimme che nun è vero quello che vedo, Cico'. Dimme che nun è vero... Cicoria si era voltato di scatto verso il lunotto infranto. Un'Alfa Romeo 156 grigio metallizzato gli era nel culo. – No. Nooo. Nooo. Ora il suo non era più neanche un pianto. Era il lamento di un agnello al macello. 6

La cinghia dell'animale nella Bmw non dava tregua. Ogni colpo sembrava più forte e centrato di quello che lo aveva preceduto. Il tetto della Multipla risuonava come una vecchia latta da tiro a segno. Protesa verso l'alto da uno dei finestrini dell'Alfa, una mano impugnava qualcosa che somigliava a una pistola. – Hanno er ferro, Cipolla. Hanno er ferro. Eppure il botto che ne era seguito non era quello di un'automatica. Un lanciarazzi. Ecco con che cosa sparavano. Cicoria aveva abbassato il busto. Si era rannicchiato in posizione fetale, cercando il fondo della macchina. – Ce vonno brucia'. Se ce pijano con quei razzi qui dentro, famo la fine dei topi. La fiancata destra della Bmw era ormai attaccata a quella sinistra della Multipla. Il vetro di Cipolla colava catarro e bava scaracchiata dai napoletani, che ormai si potevano quasi toccare. Mentre l'uomo con la cinghia, il tronco sospeso nel vuoto dell'autostrada, riusciva ad abbattere il suo pugno sul tetto della macchina. Quanti minuti fossero passati dall'inizio dell'assalto, Cipolla non riusciva a dirlo. Tre, cinque, dieci. Sapeva solo che non aveva mai staccato il piede dall'acceleratore. Sapeva che su quella maledetta autostrada sembrava essersi volatilizzata ogni traccia di vita. Chiuse gli occhi. E cominciò a gridare. – Ora l'ammazzo io! La Multipla scartò a sinistra colpendo la fiancata della Bmw, mentre l'Alfa e la Zafira, per qualche motivo, sfilarono a destra, allontanandosi. Anche la Bmw adesso disingaggiava. Osservando quelle macchine assassine farsi puntini in fondo a un rettifilo, Cipolla prese a ridere di un riso isterico, mentre il piede mollava l'acceleratore e la Multipla accostava sulla corsia di emergenza. Cicoria cominciò a vomitare. Cipolla si accasciò sul volante. Rimasero così per un po'. In un silenzio rotto solo dai conati e dal pianto. Finché il lampeggiante di una pattuglia della polizia stradale non prese a impastare di una luce azzurrina l'ombra dell'abitacolo. L'agente si portò la mano sinistra alla visiera, tenendo la destra sulla fondina. Infilò la testa nella Multipla respirandone il tanfo di sudore e paura. Ascoltò ciò che i due avevano da dire senza muovere un solo muscolo della faccia. Come se quel genere di orrore avesse qualcosa di familiare. E soltanto quando Cipolla ebbe articolato l'ultimo monosillabo, l'agente 7

indicò il tetto deturpato dell'auto e un piccolo adesivo bianco e azzurro che lui non aveva notato. Doveva averlo lasciato l'animale con la cinghia quando aveva preso a battere con il pugno. Era un pagliaccio dal sorriso diabolico. Un po' Arancia meccanica, un po' Pulcinella. – Le Teste matte. O forse, e più probabilmente, i Niss, – disse l'agente. – Niss? E che roba è? – «Niente incontri solo scontri». Questo vuol dire Niss. Sono i matti delle Teste matte. Il peggio della curva A del San Paolo. Fategli vedere un romano, romanista o laziale che sia, e impazziscono. L'ultima volta hanno speronato due pulmini di laziali sulla Salerno-Reggio Calabria. È il peggio che potesse capitarvi. Odio. Odio puro.

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All cops are bastards [«Tutti i poliziotti sono bastardi»]. THE 4-SKINS, gruppo rock skinhead, 1979.

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1. La macelleria di Michelangelo

Cristo... Il sangue, il tanfo di sudore e paura, quelle urla nel buio, come di maiali scannati. E le pupille dilatate dall'eccitazione di colleghi impazziti in un sabba di ossa spezzate e carne lacerata. Allora era successo davvero. Non era solo quella biondina dalle treccine rasta che perdeva liquidi dalle orecchie, schiacciata dagli anfibi come una bambola di pezza e che lui credeva morta. Quella che gli aveva fatto gridare: «Basta! Basta!» Il vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Fournier aveva una gran voglia di vomitare. Il pubblico ministero Stefano Zucca allungò bruscamente la mano sul piano della scrivania del suo ufficio, perché i referti medici di pronto soccorso che aveva sfilato da una cartellina prolungassero la sua nausea. Scheda di accettazione 026408, 09, 10, 11... Ospedale Galliera, Mura delle Cappuccine 14, Genova; fogli 137, 138, 139... Dipartimento di emergenza ospedale San Martino, largo Benzi 10, Genova; cartella clinica 015297, 298, 299... Azienda ospedaliera Villa Scassi, corso Scassi 1, Sampierdarena, Genova. – Legga, Fournier. La prego, legga con attenzione. Tutto e fino in fondo. E poi provi a ricordare bene quello che è successo alla scuola Armando Diaz la notte di sabato 21 luglio 2001. Perché lei non li ha dimenticati i giorni del G8, vero? Donna, ventitre anni, tedesca. «Trauma toracico. Trauma addominale. Fratture costali multiple con pneumotorace destro. Contusione polmonare. Trauma cranico. Contusioni multiple. Esiti delle lesioni: diminuzione del trenta per cento della capacità respiratoria. Indebolimento della capacità locomotoria di braccia e collo, con postumi suscettibili di ulteriore valutazione». Donna, ventidue anni, tedesca. «Escoriazione labbro superiore. Contusione al braccio destro». Uomo, ventuno anni, tedesco. «Trauma cranico orbita destra. Trauma spalla destra. Trauma toracico». Donna, ventisette anni, spagnola. «Contusione alla spalla destra con ematoma». 10

Donna, ventisette anni, tedesca. «Ferita lacerocontusa al sopracciglio superiore sinistro. Trauma cranico facciale. Frattura stiloideo ulnare sinistra. Frattura scomposta delle ossa nasali proprie con postumi suscettibili di ulteriore valutazione». Uomo, ventisette anni, tedesco. «Contusioni gomito e gamba sinistra». Uomo, ventitre anni, americano. «Trauma cranico con ferita lacerocontusa al cuoio capelluto. Contusione all'emitorace sinistro. Contusioni multiple. Trauma testicolare destro». Come diceva quel maledetto manuale? Ma sì, quello azzurro e amaranto che avevano distribuito in caserma, a uso interno. Pagina 4: Lo sfollagente non va mai considerato come un mezzo punitivo; deve essere eventualmente impiegato contro gli elementi più violenti come strumento di difesa-offesa-interdizione; deve essere utilizzato con decisione, mai con brutalità.

E come dicevano quelle due righe in grassetto? Quelle stampate in doppio corpo tipografico. Lo sfollagente non deve mai essere usato contro il capo, il viso e la spina dorsale.

Donna, ventitre anni, canadese. «Trauma cranico. Contusione alla gamba sinistra. Ematomi multipli alla coscia, anca e braccio sinistri». Uomo, quarantuno anni, spagnolo. «Trauma cranico. Trauma contusivo all'emitorace sinistro con vasto ematoma sottocutaneo nella parete posteriore. Contusioni multiple. Frattura degli archi costali destri VIII e IX. Ferita lacerocontusa al cuoio capelluto. Postumi suscettibili di ulteriore valutazione». Uomo, ventitre anni, tedesco. «Trauma cranico con ferita lacerocontusa. Ferita alla tibia destra. Ematomi sulla parte destra del corpo». Uomo, ventitre anni, tedesco. «Trauma cranico con ferita lacerocontusa. Contusioni multiple». Uomo, venticinque anni, tedesco. «Trauma cranico. Ferite lacerocontuse alla testa, alla schiena, agli arti». 11

Donna, ventisei anni, italiana. «Contusione alla gamba destra, in regione dorsale e avambraccio destro». Uomo, trentasette anni, spagnolo. «Contusioni escoriate agli arti inferiori. Contusione ecchimotica in regione occipitale. Ematoma al braccio e costato destri. Ferita lacerocontusa alla gamba e cresta tibiale sinistra». Uomo, venticinque anni, spagnolo. «Contusione spalla e omero destri. Ferita lacerocontusa al ginocchio sinistro. Contusione toracica». Uomo, diciannove anni, tedesco. «Trauma contusivo in regione posteriore torace. Contusione in regione scapolare, spalla destra e dorso». Lo sfollagente in dotazione è composto da polimeri in gomma. È di forma cilindrica con impugnatura a nervature orizzontali per la presa. Ha una cavità ridotta e una lunghezza di sessanta centimetri. Il peso complessivo risulta di cinquecentocinquanta grammi.

Uomo, ventuno anni, tedesco. «Trauma cranico. Ferita lacerocontusa al cuoio capelluto, al dorso, al naso. Infrazione distale del radio. Frattura del II e IV dito della mano destra. Frattura ossa proprie del naso. Contusioni multiple alla scapola destra, arcata costale e coscia destra». Uomo, diciannove anni, italiano. «Trauma cranico. Sospetta infrazione del processo stiloideo ulnare. Trauma facciale. Ferita lacerocontusa alla fronte, al filtro nasale e al padiglione auricolare destro. Traumi contusivi multipli al dorso». Uomo, ventidue anni, italiano. «Trauma cranico. Ferite lacerocontuse multiple al cuoio capelluto. Escoriazioni multiple agli arti, al tronco e al gluteo sinistro. Frattura della falange prossimale del V dito mano sinistra. Distorsione polso sinistro». Uomo, venticinque anni, tedesco. «Trauma cranico. Frattura III distale ulna destra. Contusione toracica. Contusioni multiple. Ferita lacerocontusa al cuoio capelluto e alla gamba destra». Donna, ventuno anni, italiana. «Contusione coscia sinistra». Uomo, ventitre anni, italiano. 12

«Trauma cranico. Traumi contusivi alla spalla sinistra, all'emitorace e all'arto superiore sinistro. Trauma contusivo mano destra». Donna, ventuno anni, tedesca. «Trauma cranico. Contusione mano sinistra. Contusione coscia e dorso destro». Uomo, venticinque anni, tedesco. «Contusione escoriata cavo ascellare destro e spalla destra. Contusione escoriata dorso e spalla sinistra. Contusione base posteriore del collo». Donna, ventidue anni, tedesca. «Contusione regione mentoniera. Frattura scomposta al IV distale ulna sinistra. Escoriazione al mento. Mialgia cervicale». Le indicazioni secondo le modalità di impugnatura corrette sono le seguenti: impugnare lo strumento con la mano forte, esclusivamente dall'impugnatura a nervature orizzontali.

Donna, ventuno anni, svedese. «Contusione regione dorsale». Uomo, trentasei anni, spagnolo. «Trauma cranico. Infrazione perone destro. Contusioni multiple al braccio e avambraccio sinistri, alla spalla, al fianco e alla caviglia sinistri». Uomo, trentuno anni, tedesco. «Contusione al braccio e al fianco destro». Uomo, trentadue anni, inglese. «Trauma cranico. Ferite al cuoio capelluto e alla gamba destra». Uomo, ventinove anni, spagnolo. «Frattura del III dito mano sinistra. Frattura del condilo del gomito destro. Trauma cranico. Ematoma al fianco destro, al gluteo e alla coscia destri. Postumi da valutare ulteriormente». Uomo, ventiquattro anni, italiano. «Trauma cranico. Ferita lacerocontusa al cuoio capelluto e al sopracciglio destro». Uomo, trentacinque anni, inglese. «Trauma cranico. Ferita lacerocontusa al cuoio capelluto. Frattura del processo stiloideo ulna sinistra. Contusioni multiple». Uomo, ventiquattro anni, spagnolo. «Trauma cranico commotivo. Contusione cervicale». Donna, venticinque anni, spagnola. «Frattura IV metacarpo mano sinistra. Policontusioni. Postumi da 13

valutare ulteriormente». Uomo, ventitre anni, tedesco. «Ferita lacerocontusa al mento. Contusione craniofacciale. Contusione spalla e gamba destra. Postumi da valutare ulteriormente». Uomo, ventidue anni, svizzero. «Contusione regione scapolare destra». Sistemare il cinturino in cuoio come da figura, al fine di svincolarsi facilmente da eventuali prese da parte di facinorosi, qualora venisse afferrato dagli stessi.

Uomo, venticinque anni, spagnolo. «Contusione spalla, avambraccio e polso sinistri con piccolo distacco processo stiloideo ulnare». Donna, ventuno anni, tedesca. «Frattura margine anteriore del mascellare. Trauma cranico facciale. Perdita traumatica dentale L13 e 21, sublussazione 12 e 11. Ferita lacerocontusa labbro superiore e inferiore. Indebolimento permanente dell'organo della masticazione con postumi da valutare». Uomo, ventuno anni, tedesco. «Trauma cranico. Ferita lacerocontusa alla fronte e al filtro nasale. Trauma facciale. Contusione alla spalla sinistra. Ferita lacerocontusa al labbro superiore. Contusione escoriata alla regione tibiale». Donna, ventisette anni, tedesca. «Trauma cranico cerebrale con frattura della rocca petrosa sinistra. Ematomi cranici vari. Policontusioni al dorso, spalla, arto superiore destro. Frattura della mastoide sinistra. Ematomi alla schiena e alle natiche. Prognosi riservata». Uomo, ventisette anni, tedesco. «Contusioni alle spalle, al fianco e alla coscia sinistri, al fianco destro». Uomo, ventotto anni, tedesco. «Trauma cranico. Ferita lacerocontusa in regione frontale. Danno all'apparato uditivo destro reversibile. Contusioni multiple al torace. Vasto ematoma alla spalla destra e al braccio destro, al braccio e alla coscia sinistri, al ginocchio e al gluteo laterale destri». Uomo, venti anni, tedesco. «Trauma cranico commotivo. Frattura ossa nasali. Trauma contusivo mascellare superiore. Ferita lacerocontusa al capo. Contusione ecchimotica emitoracica sinistra». 14

Donna, sessantaquattro anni, spagnola. «Trauma cranico. Frattura scomposta distale ulna destra». Donna, ventisei anni, svedese. «Ematoma al braccio destro». Uomo, ventidue anni, svizzero. «Trauma cranico con ferita lacerocontusa. Contusione ecchimotica emitorace destro e lombare sinistro. Ritenzione acuta di urina. Infrazione ulnare sinistra. Contusione lombare. Stato di stress post-traumatico». Giova ribadire e ricordare che lo sfollagente deve assolutamente essere maneggiato nel pieno rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti in materia e che qualsiasi altro uso, oltre a compromettere l'efficace controllo dell'arma, determina modalità di impiego censurabili e perseguibili ai sensi di legge.

Donna, ventuno anni, americana. «Trauma cranico. Trauma colonna cervicale, nonché spalle, emitorace sinistro, mani, polsi e ginocchio destro. Frattura metacarpo destro, I falange, V dito destro. Frattura costale X costa sinistra. Contusione ecchimotica in sede lombare, glutei, coscia, gamba e piede sinistri». Uomo, trentasette anni, italiano. «Frattura dello scafoide. Contusioni addominali e toraciche. Ferita lacerocontusa all'avambraccio destro e ginocchio sinistro». Donna, trentasei anni, turca. «Trauma cranico. Ferita lacerocontusa al cuoio capelluto. Contusioni alla schiena e agli arti superiori. Ematomi plurimi ai glutei, alla coscia destra e alla faccia». Uomo, ventisei anni, americano. «Trauma cranico non commotivo. Contusioni multiple. Contusione emitorace sinistro e regione retroauricolare sinistra. Contusioni ecchimotiche multiple al dorso e alla regione lombare. Escoriazione ginocchio sinistro». Uomo, trentacinque anni, spagnolo. «Trauma cranico con ferita lacerocontusa in regione occipitale». Uomo, venticinque anni, tedesco. «Contusione ecchimotica coscia destra. Frattura dell'ulna sinistra. Postumi da valutare ulteriormente». L'uso ottimale dello sfollagente deve avvenire centrando l'avversario con colpi portati esclusivamente in modo diretto, con movimenti a X. 15

Donna, trentuno anni, tedesca. «Frattura composta III metacarpo mano destra. Contusione avambraccio sinistro». Donna, venticinque anni, inglese. «Trauma cranico. Frattura distale del radio destro. Ematoma gluteo sinistro. Contusioni viso e braccio destro. Postumi da valutare ulteriormente». Donna, ventuno anni, tedesca. «Contusioni ecchimotiche alla base posteriore del collo. Alla spalla destra e sinistra, alla regione scapolare, alla regione dorsale. Escoriazione dell'arcata sopracciliare sinistra. Ematoma dorso mano destra». Uomo, ventitre anni, canadese. «Trauma cranico in politraumatizzato». Uomo, trentatre anni, inglese. «Pneumotorace sinistro. Trauma emitorace. Trauma spalla e omero. Trauma cranico». Uomo, ventuno anni, tedesco. «Frattura doppia di mandibola e condilo sinistri. Frattura zigomatica destra. Indebolimento permanente dell'organo della masticazione». Uomo, ventuno anni, polacco. «Trauma cranico. Ferita da taglio al padiglione auricolare sinistro. Escoriazioni multiple». Il movimento del braccio che impugna lo sfollagente deve essere accompagnato sfruttando la combinazione spalla-tronco, che imprime maggiore potenza. Con una traiettoria diretta e non esterna.

Uomo, sessantadue anni, italiano. «Frattura scomposta con distacco osseo del III distale dell'ulna destra. Distacco del processo stiloideo. Frattura lievemente scomposta del II distale del perone destro. Fratture costali multiple a destra. Indebolimento permanente dell'organo della prensione e della deambulazione». Donna, ventiquattro anni, svedese. «Contusione ecchimotica in regione dorsale». Uomo, trentasei anni, neozelandese. «Contusione in sede sovratemporale sinistra escoriata con ematoma. Contusione con ecchimosi al braccio, alla spalla e all'avambraccio sinistri». 16

Donna, ventisei anni, svizzera. «Ecchimosi varie. Ematoma all'avambraccio e gluteo sinistri e al polpaccio destro». Donna, trentadue anni, tedesca. «Trauma cranico con ferita lacerocontusa. Contusioni multiple. Contusioni ecchimotiche in regione dorsale ed emitorace sinistro. Ematoma in regione lombare destra. Contusione ed ematoma alla mano sinistra». Donna, ventuno anni, svizzera. «Frattura del dito indice mano sinistra. Frattura IX vertebra destra. Contusioni alla schiena. Contusione dito medio e anulare della mano destra». Uomo, trentotto anni, inglese. «Ematomi vari. Contusione escoriata al ginocchio sinistro». Uomo, trenta anni, italiano. «Trauma cranico. Ferita sopracciglio destro e cuoio capelluto. Dorsalgia». Donna, ventuno anni, italiana. «Trauma cranico con ferita lacerocontusa. Contusione alla coscia destra». Uomo, diciannove anni, tedesco. «Trauma cranico facciale con ferita lacerocontusa al naso. Trauma tibiale anteriore destro, con ferita lacerocontusa». Non appare superfluo ribadire che l'impiego dello sfollagente deve essere immediatamente interrotto quando si raggiunge lo scopo dissuasivo e/o difensivo, evitando assolutamente inutili accanimenti non giustificati da azioni violente.

Uomo, trenta anni, tedesco. «Frattura cranica in sede parietale superiore. Ematoma del vertice. Emorragia intratoracica. Vertigini post-traumatiche. Contusioni multiple con suggellatone parzialmente estesa ed ematomi su tutte e quattro le estremità, costole, fianchi, viso e schiena. Sospetta infrazione dell'esterno superiore del femore sinistro». Donna, ventiquattro anni, tedesca. «Contusione piramidale nasale. Contusione alla spalla sinistra. Contusione al ginocchio e gomito destri. Ematoma alla coscia sinistra». Uomo, venti anni, lituano. 17

«Contusione alla piramide nasale». Uomo, ventuno anni, tedesco. «Trauma cranico epidurale. Ferite lacerocontuse multiple in regione parietale sinistra, occipitale sinistra e coronarica destra. Contusione emitoracica sinistra. Sottoposto a operazione di craniotomia frontale sinistra». Fournier fissò Zucca. Ne avvertiva il disprezzo. La collera fredda. Si detestavano reciprocamente. Peraltro, senza alcuna ipocrita concessione alla cordialità della forma. Fournier avvertiva addirittura un disagio estetico. Forse per via di quella camicia zen che gli faceva apparire il suo interlocutore se possibile ancora più algido. O forse per i bastoncini di incenso mangiaodori di cui l'ufficio era disseminato. O magari per quel poster di Bruce Springsteen alle spalle della scrivania che sembrava essere l'unica cosa che potessero condividere. Che doveva dire a Zucca? Soprattutto, cosa poteva dire che già non avesse detto soltanto sette giorni dopo la notte del 21 luglio al procuratore aggiunto di Genova Francesco Lalla? – Una macelleria messicana. Sì. È stata una macelleria messicana. Per lui, uomo di destra, la citazione di Ferruccio Parri, l'evocazione dello scempio di piazzale Loreto, non era forse definitiva? E poi, l'esito del processo alle responsabilità di quell'osceno pestaggio non era forse già scritto? Eppure sapeva anche lui che non bastava. Come era potuto accadere? Perché era accaduto? Ripensò a come era cominciata. Come se la sua giovane vita, in fondo, non fosse stata altro che il prologo di quella notte. L'educazione sentimentale a una repentina disillusione che si era fatta prima disprezzo e poi odio. Ripensò a sua madre, nata bene e comunista, che se ne era andata tre mesi prima del G8, in tempo per non vedere la fine e non provare vergogna di lui, il suo unico figlio. Ripensò a Roma, la sua città. Alla monotonia di infiniti pomeriggi, sempre uguali a se stessi, in piazza Vescovio, l'enclave nera in cui, ragazzino, giocava a fare la finta-zecca. Al San Leone Magno, il liceo dei preti e delle persone perbene, di destra, va da sé. A quelle ridicole camicie a scacchettoni da boscaiolo di cui aveva pieno l'armadio, infilate nei jeans a tubo, sopra un paio di Camperos o di Clark. Ai libri di Kerouac, al blue grass e all'old country, ai Ramones, ai film di Sam Peckinpah. 18

Aveva trentotto anni e si sentiva già un vecchio. Per un po' aveva sperato che l'uomo che lo stava interrogando gli rivolgesse una domanda. «Lei, perché è entrato in polizia?» Avrebbe detto la verità. Per sciare. Nel 1986, a ventitre anni, era l'unica cosa che gli interessasse sul serio. Gheddafi bombardava Lampedusa, Michele Sindona moriva in carcere bevendo un caffè corretto al cianuro, papa Giovanni Paolo II si inginocchiava nella sinagoga di Roma, Bettino Craxi, presidente del Consiglio, definiva per decreto le condizioni del futuro duopolio Rai-Mediaset. Lui sognava il Terminillo, il panettone bianco alle spalle di Rieti, cento chilometri da casa, e un bel lavoro alla «Polneve», come la chiamava chi abitava quel posto fisso di mezza montagna. Aveva avuto ragione della scettica diffidenza del padre, un vecchio liberale, dirigente dell'Inail. Si era messo l'uniforme e aveva vinto il concorso in accademia. Per essere assegnato alla scuola alpina di Moena, in Trentino. Chissà, forse anche grazie all'aiuto di Amintore Fanfani, che, nei primi mesi da agente di Fournier, lo aveva visto piantonare la sua abitazione. Sarebbe dovuto rimanere a Moena. Era quella la verità. Nelle Dolomiti era nata sua figlia. Lì aveva scoperto amici sinceri. Ma non ce l'aveva fatta. Roma era la sua ossessione. Il quartiere Vescovio era la sua casa. Ed era stato allora, probabilmente, che si era scoperto per quel che era. Un fascista? Un nero? O vogliamo dirla meno brutalmente? Un conservatore? Un libertario di destra? Non se ne doveva vergognare, pensava. La celere era stato un approdo naturale. L'adesione a un canone che lo riconciliava con l'immagine che coltivava di sé. Muscoli levigati, aria aperta, onore, rispetto, ordine, coraggio. L'arrivo alla caserma di Castro Pretorio aveva segnato il liberatorio ingresso in una tribù. In un ordine monastico. In una legione romana, se l'immagine non fosse suonata stucchevole nella sua retorica. Doveva raccontarlo a Zucca? Sarebbe servito? Lo avrebbe aiutato sapere che il giorno dei funerali di sua madre, i ragazzi che ne avevano portato a spalla la bara erano gli stessi della notte della Diaz? Che Drago, Ivo, Nico, Charlie, Fausto erano un pezzo della sua vita e che dalla tua vita non divorzi? Sarebbe servito spiegare perché nel reparto giravano soprannomi come «il Cobra»? Povero Cobra, amico inseparabile, figlio di un custode del cimitero di Prima Porta. Gli era saltato il ponte che teneva insieme gli incisivi, e con lo stipendio da maresciallo che si ritrovava aveva deciso che potevano bastare i canini. E lo chiamassero pure Cobra. Intanto era stato 19

lui a sbattersi per riuscire a far cremare la madre. Fournier continuava a lottare contro la nausea. Anche se non capiva più se fosse per via di quei referti medici o per i crampi da astinenza da nicotina. Zucca acconsentì a una pausa. Un carabiniere lo fece affacciare a una finestra del corridoio della procura. Si accese una Marlboro light. Chiuse gli occhi e provò a ricordare. La notizia che per il G8 di Genova si preparava qualcosa di «nuovo» e di «grosso» aveva cominciato a girare in marzo. All'inizio, il tam-tam di radio fante. Confidenze d'armadietto, di docce. Fino all'ufficialità. Il ministero voleva mettere insieme un nucleo sperimentale di ordine pubblico. Il VII. Settanta uomini scelti tra i sei nuclei del reparto mobile di Roma. I migliori, dicevano. Che, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbero risolto eventuali casini a Genova. Non aveva mai saputo, né aveva chiesto, con quali criteri fossero stati scelti, i migliori. La forza fisica? Il profilo psichico? I punteggi ottenuti nel test comportamentale Minnesota? Il senso di appartenenza? Una convinta professione di destra? Seppe soltanto, in primavera, che per buona parte i selezionati erano i suoi ragazzi. Che del VII nucleo lui avrebbe avuto il comando. Si prepararono per due mesi a una guerra che, nella sua vigilia, era stata soltanto di parole, e di cui, pure, avvertiva una qualche ineluttabilità. Anche per questo non aveva rinunciato a fare le cose per bene. Per gli allenamenti erano stati imbarcati un maestro di judo e un olimpionico di taekwondo. Sugli uomini era stata esercitata una pressione fisica spaventosa. Qualcuno aveva smesso di fumare, qualcun altro aveva perso anche dieci chili. Correvano, correvano, correvano fino a un'ora e mezza al giorno. In un set che aveva scelto con cura. Il tratto che separava la darsena dal faro di Fiumicino. Da una parte, un mare livido. Dall'altra, il disordine lercio e avvilente di un'umanità che non era più un paese e non si era mai fatta città. Che, forse, aveva dimenticato persino di essere una comunità. Di quel singolare esperimento avevano imparato a bestemmiare e ridere. Almeno fin quando era arrivato in caserma il nuovo materiale. – Ma che cazzo è questa roba? Si sono rincoglioniti al ministero? O hanno perso la testa? Capita che la catastrofe si annunci con un dettaglio, e le casse coi nuovi manganelli che Fournier si era trovato davanti erano la promessa del peggio. I Tonfa. Avevano deciso che a Genova il VII fosse armato coi Tonfa. Un arnese duro come l'acciaio, dall'impugnatura a T, un'arma 20

tradizionale delle arti marziali cinesi e giapponesi. Con quella roba, che i carabinieri usavano da un pezzo e che in polizia non avevano mai preso in mano, si poteva spezzare il femore di un bue. Fournier ne aveva parlato con Vincenzo Canterini, il comandante del reparto. I suoi sette capisquadra coltivavano il culto di quell'uomo corpulento con quarant'anni di celere alle spalle. Godevano del suo istinto animale, da capobranco. Dell'umorismo greve in cui, con la sua voce nasale, annegava la tensione di piazza. Lo chiamavano Biancaneve, e lui aveva ricambiato l'affetto battezzando a modo suo i suoi nani: Obesolo, Petolo, Stronzolo, Subdolo... Fournier lo aveva detto a Biancaneve: – Si può sapere come faccio a spiegare a chi ha sempre avuto in mano una roba flessibile di caucciù, che è meglio dimenticare quello che ha imparato? Hai idea di che succede se a uno dei nostri viene in mente di usare il Tonfa a mazzetta? Questi affari sbriciolano le ossa. Biancaneve, come sempre, aveva ascoltato senza battere ciglio. E come sempre era stato a suo modo definitivo, cantilenando una risposta cinica in cui amava rifugiarsi quando riteneva la discussione oziosa. – E che cazzo posso farci, io? Decido io, forse? I primi ad assaggiare i Tonfa furono i napoletani. No, non al G8. No, non gli ultras del San Paolo. Non i Disoccupati organizzati. Ma i celerini napoletani. Ne fecero salire un centinaio a Roma per una simulazione, o almeno così avevano deciso di chiamarla. Perché di simulato non ci fu nulla. Bisognava esserci. Da una parte i settanta del VII nucleo. Dall'altra, i colleghi di Napoli travestiti da Blocco nero. In mezzo, la desolante spianata della piazza d'armi del nuovo centro di addestramento Stefano Gelsomini, sulla via Portuense. Prima tirarono le molotov. Molotov vere, per abituarsi allo scoppio della miscela sull'asfalto, al fumo nero e grasso di benzina che chiude naso e bocca. Poi, il corpo a corpo. Bastoni, cubetti di legno e calcinacci contro Tonfa. Il cozzo fu terribile, quanto la rabbia che liberò. Uno spettacolo di abbacinante violenza. Il VII nucleo ricordava una muta di dobermann. Sagome asciutte e impazzite, come possono esserlo animali in cattività cui finalmente viene sciolta la catena. I napoletani ebbero la peggio e in una decina finirono in infermeria. Che sarebbe accaduto in piazza? Fournier diede un'occhiata al corridoio deserto della procura. Si era acceso un'altra Marlboro senza neppure accorgersene. Si lasciò sorprendere dalla vista che offrivano i finestroni del palazzo di giustizia. 21

Era di nuovo a Genova. Eppure, la città che ricordava era un'altra. Di una bellezza irreale, in preda alla febbre di chi la abbandonava in fretta e di chi ne avrebbe fatto la sua tetra prigione per tre giorni. Il 17 luglio, giorno in cui erano arrivati con la colonna di mezzi da Roma, il cielo era di un blu cobalto. Avevano superato un confine artificiale di grate, ostacoli in cemento armato, posti di blocco, per arrivare a respirare la brezza di mare. La rada del porto antico era un formicaio di tute da ordine pubblico, ingombro di tonnellate di materiali. Centinaia di casse con i nuovi lacrimogeni, i Cs, roba da far cadere la pelle solo a vederli. Poi scudi, caschi, lanciagranate. I nuclei c'erano tutti. Non ne mancava proprio nessuno. Torino, Milano, Padova, Genova, Bologna, Firenze, Senigallia, Cagliari, Napoli, Bari, Taranto, Reggio Calabria, Catania, Palermo e naturalmente loro, Roma con il suo VII. Un chiassoso intrupparsi di dialetti, un primo annusarsi per ribadire gerarchie antiche. I romani, secondi a nessuno. I padovani, secondi solo ai romani e tirati come corde di violino. I napoletani, con la loro allegra trasandatezza. Di fronte a loro, in uno specchio d'acqua affollato di sommozzatori, lo spettacolo di navi da crociera alla fonda, trasformate in camerate. Non aveva mai capito perché a bordo facesse così freddo. Né perché a fare servizio sui ponti, nelle cuccette, in mensa, fossero state assegnate delle ragazze romene. Per far arrapare un po' gli uomini, forse? Né, soprattutto, aveva capito per quale diavolo di motivo fossero stati tirati su, dentro il palazzo della Fiera, una gigantesca palestra e campi da calcetto. Qualcuno doveva aver avuto a cuore il livello di testosterone di quella truppa già eccitata. La memoria è uno strano ordigno, pensò Fournier. Di una sequenza, fissa i fotogrammi, dissolvendone i nessi. Era come se da quei giorni di luglio non si fosse mai sfilato l'U-Boot dalla testa. E del resto, che il casco da ordine pubblico avesse il nome di un sottomarino non doveva essere un caso. Quando sei in piazza, le urla di chi stai schiacciando, la puzza della strada, il calore delle fiamme di quel che ti brucia intorno, il tuo respiro, devono arrivare attutiti per essere tollerabili. E quando torni a respirare l'aria fresca deve essere tutto finito. Nel suo U-Boot, Fournier continuava a rivedere Luca Casarini, uno dei leader no-global, in pigiama nell'alba dello stadio Carlini. Gli sembrava di sentirlo ancora prenderlo per il culo. E poi l'asfalto di via Torino, dove, il 20 luglio 2001, dopo la prima, violentissima carica, in un'aria satura del fumo dei lacrimogeni, un collega stravolto dall'eccitazione lo aveva afferrato per il braccio gridandogli parole che 22

spiegavano cosa ce li avessero mandati a fare in quell'inferno. – Bravi, ragazzi, li avete nebulizzati. Nebulizzati. Come insetti. Chi erano quelli che aveva avuto davanti a sé per tre giorni e tre notti? Chi era quel ragazzo che, in via Tolemaide, aveva visto andare incontro ai reparti da solo, cantando mentre i manganelli lo travolgevano? Che alla violenza di colpi terribili, ai reni, alle gambe, alle braccia, alla testa, aveva risposto alzando di un tono una melodia che ormai gorgogliava nel sangue e nella bava? Chi erano quei ragazzi dai capelli di stoppa che, in via Montevideo, erano stati abbattuti come marionette? La verità, per orribile che apparisse, è che non aveva avuto alcuna voglia di sapere chi fossero, né qualcuno gli aveva chiesto di farlo. Perché raccontarsi cazzate? Quella gente gli faceva schifo. Li aveva rincorsi per tre giorni e per tre giorni gli erano apparsi un'armata di straccioni senza eroi, capaci solo di immortalare compiaciuti, con ogni strumento disponibile – telefonini, macchine digitali, videocamere – il proprio massacro. In un'orgia di feticistica rappresentazione della violenza. Dove li avevano messi i poveri di un mondo che dicevano di volere più giusto? Forse dietro quelle merdosissime barriere di plexiglas al riparo delle quali aveva visto tirare di tutto? Di quale radicalismo cianciavano? Chi erano le vittime di una società che non piaceva neanche a lui? Forse quei conigli travisati del Blocco nero che fracassavano auto in sosta lasciate da qualche disgraziato padre di famiglia? O i suoi ragazzi? Avrebbe voluto gridarlo a Zucca, pur sapendo quanto intollerabile e irricevibile fosse la conclusione cui era giunto in quei giorni terribili. Per quello che lo riguardava, a Genova la legalità era stata sepolta con la rinuncia consapevole e irresponsabile a ogni mediazione. Era convinto che l'odio avesse chiamato altro odio. Che Carlo Giuliani fosse un morto di tutti, e il lager di Bolzaneto e la macelleria della Diaz l'approdo di una catastrofe di cui si erano ignorate le avvisaglie. Non il 19, non il 20, non il 21 luglio. Ma voltando quotidianamente lo sguardo di fronte alla ferocia e alla solitudine che lui aveva imparato a conoscere ogni giorno che Dio aveva mandato in terra e che aveva visto crescere come una metastasi. Ai cancelli della curva di uno stadio, all'ingresso di una casa occupata, di fronte a un centro sociale. Fournier sapeva perfettamente che questo non toglieva nulla allo schifo di cui era chiamato a rispondere. Non aveva intenzione di mentire. Ma sapeva che dire la verità lo avrebbe reso un 23

infame per il branco cui apparteneva, e un lurido bugiardo per il branco con cui mai avrebbe voluto confondersi. Lui, la notte della Diaz, aveva avuto l'ordine di «ripulire» una scuola dove gli era stato detto si nascondesse il Blocco nero. E a quella «pulizia» aveva partecipato fino a quando non aveva realizzato quale menzogna celasse. Fino a quando la «pulizia» non si era trasformata in scempio. Certo, aveva avuto la forza di gridare al VII di lasciare la scuola. Ma non aveva avuto né il coraggio né la voglia di guardare quali volti di colleghi si nascondessero dietro gli anonimi U-Boot e le anonime pettorine «Polizia» che si erano accanite su donne e uomini inermi. Si era protetto dietro i suoi gradi di vicequestore, sapendo che nel cortile di quella scuola elementare, in quella «macedonia di polizia», come diceva Canterini, altri avrebbero dovuto rispondere della violenza. «Capolinea», pensò Fournier gettando via il mozzicone di Marlboro oltre il finestrone cui era rimasto affacciato. O forse no. Forse la notte era appena cominciata.

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2. Drago

Il corteo di moto si era lasciato alle spalle il Colosseo, e sui sanpietrini di via dei Fori imperiali la sua Africa Twin 750 rimbalzava come una pallina di gomma. La barba da Babbo Natale non ne voleva sapere di starsene su e, per quanto lo divertisse, l'abito rosso di Santa Claus lo faceva sentire un pupazzo. Gli piaceva, soprattutto ci credeva in quell'associazione sportiva «costituita da appartenenti al corpo della polizia di Stato italiana, che si prefigge, organizzando spedizioni motociclistiche, l'obiettivo di diffondere la conoscenza delle svariate culture del mondo per fare in modo che sempre di più i popoli della Terra possano, conoscendosi, vivere in pace e in armonia». Pace e armonia. I bambini che osservavano sfilare i Babbo Natale su due ruote davano l'idea di divertirsi un mondo. In quei momenti in testa ricominciava a frullargli come un'ossessione il ritornello che normalmente accompagnava le sue giornate in strada: «Celerino assassino... Celerino assassino... Celerino assassino». Si era drizzato sulle pedaline, quando senti gridare alle spalle un collega: – Drago! Drago! Le caramelle! Le hai portate tu le caramelle? Il suo nome era un altro. Ma nessuno lo chiamava con il suo nome, già dai tempi dell'università, quando aveva mollato Architettura con nove esami e la media del 30. Per tutti, era Drago. Per i ragazzi della serie C del Futura Park Rugby Roma, che allenava tre volte alla settimana sui campi delle Quattro fontane. Per i colleghi del reparto mobile di Roma. Per chi lo aveva conosciuto a Genova con l'uniforme del VII nucleo. Per gli amici cresciuti con lui a Ostia e che la vita aveva portato da un'altra parte. Quelli la cui strada pregava ogni sera di non dover incrociare, magari in una piazza, in uno stadio, per non essere costretto a dover scegliere. Erano passati sei anni da Genova. Il tempo di finire in un precipizio e provare a rimontarne l'orlo. Il VII non esisteva più. L'ultima volta che si erano ritrovati insieme era stato pochi giorni dopo la fine del G8 di Genova, quando si erano messi in fila, tutti e settanta, nella caserma di Castro Pretorio, per firmare le notifiche degli avvisi di garanzia inviati dalla procura di Genova per i fatti della Diaz. Ansoino Andreassi, allora vicecapo della polizia, li aveva 25

radunati in una sala attigua alla mensa. Poche parole, per rincuorarli e promettere che nessuno li avrebbe abbandonati. Gli sembrava ancora di sentirlo, Andreassi. – È in atto un vile attacco alla polizia di Stato. Ma la polizia non si farà intimidire. Vi proteggerà. Poi Andreassi se n'era andato, per non riapparire mai più. Era finito ai servizi, come un altro importante dirigente, Lorenzo Murgolo. Anche lui gli sembrava di sentirlo ancora: la notte della Diaz, sui gradini delle Caravelle, a poca distanza dalla questura, si era voluto complimentare di persona con il reparto per «l'eccellente lavoro» fatto nella scuola. Anche lui era sparito. Dalla polizia e dall'inchiesta che ne era seguita. Ogni volta che ci ripensava si dava del fesso. Perché Drago lo sapeva, lo aveva sempre saputo, come sarebbe andata a finire. Qualche settimana prima del G8 lo aveva chiesto a Canterini e Fournier. A modo suo, di fronte a tutti i ragazzi. – A noi il culo chi ce lo parerà se le cose andranno storte? Fournier lo aveva umiliato pubblicamente. Proprio lui, che lo aveva voluto al VII a ogni costo. – Drago, hai rotto le palle con questa storia e con questi modi da coatto. Tra me e te ci sono diversi gradi di differenza, e soprattutto qualche migliaio di libri che ancora devi leggere. Quindi stai zitto, e anziché fare domande, pensa a fare decentemente quello che ti viene chiesto di fare. Era impazzito di rabbia. Aveva aspettato Fournier nel corridoio, per picchiarlo davanti a tutti, se necessario, perché non era dato che Drago «facesse pippa». Ma Fournier lo aveva preso per le spalle sorridendo. – Dovevo farlo, Drago. Qui dentro tu sei il capobranco. E se gli altri vedono che il capobranco tace, rispetteranno te e rispetteranno me. Quel giorno aveva stretto un'amicizia per sempre. Da branco. Ma il branco non si era salvato. Tornato da Genova, il VII era stato sciolto nell'arco di ventiquattr'ore, senza neppure un ordine di servizio. Tutti gli uomini, compreso lui, rientravano ai nuclei di appartenenza. Nelle piazze italiane non avrebbero più dovuto far capolino né quel numero VII né i segni che lo avevano reso distinguibile a Genova: il cinturone blu in cordura, gli U-Boot con ricetrasmittente, i Tonfa. Vincenzo Canterini, «Biancaneve», aveva negoziato un esilio dorato in Romania. A occuparsi di traffico di organi. Drago era rientrato al II reparto. All'ufficio e al cessetto che divideva con altri due colleghi nelle nuove palazzine della caserma Stefano Gelsomini, 26

un immenso compound di cemento e infissi di alluminio anodizzato sulla via Portuense, tra i parcheggi della nuova Fiera e il satellite di uomini e merci di Parco Leonardo. Quei venti metri quadrati erano lo specchio della sua esistenza. Una grande bandiera del Giappone imperiale stesa su un muro a calce ingombro di tettone, di ordini di servizio e dei testi di Songs for Books di Rudyard Kipling. Quelli che aveva dedicato a un figlio messo al mondo con una donna sbagliata, contro cui combatteva una battaglia sorda e feroce da quattro anni. Che lo avevano fatto diventare uno dei «Papà c'è». Quelli che di tanto in tanto gridano disperati in piazza Montecitorio per i loro diritti di padri naturali. I bambini gli si erano fatti intorno e Drago affondava le mani nelle tasche da Babbo Natale estraendone manciate di caramelle e torroncini. Le risate a garganella che accompagnavano i suoi gesti erano meglio di un vaccino contro il cinismo di cui si sentiva prigioniero. Era entrato in polizia per fare il celerino, non il poliziotto. Aveva preferito la strada all'esotico business del padre, che aveva cominciato da ragazzo muratore in Germania ed era finito, finché aveva potuto e Dio non se l'era chiamato, a tirare su palazzi negli Emirati Arabi. La strada, che era diventata la sua vita, la sua vita se l'era mangiata un pezzo alla volta. Forse la celere era cambiata. O forse no. Forse, più semplicemente, era lui che era cambiato. Certo, il fatto che la celere non si chiamasse più con il suo nome la diceva lunga. «Reparto mobile» era politicamente più corretto, ma, in fondo, non restavano pur sempre i «servi dei servi dei servi»? Non erano forse sempre stati il cuore nero della polizia? Inutile prendersi per il culo. Nella celere, se non eri di destra lo diventavi. E lui di destra lo era sempre stato. Come suo padre, nato a San Saba. Come i suoi due fratelli piccoli. Uno, paracadutista prima, pugile dilettante poi, agente immobiliare. L'altro, da anni uomo libero su una libera spiaggia di Santo Domingo da dove, ogni tanto, mandava qualche foto in cui di romano restava solo il bicipite destro abbronzato sul quale aveva fatto tatuare un immenso «Spqr». Come sua madre, una donna veneta forte come l'acciaio, hostess dell'El Al per quindici anni, che gli aveva insegnato a conoscere il mondo. Come i suoi comandanti, come il novanta per cento dei colleghi. Anche se, arrivato a quel punto, non sapeva più neanche lui cosa significasse essere di destra. Lo aveva capito una mattina a piazza Montecitorio. Erano arrivati i minatori del Sulcis. Gente invecchiata nei cunicoli, con le mani e il cuore grossi. Di quelli che ti raccontano a trentacinque anni che non sanno 27

quanto gli resta, perché non sanno quando la polvere di carbone che hanno in corpo diventerà un cancro che se li porterà via. Se ne erano stati immobili per ore. Con i loro fischietti, i loro caschi colorati, i loro sguardi liquidi di rabbia e sonno arretrato. Chiedendo solo di essere ascoltati. Il suo reparto era stato schierato a ridosso delle transenne che chiudevano la zona di rispetto. E i minatori se ne erano rimasti chiusi in quel recinto come una mandria dolente. Poi, un lato della piazza si era messo a ondeggiare. Una balaustra era collassata con gran rumore. Si erano alzate delle mani e con esse le aste di bandiera. Il funzionario con la fascia tricolore aveva ordinato la carica. E loro ci avevano dato dentro. Ricordava perfettamente la faccia dell'operaio che per primo gli si era fatto davanti e che lui aveva scaraventato a terra come un manichino. Sembrava un vecchio, ma forse erano coetanei. Quando tutto era finito, aveva preso dell'acqua e il suo cestino di servizio. E si era messo a cercare il vecchio. Lo aveva trovato seduto in un angolo di marciapiede. Gli aveva allungato la bottiglia e gli aveva mostrato il panino. – Lascia stare, – aveva detto quello. – Dimmi piuttosto perché lo avete fatto. Perché cazzo ci siete venuti addosso? Sono un operaio. Guadagno quanto te, e come te, ogni sera, quando torno a casa, ringrazio Iddio di essere ancora vivo. Ti senti meglio ora che hai calpestato uno come te? Non aveva trovato una sola parola. Avrebbe potuto dirgli che prendeva ordini, che aveva giurato fedeltà alla Repubblica e alle sue leggi, e dunque obbedienza ai funzionari che il ministero decideva di mandare in piazza, ma che risposta sarebbe stata? Se ne era invece rimasto zitto a fissare il foulard rosso del vecchio, pensando alla T-shirt che lui indossava sotto la tuta di ordine pubblico. Quella bianca con il Sol levante. La stessa che aveva nei giorni di Genova. Finché non gli si era avvicinato un funzionario: – Hai finito di fare Robin Hood? Sei in servizio, non in gita. Chi ti ha autorizzato a dare l'acqua e il cestino? Sei un poliziotto, non un assistente sociale. Quel giorno si era rotto qualcosa, pensava. O, forse, quel giorno tutto era diventato finalmente chiaro. Rientrato in caserma con il buio, aveva salito in un silenzio irreale la rampa di scale che portava alla sua stanza e al suo cesso. E, come sempre, aveva alzato lo sguardo sul gigantesco murales che lui aveva disegnato e che faceva da quinta al corridoio del suo nucleo. La facoltà di Architettura gli aveva lasciato un'ottima mano, e il manipolo di levigati gladiatori con le insegne littorie e l'U-Boot della celere faceva sempre la sua figura. 28

Certo, un po' tanto fascistoide, ma pur sempre un bel disegno. Si era richiuso la porta alle spalle, prigioniero di un'eccitazione diversa dal solito, da mille altri turni smontanti. Cercando la quiete che dopo un giorno di botte in piazza dovrebbe aiutare a ricacciare la rabbia e l'adrenalina negli anfratti del corpo e della mente da cui è stata improvvisamente succhiata. Aveva aperto il portatile, avviato il Cd che sapeva capace di sedarlo e aperto la connessione intranet con il Viminale. Le note di A Way of Life, il capolavoro di Hans Zimmer per L'ultimo samurai, lo aiutarono finalmente a sentirsi esausto. Apparve la schermata di benvenuto di DoppiaVela. Digitò rapido i codici del log-in, cercò automaticamente con il puntatore del mouse il forum dei reparti celere. «Al momento sono attivi dieci gruppi di discussione...» Clic. Sapeva cosa stava cercando. Clic. «Macelleria messicana». Clic.

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3. Lo Sciatto

Lo Sciatto aveva smesso di credere in Dio a otto anni, la mattina di Natale. Il giorno in cui una frenata e uno schianto di lamiere si erano portati via suo fratello maggiore, che di anni ne aveva solo quindici. Aveva giurato che non avrebbe più messo piede in una chiesa quando lo aveva visto per l'ultima volta sigillato in una bara bianca, al centro della navata della Regina Pacis, a Ostia. Il prete aveva fissato tutta quella gente intirizzita dal dolore e dal freddo. E aveva scelto le parole. – La notte di Natale non vi ho visti così in tanti. Dove eravate? Lo Sciatto era entrato in polizia a venticinque anni, per caso. Ci era rimasto per scelta. E adesso, a trentaquattro, era convinto che la sua vita cominciasse e finisse lì. Nel perimetro di quattro chilometri quadrati che separava le camerate del reparto mobile di Roma e il lungomare di Ostia, appena oltre l'Idroscalo, dove era cresciuto. Dove le mattine d'inverno amava starsene per ore a fissare onde marroni mangiarsi un pezzo di battigia alla volta, tra nuvole di spruzzi che inzuppavano stabilimenti rugginosi sopravvissuti a un'Italia che non c'era più. Il padre si era spaccato la schiena sugli autobus dell'Atac per farlo studiare. E, almeno in quello, pensava di non averlo deluso. Prima il diploma all'istituto tecnico, poi la laurea breve in Scienze politiche all'Università di Teramo, già con l'uniforme da poliziotto. Si era «fatto una posizione», era andata dicendo per un po' la madre. Almeno fino al giorno in cui, per la prima volta, non le aveva portato da lavare la sua tuta da ordine pubblico. In piazza lo avevano coperto di sputi e quella pioggia di bava ormai secca aveva disegnato sull'uniforme curiosi geroglifici. Gli occhi della madre si erano allagati di lacrime e lui non aveva avuto il coraggio di incrociarne lo sguardo. Se ne era rimasto seduto in cucina, fissando i gesti orgogliosi di quella donna. Le mani scavate da rughe profonde che sfregavano metodicamente il cotone blu notte della giubba. Come se una spugna e dell'acqua potessero da sole aver ragione di tutta la bile del mondo. In fondo, però, era vero. Ce l'aveva fatta. Senza dover barattare né la vita né la dignità. Millequattrocento euro al mese, a cui aggiungere i quattrocento di indennità di trasferta e i sei all'ora di straordinari. Non ci si arricchiva, certo, ma tolto l'affitto da cinquecento del bilocale che gli aveva 30

recuperato il collega di un commissariato, ci si poteva stare. Soprattutto non ci si doveva vergognare. Quando ripensava a Ostia, ai ragazzi di piazza Gregorio Ronca, lo slargo a forma di croce celtica dove aveva scoperto la politica e l'amicizia, gli sembrava di muoversi in un cimitero. Chi non si era dato via con la roba era diventato un pupazzo ammaestrato. Era capitato di incontrarli qualche volta a Roma, durante i servizi. Ben vestiti, profumati, lo guardavano nella sua tuta da ordine pubblico con la compassione che merita chi ha avuto una disgrazia. Ma come, lui, l'ex segretario del Fronte della gioventù di Ostia, è diventato uno sbirro? Sissignore, uno sbirro. Anzi, un celerino. Felice di avere lo studio non in Galleria Colonna, ma su un Ducato. Si ricordavano di lui ad anni alterni, gli ex camerati. E capitava che si facessero sotto a ogni elezione. – Perché non ti candidi? Abbiamo bisogno di gente come te. La risposta era sempre la stessa: – Vaffanculo. Come se non lo sapesse in che paese viveva. Come se non li avesse sentiti centinaia di volte in piazza gridare un giorno: «PS-SS», e un altro: «PS-guardie rosse». Se c'era una cosa che lo mandava al manicomio era l'ipocrisia. Lo aveva quasi gridato a Claudia, sua moglie, l'ultima volta che avevano discusso. Che poi accadeva due volte al mese. Di domenica. Le due domeniche che la Roma giocava in casa. Quando la vedeva uscire con la sua sciarpa giallorossa al collo e il sorriso da bambina, felice di farsi trenta chilometri verso l'Olimpico. Il fatto che fosse uno sbirro, che negli stadi ci fosse cresciuto e ci rischiasse la pelle dodici mesi all'anno, non c'entrava. Come non c'entrava il tifo. Lui, con la Lazio, aveva chiuso a diciotto anni. Fanculo la curva. Fanculo gli Irriducibili. Aveva capito di essere una marionetta. Una comparsa. E così, ogni volta si sorprendeva a inseguire Claudia con le parole che aveva ripetuto a se stesso l'ultima volta che aveva messo piede in curva Nord da «civile». – Hai capito o no che ogni domenica stai al loro gioco? Lo capisci o no che è come se ogni volta che entri allo stadio ti rassegnassi a quello che vogliono da noi? O sei una guardia come me, o sei un ultras, o ti rincoglionisci di canne su una panchina. – Che palle! Loro. Loro. Loro. Ma loro chi? Si può sapere con chi ce l'hai sempre? Già, loro chi? Ormai del pantheon degli ipocriti cui dedicava il suo disprezzo non riusciva più neppure a distinguere le sagome. I papaveri del 31

Viminale, le teste parlanti dei talk-show televisivi, certi soloni di destra e di sinistra che vedeva indignarsi nelle piazze e che del paese in cui vivevano non sapevano un cazzo. – Sai, Claudia, io ho un gran culo. – E perché? – Perché io so. – Che cos'è che sai? – Quello che succede. Vedi, io, con la mia visiera abbassata, il mio scudo, il mio lanciagranate, me ne sto lì sul marciapiede come una spugna. Ascolto, registro, penso. E il giorno dopo, quando li sento parlare, quando leggo il giornale, capisco quale ipocrita recita stia andando in scena. Io ho culo, amore mio, davvero un gran culo. Che si giocasse a perdere lo sapeva da un pezzo. Non c'erano volute Genova e la scuola Diaz per scoprirlo. Dei suoi mesi al VII nucleo aveva conservato, con i ricordi, qualche fotografia (incredibile quanto era magro e che panza aveva messo su in sei anni) e un'amicizia fraterna con Drago e il dottor Fournier. Era lui che gli aveva affibbiato quel soprannome. Lo Sciatto. Per quel modo di camminare trascinandosi. Per quelle felpe e quei pantaloni extralarge perennemente stazzonati. Semplicemente per il suo modo di prendere la vita. Anche a Genova era stato un «giellista». Era un giellista da sempre. Quella parola lo divertiva. Soprattutto per la capacità che aveva di mettere in difficoltà l'interlocutore. Succedeva che ci giocasse in certe pallosissime cene, quelle in cui gli capitava di seguire Claudia, che di mestiere faceva l'avvocato. Quelle in cui conosci pochi o nessuno, in cui di pochi e nessuno ti frega. E proprio per questo tutti ti si fanno incontro per capire che razza di strano animale sia finito nel loro salotto. – Che mestiere mi ha detto che fa, dottore? – Giellista. – Ah. Dev'essere interessante... Di cosa si tratta esattamente? – Lancio granate. Granate lacrimogene. Pum. Pum. Pum. E quando l'area è satura di fumo, o carico con i miei fratelli o ci ritiriamo. Dipende. Scrutava sempre attentamente l'espressione di chi lo ascoltava. Perché le smorfie non erano le stesse. E quando vedeva l'interlocutore irrimediabilmente perduto, afferrava allora un coltello dal tavolo del buffet e, roteandolo come una bacchetta, metteva su l'aria da professore. – Ogni reparto celere della polizia di Stato è diviso in nuclei. Ogni nucleo, in squadre. Ogni squadra ha dieci uomini. Ogni uomo, ma dovrei 32

dire fratello, ha una specialità. Un caposquadra; un autista addetto al mezzo, che guai se lo lascia; degli scudieri, intesi come addetti agli scudi; un uomo coperta, che ti para il culo e rimpiazza chi crolla. E poi chi maneggia il Gl40, il lancialacrimogeni. Gl40, giellista... Capito? Il siparietto aveva l'effetto di spegnere improvvisamente qualunque brusio, di provocare imbarazzati tremori. Come un bestemmione in chiesa. Ed era allora che si riservava il gran finale. – Per esempio, qualcuno saprebbe spiegarmi perché il nostro Gl40 è a colpo singolo, mentre in Francia sullo stesso tipo di arma è montato un rotore che consente di sparare a raffica? Nessuno, vero? Neanche io. So però la differenza. In Francia, in cinque secondi una squadra è in grado di saturare l'area che le è di fronte. Noi impieghiamo qualche minuto. Il tempo necessario a prenderci qualche sassata in più... Come in quel Roma-Milan del 2004. La sera della Befana. Quando aveva pensato per la prima volta che a casa non sarebbe tornato mai più. Non si era soltanto cacato sotto. Era andata molto peggio. Per qualche ragione il nucleo era rimasto isolato sulla spianata che, allo stadio Olimpico, separa il ponte Duca d'Aosta e un'ansa del Tevere dai cancelli d'ingresso del settore Distinti Sud. Sette-ottocento metri di marmo bianco levigato. Di architettura del Ventennio. Che se li vedi in un giorno qualunque, alla luce del sole, avvertì un senso di quiete e magnificenza. Ma se ci finisci di notte, diventano un'arena senza regole e senza pietà, un sentiero infestato da serpenti. Aveva capito che buttava malissimo quando nel riflesso della notte il bianco del marmo era scomparso allo sguardo. La partita era già iniziata. La spianata di fronte a lui aveva cominciato a formicolare di tante ombre, nere come la pece, urlanti come maschere mostruose. E questo significava una cosa sola. I romanisti si preparavano ad attaccare. E siccome di milanisti non ne vedeva, l'obiettivo non poteva che essere uno solo. Istintivamente, si era messo a contare le divise che gli erano accanto. Come aveva imparato a fare quando la battaglia non si era ancora accesa dei suoi fuochi e della sua furia. Quaranta, cazzo. Non più di quaranta. La marea nera aumentava in compattezza e in numero di teste, riducendo la distanza. Più i metri diminuivano, più nitida gli appariva quella che aveva pregato fosse soltanto un'allucinazione. I bastardi avanzavano brandendo come lance delle aste di bandiera, alle cui estremità erano legati coltelli da cucina. Ne aveva vista di gente a cui era andato in pappa il cervello, ma quella notte quella falange di animali cercava il morto. 33

Aveva sparato una prima granata lacrimogena. Una seconda, una terza e una quarta. Ogni volta frugando nel tascapane per sentire al tatto quante ne fossero rimaste. Sapeva benissimo di non averne più di dieci, come da regolamento. «Perché altrimenti se ne sparano troppe», aveva deciso qualche burocrate. L'orda sembrava impermeabile. Troppo lo spazio, troppa la ventilazione per sperare anche solo in un breve disorientamento. Le nuvole di lacrimogeni evaporavano con la velocità di bolle di sapone. Aveva cominciato a sentire l'odore di quelle belve insieme alle urla dei primi colleghi abbattuti da sassi e bottiglie. Rantoli, non voci umane. Bestemmie smorzate dal fracasso degli scudi. Nel buio, tutto pareva dilatato. Comprese le spaventose aste di bandiera trasformate in baionette, sempre più vicine. I colleghi feriti venivano trasportati a braccia verso lo stadio e lui non riusciva più neanche a capire in quanti fossero rimasti. Trenta? Venti? Il tascapane con i lacrimogeni si era afflosciato. Vuoto. Con chi era rimasto ed era ancora in grado di correre, lo Sciatto si era gettato sui cancelli dei Distinti Sud. Erano sbarrati dall'interno. Perché la partita era iniziata. Perché le regole vogliono che quando comincia la danza della violenza lo stadio venga isolato dalla battaglia che lo avvolge. Si era messo a gridare come un ossesso. Aveva picchiato con i pugni e con il suo Gl40 scarico contro quei maledetti cancelli, fino a far grondare di sangue le nocche, a non sentire più gli avambracci, i gomiti, implorando di aprire. Di non lasciare che li facessero a pezzi con quelle maledette baionette, o magari a colpi di bottiglia, mattoni, tirapugni di ferro e coltelli a serramanico, che ora vedeva distintamente nelle mani degli incappucciati che li avevano circondati, facendo roteare le fibbie delle cinte come frombolieri impazziti. Quando finalmente il cancello si era aperto, si era lasciato cadere sull'asfalto. Aveva vomitato. Aveva pianto.

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4. Chat

Clic. «Cari colleghi, riteniamo giusto rammentare, per senso di responsabilità, che DoppiaVela è uno spazio per i poliziotti messo a disposizione dalla polizia di Stato. Le critiche, le lamentele, le segnalazioni di disservizi, anche se esternate in modo aspro ma corretto, fanno parte delle normali dinamiche di dialogo tra l'amministrazione centrale e i singoli dipendenti. Trovano dunque una sede naturale all'interno del portale che non può, però, garantire spazi che la normativa vigente attribuisce ad altri soggetti...» Clic. Ogni volta che entrava in quella benedetta chat intranet, Drago ne gustava la dimensione perversa. A cominciare da quel nome un po' ingessato – DoppiaVela, la sigla della centrale operativa nelle comunicazioni radio – e dal post politicamente corretto che metteva sull'avviso i naviganti. Perché la verità era che lì dentro si poteva finalmente essere un po' guardoni e un po' scorpioni. Masturbarsi dietro un avatar, leggendo l'illeggibile o scrivendo l'inconfessabile. Divorarsi a vicenda – sì, proprio come scorpioni in bottiglia – soltanto per scoprirsi più soli nella propria rabbia. Finita sulle prime pagine dei giornali con sei rotondi anni di ritardo, la «macelleria messicana» del dottor Fournier era stato un potente lassativo. Il forum era impazzito. Genova, troppo lontana e spaventosa per sembrare ancora vera, era diventata solo l'occasione per un outing collettivo. La prova, ammesso ce ne fosse bisogno, che il tempo era stato una pessima medicina. Che odio chiama odio. Clic. G. DA ROMA Ecco che spunta fuori un nostro bel funzionario, che da buon samaritano riaccende fiamme polemiche e propositi dinamitardi. Che, sicuramente, nelle prossime manifestazioni gli antiglobal metteranno in atto perché più autorizzati che mai. Ma quando la finiremo di fare sempre queste mere figure e inizieremo a tenere la bocca chiusa? Per aspera ad astra. N. DA ANZIO Fournier poteva e doveva risparmiarsi la frase a effetto, «macelleria messicana». Adesso, per i colleghi ci sarà la solita Santa Inquisizione mediatico35

politica. Unus sed leo. I. DA GENOVA Ma questo Fournier dov'era durante gli scontri? Ancora non l'ho capito. Era fra i manifestanti? Ha respirato lacrimogeni? O aveva una mascherina? Secondo me si è messo a cantare perché non gli hanno dato nessuna promozione. P. DA BARI È ancora in polizia o ha chiesto di passare alla politica? Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo. D. DA LA SPEZIA Colleghi, basta di parlare di questo soggetto. È penoso e noi lo stiamo aiutando nella sua viscida campagna elettorale. A. DA CAGLIARI Genova, presente con orgoglio e senza nulla da nascondere. Posso testimoniare di Bolzaneto! Non si tratta di essere grandi e non è veramente falsa modestia... è solo servizio! Ero al VI reparto mobile di Genova. O. DA MILANO C'ero anch'io. IX reparto mobile di Bari. Ero forse a meno di cento metri da dove è morto Carlo Giuliani. E non era una situazione tranquilla. I cugini stavano fuggendo da un vero e proprio linciaggio premeditato... I. DA SALUZZO Io c'ero. VI reparto mobile. Tanto orgoglio, tanta rabbia!

Clic. Trovava il reducismo stucchevole. E rivoltante il cappottino al dottor Fournier. Che cazzo ne sapevano loro? A Genova c'era stato anche lui. Sì, con Fournier e con il VII. Scrollò una cinquantina di post. Finché non lo vide: F. Lo conosceva bene F. Dio, se lo conosceva. Zoppicava in sintassi. Ma con lui sì che si sarebbe decollati. Clic. F. DA ROMA È diventato legale inveire contro i poliziotti lanciando sassi, bottiglie molotov e quant'altro. È diventato legale sulla falsariga di salvaguardare un bene più prezioso. Ma quale? La politica??? Far macellare poliziotti in ordine pubblico??? Forse il povero Filippo Raciti non è bastato? Se ne sono già dimenticati... Loro... Gli altri... Coloro che pensano solo a loro stessi... Coloro i quali alla vita di un poliziotto quantificano un prezzo troppo basso. Un prezzo che non merita neppure l'intestazione di una strada e tanto meno di un'aula del senato. Ma i martiri, lo sappiamo, sono altri... Le aule vengono intitolate ai poveri ragazzi che con il passamontagna uccidono il poliziotto che deve morire per status giuridico... Ovvio. Dove mai finiremo? Forse i paesi del Sud America stanno meglio di noi!!! Al momento credo che come paese democratico l'Italia con la i minuscola stia all'ultimo posto della graduatoria mondiale... Ostendite modo bellum, pace habebitis. Livio, Storie, VI, 18. 36

A. DA TRIESTE Da donna di reparti mobili che non ne capisce niente dico soltanto: grande F.! G. DA PORDENONE Grazie, F.! È un onore averti come collega... Leggete qui: «Bisogna che il popolo si avvezzi a riconoscere negli agenti della sicurezza pubblica non più i ministri di una esosa tirannide, ma coloro che vegliano alla sicurezza dell'ordine e della proprietà. E che si ricordi che in libero e ben ordinato Stato il rispetto alla legge non è solo la forza del governo, ma anche della Nazione». Giornale «La Lombardia» di Milano del 17 luglio 1860. N. DA CHIOGGIA Viva la polizia, abbasso la politica e grazie di cuore a tutti i reparti mobili d'Italia. Squadra Alfa.

Clic. Drago sorrise. Sapeva perfettamente che, ora, F. non lo avrebbe tenuto più nessuno. Lo spettacolo che andava a iniziare meritava una giusta colonna sonora. Smanettò sulla collezione di Mp3 del portatile, fino a trovare The Battle, da Il gladiatore. Clic. F. DA ROMA Nell'italietta del buonismo dove lo scopino diventa, perché il termine è offensivo, spazzino e poi, perché è ancora offensivo, operatore ecologico (tra l'altro guadagna più di un tutore della legge); – nell'italietta dove, premessa tutta la solidarietà per le categorie, lo spastico o l'affetto da sindrome down (mongoloide) diventa disabile e poi, perché offensivo, diversamente abile; – nell'italietta dove se chiami il gay «frocio» sei perseguibile; – nell'italietta dove è possibile far parte di un movimento per l'orgoglio pedofilo; – nell'italietta dove è consentito manifestare solidarietà per i brigatisti rossi arrestati, ma dove mandare affanculo un pubblico ufficiale non è offensivo; in questa italietta dove offendere un'uniforme o una divisa o sputare addosso a uno sbirro è normale, forse un giorno ci daranno una pacca sulle spalle e diranno: «Tutto ok, non preoccuparti, sei solo su Scherzi a parte». Ostendite modo bellum, pace habebitis. Livio, Storie, VI, 18. G. DA SASSARI Grande F. Ti aspetto sull'isola per il G8 2009. Per me sarà il primo. Sicut Nox Silentes. Credere, obbedire, combattere. S. DA ROMA Basta con il buonismo. Serve qualcuno o qualcosa che faccia ripristinare il tranquillo vivere sociale e le regole che ormai stanno scomparendo. Sei un grande, F. D. DA COSENZA Bravo F.

Clic. Eccola, l'eccitazione. Eccola. 37

Clic. F. DA ROMA Campionato iniziato. E siamo tornati indietro invece che andare avanti. Tante corse per fare la sperimentazione del nuovo materiale di Op dopo la morte del povero Filippo Raciti (onori), tanto per buttare fumo e salvarsi le chiappe. Altrimenti non si usciva più di servizio. Ci hanno fregati, gabbati, delusi e traditi. E noi, ancora da poveri coglioni, a sopportare all'Olimpico 44 gradi di caldo. Quest'anno ne vedremo delle belle. Steward da paura. Ragazzette di sedici anni con il fratino giallo, che carine... Ragazzoni cicciottoni con la pettorina steward. Facce da imbranati... Mamma mia. E questo sarebbe il modello inglese??? Vedrete presto qualche tifoseria incazzosa come li concia agli steward. E il reparto? Guai a muoversi. Deve arrivare l'ordine e lo dobbiamo sentire ben distinto... altrimenti chi si muove. Ripeterlo almeno tre volte... perché sennò. Se va qualcosa storto è sempre colpa del reparto, no? Poi, però, se tutto va bene, i meriti se li prendono gli altri. Allora, cari colleghi tutti, impariamo dagli errori. Si interviene quando siamo attaccati direttamente e dobbiamo necessariamente respingere una violenza o vincere una resistenza. Per il resto... salvare il culo a qualcun altro o evitare che distruggano tutto? Aspettiamo ben distintamente l'ordine dal funzionario. Ordine magari ripetuto più volte e non equivoco. Magari ci mettiamo anche: «Intervenite, per favore!», che non guasterebbe, così almeno se qualcosa va storto, la responsabilità se la prende chi ordina. E non il classico ortolano del reparto. È chiaro??? Facciamoli mangiare anche a loro i cetrioli. Vedrete che rispetto tornerà nei nostri confronti. Ma chi li seda i tumulti? Gli steward??? Ostendite modo bellum, pace habebitis. Livio, Storie, VI, 18. P. DA BARI Mai pentirsi di quel che si è fatto, se la ragione è la pulizia della sporcizia. Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.

Clic. Ora bisognava soltanto aspettare. Incuriositi dal fracasso, i poveri agnelli si sarebbero fatti avanti. E i lupi li avrebbero fatti a pezzi. Drago rinfrescò la chat una, due volte. Clic. S. DA NUORO Vivere in uno Stato democratico, al quale spero di appartenere, vuol dire anche ammettere i propri errori (orrori) e se il caso pentirsi. La pulizia della sporcizia, come la chiami tu, va fatta nel rispetto delle regole e di quel «pezzetto di carta» che, se non lo sai, si chiama Costituzione. Forse parli così, perché nei giorni di Genova eri seduto dietro una scrivania o nella poltrona di casa a guardare (in Tv) quello che succedeva. Io ero lì e tutto (ma proprio tutto) mi ha 38

fatto un gran schifo. D. DA REGGIO CALABRIA Quoto in toto quanto scritto dal collega S.

Clic. Chi sarebbe stato il primo lupo? Chi? E quanta violenza ci avrebbe messo dentro? Drago rilesse i post di S. e D. Poveri ragazzi. Clic. P. DA BARI Hai ragione, S. È stato un gran schifo, perché molti si sono confusi ed erano certi di fare pulizia guardando davanti, ma hanno omesso di guardarsi le spalle. Tu non sai dove ero io quel giorno. E se qualcuno ha lo stomaco delicato si facesse visitare. La Costituzione non l'hai letta solo tu. La Costituzione non è il Corano, che va interpretata come uno si alza la mattina. Sì, hai ragione, S., è tutto uno schifo, proprio tutto. E ci siamo dentro tutti in questo schifo. Anche tu e D. Ora bisognerebbe capire cosa ti ha fatto schifo. Il voler fare pulizia o cosa? Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.

Clic. Incredibile, S. e D. non si inchinavano. Clic. S. DA NUORO Mi ha fatto schifo vedere la squadra vespe accanirsi in cinque o sei a manganellare su una persona a terra... Mi ha fatto schifo vedere un collega in borghese sferrare una ginocchiata in faccia a una persona immobilizzata da altri colleghi. Mi ha fatto schifo vedere tutte queste cose. Purtroppo, nel bene o nel male, le immagini non mentono. Se poi mi dici che eravamo oggetto di attacchi anche peggiori, posso pure darti ragione. Ma, per Dio, noi indossavamo la divisa. Se ci abbassiamo alla sporcizia della quale dobbiamo fare pulizia (per usare la tua metafora), finisce che ci confondiamo in essa e finiamo per diventare sporcizia noi stessi. Perché la vita è un brivido che vola via, e tutto un equilibrio sopra la follia. D. DA REGGIO CALABRIA a pensiamo esattamente allo stesso modo, S. P. DA BARI A me ha fatto schifo vedere gruppi di pacifisti distruggere Genova. Mi ha fatto schifo vedere civili incappucciati con spranghe, scudi, estintori... Mi ha fatto schifo tutto questo. Come vedi, S., abbiamo un quadro diverso nella visione della schifezza. Forse era meglio per qualcuno che fossimo usciti in servizio con dei fiori. Magari con dei mazzi di fiori, per dare l'opportunità di non difenderci e magari il mazzo lo facevano a noi!!! Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. 39

Barcollo ma non mollo. G. DA CHIAVARI Nel pollaio di Genova, i polli eravamo noi. P. DA BARI Allora era giusto difendersi dalle faine. Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.

Clic. S. e D. ora tacevano. I lupi si erano fatti branco. Clic. E. DA FIUMICINO Per garantire l'imparzialità di un'eventuale commissione d'inchiesta parlamentare sui fatti del G8, hanno chiesto che a presiederla sia la senatrice della Repubblica italiana sig.ra Giuliani. N. DA ANZIO Allora sarà garantita l'imparzialità. Come relatore di maggioranza, per caso, hanno indicato Caruso? Che schifo. Unus sed leo. F. DA PORDENONE La donna giusta al posto giusto. Come se a presiedere una commissione d'inchiesta sulla prostituzione e la droga mettessero il (dis)onorevole Cosimo Mele, il ben noto puttaniere. N. DA ANZIO Come mettere D'Elia in una commissione d'inchiesta sul terrorismo. Unus sed leo. E. DA FIUMICINO Come mettere la Franzoni a presiedere la commissione sul caso Cogne. In fondo anche lei è madre della vittima. F. DA ROMA Gli eccessi? Li fanno anche le migliori polizie europee e mondiali. E vengono risolti nel pieno rispetto delle leggi. Senza mettere alla gogna o crocifiggere nessuno sulla piazza mediatica. A proposito, al nostro stemma araldico, oltre il cambio dell'aquila con la corona (aquila stemma fascista, dicono) adesso verrà tolto l'intreccio di foglie di ulivo e di alloro, che significano Forza e Onore. Li tolgono perché sono fascisti anche quelli e ricordano le centurie romane. Ma forse li tolgono perché ormai di forza e di onore effettivamente non ce n'è più. Ci stanno privando di tutto. Anche della vita. Onore a Filippo Raciti, vivo per sempre!!! P. S. Ma dove eravate tutti voi che parlate facile o giudicate? Non giudicare per non essere giudicati. Chi sbaglia paga, giustissimo. Ma forse avete perso il senso della cosa. Vogliono utilizzare quei pochi cretini di colleghi che si sono fatti prendere la mano dal panico. Chi ha ecceduto era in preda al panico, all'effetto tunnel. Allo stress. Ma pochi hanno ecceduto e con questo pretesto vogliono criminalizzare tutta la polizia di Stato. E questa non è una bella cosa. È uno schifo. Ostendite modo bellum, pace habebitis. Livio, Storie, VI, 18. P. DA BARI A tutti i ben pensanti dico: come è successo al collega Raciti, statene certi che se ci dovessero asfaltare non intitoleranno mai un'aula della Camera 40

con il nome dello sfortunato di turno e le nostre mamme non verranno mai elette senatrici. Bye bye. Sono pronto a mostrare il. petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo. G. DA NAPOLI Ciao, F., come vedo non sei cambiato. Non avevo dubbi, sempre ligio al dovere e preparato come pochi. Neanche dopo i cetrioli di Genova che stavamo per prendere. Un errore che compie l'amministrazione è quello di non far transitare tutti i colleghi per il reparto mobile, specie quello di Roma. Che c'è politica anche nei Wc del luna park.

Clic. Ora che D. e S. erano stati cancellati, qualcuno aveva il fegato di mettersi di traverso? Clic. C. DA ROMA Non capisco perché non vogliate parlare degli errori commessi. Qui si tratta di dire chiaramente: I colleghi che gridavano Sieg Heilci fanno vergognare, o no? I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no? I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no? La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di «Uno a zero» dimostra di essere intelligente? Su queste cose non ci può essere ambiguità!!! L'esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.

Clic. E bravo il nostro C, pensò Drago. Stai a vedere che ora gli vanno addosso i padovani. Se ne stanno zitti da troppo tempo. Ma è più forte di loro. Se c'è da far vedere chi ce l'ha più duro, loro non sanno resistere. Rinfrescò la chat. Solo per vincere una scommessa troppo facile. Clic. E. DA PADOVA Caro C., rispondo alle tue domande: I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no? No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni. Non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro! I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano 41

la nostra esecrazione, o no? No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l'attaccamento all'igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi! I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no? No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l'unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un «povero illuso pacifista» o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c'erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori! La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di «uno a zero» dimostra di essere intelligente? No. Ma come si dice a Roma, 'sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un'aula all'imbecille! Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l'aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno. Once in the Celere, always in the Celere. C. DA ROMA Quindi, per te, avere al fianco un cretino non è un problema? Lo dico serenamente: due che tengono e uno che mena non mi sembra da eroi. E poi ti rispondo da romano: 'sti cazzi un par di palle. Tu non lavori nel Cile di Pinochet e non ti pagano con lo stipendio in pesos messicani (forse è di cattivo gusto visto il titolo del thread di discussione, «macelleria messicana», e me ne scuso con quanti si sentono feriti). Il giuramento che hai prestato parla di far rispettare le leggi, non di fartene di tue. In quanto al rischio della «figura», mi pare che l'abbiamo fatta e basta. E le responsabilità, lo dico da mesi, non sono di chi stava in strada, ma di chi ha permesso che si arrivasse a questo. Siamo stati mandati lì, sapendo quello che ci avrebbero fatto e sapendo come avremmo reagito. Ti piace 42

questo? Ti piace essere una pedina e poi pagarti l'avvocato? Io questo vorrei evitare. Vorrei capire come si può evitare che un collega mandato a fare il proprio dovere si ritrovi indagato in due processi e, dopo la Maddalena, forse anche nel terzo. Scusate la lunghezza. L'esistenza è battaglia e sosta in terra straniera. P. DA BARI Scusate, il Sig. Dott. Funz. Uff. Fournier quando lo faranno santo? Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo. E. DA FIUMICINO Io penso che questi degni eredi di quei cattivi maestri che dicevano in piazza «Uccidere uno sbirro non è reato» ci considererebbero picchiatori fascisti anche se andassimo in servizio di Op vestiti di rosa e con un mazzo di fiori in mano. B. DA PADOVA Quando alcune centinaia di ultras o di autonomi sono schierati a cinquanta metri da te con spranghe, catene, bombe carta e coltelli, io ritengo opportuno fargli così tanto schifo e paura che non devono pensare di poterci attaccare senza lasciarci le ossa! L'Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino.

Clic. Cribbio, ma che gli diceva la testa ai padovani? Non c'era dubbio che C. meritasse una mano. Clic. P. DALL'AQUILA Cambi attività chi non è capace di distinguere chi picchiare. Ma scusate, il reparto mobile non deve caricare, fermare e arrestare chi attenta all'ordine e alla sicurezza pubblica? Se non fa questo, cosa fa? Va in giro a pestare gente che non c'entra una mazza? Sublimi feriam sidera vertice. «A chi crede che i profumi coprano l'olezzo di una vita senza senso». E. DA PADOVA Povero illuso pacifista. Once in the Celere, always in the Celere. P. DALL'AQUILA Secondo il mio modestissimo parere, non sei in grado di assolvere alle mansioni che espleta il reparto dove attualmente lavori. Sai, E., la polizia è piena di uffici. Uffici dove i danni che uno come te potrà fare, sicuramente non nuoceranno a persona alcuna. Sublimi feriam sidera vertice. «A chi crede che i profumi coprano l'olezzo di una vita senza senso».

Clic. Dove diavolo era finito F. da Roma? Possibile che i padovani non lo avessero eccitato neanche un po'? 43

Ma no, no, eccolo, F. Clic. F. DA ROMA Carissimo P. dall'Aquila, è chiaro come Lei abbia travisato, o meglio male interpretato, o meglio manipolato a Suo piacimento, come peraltro in uso agli uomini del Suo schieramento politico, le parole del mio collega celerino di Padova. Sicuramente Lei asserirà che lo scrivente è di parte o sicuramente un fascista. Be', se rispettare le persone, onorare, amare e difendere la propria Patria, rispettare e far rispettare la legge e le istituzioni, far rispettare l'Ordine e la Sicurezza pubblica come sancito dall'articolo 1 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, il tutto condito a sprezzo della propria vita... vuol dire essere fascista, be', allora io sono fascista! Forza e onore a tutti i colleghi che credono ancora. Per non dimenticare i nostri caduti, la nostra storia, il nostro credo! Ostendite modo bellum, pace habebitis. Livio, Storie, VI, 18. E. DA PADOVA P. dall'Aquila, è comoda la tua scrivania? È facile sentirsi un vero poliziotto seduto su una seggiola che risponde a tutti i requisiti della 626? I celerini non devono essere eroi, ma indubbiamente devono mangiare molta merda! E finché è quella dei giornali e dell'opinione pubblica si può anche sopportare. Quando arriva da colleghi, le cose cambiano. Quando anche loro cadono nella trappola dei «disobbedienti», non nego che ti senti un poco demotivato. Il giuramento che ho fatto non lo ricordo a memoria, ma sono convinto che non parlasse di mettersi a novanta gradi. I sessantenni tirano i sassi come i ventenni e forse da quarant'anni (avevano diciannove anni nel '68). Anzi, ti dirò di più: gli ex sessantottini sono spesso i registi dei disordini di oggi. Definitivamente, non sono né fascista, né razzista, né comunista. Sono orgoglioso di essere italiano, l'ho già detto, e di essere celerino. Se questo ti fa sentire discriminato, mi dispiace. Ma fino a un certo punto. Se farai domanda per venire al reparto, sarai il benvenuto. Once in the Celere, always in the Celere. B. DA PADOVA Sai cosa mi ferisce di più, E.? In questa decade passata nelle piazze e negli stadi, ho sempre creduto che il pericolo fosse davanti a me o, nella peggiore delle ipotesi, tutto attorno. Ora vedendo questo thread, mi rendo conto che il pericolo è tra di noi. L'Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino.

Clic. Il collega dell'Aquila si era infilato in un guaio. I padovani avrebbero goduto nell'umiliarlo. E F. da Roma non avrebbe chiesto altro che una mattonella di palcoscenico per aggregarsi al climax. Clic.

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A. DA PADOVA Credo di capire che P. dall'Aquila faccia il parapendio. Lasciateglielo fare, il parapendio. Almeno P. crede che le palle escono fuori con gli sport estremi. Ma che fine ha fatto nel forum? È scappato? Poi, occhio. Il parapendio è moooltooo pericoloso. Basta una corrente ascensionale e splat... Ahi, ahi, ahi., no Alpitour?!?! E comunque troverete l'antiproibizionista, il noglobal, l'anarco-insurrezionalista, il verde, il pacifista contro la caccia, il buono di DoppiaVela in un forum del tipo «tempo libero contro la caccia», o qualcosa del genere. Sì, troverete lì colui che si permette di spalare merda sui colleghi. Se qualcuno, navigando, trova qualcosa, fateci sapere... B. DA PADOVA Celere per molti, ma non per tutti!!! L'Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino. S. DA ROMA Per i colleghi che tanto criticano l'operato di colleghi che rischiano la vita in Op. Vorrei dire loro: siete mai stati in un servizio di ordine pubblico a rischio o ad alto rischio? Credo proprio di no, perché se così fosse non lancereste critiche del genere contro i colleghi del reparto mobile. Dove erano lor signori quando nel lontano 1976 e successivi, gli autonomi sparavano contro gli allora celerini e io ero uno tra questi? Dove erano lor signori quando i colleghi colpiti dai colpi di arma da fuoco sono rimasti a terra privi di vita (collega vicebrigadiere Passamonti, eccetera) e altri costretti su una sedia a rotelle per tutta la vita? Il reparto celere di Padova ne sa qualcosa in proposito. Dove erano lor signori quando le pallottole sparate contro i gipponi del primo reparto celere di Roma all'Università La Sapienza fischiavano attorno ai teloni dei mezzi e dei colleghi a terra in attesa di riceverne qualcuno? Forse non eravate nemmeno nati e adesso vi permettete di criticare l'operato dei colleghi. Non ho parole per tutto ciò. Ma una cosa è certa. Se nella nostra amministrazione è venuto a mancare lo spirito di corpo e il tanto amato affiatamento, la colpa è soprattutto di colleghi come lor signori. Meditate, gente, meditate. P. DALL'AQUILA Non sono sparito. La vela tiene ancora bene. Ma vedo che vi divertite con poco. Parlate di sfere? Perché siete convinti che per fare il parapendio ci vogliono le palle? Ci vuole un pizzico di coraggio e senso di equilibrio che a voi manca. Sublimi feriam sidera vertice. «A chi crede che i profumi coprano l'olezzo di una vita senza senso». B. DA PADOVA È tornato il paraculpendio!!! Once in the Celere, always in the Celere. A. DA PADOVA Ascolta, vela. Ma quello che dici lo pensi veramente? Ma, soprattutto, pensi a quello che dici? Perché sai, qui in DoppiaVela di cazzate se ne leggono tante. Per fortuna, doveva essere uno strumento utile ai colleghi. Dico colleghi... E mi fermo qui. F. DA ROMA Ma è tutta farina del sacco di P. dall'Aquila o gliel'ha suggerito qualcuno del suo centro sociale? Avviso P. che è stato aperto per lui un forum su «Donne ai reparti mobili». Probabilmente lì potrà dare il meglio di sé. 45

Ostendite modo bellum, pace habebitis. Livio, Storie, VI, 18. B. DA PADOVA Che grande famiglia!!! È emozionante vedere tanti figli di mamma Amministrazione fare i bisticci!!! L'Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino. F. DA ROMA Purtroppo, cari colleghi, sapete bene che il reparto o si ama o si odia. Non esistono vie di mezzo. Il Reparto è un credo, una fede, per il quale sei disposto a sacrificare la tua vita. Per difendere il collega al tuo fianco e tutta la squadra. Il Reparto è odore di lacrimogeni misto a saliva, sangue, fango, odore di terra bagnata e asfalto umido. Il Reparto è sensazione di onnipotenza, incoscienza, virilità, paura. Il Reparto è onore, forza, cameratismo, osmosi simbiotica con il collega. Il Reparto è bere dalla stessa bottiglia acqua calda in venti. Dividersi un panino in altrettanti. Stremarsi per ore sotto al sole cocente o sotto la pioggia battente o con il freddo gelido che ti taglia il viso. Quante sensazioni produce questo lavoro, questa missione. L'attesa dell'intervento... della carica. Fermi... dietro gli scudi... giusto lo spazio per scorgere l'antagonista. Il nemico che si prepara ad attaccare... noi fermi... un solo sguardo con il collega vale più di mille parole... il cuore comincia a pompare sangue sempre più forte. Sempre più copiosamente alle membra e al cervello. Il respiro si fa affannoso... e ti sembra di sentire quello degli altri colleghi che respirando al tuo stesso ritmo ti incitano... Scariche di adrenalina si susseguono acutizzando i sensi... la percezione del pericolo, che per reazione chimica si trasforma da paura in coraggio. Via... Carica... lo scontro diventa fisico. Un turbinio di emozioni ti pervade. Colpi dati, colpi presi. Non senti più nulla, ormai. Continui a lottare e a respingere i violenti in qualsiasi modo. E in quel frangente stai godendo di tutto ciò!!! In quel momento, e solo in quel momento, potrai capire di amare il lavoro che stai facendo, la missione. Perché tale è l'istinto da guerriero che contraddistingue il celerino dal resto. Solo lì potrai capire e percepire se è quello che fa per te! Chiedo venia per la lungaggine... Avrei voluto di più... Ma per il libro mi sto attrezzando... Scherzo... P. S. Non me ne voglia chi non la pensa così. A ognuno il suo. Date a Cesare quel che è di Cesare. E non etichettatemi come fanatico o mitomane. Né tantomeno esaltato. Ostendite modo bellum, pace habebitis. Livio, Storie, VI, 18.

Clic. Logout. Clic. Basta. Era troppo anche per lui. Drago chiuse la sessione e solo allora si accorse che la caserma era sprofondata in un buio opprimente. Guardò l'ora, le tre del mattino. Si stropicciò gli occhi che bruciavano. Controllò 46

l'ordine di servizio dell'indomani. Turno 8-14, Centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria. Imprecò, chiudendosi la porta dell'ufficio alle spalle.

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5. Cpt

La porta carraia della Stefano Gelsomini si era spalancata. Cominciava ad albeggiare. – Ciao, Drago. – Ciao un cazzo. Al saluto del piantone, non aveva saputo rispondere in altro modo. Forse per le tre ore di sonno. Forse per la montagna di sigarette che si era già fumato e gli rendevano insopportabile il fiele che sentiva in bocca. Forse per il veleno che la chat gli aveva pompato nel sangue. S'infilò dritto nell'accogliente squallore della sala ricreazione. Un immenso open-space disadorno. A sinistra, il bancone del bar a ferro di cavallo. A destra, un'impolverata vetrinetta con i gadget del ministero: il cappellino polizia di Stato; la T-shirt polizia di Stato; il foulard cremisi polizia di Stato; la tazza polizia di Stato. Al centro, un maxischermo da quarantadue pollici appoggiato sul pavimento di linoleum e un divanetto sfibrato fin nell'ultima molla. – Che prendi, Drago? – Due tramezzini e un succo di albicocca. – Salute... Rientri ora? – Attacco. La ragazza del banco non andò oltre. Aveva capito che non era aria. Il sapore del tonno e dei carciofini aveva peggiorato il suo umore e l'uovo e il salame che lo guardavano da un piattino non promettevano meglio. Il bar era deserto, anche se all'altro capo della sala gli sembrò di riconoscere una faccia amica. Lo Sciatto gli si fece incontro sorridendo. Si abbracciarono. – Tutto a posto, Drago? – Ce ne fosse una di cosa a posto. – Dillo a me. Non puoi sapere come sto. Indovina ieri pomeriggio che ho combinato? – Ti sei attaccato con qualcuno? – No. Sono andato in sacrestia, a parlare con don Pino. – Ti sei riconciliato con i preti? – No. È che non ce la faccio più da solo. – Cioè? 48

– Me ne stavo in fureria. E all'improvviso ho capito tutto. Io quelli lì odio. – Quelli chi? – Quelle facce di cazzo che mi trovo davanti ogni domenica allo stadio e il lunedì a occupare qualche casa. Come la chiamano... violenza casual?... Be', io ho capito che il giorno che qualcuno decidesse di portarmi al Creatore, giuro che ce lo mando prima io. Per questo sono andato da don Pino. Volevo dirglielo. Volevo capire se è normale quello che mi passa per la testa. – E lui? – Lui lo conosci. Se non lo sapessi, non lo diresti mai che è un prete. Lui mi fa: «Figliolo, ricordati che anche Gesù Cristo era un tipo incazzoso. Ma faceva del bene». – Allora, se anche Gesù Cristo si incazzava, stiamo a cavallo. – Meglio di niente. Dove vi mandano? – Ponte Galeria. – Il Cpt? – Il Cpt. – Che culo. Ci becchiamo, Drago. – Ci becchiamo. La fila in armeria era già lunga. Era come al supermercato. Prendevi il carrello della spesa, lo spingevi tra gli scaffali e le rastrelliere dell'equipaggiamento e aspettavi il turno al banco, sotto un crocefisso a parete. «Che hai preso, oggi?» Casco, scudo, protezioni corporee, sfollagente... Firmavi e aspettavi ai mezzi. Il servizio al Centro di permanenza temporanea di Ponte Galeria lo conosceva a memoria. Era come andare a marchiare del bestiame. Ti presentavi tutto bardato, mollavi qualche sganassone a chi non si dimostrava mansueto e ti caricavi sui mezzi una bella saccocciata di clandestini due volte sfigati. Perché erano stati presi. Perché erano nati in un paese che ne accettava il rimpatrio via aereo o via nave. «Ce ne sono da portare via una settantina», avevano detto. E salendo con gli altri sui Ducato, si era sentito anche un po' ridicolo. Ma guarda un po': una squadra di guerrieri lanciata all'assalto di un gregge di pecore dietro una staccionata. Tra la Portuense e Ponte Galeria c'è il tempo di una sigaretta. I rituali dell'attesa e dell'avvicinamento sono gli stessi di sempre. Ti guardi, ti annusi, per capire con chi ti è toccato faticare a questo giro. Sorridi alla 49

battuta di chi ti vuole compiacere. – Ahò, Drago, vedi di fare lo show anche oggi. Poi il cancello del Cpt si era aperto e il gregge si era mostrato. Settanta tra prostitute e venditori ambulanti. Settanta zammammeri, come ormai tutti chiamavano chiunque non avesse un passaporto europeo, e il perché Dio solo lo sa. Il reparto si era disposto su due file parallele, a formare un corridoio umiliante e minaccioso. Con gli zammammeri a sfilare nel mezzo. Uno alla volta, lo sguardo rivolto verso il basso. A passo svelto, ma non troppo, dritti verso i pullman che li avrebbero portati al posto di confine. La sfilata poteva essere questione di minuti o di ore. Quella mattina, il gregge aveva deciso di ribellarsi. E come il fischio di un mandriano, l'urlo eccitato di un collega ne aveva dato il segnale: – Comincia la tarantella! Un gruppo di prostitute aveva deciso di non fare più né un passo avanti né uno indietro. Una di loro si era scoperta le tette, un'altra si toccava tra le cosce mulinellando la lingua. La più coraggiosa si era messa a insultare: – Frosciooo, che fai froscio? Non ti piasce? Il sangue gli era salito alla testa. «Schifose, siete delle schifose», si era ripetuto, promettendo a se stesso di non alzare il pugno di pelle nera che teneva poggiato sul fianco. Poi era successo quello che non doveva succedere. Una delle donne gli si era aggrappata alla gamba. Era scoppiata a piangere. Baciandogli l'anfibio, lo aveva implorato di salvarla dal paese in cui era nata e in cui avrebbe trovato la morte, se fosse tornata. Allora, si era rivolto agli altri. – Che cazzo stiamo facendo? Me lo spiegate che cazzo stiamo facendo? La donna aveva smesso di singhiozzare e lo aveva guardato con un lampo di inutile speranza. Le altre due si erano ricoperte dei loro stracci. Uno dei vecchi del reparto lo aveva fulminato: – Drago, spiegacelo tu che cazzo fai. Sei nero peggio di me e ti metti a fare il Che Guevara? Forza, finiamo questa storia e andiamocene, che ne ho le palle piene. Le prostitute erano state trascinate sul pullman insieme agli altri. E lui non aveva aperto bocca fino all'aeroporto di Fiumicino, dove gli zammammeri erano stati presi in custodia dalla Polaria. Solo allora, risalendo sul Ducato, era corso ad afferrare quel collega che lo aveva rimesso in riga. – Senti un po', rispondi a una domanda. Secondo te si divertono a dare la fica per venti euro a botta? 50

– Sì, gli piace. – E se ora ti dò una stecca in bocca, qui, davanti a tutti, ti piace? Eh, stronzo? – 'A Drago, e non ti incazza'. Dico io, ma che ti incazzi? 'Sto servizio l'abbiamo fatto mille volte e tu eri uno dei primi che se qualcuno si muoveva lo lasciavi per terra. – Il fatto di doverlo fare non significa che mi sia mai piaciuto, coglione. Era rimasto in silenzio fino alla carraia della Gelsomini. Aveva rovesciato la roba in armeria ed era salito furibondo in macchina. La strada di casa correva parallela al mare di Ostia. Attraversava la pineta di Casalpalocco, costeggiava il fetido canale della Lingua e si infilava nell'Infernetto. Che – aveva sempre pensato dal giorno in cui il padre ce lo aveva portato a vivere – è davvero uno strano nome per una borgata abusiva che voleva essere un paradiso. Continuava a ripensare alla prostituta che si era umiliata a Ponte Galeria. E con lei a un'altra prostituta la cui strada, vent'anni prima, aveva incrociato nel suo primo giorno da celerino, in piazza Esedra. L'aveva divisa da un matto che forse la voleva stuprare tra le panchine di un giardinetto. Per ringraziarlo, come si era girato, gli aveva spaccato una bottiglia in testa. Tra i capelli, sentiva ancora la cicatrice. Era sceso di fronte al cancello di casa e si era guardato le spalle. Come faceva ogni volta che girava il chiavistello della spessa porta di ferro che somigliava più al battente di un fortino che di una villetta. E c'era un motivo. Aveva passato la giornata a deportare oltre confine settanta ombre di altrettanti disperati. Ma la disperazione Drago ce l'aveva sull'uscio di casa. Una casbah che chiamavano Villaggio Bonanni. Una discarica umana, butterata di materassi sfondati, cocci di bottiglia, mura sbreccate, preservativi e siringhe usati, dove ciondolava a ogni ora del giorno e della notte una folla di clandestini in attesa. Di un lurido caporale, per qualche lavoretto al nero. Di uno spacciatore, con cui scambiare refurtiva contro fumo. Di quelle ombre slave, nere, olivastre, meticce incrociava ogni volta gli sguardi. Vacui, liquidi come occhi di bue. Incapace di distinguere dove finisse la loro paura e cominciasse la loro disperazione. Il padre aveva tirato su la villetta nel 1974. Sopra una falda acquifera. Quando alla madre era stato spiegato che, a Roma, per le case degli enti ci voleva una bella spinta. La vegetazione del giardino era venuta su come neanche ai tropici, e in casa si combatteva da sempre con la muffa. Non 51

aveva ancora deciso se provare orgoglio o tenerezza per quelle quattro mura. Ma finché sua madre avesse deciso di rimanerci, restavano la sua casa. Aprì la porta bianca del ballatoio e si infilò in cucina con una certa irruenza, sperando che la madre non fosse dove invece ora la vedeva. E dove l'aveva lasciata la mattina all'alba. Era accampata al tavolo da pranzo, coperto da una tovaglia di pizzo e ingombro di fotografie. Centinaia di fotografie. Lui, i fratelli, il padre. I sorrisi di una famiglia che aveva attraversato la vita di un paese in cui non si riconosceva più. – Quando sarò morta, almeno avrete qualcosa da ricordare. – Mamma, ogni volta con questa storia. – Ogni volta con questa storia, sì. Come è andata oggi? – Come ieri. E come l'altro ieri. – Quindi è andata male. – Sì. È andata male. E tu, perché non sei uscita? – Perché non c'è ragione di uscire. Perché ogni volta che lo faccio, perdo un pezzo di dignità. – Non esagerare. – Che ne puoi sapere tu? Sai dove mi sono ridotta a comprare i vestiti? Al mercatino degli stracci di Ostia. – Mamma, se ti servono soldi... – Me li dài tu? Che fai lo sbirro in un paese dove una guardia guadagna meno di una domestica? L'ho detto, sai? – Hai detto cosa? E a chi? – A quelli del partito, ad Alleanza nazionale. Mi hanno chiesto se potevo organizzare qualche cena. Cominciare a fare un po' di campagna elettorale. – E cosa hai risposto? – Con trecento euro al mese di pensione organizzo le vostre cene? Io non organizzo un bel niente. Non voglio più sentirvi, questo gli ho detto. – Hai fatto bene, mamma. Si richiuse alle spalle la porta del ballatoio e rimase a fissare lo scheletro di cemento armato che affacciava sul giardino e che un giorno, forse, sarebbe diventata una casa per suo figlio. Diede una voce alla madre: – Dovrò trovare il tempo di finire questa roba qui in giardino, che dici? – Dico che il problema non è il tempo. Tornò a guardare lo scheletro e provò a scacciare il fantasma della prostituta che gli aveva baciato gli anfibi.

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6. Mentalità

Hangin' around wìth my mates one night we got in a little fight Geezer come with a knife in his fist Igot cut along with the wrist said A.C.A.B. All cops are bastards... Magnifico il punk rock dei 4-Skins. Quanti ne erano passati di anni? Trenta? Ventisette? Coppers come up & say what's the matter with you? Now they see what we can do next thing I knew I was in a cell allmy mates are in there as well A.C.A.B. All cops are bastards... Poliziotti bastardi. Guardie infami. Sbirri di merda. Non era sublime poter dire tutto questo con una parola sola? Con un solo schizzo di odio o di vernice nera su un muro? Acab. I had a court date to plead my case they had delight at the look in my face they said we're gonna put you away I said all I had to say A.C.A.B. All cops are bastards... Skin, anarchici, neri, rossi... Il tempo ne aveva fatto una marmellata. Che cazzo ne potevano sapere i pischelli delle curve, dei centri sociali? Era venuto il tempo di mettere ogni cosa a posto. In un piccolo appartamento del Tuscolano, con il senso di eccitazione e la gestualità che merita un segreto per iniziati, Roberto Sabuzi tastò con il palmo della mano la sommità dell'armadio che chiudeva uno dei lati della 53

stanza da letto. Fino ad afferrare la cartellina di cartoncino verde che lì nascondeva. Black Bloc. Combattimento urbano. Strategia, tecnica e tattica. Ne sfilò le ventinove pagine di ciclostilato che erano custodite all'interno. Ultras: oltre il tempo. Storie di barricate e lacrimogeni. Era venuto un gran bel lavoro. A cominciare dall'incipit. Una dedica che voleva essere, doveva essere, un manifesto. A tutti i patrioti, rivoluzionari e ribelli italiani. In particolare: Garibaldi, le sue squadre di azione e le sette carbonare risorgimentali. Gli Arditi della Prima guerra mondiale. Benito Mussolini, Giuseppe Solaro, Alessandro Pavolini, Franco Colombo, Nicola Bombacci, Vincenzo Costa. Gli Eroi di Bir el-Gobi ed El-Alamein I Franchi tiratori, giovanissimi e purissimi cecchini fascisti i quali nelle maggiori città del Nord Italia accoglievano gli invasori angloamericani (194445) nell'unico modo possibile. I caduti della scuola di Mistica fascista, delle Brigate nere, della Legione autonoma mobile. Ettore Muti. Cesare Mazza. A Carlo Giuliani, per non dimenticare... A Edo, Sole, Baleno... come a tutti gli anarchici scomparsi nelle prigioni di Stato dei quali da anni non si ha notizia... con immenso rispetto... A quelli di noi che non sono più nello spazio fisico, ma vivranno per sempre nel nostro pensiero: Giannetto, Emiliano: anche da lassù soffrite e combattete con noi... A Peppe... A Gianluchino di Primavalle!

Roberto aveva quarantuno anni e faticava da operaio. Quando capitava, quando si ricordavano di lui. Non era mai andato via di casa. Il padre era sparito cinque anni prima. Alla madre di settantasette anni restava lui. E a lui restava la madre. La madre e il segreto di un'altra vita in cui non era Roberto. Era «er Capitano». Ci teniamo a precisare che questo ciclostilato non ha assolutamente scopo di lucro... Le piccole offerte serviranno a sostenere le spese processuali sostenute dalle famiglie di alcuni nostri amici detenuti per giusta causa. Le seguenti narrazioni vanno più o meno dal '96 al 2000. Non possono essere descritti tutti gli scontri ai quali abbiamo partecipato. Qualcuno di noi dovrebbe cominciare con la fine degli anni Settanta. Per spazio e per non fare 54

retorica vogliamo cominciare qui a descrivere l'ultima fase di contesto storico... nessuna resa all'assalto del tempo per carità... nuovi impulsi di ribellione si aprono a chi sa trovare la strada... Non troverete nomi, cognomi, codici di identificazione. Chi deve capire, chi c'era, capirà... Alle guardie di tutte le età, le condizioni, le simpatie umane e calcistiche: non leggete queste pagine!

Era stato più volte denunciato, e con le guardie e i commissariati aveva una qualche confidenza da almeno quattordici anni. Reati contro l'ordine pubblico, porto abusivo e detenzione di armi nel 1993. Violazione delle leggi contro la discriminazione razziale e danneggiamento, nel 1994. Fascista lo era sempre stato. Fascista e laziale. Come se le due cose dovessero definire un'identità inscindibile. Bazzicava Forza nuova e «il presidio» di via Montebuono, al Salario. Una bottega nel cuore nero di Roma che guardava piazza Vescovio e il pub Excalibur, affacciata sulla striscia di marciapiede dove il 29 maggio del 1979 era stato ucciso Francesco Cecchin, militante del Fronte della gioventù. Roberto accarezzò con lo sguardo la mazza da baseball appoggiata vicino al letto. Fissò per un attimo il nastro con cui ne aveva reso ferrea la presa del manico. Tornò a leggere. La mentalità Il pugno è la sintesi della teoria... Bene usato vale più di un articolo di fondo in corpo nove e corsivo. Perché agisce direttamente sul corpo dell'avversario in modo rapido e definitivo; e quindi convincente [...]. Sintesi della sintesi: la bomba. La preferita, quindi... Piccolo ordigno dalla potenza immensa sprigionata nello spazio ristretto; materia ultrasintetica, che racchiude nella sua irrisoria pochezza la formidabile potenza del fulmine, del terremoto, dell'uragano... Il fascista divinamente l'adora. LUIGI FREDDI, in «Il fascio», 20 novembre 1920. Armarsi, rispondere alla chiamata è di tutti i credenti; ma rispondere positivamente all'appello della morte è solo degli eroi e dei martiri... Quanti martiri allinea sui suoi altari la mistica fascista... Meglio la guerra alla pace borghese, meglio lo stadio alle sale da ballo. SCUOLA DI MISTICA FACISTA, Milano 1940.

In un momento in cui vari gruppi ultras italiani hanno deciso di dare avvio alla tradizione di impaginare con lussuosa carta stampata, con ottimo materiale fotografico, libri concernenti la propria storia, noi pochissimi, più modestamente, abbiamo scelto di scrivere poche pagine ciclostilate non per spillare soldi agli appassionati di vicende ultras italiane, ma per ricordare 55

innanzitutto a noi stessi, poi a quelli come noi, che ultras non è business-club, come ormai è costume nazionale incontrastato, ma è invece fede, morale, certezza nel cameratismo comunitario, volontà di sfida e di combattimento, oltre il convenzionalismo borghese. È eresia. È dono disinteressato.

Le strade si erano divise nei primi anni Novanta. Un pezzo della Nord si era consegnato mani e piedi a chi aveva deciso di mungere la società ricattandola sulle trasferte, sui biglietti, sul merchandising. Lui, er Capitano, e la sua «batteria» erano entrati in clandestinità. Nessuna presenza organizzata riconoscibile. Piuttosto, una setta per iniziati, cui lo stadio cominciava a stare stretto. Una calamita di odio e ribellione sociale. Per il nome, avevano deciso Ultras Lazio. Suonava bene. Suonava antico, primordiale. Ultras Lazio è l'incontro fra anziani militanti della Nord con giovani ultras che vogliono effettivamente sperimentare l'impulso della mentalità ultras in luogo di qualsiasi altra esperienza esistenziale, che viene considerata da questi giovani, con disprezzo, borghese. Non creativa sul piano dei valori etici. È un incontro che non si limita all'esperienza di stadio, ma è un vero e proprio cameratismo che si approfondisce quotidianamente nelle mura di una sezione. Prende così corpo l'idea di un movimentismo ribelle e irregolare, antipolitico. Lo stesso che ha contrassegnato la storia del primo fascismo. Rispetto alla destra radicale, sin dall'inizio, riserviamo maggiore stima, senza ombra di dubbio, a quei compagni di cui condividiamo la mentalità radicalista, barricadera, che li porta non a caso in prima fila nella lotta a fianco degli oppressi e degli emarginati. Va inoltre detto che se i fascisti sono i borghesi della destra, si finisce per comprendere, tragicamente, anche la legittimità dell'antifascismo.

Roberto afferrò una penna e cominciò a chiosare con attenzione le pagine che stringeva fra le mani. In fondo, l'impianto teorico, se non era tutto, era quasi tutto. O almeno così la vedeva lui. Il nucleo più significativo degli Ultras Lazio ci tiene, continuamente e provocatoriamente, ad assumere un atteggiamento fascista: la bandiera nera col teschio con pugnale tra i denti e con la scritta «Me ne frego» che spesso compare nel settore riservato agli ultras è come il simbolo sacro del gruppo. Il nucleo più consapevole degli Ultras ha un retroterra teorico che lo porta a identificare nello squadrismo mistico-fascista l'esistenza di una condotta che vuole essere una risposta alla devastazione esistenziale (droghe, consumismo, famiglie distrutte, confusione mentale e dell'anima, istinto del tradimento, nessuna predisposizione al sacrificio) che colpisce le nuove generazioni 56

italiane. Nella fiera consapevolezza di una sterilità politica contingente (la politica è rifiutata dai ribelli in quanto luogo di tenebrosi giochi di tipo capitalistico e mercantilistico, inevitabilmente scaduti a logiche di accumulazione di denaro fondate su intrighi e menzogne).

Bene. Molto bene, pensò. Restava un'ultima pennellata. Una capriola concettuale che definisse il canone della violenza tollerabile. Proponendone una dimensione eroica. Di testimonianza. Mentalità è amore Chi crede di guadagnare la vita, la perderà. Chi la butterà, la troverà. Vangelo di GIOVANNI L'azione ha ragione degli schemi consegnati nei libri. L'azione forza i cancelli sui quali sta scritto «Vietato». I pusillanimi si fermano, gli audaci attaccano e rovesciano l'ostacolo. BENITO MUSSOLINI

La mentalità è appunto questo: andare oltre il già fatto. È l'atto, qualcosa che supera la stessa azione, poiché l'atto unisce in sé sia il pensiero sia l'azione. È la capacità di vincere in una situazione nella quale non vi è uscita. È l'imprevedibile che si traduce in azione concreta. È il soggetto che supera sé medesimo. È la commozione nel senso vero della parola: movimento del cuore. È allora l'azione diretta come via di insurrezione; la sintesi della stessa visione del mondo, appunto. Va precisato che la mentalità è l'antitesi della violenza. È l'antitesi assoluta del gusto borghese e narcisista della violenza. È ciò che ti rende interiormente vincitore anche se nella realtà dei fatti sei tremendamente sconfitto. È il saluto romano quando vieni caricato nelle camionette della sbirraglia di Stato. È la gioia di non arrendersi quando sei al tappeto. È amore, volontà di donazione a un ideale che si identifica ormai con te, che si deve identificare con te. Mentalità, dunque, è avversare progetti antiultras mascherati dal nome Progetto ultras o Resistenza ultras. Mentalità è partecipare all'azione in due contro dieci e non in dieci contro uno. Mentalità è andare allo sbaraglio. È andare più avanti di tutto il mondo e ancora oltre. Mi vengono alla mente odori strani, lacrimogeni che volano ad altezza d'uomo, il cui sapore si deposita sui vestiti. Volti piangenti di persone normali picchiate dalla pubblica sicurezza. Volti piangenti di amici guerriglieri che 57

hanno dimenticato di proteggersi il volto. Le parole spese a vuoto di tanti, troppi, tantissimi, quasi tutti, i presunti fascisti che parlano... parlano... ma in questi momenti non li vedi mai al tuo fianco. I sermoni di quelli che ritengono razionalmente inopportuno lo scontro «perché i rapporti di forza, camerati, li conosciamo... siete i soliti teppisti... la ritirata è inevitabile, i tempi non sono maturi, non facciamo i soliti coatti... i ragazzi non possono essere fatti bere». Li rivedo tutti all'istante questi antifascisti di Stato mascherati da fascisti, ma intanto un camerata le guardie lo stanno portando via e noi non riusciamo a riprenderlo. Mi invade l'anima la tristezza. Ma che problema c'è, siamo fascisti e ce ne freghiamo della galera. Già immagino il solito titolo sui giornali: «Gruppi di estremisti politici si infiltrano fra i tifosi della Lazio. Un'altra giornata di scontri all'Olimpico. Dodici poliziotti feriti, due teppisti arrestati. Agitavano le solite bandiere nere con lugubri simboli che credevamo per sempre scomparsi dalla nostra storia e dalla nostra memoria... Un'altra domenica in balia dei teppisti fascisti. La polizia sta indagando...» Macchine della polizia che corrono all'impazzata. Domani la solita giornata, ma intanto ora carico finché mi regge il fiato. Il pensiero che mi annienta la mente. È un'ossessione adesso: «Dov'è la bandiera?» Siamo tutti sotto la stessa bandiera: la bandiera nera con teschio bianco. Meglio un ribelle che ti dà amore e calore di un freddo politico che calcola, calcola, calcola... Meglio i vecchi Fedayn del Quadraro dei politicanti pseudofascisti di oggi... Onore a Roberto Rulli. È tutto normalizzato, oggi. Infatti, Cesare al corso di scuola di Mistica fascista nemmeno li avrebbe ammessi, 'sti politicanti. Aveva quasi ottant'anni, ma a noi ripeteva spesso: «Siete la Santa teppaglia... avete capito che la rivolta, per noi fascisti, è il principio originario... Avete capito... La vita è una scintilla che va oltre il tempo». Meglio i fascisti della Lazio, dunque, della politica... Meglio un giorno da leoni che cento da pecora, dicevano non a caso gli Arditi. Lunga vita agli Squadristi.

Il più era fatto. Ma ora serviva dell'altro a quel diario nero. I pischelli campano di emulazione e la memoria delle curve si costruisce nel fumo della battaglia. Bisognava dargliela, dunque, quella memoria. E il 1999 era un buon anno per cominciare. Ma sì, qualche «breve cronaca guerrigliera». Questo serviva. Primavera '99. Derby di ritorno con la Roma. All'andata non si erano registrati scontri di rilievo. È dunque auspicabile cercare di forzare la situazione. Innanzitutto, notiamo sin dalla settimana, con disgusto, come la curva speculi in modo impressionante sulla vendita dei biglietti che le concede la società. Quindi, noi, che non abbiamo mai usufruito, per nostra volontà, di biglietti da rivendere, noi, che siamo molto 58

spesso entrati forzando i cancelli, traiamo spunto dalla partita di cartello per fare in modo più deciso. Circa due ore prima della partita, iniziano gli scontri in questo modo. I carabinieri fanno di tutto per spingerci fuori dalla Nord. Noi non cediamo e iniziano a manganellarci. La nostra risposta è inevitabile. Attimi ripetuti di tensione. Le guardie vengono compatte fuori dalla Nord, ma gli scontri si protraggono. Volano dunque i primi lacrimogeni... Ci arrivano notizie simili dalla Sud. Bombe carta ai cancelli contro le guardie e scontri di seguito... Più o meno verso le 8 riusciamo tutti a entrare di forza. La partita è squallida. L'unica partita a cui teniamo veramente, l'unica partita che guardiamo dal primo al novantesimo, non vale nemmeno la pena di essere guardata, stasera. Già alla fine del primo tempo si capisce che la vittoria giallorosa è scontata... I nostri lotteranno pure per lo scudetto, ma mancano di mentalità ultras... Dopo poco dall'inizio del secondo tempo, dopo l'ennesimo gol della Roma, usciamo compatti dallo stadio. Prepariamo con calma sassi e molotov. Quando la partita sta per concludersi, volano le prime molotov verso le forze dell'ordine. Nel giro di pochi attimi il clima diventa incandescente, forse perché le guardie vengono prese alla sprovvista. Credevano veramente alle parole di quegli ultras invecchiati che avevano detto i giorni precedenti che tutto si sarebbe svolto in tranquillità. Iniziano a picchiare alla cieca, come loro solito, ma ben poco possono contro un nostro lancio di molotov e una sassaiola che li fa indietreggiare paurosamente. Uno dei più anziani del gruppo si fa avanti deciso verso le guardie, cercando di ferirne una con un'arma da taglio. Viene però bloccato da un cane poliziotto... Riesce poi a liberarsi. Durano molto gli scontri. Arrivano infatti i rinforzi per le guardie, perché capiscono che si andrà avanti così per parecchio. I giornali, all'indomani, parleranno di circa trenta guardie ferite. Ammesso che vi sia sempre esagerazione, era comunque da un bel po' che non ricordavo scontri così intensi con le forze dell'ordine.

Già, che notte magnifica. Ma, in fondo, soltanto una prova generale di quel che sarebbe accaduto a Firenze. Giornata bellissima, che nessuno di noi dimenticherà. Lazio-Fiorentina, partita fondamentale per la lotta scudetto di quell'anno tra Lazio e Milan. Mi sveglio presto. Sono abbastanza teso. Non per l'eventuale scudetto della Lazio, ma per la possibilità che lo scudetto porti massa e confusione. Dunque, la possibilità per gli ultras di creare un clima di tensione mediante il quale la minoranza ultras può insorgere contro le forze dell'ordine. Speriamo così che 59

le ultime due giornate di campionato conducano a uno stato di guerriglia permanente. La mattina arrivo così alla stazione Termini. È strapieno di laziali... è dunque necessario che le poche decine di persone con mentalità si uniscano, facciano immediatamente quadrato per dare avvio alla guerriglia... Le solite prepotenze delle guardie fanno il resto. Scatta subito la nostra risposta. In pochi attimi l'atrio della stazione diventa il luogo in cui le guardie asserragliate gettano con immancabile continuità lacrimogeni ad altezza d'uomo. Anche in questo caso ci sono diversi feriti tra le forze dell'ordine. I danni alle strutture della stazione sono ingenti... Come è prevedibile, prima di partire passa del tempo. Prevediamo che a un certo punto le guardie tenteranno di entrare nel vagone per identificarci e fare i soliti confronti con le fotografie scattate durante gli scontri per diffidare e arrestare qualcuno di noi. Eravamo comunque, naturalmente, tutti coperti... Stranamente, il treno parte. Tra tutte le trasferte fatte, forse perché è stata l'ultima che abbiamo fatto tutti insieme, è quella che ricordo con più piacere. Il clima è distesissimo, si commentano gli scontri, c'è chi si vanta: «È un mese che facciamo scontri in continuazione. Le guardie stanno a impazzi'...» Si scherza tra di noi, si gioca. Quando, improvvisamente, tra il Lazio e la Toscana, non ricordo precisamente il posto, il treno si ferma a una piccola stazione. Ci vogliono identificare per gli scontri alla stazione Termini. Naturalmente, non ci lasciamo mettere le manette senza reagire. Riparte la guerriglia. Lacrimogeni ovunque, ma le guardie desistono. Anche perché sono poche e noi non abbiamo nessuna intenzione di lasciarci blindare. Ci fanno perciò ripartire. C'è una tensione altissima. Merita di essere raccontata un'immagine che mi rimane impressa. Quando il treno sta ripartendo, il buio della galleria sta ottenebrando il nostro vagone. Un camerata, che sta affacciato al finestrino del treno verso la polizia che ci punta i soliti lacrimogeni, lancia un grido disumano: «Quando trionferà il fascismo, vi ammazzeremo a tutti!» Parte l'esaltazione totale nel vagone. È un susseguirsi di cori fascisti fino all'arrivo nell'odiata città avversaria. Sembra di essere tornati agli anni TrentaQuaranta. Cori fascisti repubblicani rimbombano nel vagone. Firenze ci attende. Sarà l'ennesima battaglia. Arrivando verso Firenze, si apre la discussione. Perché è naturale che si deve tirare il freno a mano per eludere la scorta delle guardie che ci attende minacciosa a Campo di Marte (se fino ad allora non erano riusciti a identificarci, a Campo di Marte avrebbero fatto l'ennesimo tentativo). Verso Campo di Marte, a un segnale convenuto, il freno viene tirato, naturalmente. È ora di andare, mentre il treno fa il suo fischio sinistro. Si riparte... Ennesime situazioni di guerriglia urbana fino allo stadio di Firenze... Lacrimogeni, scontri con le guardie che ci raggiungono (a uno di noi 60

rubano anche l'orologio), ma dei nemici fiorentini nemmeno l'ombra... È proprio il caso di dire: prima, durante, dopo. Quando stiamo entrando allo stadio, vediamo che il treno che abbiamo lasciato sta addirittura andando in fiamme. Prima di entrare, un gruppo ristretto di noi si separa dal gruppo e si dirige verso la Fiesole, ma non riusciamo a stabilire un contatto con gli ultras viola. Sono già tutti dentro. Anche dentro lo stadio, a causa di torti arbitrali che ci fanno comprendere che lo scudetto sarà cucito sulle maglie rossonere, si verificano momenti di tensione con le guardie. Lo stadio inveisce contro «i fascisti della Lazio». Preferisce chiaramente che lo scudetto vada al Milan berlusconiano. Fuori dallo stadio si scaglia tutta la nostra rabbia per i furti compiuti con immensa gioia dal popolo fiorentino. Macchine distrutte, bombe carta gettate ovunque, cariche della polizia a più riprese. Scontri con gli stessi ultras viola. Bilancio della giornata: un laziale accoltellato, due viola accoltellati, decine di sbirri feriti... Al ritorno ci sparpagliamo. Tornare sul treno significherebbe farsi identificare dalle guardie, come poi avverrà puntualmente. La maggior parte di noi si infiltra nell'autobus di un gruppo ultras amico della Nord. Torno a casa a tarda notte. La domenica successiva, la Lazio ha perso lo scudetto. Non ce ne frega più di tanto. Se vincevamo era comunque un modo per scatenare la guerriglia sull'onda dell'entusiasmo di massa con la bandiera nera. Tre poliziotti rimangono feriti in seguito a scontri seguiti alla fine della partita in piazzale Flaminio e in piazza del Popolo. Un ragazzo del gruppo viene arrestato. A Roma, oggi piove e il cielo è scuro. Ma il sole è sempre pronto a sorgere di nuovo. Perché il sole di Roma è il più bello del mondo.

Roberto sorrise. Rimise insieme le pagine del ciclostile. Le ripose nella cartellina verde di cartone. Sollevò lo sguardo verso l'intercapedine superiore dell'armadio. Si mise in ascolto dei rumori della casa. Nulla. La madre dormiva. Squillò il cellulare. – Chi sei? – 'A Capita'... so' io. So' Fabrizione. – 'A Marzapane, che vòi? – Io e te se dovemo vede'. – Quanno? – Stasera. Alle sette ar solito posto. – Alle sette.

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7. Due incisivi

Lo Sciatto guardò l'orologio. L'una del mattino. Claudia dormiva del suo sonno profondo. Lui, da quando aveva avuto la pessima idea di infilarsi nel letto, non era riuscito a staccare lo sguardo dal soffitto. Fanculo. Si chiuse lentamente la porta del bagno alle spalle. Fissò i cerchi concentrici che increspavano il fondo dello sciacquone. Prima o poi doveva decidersi a tirare fuori cento euro per l'idraulico e farla finita con quella bavosissima perdita. Magari il prossimo mese. Tamburellò le mani sul ventre, di cui non si spiegava la circonferenza ormai fuori controllo. Si osservò allo specchio soltanto per sorprendersi della quantità di sangue di cui erano iniettati gli occhi. Tornò a fissare lo sciacquone. Non gli scappava neppure di pisciare. Accese la luce in cucina e infilò una cialda di Nespresso nella macchina del caffè. Quanto le aveva pagate? Trentacinque centesimi l'una. Si era fatto due conti l'ultima volta che era stato nel negozio di piazza San Silvestro, smontando dal servizio in piazza Montecitorio. La commessa, una ragazza carina, lo aveva guardato con una certa curiosità. Forse per via della tuta da Op. O forse per le parole con cui aveva tirato fuori il portafogli. – Un giro di caffè agli amici e mi sono fottuto un'ora di straordinari. Si affacciò al balconcino e fissò la strada deserta. Almeno l'odore della pineta a Ostia non erano riusciti a mangiarselo. Osservò la luce di uno dei lampioni e, per un istante, venne aggredito dal ricordo di Vercelli. I suoi primi tre anni da sbirro nella palude. Era alla stradale, allora, e in quel posto maledetto la luce dei lampioni se la inghiottivano nuvole di zanzare. Per sapere se la notte era filata via liscia o al contrario si era consumata sul ciglio della strada, non c'era bisogno della nota di servizio. Era sufficiente guardare la faccia delle pattuglie smontanti. E contare i segni lasciati dai morsi di quelle bestiacce. Al buio, misurò i cinque passi di lunghezza del salone. Il tavolino rotondo, la vetrinetta con le foto virate seppia del matrimonio, la Tv con la PlayStation, l'elmo dei Lazio Marines, la squadra di football americano di cui era dirigente nel tempo libero. Poi il pannello di foto-ritratto a muro comprato da Ikea, con un mare d'inverno e un faro nella tempesta. Immagini scattate chi sa dove, chi sa quando, chi sa da chi. La sua vita 62

finiva in quei cinquanta metri quadri. Che non erano neppure suoi, ma di un collega generoso che non confondeva l'affitto con l'usura. La casa, a lui e Claudia, doveva costruirla la cooperativa cui avevano affidato i loro risparmi. Il tipo del consorzio aveva voluto il grano al momento della firma. Di mattoni però non si vedeva ancora l'ombra. E lui cominciava a rompersi i coglioni. Lo Sciatto conosceva quella rabbia e quell'ansia claustrofobica che gli toglievano il sonno. Sapeva come e quando erano cominciate. Accese una Lucky Strike e fissò lo scartafaccio che ingombrava il tavolo. «Procura della Repubblica presso il tribunale ordinario di Roma. Denuncia-querela. Il sottoscritto M., espone quanto segue...» Era il 13 gennaio 2002. Erano passati più di cinque anni, ma lui ricordava come fosse ieri. Ricordava perfettamente quel cazzo di pomeriggio e quel tipo la cui strada aveva incrociato. In occasione dell'incontro di calcio Roma-Verona, tenutosi nello stadio Olimpico di Roma, lo scrivente è stato selvaggiamente e brutalmente malmenato da un agente di pubblica sicurezza, riportando gravi lesioni all'apparato dentario. Quel giorno, verso le ore 14, il sottoscritto, munito di abbonamento per il settore Distinti Sud, dopo aver attraversato il cancello d'ingresso del relativo settore, notava, all'interno dello stadio, l'apertura di un varco tra il settore Distinti e quello della curva Sud. Da dove, regolarmente, e in modo tranquillo, molti tifosi accedevano alla suddetta curva. Sicché, anch'egli decise di avviarsi per tale settore. Senonché, percorsi pochi metri dal varco, vedeva due agenti di pubblica sicurezza. Uno dei quali, con voce alterata, così proferiva: «Stronzo, dove cazzo credi di andare!!!» E, accortosi che la «frase» era a lui rivolta, rispose: «Vedo che tutti quelli dei Distinti stanno passando da questa parte». E l'agente replicò: «Ah, volevi fare il furbo!!! Vieni, vieni qua, che mo' so' cazzi tuoi!!!» E così dicendo, si avvicinava, con un altro agente, afferrandolo per le braccia. A tal punto, lo scrivente disse: «Guardate che sono un abbonato dei distinti!!! Solo che ho visto il passaggio per la curva Sud libero e ho pensato che si poteva andare anche di qui!!!» Aggiungendo: «Comunque, se non si può, me ne torno indietro!!!» Ma l'agente (quello che aveva urlato), rafforzando ancor più la presa del braccio, disse: «Adesso vieni con me e vediamo se ti va di fare ancora il furbo». E, insieme con l'altro agente, cominciavano a strattonarlo e a spingerlo, a nulla valendo le preghiere del sottoscritto affinché lo lasciassero andare, in quanto non aveva fatto nulla di male, e perché, comunque, se ne voleva andare da dove era venuto. E, a ogni modo, non c'era bisogno di strattonarlo così violentemente. In quegli istanti, le persone che assistevano alla scena, rivolgendosi agli agenti, 63

dicevano: «Lasciate stare 'sto ragazzo, non ha fatto niente!!! State esagerando!!! Ma non vedete che è un ragazzino?» Ciò, però, fece ancora più innervosire l'agente, tanto che, stringendo sempre più la morsa del braccio e avvicinatosi all'orecchio del denunciante, a denti stretti gli sussurrò: «Stai zitto, stai zitto!!! Più ti agiti e più la gente si agita!!! Stai zitto, se no mi incazzo come una bestia e ti gonfio di botte». E mentre lo scrivente li supplicava, per l'ennesima volta, di lasciarlo andare, all'improvviso lo stesso agente lo colpì violentemente sulla bocca con il casco di ordinanza, che in quel momento teneva in mano, spezzandogli i due incisivi e facendolo cadere rovinosamente a terra tramortito (della scena ne sono stati testimoni oculari, tra tantissima gente, V. e C.) – Poi, il sottoscritto veniva preso per le braccia e trascinato sino a un interno, dove veniva ripetutamente preso a calci e pugni in tutte le parti del corpo e, senza pietà, dallo stesso agente che prima lo aveva colpito, il quale, per di più, mentre lo picchiava, gli diceva: «Sei come tutti gli altri. Insieme fate i forti e da soli siete delle merde!!!»

A dispetto di una sintassi e di un italiano che lo infastidivano, lo Sciatto quell'esposto lo aveva imparato a memoria. Le grida di dolore e di terrore del malcapitato richiamarono l'attenzione di un uomo in borghese, che sembrava essere un superiore, visto il modo come si rapportava con gli agenti in divisa. Costui, difatti, appena entrato nella stanza, con tono perentorio, chiese agli agenti spiegazioni di quanto stava succedendo, ricevendo (dallo stesso agente che aveva provocato il tutto), la seguente risposta: «'Sto coso stava cercando di andare dai Distinti alla curva Sud e quando l'abbiamo sorpreso ha tentato di scappare». E il superiore: «Embe'!!! Tutto 'sto casino per questo!!!» Poi, rivolto al «dinamico», «forte» e «integerrimo» agente disse: «Vieni con me che ti devo parlare». E così i due si appartano in una stanza attigua cominciando a parlare tra loro. Da lì, il denunciante percepì, in particolare, il rimprovero del superiore nei confronti dell'agente: «Hai fatto una bella sciocchezza con questo ragazzo!!! Qui ci vai a passare un bel guaio!!!» Altro non si poté udire, poiché gli interlocutori abbassarono la voce. Dopo una decina di minuti, l'agente (sempre lui) tornò dal sottoscritto chiedendogli i dati anagrafici, e dicendo: «Tanto sono sicuro di trovarti qualcosa!!!» Quindi, portatosi di nuovo nella stanza ove si trovava il superiore, dopo qualche minuto ne faceva ritorno dicendo: «Caro M., a questo punto dovrei denunciarti, ma siccome oggi sono buono, facciamo finta che non è successo nulla e vattene a vedere la partita pure in curva Sud!!!» Aggiungendo: «Vai, vai, se no ci ripenso e sono cazzi tuoi!!!» Di fronte a quelle dichiarazioni, lo scrivente, piangendo rispose: «Dopo quello che mi ha fatto, non ho nessuna intenzione di andare a vedere la partita. Adesso sono io che voglio denunciarla perché mi ha massacrato senza motivo». Al che l'agente, portato il suo volto vicinissimo a quello del 64

sottoscritto, gli disse: «Avanti, se sei un uomo colpiscimi!!! Dài, forza, tira, e fammi vedere se hai le palle». E visto che la provocazione non veniva raccolta, prese per le braccia lo scrivente e lo rinchiuse in una camera adiacente, isolata da una vetrata, e prima di andarsene disse: «Lo vedi questo distintivo, io appartengo ai buoni e tu, purtroppo, ai cattivi». Dopo circa due ore, sopraggiunsero altri due poliziotti, i quali comunicarono al «detenuto» di doverlo trasferire alla questura centrale di via Genova per essere «schedato». A nulla sono valse, prima e dopo, le richieste di cure mediche espresse dallo scrivente. Durante il tragitto (tra l'altro avvenuto dallo stadio a via Genova a sirene spiegate e ad alta velocità), uno dei poliziotti, e precisamente quello che guidava l'autovettura di ordinanza, chiese al sottoscritto che cosa avesse combinato. E, mentre quest'ultimo raccontava l'episodio, quel poliziotto lo interruppe bruscamente dicendogli: «Ma falla finita con queste fregnacce!!! Tu vedi troppi film, bello mio!!! Sta' zitto, sennò mi fai incazzare!!!» Sopraggiunto in questura, il denunciante veniva fatto «accomodare» in una stanza (dove si trovavano già tre extracomunitari implicati per rissa aggravata, un'anziana donna, e un ragazzo romano che diceva di essere lì per un furto). Testualmente gli fu detto: «Siediti qui, stai buonino e aspetta il tuo turno». Dopo due ore arrivò il «turno» del sottoscritto, al quale vennero prima richieste le generalità complete, quindi venne «fotografato» e, infine, prese le impronte digitali. Questi, al termine della schedatura, reiterò la volontà di sporgere denuncia nei confronti del poliziotto che lo aveva picchiato. Ciò però non fu possibile giacché il poliziotto addetto alla pratica gli disse: «Tu non sei qui per denunciare, ma per essere denunciato. Quindi, siccome abbiamo finito, alza i tacchi e vattene». Chiedeva allora il sottoscritto se, cortesemente, poteva almeno essere accompagnato presso un pronto soccorso perché «non si reggeva in piedi» e perché non aveva nemmeno una lira per prendere qualche automezzo pubblico, avendo perso il portafogli durante gli episodi avvenuti all'interno dello stadio. Ma anche questa richiesta gli veniva cinicamente negata. Anzi, l'agente interpellato rispose: «Vai tranquillo!!! Con quella faccia che ti ritrovi, chi ti chiede niente sull'autobus!!!» Appena uscito dalla questura, il sottoscritto, smarrito, dolorante, e senza soldi, si incamminò per dirigersi nei pressi dello stadio, ove aveva parcheggiato la propria vettura. Dalla vicenda, invece, ne è scaturito un provvedimento del questore con il quale è stato disposto al sottoscritto di presentarsi presso il commissariato di P. S. di Fiumicino, trenta minuti dopo l'inizio e trenta minuti dopo il termine di ogni incontro di calcio che la squadra Roma disputerà in qualsiasi stadio del territorio nazionale e all'estero. A tale decisione l'autorità amministrativa summenzionata è giunta a fronte dell'informativa di reato, redatta dal commissariato di P. S. Prati dal quale risulterà chiaro il nominativo dell'agente denunciato. 65

Lui, appunto, lo Sciatto. E bravo M. La sua storia anziché finire nel cestino aveva camminato. Meglio, era stata rianimata dopo che un pubblico ministero l'aveva archiviata non avendo trovato un solo riscontro che la facesse ritenere verosimile. Erano apparsi due testimoni oculari, V. e C, che ci avevano messo del loro. Soprattutto quel V. «Ricordo ancora con turbamento la scena: mentre M. chiedeva di lasciarlo andare, l'agente lo colpì violentemente sulla bocca con il casco di ordinanza facendolo cadere a terra. L'urto fece volare via gli occhiali che M. portava», aveva detto. Lui, insieme al collega di quel pomeriggio, A., era finito a giudizio per lesioni gravissime e falso ideologico. Era uscito dall'inchiesta della Diaz soltanto per essere afferrato alle caviglie da quel tipo. Sulla carta, un bel mucchietto di anni di galera, danni che non avrebbe saputo con che soldi risarcire, lo spettro di un procedimento disciplinare in caso di condanna definitiva e un fardello di spese legali che, di regola, il ministero non anticipa, ma semmai rimborsa, quando assolti. Per il primo grado di giudizio, che ancora non era chiuso, aveva già tirato fuori quasi settemila euro, quattro mensilità. Era solo. E solo sarebbe rimasto fino alla fine di quella storia. Cazzi suoi venirne fuori pulito. Cazzi suoi dimostrare che quel tipo non ne aveva raccontata una giusta. Cazzi suoi e di nessun altro. Quando aveva chiamato il sindacato per informarsi su un eventuale diritto all'assistenza legale gratuita, lo avevano preso per scemo. – Non lo sai come funziona? Non sei mica il primo che viene denunciato... Se vuoi, abbiamo il telefono di un buon avvocato. – Grazie e vaffanculo, – aveva risposto, mandando giù un altro po' di bile. Lo stesso veleno che si sciroppava ogni domenica che Dio mandava in terra in qualche stadio di merda. Che aveva dovuto trangugiare il giorno in cui era morto Filippo Raciti e l'Italia, con stupefatto sconcerto, aveva improvvisamente scoperto che razza di animali la abitassero. Era un lunedì mattina di febbraio. Raciti era morto la notte del sabato. In caserma, la Stefano Gelsomini, non c'era stato neppure bisogno di parlare. Alcuni colleghi si erano autoconsegnati. Poi, in un centinaio, a piedi, erano usciti dalla carraia lungo la via Portuense per marciare su Roma. In treno fino alla stazione di Trastevere. Quindi l'8, il tram, fino a largo Argentina e di lì, in cordoni più o meno disordinati, al Viminale. Era da quando aveva diciotto anni che non si ritrovava in una manifestazione spontanea e non autorizzata. Attraversando il centro storico 66

aveva incrociato gli sguardi dei colleghi della Digos, che, agli angoli di marciapiede, osservavano con apprensione lo spettacolo, annotando mentalmente qualche nome, qualche faccia, misurandone gli umori. Si era messo a gridare: – Non vi vergognate? All'ingresso del ministero, avevano trovato due parlamentari di Alleanza nazionale, Ignazio La Russa e l'ex ministro Maurizio Gasparri. Lo Sciatto aveva avuto un altro accesso di furia. – Siete qui per inzuppare il vostro pane nel nostro sangue? Una delegazione era stata ricevuta da uno dei vicecapi della polizia, di cui non ricordava neppure il nome per quanto di circostanza erano suonate le parole che era riuscito ad articolare. «Portate pazienza», il succo. In fondo, che ne potevano sapere, quelli del ministero? Qualcuno di loro si era mai chiesto se le nuove protezioni passive con cui erano equipaggiati i nuclei servivano a qualcosa? Qualcuno gli aveva mai spiegato che i nuovi mezzi arrivati nelle caserme in sostituzione dei Ducato si erano guadagnati il nome di «scuolabus» per la loro inadeguatezza? Vetri trasparenti, limitatore di velocità, dimensioni fuori scala per qualsiasi centro storico. Qualcuno aveva mai avuto voglia davvero di ascoltare i celerini? Solo, nel buio pesto del salone rischiarato dalla brace della sua sigaretta, avvertiva un gran bisogno di parlare. Scrivere, pensò, sarebbe stato un buon placebo. Accese il computer. Aprì un nuovo documento. Prese a digitare con foga. Come in preda a una febbre. Penso alla mia vita. Ai quindici anni che ho trascorso in ogni piazza, in ogni stadio dove ci fosse violenza. E ripercorrendola al rallentatore, come in un film, più la rivedo, più la reputo la migliore che potessi vivere. Faccio il celerino. Non ho detto il poliziotto. Quelli sono un'altra cosa. Fanno il lavoro che gli era stato promesso quando, poco più che diciottenni, si apprestavano a coronare il sogno della loro vita: servire lo Stato e soddisfare il senso di sicurezza che dovrebbe assicurare al suo popolo. Questo non era il mio sogno. Scrivere articoli di pregio, o insegnare era forse il mio sogno. Il contorto meccanismo random che è il destino mi ha portato a bordo di un Ducato. Da quel giorno, il reparto celere, i suoi uomini e le sue regole non scritte, è stato per me il migliore dei mondi possibili. Quante volte, in questi anni, ho dovuto rispondere al solito, insistente, nenioso quesito: chi te lo fa fare? 67

La risposta non l'ho mai data. Forse perché a coloro i quali me la facevano non interessava. O forse perché mi avrebbero preso per pazzo. L'uomo rifugge da ciò che non capisce. O lo liquida come fuori del normale. Bene. Forse è proprio questo il punto. Sono un celerino perché sono fuggito da una vita normale. Una vita normale è per chi non sa cosa significhi sentire il dolce, cattivo rumore degli anfibi che battono l'asfalto. Una vita normale è per quelli che alla violenza insita nella società rispondono con mera indignazione davanti al Tg delle 20. Una vita normale è per tutti coloro che si sono arresi alla imperversante ipocrisia del nostro sistema. Facciamo parte di un sistema in cui il capitale, la massificazione e la tecnocrazia ci fanno spesso dimenticare che siamo uomini e donne che, in quanto tali, abbiamo il recondito e atavico bisogno gli uni degli altri. Rido pensando alla nostra Costituzione che, tra i molti non rispettati, sancisce il diritto di associazione, malgrado poi non si conosca neppure il vicino di casa. Ecco. Nel reparto ho trovato una comunità di uomini, con il loro bagaglio di esperienze, con le proprie storie da raccontare. Un gruppo di uomini legati fra loro da un filo invisibile ma forte come l'acciaio. La forza di questo legame è data dalla consapevolezza, dal sapere. Noi conosciamo tutte le dinamiche di questo gioco fatto a nostre spese dai governanti di turno. Noi, per loro, non siamo altro che potenziali refertati medici, da dare in pasto alle masse pseudoantagoniste, magari lontano dai loro uffici con parquet e mobili in radica. Il nostro ufficio è la strada. E la strada non ha parquet in terra. Semmai bottiglie rotte e sassi. Noi conosciamo questo sporco gioco. E questo ci unisce. Ci fa sentire amici, fratelli. Con i miei fratelli condivido un dogma. Non lasciare spazio alla violenza. Nessuna retorica, legge speciale, tribuna politica ha mai fermato un sasso scagliato verso di noi. La violenza si combatte con la forza. La forza di essere Stato. La forza fisica. La forza di sapere che il nostro popolo non può arrendersi. L'India è lontana e Gandhi non era italiano. Non ha dovuto vivere sessant'anni di democrazia assetata di potere. Dimentica delle reali esigenze del paese. Quando sei schierato con la tua inadeguata divisa, ma accanto ai tuoi fratelli, di fronte a chi usa la violenza come grimaldello per ottenere qualsiasi diritto, ti senti un privilegiato. Hai il privilegio di contrapporti alla violenza. E il privilegio è percepito ancor di più quando la violenza è figlia di quelli che in tribunale vengono definiti «futili motivi». 68

I «futili motivi» hanno radici nel Graal del nostro sistema. Discoteche dove ubriacarsi fino alle quattro del mattino per poi ammazzarsi addosso a un albero. Droghe che ti tengono il cervello ovattato e uno stadio dove giocare alla guerra con il favoloso optional di un gruppetto di uomini in blu come bersaglio. Il bersaglio siamo noi. E noi non abbiamo accettato lo status quo. La becera violenza generata da questi finti guerrieri metropolitani non l'avrà vinta sul nostro essere uomini di Stato. Ogni azione prevede una reazione. Rido, e con me i miei fratelli, quando le televisioni fanno passare le immagini delle cariche della polizia, mostrando una certa decisione e durezza nell'intervento. Immagino i «che schifo» e i «così non si fa» dal divano. L'indignazione di massa è concetto fluttuante. Un manganello che picchia in testa è da criminali, fino a quando a essere messa in pericolo non è la proprietà e l'incolumità dell'indignato!

Sollevò le mani dalla tastiera. La collera si era sopita. Ora si sentiva finalmente svuotato, sfinito. Persino la casa sembrava improvvisamente invasa da un chiarore che non aveva ragione d'essere per quel che indicavano le lancette dell'orologio. Avvertì un rumore improvviso e vide Claudia sulla porta della camera da letto. – Ma che ci fai ancora in piedi? – Sto studiando il processo. Domani c'è udienza. – E studi con il computer acceso? – Prendo qualche appunto. – Quel processo lo vincerai. – Hai ragione. Quel processo lo vincerò.

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8. Carletto

Non c'era bisogno di chiamarlo per sapere dov'era. Perché Carletto lavorava a catena. E se arrivavi alla catena, eri arrivato da Carletto. Drago percorse il rettifilo che puntava verso la pineta di Casalpalocco, quindi si incolonnò in una fila di Suv invariabilmente grigio antracite, invariabilmente con i vetri posteriori oscurati, invariabilmente con donne sole al volante. Chiuso nella sua Smart nera si sentiva un insetto, eppure, ogni volta riusciva a sorridere di quell'ingorgo, perché ne conosceva il motivo. Carletto. Se ne stava dritto nell'uniforme di panno nero da guardia giurata davanti alla sbarra che annunciava la British School, a far pagare dazio a ogni Suv. Carletto sollevava la mano destra in un cenno d'intesa. Fissava la mamma al volante. Allungava lo sguardo nell'abitacolo e solo dopo, con un gesto che doveva apparire una concessione, alzava quella maledetta sbarra. Sbucando dietro il culo dell'ultimo Suv Drago avvicinò il muso della Smart a pochi centimetri dalla sbarra, suonò il clacson, abbassò il finestrino: – 'A Carle', fai proprio un lavoro di merda. – Senti chi parla. – Mi scusi molto, gendarme, ma ho il Suv dal meccanico e la mia signora è in crociera. Posso entrare comunque? – Drago, falla finita, va'. Parcheggia 'sto bidone e scendi. Si abbracciarono sotto uno scroscio improvviso di pioggia e trovarono riparo nell'ufficio di Carletto. Era un gabbiotto di legno di un metro per due, tagliato a metà da una finestra a ghigliottina. Uno sgabello che ricordava un trespolo per uccelli dava appoggio a una mensola con un piccolo televisore, un foglio a quadretti unto, una bic smozzicata. Poggiato sul pavimento di assi, uno scaldino elettrico non riusciva a spingere il tepore oltre le caviglie. – Proprio un gran bel posticino hai messo su. Ma con questo affare ci ammazzi le zanzare o ti ci scaldi il culo? Drago aveva voglia di scherzare e Carletto credeva di sapere cosa significasse quell'euforia. – Che c'è, Drago? Che succede? – Succede che da un po' di tempo non capisco più che diavolo ho nella testa. 70

– Succede che sei una guardia. Ecco che succede. – E allora? – O sei una spugna, o sei uno specchio. O sei martello, o sei incudine. E dopo che hai fatto tutte le parti in commedia, non capisci più chi cazzo sei. Se ti va bene, puoi concludere che sei un bell'ammortizzatore sociale. O sbaglio? Non è la prima volta che ne parliamo tu e io. Già, non era la prima volta. Perché la prima volta era stata almeno dieci anni prima. Era stata anche la prima volta che si erano visti. In estate. Una discoteca sul lungomare di Fiumicino. Carletto lavorava in quel posto come buttafuori. Non un lavoro qualunque. Te ne stai a braccia conserte provando a pettinare della sua schiuma la risacca umana che la strada ti vomita addosso. Se sei bravo, se hai naso, eviti casini. Naturalmente, c'è bisogno anche di un po' di culo. Quella sera Carletto ne aveva avuto. Nel locale erano entrati due sbirri in libera uscita. Avevano cominciato ad alzare il gomito. La temperatura era salita in un attimo. Fare pippa all'infinito non sarebbe stato possibile. Ma mettere le mani addosso a due guardie significava chiudere. Poi aveva visto Drago avvicinarsi ai due. «E ora chi cazzo è questo fenomeno?» aveva pensato. Non lo aveva mai visto prima. Drago aveva tirato fuori dalla tasca la placca della polizia. Aveva afferrato i due per i polsi e li aveva trascinati nel cesso del locale. Ne erano usciti dopo pochi minuti. I due avevano rapidamente preso l'uscita e passando davanti a Cadetto avevano biascicato un saluto: – Grazie per la serata e scusa il disturbo. Solo allora Carletto si era avvicinato a Drago. – E tu chi saresti, Robin Hood? – No... Sono un poliziotto... Perché? Hai qualche problema? – Veramente il problema me lo hai risolto tu. E non so se la cosa ti fa piacere, ma tutto sembri meno che una guardia. Credimi, è un complimento. Io mi chiamo Carlo. Si erano stretti la mano e non se l'erano più lasciata. Erano coetanei. Carletto era cresciuto a Primavalle. La Primavalle nera. Quella dei fratelli Mattei. Ed era stato un altro buon motivo per andare d'accordo. La pioggia era aumentata di intensità. I bambini della British School avevano cominciato a rovesciarsi sul prato smeraldo su cui affacciava la scuola, contenuti da un cordone di ombrelli colorati. Carletto aveva afferrato una rosetta al salame messa a scaldare sull'ammazzazanzare. Quindi si era messo a fissare i bimbi. 71

– Che dici, Drago, visto da qui dentro non ti sembra un altro mondo? – Sì. E non è il nostro. – Pensa che sono quasi tutti figli di italiani. – L'avevo capito dai Suv. – Vuoi sapere quanto costa la retta mensile? – Preferisco di no. – Una volta e mezzo quello che porti a casa tu. – Dovevi per forza dirmelo? – Sì. Perché non era questo quello che volevamo da pischelli. – Io non me lo ricordo più quello che volevo. – Io sì, visto che andavo in piazza con i bastoni per prendermelo. Sono diventato nero perché erano tutti rossi. Pensa un po'. E quando finalmente mi sono deciso ad aprire qualche libro e ho capito che cosa significa essere di destra, non ho più voluto sentire neanche la puzza della politica. – E allora? – Allora ci hanno inculato, Drago. Gente come me e te è sola. Ma quel che è peggio è che non sappiamo neanche più chi abbiamo di fronte. Ti ho mai fatto vedere questo? – Cosa? Carletto si scoprì l'avambraccio destro. Un tatuaggio. – Il Male può trionfare se i bravi ragazzi rinunciano all'azione. – Vuoi dire che abbiamo rinunciato all'azione? – Voglio dire che non sappiamo più riconoscere il Male. Voglio dire che tra mezz'ora io posso uscire da questo posto di merda e morire a un semaforo senza sapere che cazzo passa per la testa all'animale che ha deciso di farsi rodere il culo perché l'ho guardato di traverso. – A me succede ogni volta che infilo la tuta da Op. – Non era così. Io quando vi ho preso a sassate a Primavalle, non l'ho fatto perché vi odiavo, ma solo perché non mollavate. Non ce l'avevo mica con voi guardie. – Ma che cazzo dici? Che è 'sta storia di Primavalle? Non glielo aveva mai detto e, per qualche ragione, il momento era arrivato. – Ti ricordi che una sera parlavamo di Primavalle e tu mi raccontasti degli scontri durante uno degli anniversari della morte di Mattei? – Vaffanculo, certo che mi ricordo. – E ti ricordi che mi raccontasti che uno stronzo con il passamontagna ti aveva quasi spaccato la schiena? 72

– Sì. – Quello stronzo ero io. – Ora dovrei aprirti la faccia. – Ma non lo farai. Perché quella è stata l'ultima volta che ho fatto a botte in piazza. – Che fai, ora mi racconti, la favola del bimbo pentito? Dimmelo, perché mi sto già commuovendo. – No. Ti racconto che quella stessa sera mi imbucai a una festa a Testaccio. Al collo avevo un ciondolo. Una svastica d'oro. E mentre me ne stavo nella cucina di questa casa con altri pischelli, si avvicinano dei tipi grossi come armadi che ci dicono di scendere al portone perché c'è da mettere a posto una situazione. Io mi dico: «Ecco fatto, ora le zecche ci tritano». E invece, sceso al portone, il più grosso di questi tira fuori il portafoglio e mostra una foto di Mussolini. Poi mi prende per un braccio e mi fa: «I coatti come te e i buffoni che ti porti dietro ci fanno schifo. Pensi che con una svastica al collo e la scritta Sturmtruppen sulla Vespa hai risolto? Vattene, perché se ti rivedo in giro, ti lascio per terra». Ho buttato il ciondolo e l'ho piantata lì. – Carletto, vaffanculo. Rimasero in silenzio. Aveva smesso di piovere e alla porta del gabbiotto si era avvicinato un uomo piccolo di statura. Era il responsabile per la sicurezza della scuola. – Senta, non vorrei doverglielo ripetere un'altra volta, ma deve fare in modo che le vetture dei genitori parcheggino negli spazi riservati. Strisce gialle. Strisce gialle. Non basta alzare e abbassare una sbarra. Altrimenti qui non si gira più. Non siamo in una scuola pubblica. Mi ha capito? – Certo dottore. L'ometto si girò con un moto di stizza, raddrizzando il collo sulle spalle, e si avviò verso l'ingresso della scuola a passetti rapidi. – Dottore de che? – chiese Drago. – E che cazzo ne so? Tanto che cambia? – Già. Drago fissò le scarpe di Carletto. L'acqua ne aveva incorniciato le punte in un semicerchio biancastro. Doveva avere i piedi a mollo da un pezzo. – Come sta Mustafà? – Si è tolto qualche soddisfazione con i romeni. Mustafà era nato al Cairo per finire a Casalpalocco. E Dio solo sa cosa aveva provocato nella sua testa quello choc. Sta di fatto che per Carletto 73

Mustafà era come un fratello. Lui e la moglie musulmana. Una donna minuta che Mustafà mostrava in pubblico con grande parsimonia. – Perché, che è successo con i romeni? – Non sai? – Se te lo chiedo... – Qualche settimana fa, Mustafà va a fare la spesa con la moglie e a un certo punto passa davanti a quel giardinetto, hai presente, quello dove si sfondano di birre i romeni? – Mbe'? – Una di quelle merde gli fa davanti alla moglie: «Dammi una sigaretta». E lui: «Non ne ho». Allora il romeno prende una bottiglia, la spacca e gli dice: «Ora me la trovi, negro». Sai com'è Mustafà, no? Gli dice: «Te le vado a prendere a casa», e scappa con la moglie. Arriva a casa e mi chiama. Nun pòi capi' che è successo dopo. – Sei andato da solo? – C'erano anche altri ragazzi. E c'era Mustafà. Ti dico solo che, alla fine, Mustafà gli ha fatto pure pulire il giardino a quei romeni de merda. E che ora, quando passa per strada con la moglie, quei conigli slavi lo salutano con l'inchino. Nun pòi capi' quanto è contento. – Ho paura che con i romeni finirà male, uno di questi giorni. – 'A Drago, io non so se voi guardie l'avete capito, ma la caciara è cominciata da un pezzo. Semo già oltre. Semo oltre da un pezzo. – Non lo devi dire a me. Io ce li ho davanti a casa. Li vedo ogni giorno che Dio manda in terra. – Io ti dico solo che ho insegnato a sparare a mia moglie. Non a tenere la pistola in mano. A sparare. Gliel'ho detto. Se entrano in casa, ricorda che hai una sola possibilità. Se toppi, sei fatta. Braccia tese, una mano che impugna, l'altra che stringe il polso e... pum! Per carità, a quel punto ti sei comunque rovinata la vita. Ma almeno sei viva. Come si dice, meglio un brutto processo che un bel funerale. Drago diede un'occhiata sulla mensola del gabbiotto. – Che è quel libro? – La storia dei bulli di Roma. Dovresti leggerlo anche tu. Magari ti aiuta. Senti qua: er Porchetta, er Grinza, Cechetta, Brugnolone, er Polpo, Giggiotto, Zeppa, Mignottella, Anselmuccio, er Cicoriaro, Serafino, er Pomata, Toto, Attilio, Musetta, Sturapippe... Continuo? – Continua. – Morbidone, Chighino, Sparecchia, Mazzangroppa, Zagaja, er Capo 74

Rabbino, Nino er Bullo, er Pajetta, er Cameriere, Framicitto, Terremoto, Caio de Ponte, Pazzaja, er Cafabbo, Stivalone, Barbieretto, Gramicetta, Achille er Gallo, Augusto er Fontaniere, Toto er Pizzuto, Augusto er Pittoretto, Silvestro er Ciociaro, er Broccoletto, er Tarmato, er Carcina, Nino er Boja, Ettorone dell'Ammazzatora... Tutta gente di lama. Dimmi se non sembra l'appello di quelli delle curve dell'Olimpico. – Ho capito, Carletto. È meglio che vado. – Non lo vuoi allora il libro? – Penso di sapere quello che c'è scritto. – Lo scienziato... – Hai mai sentito parlare dei Bisl? – Bisl? – «Basta infami solo lame». – E che è? – È un po' lungo da spiegare... Facciamo un'altra volta. Tu intanto continua a leggerlo, il libro. Poi mi racconti. Va bene? – Ti sei incazzato per Primavalle? – No. Ma forse ho capito qualcosa. – Di me? – Di noi. Mise in moto la Smart e con la coda dell'occhio fissò per qualche minuto lo specchietto retrovisore. Al riparo di un grande ombrello, l'ometto della scuola stava precipitosamente tornando verso il gabbiotto di Carletto, che ora si stava aggiustando una giacca a vento nera sulla divisa da guardia giurata. Il semaforo che immetteva sulla Cristoforo Colombo era rosso. Sentì bussare al finestrino e vide la faccia di un romeno che, sotto l'acqua, tendeva la mano. Sembrava un pesce in un acquario. – Vaf-fan-cu-lo, – sillabò, stando attento ad aprire bene la bocca. Il romeno sorrise.

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9. Mailat

Doveva succedere. E alla fine era successo. A Roma, un martedì di fine ottobre. La donna si chiamava Giovanna. Giovanna Reggiani. Aveva quarantasette anni e una sola colpa. Non avere paura. Quella sera, saranno state le otto, pioveva e le pensiline della stazione Tor di Quinto erano deserte. Giovanna era scesa dal treno dei pendolari diretto a Viterbo nella sua ultima fermata in città. Sola. La borsa a tracolla, le mani ingombre di un ombrello e dei sacchetti della spesa. Forse il suo assassino aveva viaggiato con lei. O forse l'aveva vista all'improvviso. Del resto, che differenza avrebbe fatto? Giovanna si era lasciata la stazione alle spalle, infilando un budello di fango e immondizia in fondo al quale brillavano i lampioni del viale di Tor di Quinto e il suo traffico veloce e distratto. Lo chiamavano via Campo Sampiero, il budello. Ma era una via, quella? Settecento metri di oscurità, chiusi tra il fiume Aniene e una baraccopoli rom. Non erano pochi. Eppure non era la prima volta che Giovanna li percorreva a passo svelto. Nicolae Romulus Mailat le si era avventato addosso come un cane rabbioso, strattonandole la borsa, afferrandole i capelli. Giovanna si era difesa con tutta la forza e la disperazione di cui era stata capace. Piantando le unghie nella schiena e sul volto del suo carnefice. E pagandone per questo il prezzo. Nicolae le aveva sfondato il cranio devastandole il viso. Con un lurido bastone raccolto tra le frasche. Quando Giovanna aveva smesso di muoversi le aveva abbassato i pantaloni e strappato le mutandine, per poi alzare di colpo lo sguardo verso le due ombre che gli si erano fatte intorno. Romeni. Romeni come lui. Gente della baraccopoli appena oltre la stazione. La sua gente. Dorin ed Emilia. Dorin era il padre della sua donna. Emilia una vecchia dall'età indefinibile. A Dorin aveva tirato la borsa sporca di fango di Giovanna urlandogli di sparire. A Emilia aveva grugnito: – Stai zitta, – ma ne aveva seguito il consiglio. Si era caricato Giovanna sulle spalle, quindi l'aveva scaraventata oltre la ringhiera di ferro che delimitava il terrapieno di quella strada di fango. Come la carogna di un animale. Come un sacco dell'immondizia. La credeva morta. Ubriaco fradicio com'era, imbrattato ed eccitato dal sangue, non ne aveva percepito i rantoli. Poi Nicolae era tornato alla sua fetida baracca, dove aveva diviso il bottino. I contanti ad Aurica, la sua donna, la 76

figlia di Dorin. A sua madre, Leana, la collanina e un paio di orecchini d'oro. A Dorin, il cellulare. Emilia, la vecchia, lo aveva venduto senza pensarci su neppure un attimo. Si era messa a gridare fermando un autobus dell'Atac lungo la via Flaminia. Era arrivata la polizia, e le porte della baraccopoli erano venute giù mostrando gli uomini ratto che la abitavano. Nicolae era stato ammanettato senza un fiato. Perché nessuno, neanche tra i disgraziati che lo circondavano, avrebbe dato un soldo per la sua vita. Neanche sua madre Leana, che dalle sue mani aveva ricevuto i contanti sporchi del sangue di Giovanna e che di figli come lui ne aveva messi al mondo altri otto. Aveva sopportato due gemelli cerebrolesi e un altro maschio morto in un fiume nero come la pece in una baraccopoli di Avrig, in Transilvania. Avrebbe retto anche al ricordo di un assassino. Giovanna era morta in un reparto di rianimazione dopo quarantotto ore di agonia. Alle 19.34 di giovedì 1 novembre. Ognissanti. Ma l'incendio era già divampato. Il Capitano, Roberto Sabuzi, aveva saputo. E con lui avevano saputo gli altri ragazzi delle «batterie». Il cellulare di Fabrizione Ferrari, Marzapane, si era messo a squillare alle due del pomeriggio, quando a Giovanna restavano ancora cinque ore di vita vegetale. Era Alessandro. Alessandro Petrella, er Vampiro, come lo chiamavano tutti. Marzapane e Vampiro si conoscevano da una vita, e il primo nutriva per il secondo una forma di compiaciuta deferenza. Forse per i cinque anni di età che li dividevano, ventisette Vampiro e ventidue Marzapane. O forse per la naturalezza con cui il ragazzo riusciva a caricare se stesso e chi lo circondava di naturale violenza. Bazzicavano l'Olimpico in curve opposte, laziale Vampiro, romanista Marzapane. Bazzicavano da amici Forza nuova. Praticavano il culto delle lame. Vampiro ne aveva di magnifiche. Tre pugnali con un filo da venti centimetri. Marzapane, vai a sapere come, era riuscito a procurarsi un bisturi. Il rispetto se lo erano guadagnato sulla strada e avevano più di qualche casino in comune. Vampiro era già finito dentro una volta per rissa. Marzapane si era guadagnato il suo Daspo di tre anni. Il padre di Vampiro faceva il camionista e se n'era andato via di casa con un'altra. Quello di Marzapane si era preso una condanna per bancarotta fraudolenta, che non era stata la sola. Vampiro, quel pomeriggio, aveva il tono di voce eccitato. – Fabri', dove stai? A casa? 77

– Eh, sì. Tra un po' esco... – 'Ndo' vai? – Da mi' sorella. – No, perché tocca parla', Fabri'. Ho sentito già Danielone e tutto... Qui nun se tratta né de stadio né de politica... Riesci a capi' de che te vojo parla'? – No. – Te vojo parla' del fatto che è successo l'altroieri sera qua a Roma. Che ne stanno a parla' tutti i telegiornali. Non sai niente, Fabri'? Marzapane ci aveva messo un po' a capire che Vampiro voleva parlare di Giovanna Reggiani. – Ah, sì, ho capito. – Fabri', io me sto a senti' con una marea de gente da oggi. Ho sentito pure Danielone, sto a cerca' de chiama' Franceschino. – M'hai fatto pija' un colpo. – No, no, Fabri'. So' queste le cose serie. Vaffanculo gli ultras. Vaffanculo la politica... – Io, per questo... Armiamoci e partiamo. Io non ho problemi, lo sai. – Io prima con voi voglio parla'. Perché è una cosa che deve essere studiata prima. Seduti... Carta... Perché, Fabri', solamente noi che famo determinate cose da 'na vita potemo accende' 'sta miccia, Fabri'. Sennò non si accenderà mai e questi continueranno a fa' lo schifo con la gente nostra. Se dovemo sveglia' noi, Fabri'. Accendemo la miccia noi e succede il caos. Sennò non succede più niente, Fabri'... Io sono tornato a casa e ho acceso il televideo. – Ah, non lo sapevi? – No, e che ne sapevo? Ma io tant'è vero che ho visto ieri tutte e due le squadre con il lutto al braccio, però non lo sapevo. Ho detto: boh, mi pare strano. – È in coma. – Sì, vabbe'. È ancora viva, ma è accesa. Cioè, vive attaccata a una macchina, Fabri'. – Eh, sì, appunto, è come se fosse in coma vegetativo. – Io ti ho chiamato adesso perché io sto qui da mi' madre. Me so' detto: fammelo senti' se ce sta, che chiamamo pure er Fusaja. Ho chiamato Daniele e lui già ha capito. Mi ha detto: se vedemo domani sera dopo cena che parlamo bene... parlamo. Ho mandato il messaggio a Tommaso della batteria del Capitano. 78

– Ho capito, sì. – 'A Fabri', o l'accendiamo noi o non succede niente, accendemo 'sta miccia Fabri'. – L'accendemo, l'accendemo. – Tu poi, ecco, bene o male, tu hai le tue conoscenze e anche ottime direi, quindi... – Sì, sì, sì... non c'è problema, non c'è problema. – Quindi capisci. Insomma, 'a rega', non è che se stamo a parla'. Del tipo: vedemose e annamo ad assalta' un centro sociale o annamo a pija' i napoletani sull'autostrada. – No, no, no... nun te preoccupa'. – Fabri', questa è una cosa che può succede' a tua sorella domani come a mia madre dopodomani, rega'. – Eh, sì, sì, prevenire è meglio che curare. – Appunto. Quando se potemo vede'? Dimme te, Fabri'. – Sto con la macchina. Al più vengo io da te. – Perfetto. – Quindi mettemo in mezzo pure lui con la gente sua. – Tutti. Chi conoscemo, conoscemo, Fabri'. Vabbe', poi te spiego che cosa ho in mente. Io vojo anna' proprio per borgate, per le comitive de pischelli bori e dije: 'a rega', è così, così e così. Io vojo prendere tutti. – Chiamiamo Gianluca di Tor Bella Monaca... chiamiamo tutti. Sai là che fanno quelli. – Tutti. Fabrizio, li voglio prendere tutti, Fabrizio. Tutti Fabri', porco zio. Tutti. – Sì, sì, nun te preoccupa', che stai a scherza'? – E dài. – Io mi comincio già a organizza'. Nun te preoccupa'. Ciao. – Ciao. Ma sì, i ragazzi ci stavano. Sicuramente quelli di Tor Bella Monaca. Sicuramente la batteria del Capitano. Sicuramente Franceschino er Nano, Francesco Ceci. Quei bastardi dei romeni l'avrebbero pagata. E, peraltro, qualcuno si era già mosso. La sera del 2 novembre, nel parcheggio dell'ipermercato Lidi, una spianata di asfalto tra via Casilina e via del Torraccio di Torrenova, Emil Marcu, Valentin Cojacaru e Cristine Sascau non li avevano visti neppure arrivare. Il primo colpo di mazza era stato violentissimo. Raggiunto alla nuca, Emil si era afflosciato come un sacco, prestando la schiena a un 79

fendente di roncola che gli aveva aperto la carne in profondità. Valentin e Cristine avevano provato a rifugiarsi in macchina, una vecchia Ford Mondeo con cui erano arrivati nel parcheggio per fare la spesa. A Cristine avevano sfigurato il volto. A Valentin avevano piantato una lama nel torace. Se avevano portato la pelle a casa era perché forse esisteva un dio dei romeni da qualche parte. O, forse, perché non c'era stato tempo di finire quei tre disgraziati, presi a caso, come vogliono le regole della pulizia etnica. Erano in dieci, avrebbero raccontato i testimoni. E sembravano arrivati dal nulla. Cavalieri dell'Apocalisse con la testa infilata in caschi integrali, mani fasciate da guanti di pelle nera e armi bianche spaventose. Mazze da baseball, roncole e una mannaia che era stata fatta oscillare come un pendolo di fronte agli occhi di un madre romena con il suo bimbo. I romeni glieli aveva indicati un «negro» con cui erano rimasti a parlare per qualche istante all'entrata del parcheggio. Proprio così, un «negro», che quando tutto era finito se l'era squagliata per evitare di rispondere a qualche domanda e che i carabinieri si erano messi a cercare. Vampiro era estasiato. Le immagini del telegiornale della sera con il sangue dell'ipermercato erano lì a dimostrare che la miccia era stata già accesa. Che non c'era altro tempo da perdere. Bisognava fomentare i pischelli. Bisognava mettersi al lavoro. Perché l'odio, questa volta, richiedeva del metodo. Vampiro abitava a Torrespaccata, una borgata dormitorio chiusa a sud dalla Tuscolana e a nord dalla Casilina. Marzapane lo aveva raggiunto sotto casa che ormai era notte e con lui era arrivato anche Danielone di Tor Bella Monaca, Daniele Pinti. Erano rimasti a chiacchierare per un po' davanti all'edicola. – 'A Vampiro, allora, quando e dove? Vampiro pareva avere le idee chiare. Anche se non tutti i ragazzi che aveva sentito in quelle ore sembravano d'accordo. Qualcuno insisteva per la cosa più semplice. Tornare di notte alle baracche dei rom di via Walter Procaccini, praticamente dietro casa sua. Dove nemmeno un mese prima aveva acceso qualche catapecchia con un paio di molotov. Ma era chiaro innanzitutto a lui che l'idea non stava in piedi. – Ma quale campo e campo. È una cazzata. L'hanno smantellato. Ci saranno rimaste sei o sette persone. E poi stavolta se fa de mattina. No, dovete damme retta. Dovete ave' fede. Voi me dovete di' chi ce sta e chi 80

nun ce sta. Prima dovemo avecce il numero esatto. Ve lo sto a di'. Bisogna crea' il focolaio de gente che nun c'entra un cazzo co' la politica e co' lo stadio. Anche il Capitano era d'accordo con lui. Questa volta nessuna improvvisazione. Dove e quando colpire lo avrebbero deciso in pochi. I pischelli non dovevano far domande, ma solo far vedere se avevano o meno le palle. – Rega', questa è una cosa di cittadini, una cosa sociale. D'appartenenza de una città e de un paese. Qui, destra, sinistra, ultras non c'entrano assolutamente un cazzo. Doveva essere una cosa da italiani. Come tante volte si erano detti e come il Capitano aveva ben scritto. Con Vampiro si erano dati venti giorni, al massimo un mese di tempo. Per allora doveva essere tutto pronto. – Una volta che sapemo al cento per cento chi semo, se vedemo in setteotto teste pe' defini'. Non de più, perché più gente c'è, più se chiacchiera, più galli ce stanno a canta', più nun se fa mai giorno. Capito? Bisogna comincia' a senti' la gente allo stadio, perché nun me posso mette' a fa' cinquecento telefonate. E bisogna ragiona'. Marzapane e Danielone ascoltavano Vampiro rapiti da quella collera che, per una volta, sembrava governata da un pensiero che non si esauriva nel gesto. Che abbozzava parole come Identità, Patria, Italia, Popolo. E non a cazzo di cane, come era successo troppe volte. Persino «Franceschino» Ceci, Francesco er Nano, aveva dovuto ammettere che, quella volta, si sarebbe fatto come diceva Vampiro. – Non è facile, – gli aveva detto. – Lo so che non è facile pe' gnente, porco zio. Ma una volta nella nostra vita, deve usci' fòri la perfezione. La cosa perfetta nun è mai stata fatta. Stavolta nun esiste che dimo, famo, annamo e poi se ne stamo tutti a casa. Pe' 'na vorta bisogna falla la cosa perfetta. Dieci, dodici minuti e lì finisce. E bisogna studia', se no nun vai da nessuna parte. Certo, all'ipermercato di Torre Gaia la miccia era già stata accesa. Ma non era una lezione cotta e mangiata quella a cui pensavano lui e il Capitano. Per carità, lo aveva ammesso con tutti, erano stati bravissimi. Anche perché la Casilina, le borgate Giardinetti, Finocchio e Borghesiana erano tutta roba loro, di quelli di Tor Bella Monaca. Lui, però, pensava alla perfezione. Un botto di quelli che i giornali ne avrebbero parlato per settimane. «Da fa' strippa' er culo», come aveva ripetuto a tutti. – Sì, da mette' er pepe ar culo anche a quelli che governano. Che quelli 81

pensano: «Cazzo, ma se questi hanno fatto una cosa der genere, vor di' che fra due anni me se presentano sotto ar Parlamento e me danno la caccia». Sì, si sarebbe fatto come diceva lui. Come voleva il Capitano. Roma si sarebbe accesa di fuoco e di odio e nessuno sarebbe riuscito più a spegnerli. Porco zio.

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10. Omer

Se il vicequestore Michelangelo Fournier si riconosceva un pregio, magari uno soltanto, era di non raccontarsi fregnacce. E quella mattina di fine ottobre, osservando Omer pisciare sui cerchi in lega di una Porsche, la verità gli era apparsa nitida come il rigagnolo giallo paglierino che ora si allargava sul marciapiede trascinando i resti di un chewing-gum. Ormai, non faceva più un cazzo. Questa era la verità. Omer aveva tre anni ed era un magnifico dobermann. Gli saltava intorno con un'eccitazione che ogni volta lo sorprendeva e gli ricordava che il mondo si era messo a correre. Mentre lui era rimasto inchiodato a Genova e al fottutissimo luglio di sei anni prima. Il paese aveva fatto in tempo a consumare una legislatura e il governo, per quanto già moribondo, a cambiare di mano. La polizia aveva un nuovo capo, in Iraq e in Afghanistan gli Stati Uniti combattevano una guerra ormai più lunga del Secondo conflitto mondiale. La Roma aveva vinto uno scudetto, ne aveva perso un altro già vinto, aveva rischiato la retrocessione e ora se la giocava di nuovo con la collezione di figurine di un signore miliardario di Milano che di cognome non faceva Berlusconi e gli aveva fatto riscoprire, dopo quello di classe, l'odio da pallone. Nel quartiere era addirittura arrivato il cantiere della metropolitana. Sua figlia era quasi un'adolescente. Suo padre, una domenica mattina, gli aveva annunciato con una qualche solennità che al prossimo giro avrebbe votato Partito democratico, mandandolo fuori dai gangheri. Soltanto lui non aveva mosso un passo. Né avanti né indietro. Frequentava la caserma Stefano Gelsomini come fosse un dopolavoro. I turni di servizio si erano prima rarefatti, quindi annullati. Non c'era stato bisogno neppure di dirglielo, né lui, per orgoglio, aveva chiesto. All'ennesimo: «Per te, questa settimana, non c'è niente», aveva capito. Lo avevano mummificato in attesa che il processo per i fatti della Diaz facesse il suo corso, approdasse almeno a una sentenza di primo grado. Aveva preso a frequentare la palestra con cadenze quasi ossessive. Come quei carcerati che pompano sui marmittoni della propria cella in attesa del giorno in cui qualcuno la spalancherà. Aveva smesso di fumare quelle cazzo di Marlboro che gli avevano intossicato la vita, e per aggiungere qualche ragione alla sua svolta salutista, si divertiva a citare con i fumatori 83

una ricerca che accusava le multinazionali del tabacco di usare additivi in grado di aumentare la dipendenza. Un'eredità lo aveva liberato dallo spettro del bisogno – che a dire il vero non aveva mai conosciuto – e consegnato a un consumismo a tratti compulsivo. Quantomeno, del tutto incongruo in un paese che si raccontava, si percepiva e a ben vedere era sempre più povero. Era entrato in una concessionaria della Mercedes e aveva acquistato con un buy-back l'ultimo modello di Suv. Nel salone di casa aveva apparecchiato un hometheatre a parete che veniva giù dal soffitto, di fronte al quale abbandonarsi alle partite in sedici noni e surround della «Maggica». Si era regalato anche un computer portatile, un ordigno di cui aveva sempre diffidato. Mentre la libreria a muro si era gonfiata di saggi sulla storia del Novecento e sulla sua ultima passione, a suo modo eccentrica per un nero: la storia di Israele, le origini del sionismo e la sua eredità politica e religiosa. Aveva ormai più tempo per leggere di quanto ne avesse mai avuto. Anche se i tomi della storia del fascismo di Renzo De Felice erano ancora disciplinatamente avvolti nel cellophane. Molti pomeriggi se ne andavano fissando la libreria, sfilandone un volume, in un silenzio interrotto solo dal russare di Omer bocconi sul tappeto. E quando non trovava neppure la forza di leggere, con gli occhi fissi alla madia tirolese che occupava uno dei lati corti del salone e in cui aveva stipato un mare di Cd, passava ore ad ascoltare la colonna sonora della sua vita: i Creedence Clearwater Revival, il southern rock di Lynyrd Skynyrd, il blues di Mike Bloomfield, il country di Dwight Yoakam, i Clash. Aveva ripreso anche a viaggiare. Era tornato negli Stati Uniti. In primavera, dopo la sua deposizione al processo, a Genova. Aveva ripetuto in aula quella maledetta frase di sei anni prima, «è stata una macelleria messicana». Aveva detto quel che fin lì non aveva avuto la forza di dire in istruttoria – «Ho gridato "Basta!" a due colleghi che si accanivano su una ragazza». Quindi aveva mandato tutti a fare in culo, salendo sul primo volo per New York con sua moglie e sua figlia. Sorvolando l'Atlantico si era sorpreso, leggendo i quotidiani, della straordinaria quantità di interviste che aveva rilasciato il giorno prima. Peccato non avesse parlato con nessuno. Peccato che le sue risposte fossero un taglia e incolla delle dichiarazioni rese in aula. In altri momenti si sarebbe incazzato. E invece ne aveva sorriso, pensando che esisteva solo un mestiere capace di essere più gaglioffo del suo, quello del giornalista. Era diventato un santino della sinistra italiana senza aver fatto nulla né per volerlo né per meritarlo. 84

Semplicemente, per essere apparso ciò che non era. Un traditore. Anche per questo cinismo, pensava, la sinistra italiana era condannata alla sconfitta. New York era stata uno straordinario rifugio. Si era sentito finalmente invisibile nella moltitudine. Aveva potuto riempirsi occhi e mani di musica, pantaloni, magliette. Almeno fino alla sera in cui non aveva dovuto ricordare di essere italiano. Erano finiti a cena in casa di amici di amici. Quelle cose che a New York sono la regola e in Italia l'eccezione. Che servono a mischiarsi e annusarsi tra diversi. Ma purtroppo la casa era di italiani. Un loft magnifico, dalle parti di Tribeca. Cibo elegante, come gli arredi e le signore. Dell'ottimo jazz. Chiacchiere felpate quanto innocue. Poi, arrivati al whisky, la conversazione era precipitata sull'Italia. I padroni di casa non vi tornavano da tempo. Dicevano di non rimpiangerla, ma dimostravano di essere ossessivamente al corrente di ogni irrilevante dettaglio della sua vita pubblica. Ora ne sorridevano, ora ne compativano il merito. Aveva constatato che si dicevano di sinistra. Lui li aveva ascoltati per un po', quindi era esploso. – Se vi fanno tanto schifo l'Italia e gli italiani, perché non la finite di parlarne, eh? Lo avevano guardato con il disgusto che merita uno sporcaccione. Uno degli invitati, come se ci fosse stato qualcosa da spiegare, aveva deciso di rispondergli. – Mi scusi se glielo chiedo, ma non trova anche lei che l'Italia sia diventata un paese volgare, incivile. Fascista, sì. Diciamolo. Fascista. – No, non trovo. Dopodiché, le faccio osservare che se lei gira a New York con un Suv, lei è un gran signore. Se ci giro io a casa mia, a Roma, a piazza Vescovio, ha presente?, allora faccio la figura del macellaio arricchito. Io me ne fotto e il Suv me lo sono comprato. Poi, pensi un po', non sono neanche un macellaio, ma uno sbirro. Anzi, un celerino. Penso anche un'altra cosa. Lei che vive qui a New York, provi a riflettere perché questi scimpanzé di italiani come me non votano progressista e votano a destra. Davvero, ci provi. Provi a chiedersi chi ha ridotto l'Italia un deserto sociale, un Paese per sociopatici. Un recinto per tribù. Dove è già tanto se riesci a farti ascoltare da un tuo simile. Aveva lasciato il loft bofonchiando un «grazie per la bella serata» e si era infilato con la moglie su un taxi guidato da un indiano che, per tutto il tragitto fino all'albergo, sembrava divertito da quel tipo che dava in escandescenze in una lingua per lui misteriosa. 85

– Non mi dire che sono stato maleducato, ok? Non provarci neppure. Ma li hai visti o no? Hai visto la casa? Hai visto le bottiglie che avevano aperto? Che cazzo ne sanno loro degli italiani e dell'Italia? Ma santo Iddio, possibile che da anni non incontro mai un gran signore, di questi ricchi sfondati, che mi dica: sono un liberale. Sono un conservatore. Ci mancava solo che mi attaccassero una pippa sulla globalizzazione e le magnifiche sorti dei mercati finanziari. Tornato da quel viaggio, Roma e la faccia di Omer lo avevano messo di buon umore. Ma, ogni volta, l'effetto durava meno. Aveva ripreso la sana abitudine di passeggiare con il suo dobermann lungo le strade che fanno da corona a piazza Vescovio, sorprendendosi spesso assorto nell'immaginare quale angolo di verde e giardini doveva essere stata quella terrazza di Roma negli anni del Ventennio. Finché, un pomeriggio, non era inciampato in un crocchio di ragazzi in via Montebuono. Neri come insetti nei loro bomber, nei loro pantaloni dalle tasche profonde macchiati da toppe con la croce celtica. Aveva alzato lo sguardo e non aveva avuto bisogno di capire dov'era. Era arrivato al Presidio. L'idea era stata di due tipi svegli di Predappio. Avevano cominciato con una botteguccia di fascisterie per nostalgici. Quelli che, ogni anno, vanno a drizzare il braccio davanti alla tomba del duce e che in questo modo avrebbero avuto chincaglierie da portare a casa. Calendari, memorabilia, ciondoli, magliette, felpe con aquile e asce bipenne. Anche qualche T-shirt di certe firms inglesi di riconosciuta violenza nelle curve, come il londinese West Ham. Roba così, insomma. Le cose, poi, grazie anche all'ombrello di Forza nuova, erano andate così bene che il marchio aveva attecchito ovunque. Un negozio a Milano, uno a Treviso, uno a Genova, uno a Lucca, uno a Torino e due a Roma. Via Montebuono e via dei Gracchi, le roccaforti nere. Fournier si era fermato sul marciapiede e aveva accorciato il guinzaglio di Omer, dandogli due giri intorno al polso. Da qualche parte lo stereo di una macchina, o quello del negozio forse, diffondevano note che gli sembrava di riconoscere, magari perché non le ascoltava per la prima volta. La domenica frana, franaaa, la curva franaaa, franaaa sulla polizia italiana. Se ci deve essere violenza, che violenza sia, 86

ma sulla poliziaaaa. La domenica frana, franaa, la curva franaaa, ma su quei figli di puttanaa. Erano gli Hobbit, quelli di Cuore nero. Una band romana che nei suoi concerti raccoglieva grano per difendere gente come Luigi Ciavardini, imputato per la strage di Bologna. Omer si era messo a tirare il tratto di guinzaglio ancora libero e Fournier si era allontanato di qualche passo. Il ragazzo che smanettava sui Cd aveva cambiato brano. La violenza è il risultato di un sistema che ha fallito. La violenza è legittima offesa contro la vostra ipocrisia non vogliamo la vostra medicina no, la droga non fa per noi non vogliamo quel sorriso non vogliamo la vostra pace. E questi schizzati chi cazzo sono?, si era chiesto. L'accento del cantante suonava bolognese. Uno dei ragazzi sul marciapiede aveva fissato lui e Omer. – Capo, che te serve? Li senti? Te piaciono? So' i Legittima offesa. La violenza è legittima offesa, il vostro sangue mi dissetaa, sì, la nostra è legittima offesa, sì, la nostra è legittima offesaa. Aveva strattonato Omer e superato il Presidio. Il ragazzo aveva pompato ancora un po' il volume. In questa società di merda, dove tutto è contro di noi, la violenza è legittima offesaa, la rivolta è la speranza. Non c'è pace senza guerra, non c'è amore senza odio. L'unica cosa di cui sono sicuro è che per essere liberi bisogna lottare. 87

Sì, la nostra è legittima offesaa, sì, la nostra è legittima offesaa... Dopo cinquecento metri, all'incrocio con viale Somalia, aveva deciso. Fanculo i neri, piazza Vescovio, la caserma di Ponte Galeria, il processo di Genova e la sua vita immobile. Sapeva dove doveva andarsene per un po'. Guardò Omer, allungò le braccia verso la sua magnifica testa dal pelo corto e bruno. Gli serrò le mandibole facendogli socchiudere gli occhi. Quindi si accovacciò fino a sentirne l'alito e gli sussurrò all'orecchio parole sottovoce, come fosse un bambino, come fosse il figlio maschio che non aveva mai avuto. – Sai che facciamo tu e io? Appena comincia la stagione ce ne andiamo sulla neve. Ce ne torniamo dove tuo papà ha ancora la casa. A Moena. Vedrai che belle le Dolomiti, Omer. La tasca posteriore dei jeans si mise a vibrare. Fournier afferrò il cellulare. – Chi è? – Dottore, sono Drago. – Drago, dimmi. – Ha saputo di Torre Gaia? – Torre Gaia cosa? – Hanno quasi ammazzato dei romeni. Sembra una vendetta per la storia della Reggiani. Dottore, qui comincia una tarantella che non si sa dove si va a finire. – E chiami me? – Mi scusi, dottore, forse non era il momento. – No, Drago, hai fatto bene a dirmelo. Grazie. – Ci vediamo domani in caserma? – Sì, ci vediamo in caserma.

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11. Padroni a casa nostra

Tra la città e il mare, a Casalpalocco, all'Infernetto, ad Axa, Ostia, Fiumicino, non si parlava d'altro. Era diventato impossibile anche soltanto pensare ad altro. L'omicidio di Giovanna Reggiani era tornato a gonfiare un lago di odio che la Roma patrizia continuava da troppo tempo a fingere di non vedere. In cui era morta, forse per sempre, persino la pietà. I romeni erano scomparsi dalla sera alla mattina. Come evaporati. Lo spettro della vendetta li aveva ricacciati nei loro fetidi buchi. Insieme a ucraini e bosniaci. A chiunque, anche per avventura, ricordasse nei tratti del viso, nel colore della pelle, del sangue slavo. In giro non se ne avvertiva più neanche l'odore. Dei sepolti vivi. Drago aveva sentito bussare al cancello di casa che ormai era notte. Si era affacciato in veranda e aveva riconosciuto il profilo e la voce di Carletto. Nonostante un freddo e un'umidità che spaccavano le ossa si erano seduti all'aperto, ai lati di un lungo tavolo di legno su cui, annodate alla pergola da uno spago indurito dall'acqua e dalla salsedine, ondeggiavano, vuote, decine di gabbie per canarini e pappagalli, una passione della madre. Carletto era animato da un'eccitazione che Drago conosceva e che non prometteva bene. – Nun pòi capi', Drago. – Non posso capire cosa? – Me stanno a telefona' da tutti i pizzi. Sto a senti' storie che nun me piaciono. Se nun fanno qualcosa co' 'sti romeni, qui ce scappa er morto. Drago aveva sempre apprezzato quella rumorosa forma di ritrosia di Cadetto. L'uomo era incapace di fingere, ma sapeva come risparmiargli imbarazzi. In fondo, lui restava una guardia. Non poteva e non doveva sapere tutto. – Immagino. – No. Nun immagini. È peggio di quello che immagini. – E che vuoi che faccia, eh? – Nun vojo gnente. Vojo solo che tu lo sappia. Basta. La gente vo' esse' padrona a casa sua. Pa-dro-na. È chiaro? – Lo dici a me? – Sì, lo sto a di' a te. Gli sbirri sanno solo caca' er cazzo ar popolo. A quei romeni de merda chi ce pensa, eh? Chi ce deve pensa', Drago? Fanno 89

come cazzo je pare. – Non mi far girare le palle. Il reparto è il popolo. Erano rimasti in silenzio per un po'. Poi, Carletto aveva rivolto lo sguardo verso il cancello di casa frugando nel buio pesto in cui era immerso, quasi a cercare nelle tenebre la struttura che chiudeva alla vista: il muro di cinta del Villaggio Bonanni, lo smorzo di materiali edili diventato discarica per clandestini. – E quelli? Se fanno vede' ancora in giro? – No, è da ieri che sembrano spariti anche loro. Non escono neanche per cercare da mangiare. Meglio così. – Visto che dici che siete er popolo, almeno stavolta ve mannano o no in giro? Stavo a senti' al telegiornale che mo' se so' svejati e vonno ripuli' un po' de 'ste baracche. – Non lo so che faremo. Ho sentito anch'io delle espulsioni, ma non so se toccherà a noi. Era una bugia. Sapeva perfettamente che non sarebbe toccato a loro. Il reparto sarebbe stato di supporto ai colleghi dei commissariati. Il perché non lo aveva chiesto, ma lo immaginava. Se qualcosa fosse andato storto nello sgombero di una di quelle baraccopoli, tenere la museruola agli uomini dei nuclei sarebbe stato impossibile. Aveva acceso una Marlboro e si era nuovamente rintanato in un silenzio di pietra, rimuginando sulle parole strozzate di Carletto. «Padroni a casa nostra». C'era qualcosa di selvaggio e di definitivo in quella affermazione. Che lo prendeva allo stomaco. – 'A Carle', pensi che io non voglia essere padrone a casa mia? – Penso er contrario. – E allora che vuoi? Perché sei venuto qui? Per vedere se sono incazzato quanto te? Per sapere se avrei la forza di arrestarti il giorno che ti beccassi a rompere il culo a un romeno? Vuoi sapere questo? – Anche. – Io sono un poliziotto. – E allora? Nun ce l'hai 'na testa? Nun sei italiano? – Carle', vattene a dormi'. – Nun ho sonno... Ma me ne vado uguale. E scusa tanto, sa'. Carletto si era avviato verso il cancello volgendogli le spalle. Aveva fatto scattare il chiavistello, aprendo lentamente il pesantissimo battente. Quindi si era fermato, come folgorato da un'intuizione. 90

– Tu' fratello ce l'ha ancora quei nuovi bilancieri da palestra? – Che? – Tu' fratello pompa ancora nel salotto di casa o no? – Sì, perché? – No, è che vorrei provarli, quei bilancieri. – Glielo dico. – Bravo. Ah, un'ultima cosa. – Di'. – Padroni a casa nostra, Drago. Padroni a casa nostra. Nun te lo dimentica'. Aveva sentito il T-max di Carletto partire in fuori giri ed era rientrato in casa. La madre aveva lasciato acceso il televisore in cucina e, come fosse una maledizione, l'ombra dei romeni sembrava essersi allungata ovunque. Nei banner delle Tv locali, in testa al televideo, negli ultimi Tg della notte Mediaset e Rai. Aveva combattuto i crampi dello stomaco infilando nel microonde le polpettine indiane di cui andava matto. Il curry e il cumino si erano impastati con la patina di nicotina della bocca, liberando un retrogusto che riconosceva e che aveva annegato nella Coca-Cola. Poi era rimasto a fissare il salotto nel buio, sorprendendosi di quanti oggetti fosse ingombro. Come se vent'anni di vita sotto quel tetto fossero stati un tempo sin lì troppo breve per scoprire i ricordi di cui la madre aveva continuato a stiparlo. Libri di avventura per ragazzi in un'edizione dei primi anni Settanta, bottigliette di dopobarba Gillette mai aperte, ritratti di famiglia a inchiostro. Alla fine, lo sguardo si era posato su una mensola dove riposava un encomio incorniciato. Il suo. Se l'era guadagnato – e forse non era un caso – l'estate in cui aveva dovuto riconsegnare tesserino e pistola per una aspettativa forzosa che le burocrazie avevano ritenuto necessaria dopo una lite, l'ennesima, con la madre di suo figlio e il suo nuovo compagno, finita con l'arrivo dei carabinieri. Un medico dell'amministrazione gli aveva diagnosticato uno stato di stress emotivo. Il ministero aveva deciso che staccasse per un po' e si sottoponesse a una serie di test che ne certificassero nuovamente l'idoneità al servizio. Lui non aveva mai capito se l'errore fosse stato litigare con l'ex compagna, dare dello stronzo al compagno di lei, calabrese come il carabiniere che era intervenuto, o essere stato sincero con lo psicologo alla prima visita. – Io sono un padre incazzato. E se vuole sapere se sono matto, la risposta è sì. Sono matto di mio figlio. Mi manca ogni ora del giorno e 91

della notte e non sopporto che lo stia crescendo qualcun altro. Il riposo era durato tre mesi. Aveva fatto altro. Un amico gestiva uno stabilimento a Maccarese, sul litorale a nord di Fiumicino. Gli serviva un bagnino e un bagnino aveva trovato, addirittura con brevetto di salvataggio, ottenuto a Ostia, da ragazzino. L'uomo che aveva salvato aveva quarantatre anni. Lo ricordava bene. Un marcantonio di due metri. Lo aveva tirato fuori dai mulinelli mentre, come un piombo, a duecento metri dalla riva, se ne stava andando in un mare marrone forza sette. Lo aveva rianimato sulla battigia, e quando aveva finalmente riaperto gli occhi vomitando acqua e bile, aveva avuto la forza di dirgli una cosa sola. – Ma si può essere più stronzi di te? Il tipo non se l'era presa. Da quella mattina, per mesi, ogni settimana, aveva continuato a mandare un Sms con una sola parola: «Grazie!» Eppure, fissando la mensola e l'encomio, non era quell'uomo che gli tornava in mente. Erano i volti di Antonello, Simone, Marco, Massimo. Diciotto anni il più grande. Diciassette il più piccolo. Il primo giorno che aveva messo piede sulla spiaggia di Maccarese lo avevano annusato come si usa con le guardie. Sapevano che era un celerino, e diffidare era la regola che avevano imparato nelle strade del quartiere in cui erano nati e cresciuti. La Magliana. Gli era capitato di ascoltarli parlare tra loro della Banda della Magliana come lui avrebbe potuto parlare della Resistenza e della Repubblica di Salò. Accapigliarsi sulla statura di un banditone come Enrico De Pedis neanche fosse un eroe. Aveva incrociato decine di volte i loro sguardi obliqui, sfuggenti, come se incombesse, agli angoli delle cabine dove normalmente ciondolavano fumando, qualcosa di losco e inconfessabile. Finché la crosta di ostilità non si era rotta. Era successo la mattina in cui aveva sorpreso Andrea, il direttore di spiaggia dello stabilimento, ammaestrare quei quattro come studenti coranici in una madrassa. Andrea se ne stava piantato sotto l'ombrellone rosso del salvataggio con le gambe leggermente divaricate. Le braccia conserte a gonfiare pettorali e bicipiti. I quattro ragazzi erano seduti sulla sabbia a semicerchio, ai suoi piedi. Andrea era di Bravetta, una macchia di case a nordovest della città, incastrata fra la Magliana e Casalotti. Dopo il Forte. Dopo il carcere militare. Prima della discarica di Malagrotta, la pattumiera di Roma. Soprattutto, Andrea era un capotifoso laziale della Nord. Antonello, Simone, Marco, Massimo lo ascoltavano con lo sguardo 92

rapito, mentre cianciava di fumo, pischelle, cariche in curva, notti al gabbio. Aveva interrotto lo spettacolo alzando la voce. – Andre', hai finito con le tue cazzate? A beneficio dei pischelli, Andrea aveva messo su la maschera del duro di quartiere. Inspirando profondamente ed espirando rumorosamente dalle narici. – No. Nun ho finito, perché? Nun se pò parla'? – Pensi di essere il più fico, eh? Sei forte, vero? È bello riempire di minchiate la testa di questi quattro coglioni che ti ascoltano pure. – Hai ragione, Drago, scusa. Tu che vòi capi'? Sei 'na guardia. Anzi, sei 'na ex guardia. – Bravo. Sono una ex guardia. Diciamo che sono una guardia dentro. E diciamo pure che c'è un problema. Perché c'è sempre la guardia che scrive e la guardia che ti rompe il culo. Ora, indovina un po' io quale sono delle due. Antonello, Simone, Marco e Massimo avevano abbozzato un sorriso. – Andre', fatti un giro. Dammi retta. Intanto io parlo un secondo con i ragazzi. Bravetta o non Bravetta, Andrea aveva fatto pippa. E i quattro, vedendolo allontanarsi verso una catasta di sdraio, ne erano rimasti sconcertati. Forse persino dispiaciuti. Ora era Drago a guardarli dall'alto in basso. – Allora? Non parlate più? Com'è, non siete della Magliana? Ad Antonello, il più piccolo, la lingua si era sciolta in un attimo. – Guarda che quello se n'è annato giusto perché sei della celere. Sennò... – Se no che? – Magari se attaccava. – Tu dici? Lo vuoi sapere davvero perché se ne è andato? Perché vi stava raccontando davvero un mucchio di cazzate. E lo sapeva. Siete ancora in tempo. Piantatela con i furti, gli strappi, il fumo, la coca. Piantatela di riempirvi la bocca e la vita di veleno. Marco si era alzato in piedi. – Ma chi sei? 'Na guardia o 'n prete? Giusto perché hai er fisico, sennò cor cazzo che sembri 'na guardia. – E se ora ti gonfio la faccia di schiaffi, che sono? Bravo o stronzo? Marco era ammutolito. – Tu lo sai, vero, che se voglio ti vengo a cercare ogni giorno alla 93

Magliana per dartene una, di sveglia. Lo sai, sì? E lo sai che se lo faccio non è perché sono una guardia, ma perché potrei essere tuo fratello. Marco si era messo a cercare con lo sguardo gli altri tre compari, che invece avevano abbassato la testa e ora si fissavano gli alluci dei piedi. La ripassata era solo all'inizio. – Facciamo così. Ditemi un po'. Che lavoro fanno vostro padre e vostra madre? Io lo so che vi fa schifo quello che fanno. O sbaglio? Sono degli stronzi, no? Si rompono il culo dalla mattina alla sera per quattro lire. Giusto? Aspettate che provo a indovinare. Ci deve essere una poveretta che fa le pulizie e magari si alza anche alle cinque. Poi ci deve essere un imbecille che fa il postino. O magari il fornaio. Ma sì, uno di quelle teste di cazzo che fanno i panini all'olio per far mangiare qualche vecchio che i denti non ce l'ha più. Poveretti, vero? Massimo lo aveva interrotto. – Io nun vojo diventa' come mi' padre e mi' madre. Io vojo esse' padrone a casa mia. – E che vuol dire essere padrone a casa tua? – Vor di' che comando. Che decido io chi ce deve sta' e chi no a casa mia. Gnente guardie e gnente zammammeri. Che nun devo campa' soltanto pe' nun mori' de fame. Io vojo vive' come dico io. – E come dici tu? Tu non lo sai. Tu vedi solo quattro banditi che girano sotto casa tua con il culo su un Suv che si sono comprati con la coca che ti sniffi con i soldi di tua madre. Ecco cosa vedi tu. – 'A Drago, io vivo alla Magliana. – E allora? Io sono nato a San Saba e a otto anni mi hanno portato a Ostia. Dei pischelli della mia comitiva siamo rimasti vivi in due. Va bene così? Pensi che vada bene? Io ho scelto di fare la guardia e sono ancora qui. Il che, magari, è un vantaggio anche per te. – Pe' me? E che ce guadagno io che te sei 'na guardia? Che ce guadagno io dalle guardie in genere, vorrei sape'. – Ci guadagni che puoi dire liberamente le cazzate che stai dicendo. E magari, un giorno, decidere di campare in un altro modo. A questo servono le guardie. – Prima stavi a parla' come un prete. Mo' come 'na zecca comunista. – Per tua informazione, sono di destra. E tanto, pure. – Come me. Perché me chiedi allora che vor di' padrone a casa mia? – Perché forse intendiamo cose diverse. Nel buio del salone, Drago continuava a fissare mensola ed encomio, e 94

ora si era sorpreso a sorridere. Antonello, Simone, Marco, Massimo non se li era portati via l'estate di Maccarese. Quei ragazzini gli erano rimasti appiccicati anche quando aveva lasciato i pattini dello stabilimento ed era tornato a essere uno sbirro. E in fondo questo valeva quanto la vita del tipo tirato fuori dal fondo del mare. Si era alzato per spegnere il televisore in cucina. Non sapeva più nemmeno che ora fosse. Il cellulare aveva vibrato di un solo squillo. – Mo' chi cazzo è? Un Sms di Carletto. «Vieni alla rotonda di Palocco. E sbrìgate, che sto nella merda». La Smart aveva attraversato i viali dell'Infernetto come un proiettile impazzito. Sbalzata dalle radici dei pini che rendevano l'asfalto un tappeto di gobbe assassine. E quando i fari avevano cominciato a illuminare le mignotte della Cristoforo Colombo e i loro focaracci, aveva capito la ragione di tanta fretta. Carletto se ne stava in piedi accanto a una pattuglia dei vigili urbani. Il lampeggiante acceso, lo scooterone piegato sul cavalletto, appena oltre una macchina dagli sportelli aperti, che lasciava intravedere un tipo dai capelli biondicci con il capo reclinato sul poggiatesta. Il più anziano dei due vigili urbani si era fatto incontro a Drago con una certa apprensione. Aveva i gradi di vicecomandante. – E lei chi è? – Buonasera, sono un collega della polizia. E sono un amico del signore. – Ci vuole del fegato a chiamarlo signore. – Perché? Che è successo? – Succede che quando gli abbiamo chiesto i documenti ha minacciato di romperci il culo. Testuale. Romperci il culo. E dunque succede che ora il suo signore passa quel che resta della notte in una bella cella. Aveva fissato Carletto e ne aveva ricevuto in cambio uno sguardo di odio. – Posso sapere almeno cosa è successo? – Gliel'ho appena detto. – No. Nun gliel'ha detto. – Carletto ora si sbracciava verso la macchina del biondino, che continuava a restare immobile come una salma. – Lo dico io che è successo. A sentire Carletto, in uno zig-zag etilico, il biondino, che si era scoperto essere un polacco, lo aveva quasi travolto con la sua macchina. Era ubriaco fradicio. Lui lo aveva bloccato, lo aveva trascinato fuori dall'abitacolo, a 95

quanto pare non con le buone, e aveva chiamato i vigili. Che, per prima cosa, se l'erano presa con lui. – Capisci, Drago? Questo me stava a ammazza'. 'Sta merda de slavo. È 'mbriaco come 'na pigna. E questi che fanno? I documenti a me li chiedono, li mortacci loro. Il vicecomandante dei vigili aveva sorriso. – Vede? È più forte di lui. È proprio un signore che non ha capito il guaio in cui si è cacciato. Drago lo aveva preso sottobraccio e insieme avevano fatto qualche passo allontanandosi da Carletto e dal polacco. – Comandante, provi a ragionare. Siamo un poliziotto, due vigili e una guardia giurata, perché se ancora non gliel'ha detto il mio amico è una guardia giurata. E poi c'è questo polacco ubriaco. Bene, chi ci rimette? – Almeno avesse chiesto scusa. – Guardi, se lo conosco, non chiederà scusa. Perché è convinto di aver fatto la cosa giusta. – A insultarci? – No, a fermare quel polacco. – Che fa, mi vuole dire che siccome quel tizio è polacco, allora qui si può fare qualunque cosa? – Le voglio dire che è brutto non sentirsi mai padrone in casa propria. – Padrone in casa propria? Padrone di che? – Padrone di tornarsene a casa di notte senza morire ammazzati da uno slavo che fa come cazzo gli pare, perché tanto non pagherà mai. Ecco cosa voglio dire. Il vigile aveva fissato in silenzio Carletto e il polacco. – Si prenda il suo amico e lo metta a letto. Buonanotte. Aveva riaccompagnato Carletto a casa. E lui non aveva fatto domande. Fino al momento di salutarsi. – 'A Drago, ma come hai risolto? – Carle', padroni a casa nostra. Ciao. Non aveva chiuso occhio per il resto della notte. L'alba era arrivata con i titoli dei quotidiani sulla morte della Reggiani, sulla vendetta di Torre Gaia. In caserma gli era stato comunicato quello che già sapeva. Il nucleo non sarebbe stato di servizio alla bonifica delle baraccopoli, ma di supporto all'ufficio stranieri di via Teofilo Patini. A vederlo da fuori, l'ufficio stranieri è un falansterio di cemento bianco e vetro. Una metafora di pulizia, di asettico nitore. Sulle mappe della città, lo 96

svincolo del tronchetto di raccordo autostradale per l'Aquila. Un satellite per uffici incastrato nell'edilizia popolare di Tor Sapienza. Che se puoi, lo eviti. Se devi arrivarci, maledici chi ti ci ha mandato. In via Teofilo Patini decidono chi è dentro e chi è fuori. Meglio: chi è dentro e chi dovrebbe essere fuori. C'è un ufficio per il pubblico e c'è un ufficio chiuso al pubblico. Il primo è annunciato da grandi parcheggi, bandiere della Repubblica, targhe in ottone tirate a lucido. Il secondo, privo di insegne, ha ingresso dal retro e sorveglianza armata. Drago e la squadra di supporto erano diretti lì. Come sempre accadeva quando serviva una mano per tenere d'occhio il «gabbione» degli zammammeri. Quelli in attesa di espulsione con accompagnamento immediato a un Cpt o alla frontiera. Neppure il tempo di mettere piede in quel paradiso e Drago se ne era ritrovato uno addosso senza quasi accorgersene. Era un maghrebino che puzzava da fare schifo. Dall'età indefinibile, i denti gialli, una camicia cenciosa a coprire un corpo disegnato dalle ossa. – Occhio, Drago, che si spezza. Diglielo tu che non deve fare il cattivello. Il collega che gli aveva scaraventato contro quel disgraziato rideva accanto al distributore automatico dei caffè. Una sorta di sala d'attesa che, a pianterreno, si apriva sul corridoio delle celle. Un gabbione comunicante per la sua intera lunghezza, dove gli zammammeri attendevano il turno della fotosegnalazione e il provvedimento di espulsione che gli sarebbe stato notificato negli uffici al piano superiore. Aveva afferrato il maghrebino per l'avambraccio e lo aveva trascinato verso il collega. – Perché dovrei metterlo a posto? – Perché questo intelligentone ha pensato bene di provare a violentare una ragazza italiana la sera stessa della Reggiani. Pensa un po' che gran furbo, eh? Aveva stretto l'avambraccio del maghrebino in una morsa terribile, fino a sentire anche l'ultimo osso di quel disgraziato. – È così? Eh? È così, testa di cazzo che non sei altro? Il maghrebino aveva messo su un sorriso ebete. La voce di Drago era salita allora di un tono, spegnendo il brusio degli altri ospiti del gabbione: due famiglie slave e una vecchia zingara, che osservavano la scena rannicchiati sul pavimento. – Rispondimi, merda! Ti ho chiesto se è vero. Rispondi! 97

Il maghrebino non si toglieva dalla faccia quel sorriso del cazzo. Anche se somigliava sempre di più a una smorfia di dolore per una presa che si stava facendo insopportabile. Drago sentiva che il sangue aveva preso a pulsargli nelle tempie. Il collega lo fissava impassibile dalla macchinetta del caffè. Aveva strattonato di nuovo il maghrebino, trascinandolo come un manichino verso il gabbione. – Vieni qui, merda. Vieni qui. Ora ci entro io qui dentro con te, così ci divertiamo. Così vediamo chi è il padrone, qui. Eh? Vuoi fare il padrone a casa nostra? È questo che vuoi? Nel gettarlo oltre le sbarre, lo aveva fatto cadere a terra. Dove la vecchia zingara lo aveva abbracciato, carezzandogli la testa, come a un bambino indifeso. Aveva fissato entrambi. Immobile. Con gli occhi che gli bruciavano di rabbia e di sonno. Difficile dire quanto tempo se ne fosse rimasto così. Cosa lo avesse trattenuto dal chiudersi la gabbia alle spalle e dare a quel mucchio di ossa ciò che lui desiderava meritassero. Sapeva soltanto che era uscito di corsa dalla palazzina. Aveva respirato con la foga di un naufrago l'aria fredda del mattino. Aveva ripetuto con se stesso: – Padroni a casa nostra...

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12. In nome del popolo italiano

Che i tribunali ricordassero degli ospedali lo Sciatto lo aveva sempre pensato. Eppure, mai come quella mattina il palazzo di giustizia gli apparve per il gigantesco nosocomio che era. Le entrate separate per il pubblico e gli addetti; le signore delle pulizie con i loro camici verde acqua mentre trascinavano trespoli rossi in alluminio che si faticava a indovinare se destinati a sostenere sacconi dell'immondizia o flebo per lungodegenti; i furgoni blu notte della polizia penitenziaria nel cortile interno, così uguali alle ambulanze di un posto di pronto soccorso. Per non dire del vociare fitto e indistinto nell'anticamera delle aule di udienza, isolate da robuste porte insonorizzate come fossero sale operatorie, ad attutire le grida, le esplosioni di pianto o di gioia. Infilando l'ingresso della palazzina B, si era fermato per lasciare il passo a due infermieri del 118 che spingevano una barella su cui era disteso un uomo sulla cinquantina, corpulento, i capelli bruciacchiati da chi sa quante ossigenature. Il tipo aveva i polsi ammanettati ai tubolari della lettiga e sembrava quasi divertito da quel rito di degradazione che lo esponeva alla curiosità dei presenti. La voce dei portantini si trascinava con la medesima indolenza delle ruote che le loro braccia spingevano. – Bellezza, nun t'agita'. Come te lo dovemo ripete'? Nun t'agita'... – E de che me devo agita'? Più che esse' carcerato che pò succede'? L'incrocio con la lettiga gli era apparso un fosco presagio e si era ritratto bruscamente, come sorpreso da un gatto nero. Finendo con l'urtare, involontariamente, una montagna d'uomo che, voltandosi di scatto, lo aveva salutato a gran voce. – Nun ce credo! E che ce stai a fa', qua? Era un amico di Ostia. Si conoscevano da ragazzini. Anche lui, a modo suo, era diventato una guardia. Aveva messo su un'agenzia di buttafuori che, per quanto ne sapeva, riusciva a far stare al proprio posto anche la peggiore feccia del litorale. Voleva bene a quel ragazzo e non aveva voglia di fingere. – Sto qua per un tifoso della Roma. – Testimone... – Imputato. – Che vòle? 99

– Ha perso due denti mentre faceva resistenza. E io mi sono beccato lesioni gravissime e falso ideologico. – Nun te preoccupa'. – Insomma... – Guarda, io ormai qui so' de casa. Un giorno a settimana... Ormai 'sta gentaglia nun ha più un codice. Fanno i matti allo stadio e in discoteca e quando ingrugnano se mettono a piagne' e vonno i sòrdi... Te dico solo che l'altra sera se presentano in un locale dei tipi impizzati che era tempo che non se ne vedevano. Hai presente, no? Tutti in tiro, occhietti come capocchie de spillo. Er Porsche. Er Bmw. Te la faccio breve. Nun so quante bottije de champagne se fanno, poi se mettono a fa' casino. Uno grida: «Mo' tiro fòri er pezzo, mo' tiro fòri er pezzo!» Volano du' sveje e nun te becco uno de questi che dar cesso chiamava cor cellulare le volanti? Poi cominci coi verbali, l'avvocati, er tribunale. Io te capisco. Nun sai quanto te capisco. Si erano salutati con un abbraccio e lo Sciatto aveva affrettato il passo sulle scale che portavano alle aule di udienza. Il dolcevita grigio stirato di fresco e la camicia a righe dal collo inamidato gli serravano il tronco e la vita in una corazza di apparenza che in fondo detestava e, soprattutto, in cui non credeva. Ma aveva capito che era inutile resistere a quella sorta di galateo scaramantico che vuole un giudizio penale governato non necessariamente e non soltanto dai codici, ma anche dall'alchimia tra giudice e imputato. Tra dottore e paziente. Il suo avvocato, Antonella Bruno Bossio, una giovane donna minuta dall'intelligenza vivacissima e tutt'altro che complice, si era raccomandato di tenere la bocca chiusa se non interpellato. Di non manifestare segni di fastidio o insofferenza. Di non apparire rassegnato e dimesso, ma nello stesso tempo di evitare come la peste gesti di supponenza. Ignorava le sottigliezze del linguaggio del corpo, non gli appartenevano. Soprattutto, non riusciva a trovare quella pace ed equilibrio interiori che i suggerimenti dell'avvocato presupponevano. E forse non solo per colpa sua. L'architetto che negli anni Settanta aveva progettato quel luogo doveva aver avuto un'idea assai curiosa dell'amministrazione della giustizia. Le pareti dell'edificio erano in cemento vivo, a vista. Balaustre e ringhiere erano di un blu elettrico. Il pavimento era di una gomma nera che avrebbe dovuto ricordare – così dicevano – il marciapiede di una strada. La luce, filtrata da finestroni di vetro smerigliato, arrivava fioca anche nei giorni di pieno sole. In quel luogo, regnava l'oscurità. 100

Il registro di udienza era affisso nella bacheca a destra della porta dell'aula 26. Un foglio sgualcito con un'indicazione succinta dei nomi degli imputati e il titolo di reato, nonché un'approssimativa indicazione dell'ora di celebrazione del processo. Era in anticipo, e con piacevole sorpresa vide che chi, come lui, era in attesa, fumava nonostante i divieti. Mostrando il pacchetto di sigarette fece cenno a un carabiniere che si sarebbe unito al gruppo, ottenendone un sorriso di assenso. – Faccia pure. Come vede, sul cartello è scritto soltanto «Vietato fumare». Se avessero voluto, avrebbero dovuto mettere quell'altro di divieto: «E severamente vietato fumare». Non pensa? Era arrivato anche A., il suo collega e coimputato. Era tornato a casa da qualche anno. Lo avevano trasferito in una questura calabrese e il viaggio per Roma doveva essere stato un calvario emotivo a giudicare dalla profondità delle occhiaie e da un «Ciao» pronunciato come un soffio. In quattro anni di dibattimento era stato leale, A. Mai un passo traverso. Dei due, quella domenica di gennaio del 2002, era il più basso in grado e una volta nei guai avrebbe potuto provare a liberarsi di ogni fardello rovesciando su di lui, nel bene e nel male, la responsabilità di quanto era accaduto. Non lo aveva fatto. A. continuava a credere che, insieme, avrebbero vinto. E di quella forza d'animo gli era grato. Sbriciolò il mozzicone di sigaretta sul tappeto di gomma nera del corridoio e provò a ripassare mentalmente quel che avrebbe detto al giudice, sorprendendosi per la prima volta a pensare lui stesso che il processo, in fondo, non si era messo poi così male. Anche se, ogni volta che aveva provato timidamente ad affacciare quella considerazione con Antonella, il suo avvocato, ne aveva ricevuto soltanto sguardi severi. M., il tipo che aveva armato quel casino, aveva caricato il suo racconto di un'enfasi che il dibattimento aveva prima ridimensionato, quindi annichilito. Per carità, gli incisivi li aveva persi. Ma al di là di quella circostanza, che nessuno aveva mai messo in dubbio, tutto il resto era venuto giù come un castello di cartapesta. Almeno tre testimoni lo avevano contraddetto su altrettante circostanze cruciali. Non era vero – aveva spiegato il vicequestore Vittorio Fulli – che quella domenica fosse stato lasciato aperto un varco tra i settori Distinti e curva Sud dello stadio Olimpico. Dunque, M. non si era confuso. Aveva al contrario tentato di scavalcare la barriera di transenne che divideva i due settori, violando consapevolmente un divieto. Non era vero – aveva deposto sotto giuramento l'addetto della guardia medica presente quel 101

giorno allo stadio – che a M. venne negato un immediato soccorso dopo aver perso gli incisivi, e non era vero che al momento di prestarglielo il poveretto grondasse sangue. Come del resto documentavano le foto segnaletiche che lo ritraevano subito dopo il fermo. Non era vero – aveva testimoniato il vicesovrintendente Del Bon – che al posto di polizia sotto la tribuna Monte Mario si cercò di imbrogliare le carte per camuffare un abuso da incidente. Non avevano fatto migliore figura di M. i suoi due testimoni oculari. Si era scoperto che C. non aveva visto nulla che potesse spostare anche solo di un centimetro la ricostruzione dei fatti in un senso favorevole a chi se ne diceva vittima. V. , quello che sosteneva di aver potuto osservare distintamente lo Sciatto accanirsi sulla vittima, nella foga di un racconto spesso farfugliato, era inciampato in un dettaglio decisivo. Se, come lo stesso M. sosteneva, il pestaggio era avvenuto a poche centinaia di metri dalla tribuna Monte Mario, dalla posizione in cui era il testimone non avrebbe mai potuto vedere ciò che sosteneva di aver visto. Il giudice, una donna, aveva condotto il dibattimento come in un processo di corte di assise. Con lo stesso scrupolo, la stessa curiosità metodica. Si era fatta innanzitutto consegnare le planimetrie dell'Olimpico. E durante il processo, con insistenza, aveva misurato l'attendibilità di ognuna delle deposizioni rese in aula collocandola nello spazio, oltre che nel tempo. La circostanza lo aveva confortato e aveva finito per convincersi che se gli avvocati avevano ragione nel dire che il suo destino era «nel libero convincimento del giudice», allora qualcosa in quel convincimento forse si muoveva. Ora toccava a lui. Il cancelliere aveva chiamato la causa. Si era seduto sulla poltroncina a destra dello scranno del giudice, aveva declinato le sue generalità e con esse rinunciato al diritto, riconosciuto all'imputato, di avvalersi della facoltà di non rispondere. Aspettava quel momento da cinque anni. – Allora, agente, vuole spiegare cosa è accaduto quella domenica? – Guardi, ho sentito dire da M... – No, no, no. Si fermi. Lei non deve rispondere alla parte lesa. Lei deve rispondere alle mie domande. – Mi scusi. Volevo soltanto dire... – Cosa voleva dire? – Che quella fu una domenica complicata. Non una domenica qualunque. Roma-Verona non è mai stata una passeggiata. E non lo fu 102

neanche il 13 gennaio del 2002. L'avvocato di parte civile scattò come una molla. – Faccio osservare che a quella partita era stato dato un indice di rischio minimo. – E io le faccio osservare, avvocato, che quel giorno furono fermati, prima dell'inizio della partita, diversi pullman provenienti da Verona da cui scesero tifosi talmente ubriachi che si decise di impedirgli l'ingresso allo stadio, trattenendoli nei locali della caserma Maurizio Giglio. Le faccio pure osservare che, dopo la partita, i pullman con i tifosi del Verona, scortati da personale della polizia, vennero fermati da barricate improvvisate a Ponte Milvio, che gli scontri proseguirono fino a sera e alcuni tifosi vennero arrestati per tentato omicidio. Se questa lei la chiama una domenica tranquilla... Il giudice lo interruppe. – Va bene. Abbiamo capito. Ora però mi spieghi cos'è accaduto con M. – Aveva cercato di scavalcare le transenne. E lo abbiamo fermato. – Perché lo ha fermato lei e non qualcun altro dei suoi colleghi di reparto? – Perché aveva provato a scavalcare in coincidenza del tratto di transenne cui ero stato assegnato. – M. sostiene che esisteva un varco fra le transenne attraverso il quale aveva visto transitare pacificamente altri tifosi. – È falso. Non esistono varchi fra le transenne. Non esistevano quella domenica e non esistono in nessuna domenica dell'anno. – Perché? – Le transenne vengono agganciate l'una all'altra per evitare, in caso di scontri, che vengano usate come arieti. – Arieti? – Sì, signor giudice. È successo. Una transenna usata come ariete può schiantare un cancello o sbriciolare la resistenza di un reparto schierato in linea. – Capisco... Torniamo al fermo di M. Perché, una volta impedito lo scavalcamento, vi fu colluttazione? – M. cominciò a sbraitare e a chiamare aiuto verso la curva Sud. Era fuori di testa. E del resto ne aveva motivo. – Ne aveva motivo? – Sì. – Quale? 103

– Non era la prima volta che provava a scavalcare. M. non è l'agnello che ha visto e ascoltato in quest'aula. L'avvocato di parte civile tornò a interromperlo. – È inammissibile che si esprimano giudizi di questo genere in aula. Fino a prova contraria, l'imputato è il signore qui presente, non certo il mio assistito! Lo Sciatto si frugò nelle tasche e ne sfilò un foglio. – Le dispiace se leggo, signor giudice? – Se è attinente. – Grazie. Vedrà, non è lungo. «Questura di Roma. Diciassettesimo commissariato di pubblica sicurezza Prati. Il giorno 21 del mese di novembre dell'anno 1998, alle ore 14.30, all'interno del posto di polizia dello stadio Olimpico in Roma, il sottoscritto ispettore della polizia di Stato, De Franco Nicodemo, riferisce perché consti che alle ore 14.15 circa di oggi, mentre era impegnato in servizio di ordine pubblico all'interno dello stadio Olimpico in occasione dell'incontro Roma-Bari, settore curva Sud, unitamente a personale in divisa del reparto mobile di Roma, notava un gruppo di tifosi superare i cancelli con la forza perché sprovvisti di biglietto. Fra i giovani vi era il M., il quale, bloccato come gli altri, dava in escandescenze, pretendendo l'ingresso e rifiutandosi di uscire, benché sprovvisto di titolo e benché invitato più volte dallo scrivente. Persistendo nella sua condotta, il M. creava turbativa in quanto gli altri giovani, che erano usciti senza alcuna resistenza, pretendevano di rientrare. Lo scrivente era quindi costretto ad accompagnare di forza il M., che opponeva decisa resistenza, presso il posto di polizia, dove provvedeva alla identificazione del giovane e alla sua denuncia in stato di libertà. Il M., subito dopo le necessarie incombenze, veniva rilasciato. Firmato, letto, confermato e sottoscritto». L'aula sprofondò in un silenzio che, almeno lui, percepì interminabile. Fino a quando l'avvocato di parte civile non si scosse. – Davvero non riesco a comprendere l'attinenza di questo verbale che risale al 1998. Il giudice inarcò le sopracciglia. – Avvocato... Lo Sciatto non riuscì a tenere la lingua a freno. – Gliela spiego io l'attinenza. M. non era la prima volta che scavalcava e non era la prima volta che veniva fermato. E non era la prima volta che dava i numeri. – Questo le ha dato il diritto di rompergli gli incisivi? 104

– Io non volevo rompere i denti a nessuno. – Ah, no? E com'è successo allora? Sono caduti da soli? – Avvocato, la prego, – intervenne il giudice. – Forza, prosegua, ci dica cosa è successo dopo che lei ha fermato M. – Io, insieme al collega, cercavo di trascinarlo verso il posto di polizia e lui si agitava come un indemoniato. Più gli gridavo di farla finita, più si dimenava. Sperando, probabilmente, di avere manforte da quelli della Sud. Finché, nell'ennesimo tentativo di liberarsi dalla mia presa, ha provato a colpirmi con una testata. Io ho alzato istintivamente il braccio destro per proteggermi ed è stato allora che M. ha urtato violentemente con il volto contro il casco che tenevo legato all'avambraccio. Così si è rotto i denti. – Mi vuole spiegare allora perché lei aveva il casco legato all'avambraccio? – Perché non esiste altro posto in cui metterlo. – Non esiste? – So che le sembrerà strano, perché sembra strano anche a me che faccio questo mestiere. Ma non esiste. Quando non lo si ha sulla testa, il casco può stare in due soli posti. Con la mentoniera a cavallo della fondina. O all'avambraccio. A cavallo della fondina lo si può mettere se si è fermi, in una condizione di quiete. Ma se ci si muove, l'avambraccio è l'unico posto. – E al cinturone? Non lo si può legare al cinturone? – No. Esiste un decreto ministeriale che lo vieta. – Un decreto ministeriale? – Un decreto ministeriale. – M. sostiene che, una volta al posto di polizia della tribuna Monte Mario, riuscì ad ascoltare un colloquio tra lei... – Cazzate. – Non siamo in caserma. – Mi scusi. Comunque è chiaro quello che voglio dire. – È chiaro. Lei vuole dire che quell'asserito colloquio tra lei e il suo superiore non è mai avvenuto. – Mai. Lo ha sostenuto anche il mio superiore. – Questo lo sappiamo. Vuole collocare, per favore, il punto esatto in cui M. ha perso gli incisivi nella colluttazione? – Nello spazio esterno che divide il settore dei Distinti sud dalla tribuna Monte Mario. – Da quel punto è visibile l'ingresso alla curva Sud? – No. 105

– Una volta al posto di polizia, cosa accadde? – M. fu fatto attendere nella cella di sicurezza sorvegliato dal collega. Io compilai la nota di servizio e chiamai la guardia medica perché visitasse il fermato. Dopo averne avuto il referto, diedi atto che nella colluttazione che aveva seguito il fermo, M. aveva riportato la frattura degli incisivi. – Perché non denunciaste M. per resistenza? – Perché né io né il collega avevamo avuto alcuna conseguenza fisica, e ritenni inopportuno sommare alla denuncia per il tentativo di scavalcamento una seconda accusa. – Grazie, può accomodarsi. Alzandosi dalla poltroncina dei testi rivolse lo sguardo verso il fondo dell'aula, incrociando quello di M. Come ogni udienza da cinque anni a quella parte, se ne stava seduto tra i suoi avvocati con l'espressività di una sfinge. La silhouette lunga e magra. I capelli corti, freschi di barbiere. L'abito, scuro. La camicia, bianca. La cravatta, di una seta scadente e di un color argento da cerimonia. Nel tempo aveva imparato a disprezzare ogni tratto del volto e del portamento di quel ragazzo, la mitezza che voleva comunicare. Perché vi leggeva un'ipocrisia che trovava rivoltante. Di cui soprattutto conosceva il fondo. Quarantamila euro, la cifra abbozzata per ritirare le sue accuse e chiudere il processo. Il giudice si era avvicinato al microfono. – Allora, se non abbiamo altri testi, dichiarerei chiuso il dibattimento e passerei alla discussione finale. Pubblico ministero... Il pubblico ministero era improvvisamente cambiato. Non più il magistrato che aveva seguito le ultime nove udienze, ma un ragazzo in toga che non aveva mai incrociato. Lo Sciatto non sapeva se dovesse esserne lieto o terrorizzato e avvicinò le labbra all'orecchio dell'avvocato. – Antonella, questo che ne sa del processo? Si sarà letto il fascicolo ieri sera, se va bene. Mi devo preoccupare? – Deve solo ascoltare. Il pubblico ministero si alzò in piedi e richiuse la cartellina di cartoncino rosa che aveva aperta dinanzi a sé, dopo averne estratto un foglietto manoscritto. Guardò l'orologio. – Signor giudice, è con qualche comprensibile imbarazzo che dopo un processo così lungo le rassegno le mie conclusioni. Il dibattimento ci consegna due versioni dei fatti inconciliabili. Quella della parte lesa, il M., e quella degli operanti di pubblica sicurezza, gli odierni imputati. Questo pubblico ministero sa bene che esiste una verità storica e una verità 106

processuale e che non necessariamente le due verità sempre coincidono. Ma questo pubblico ministero sa anche che in quest'aula è la verità processuale quella da cui è impossibile prescindere. Ebbene, questo pubblico ministero non può allora nascondere che, all'esito del dibattimento, resta impossibile individuare un solo teste in grado di dirci con esattezza cosa sia accaduto al di là dei muri divisori tra i Distinti sud e la tribuna Monte Mario dove, è pacifico, si è consumato l'evento lesivo. Il dato probatorio, da qualunque parte lo si voglia vedere, è e resta povero. Io ne sono imbarazzato, ma non per questo posso esimermi dall'individuare quale unico sbocco che questo giudice voglia assolvere gli odierni imputati dalle accuse loro ascritte ai sensi dell'articolo 530, secondo comma, per insufficienza e contraddittorietà della prova... E ora, se mi vuole scusare, io andrei, perché come sa ho impegni improrogabili. Mi sostituirà una collega. Osservò il magistrato liberarsi come un fulmine della toga, afferrare un trolley, stringere la mano al giudice. Quindi avvertì il suono delle rotelle della valigia alle sue spalle, proprio mentre l'avvocato di parte civile afferrava il microfono. Ma che cazzo stava succedendo? Un pm che chiede di assolvere in cinque minuti e scappa via. Cristo, era cinque anni che aspettava quel momento. Lo aspettava solo lui? – Signor giudice, mi vorrà perdonare se nell'esposizione della causa che mi onoro di patrocinare le mie parole le suoneranno ridondanti rispetto allo svolgimento di un processo che lei conosce meglio di me. Ma questa parte civile ha ascoltato con disappunto e sconcerto le conclusioni del pubblico ministero. Vede, in questo processo tutto abbiamo meno che contraddittorietà della prova. Abbiamo, al contrario, due luoghi comuni. Da una parte, i bravi poliziotti. Dall'altra, un ragazzo dipinto come un ultras. E invece, signor giudice, noi qui parliamo di un ragazzo di ventiquattro anni che, dopo aver perso precocemente il padre, manda avanti la famiglia e che, una domenica, perde gli incisivi per aver avuto il torto di andare ad assistere pacificamente a una partita di calcio... Lo Sciatto tornò a sussurrare all'orecchio dell'avvocato. – Ma sul serio crede a quello che dice? – Signor giudice, vogliamo davvero ritenere che il povero M., neanche fosse una giraffa, in un impeto di autolesionismo, abbia torto il collo fino al punto di impattare il casco dell'agente? Possiamo crederlo? Io penso che non possiamo. Io penso che possiamo al contrario credere a un dato oggettivo, inconfutabile. M. perde gli incisivi perché qualcuno glieli 107

spezza. E glieli spezza l'odierno imputato, sotto lo sguardo complice del collega, in una domenica in cui si sommano omissioni e prevaricazioni da parte degli appartenenti alle forze dell'ordine... – Antonella, non mi dire che ora attacca con la polizia violenta... – Personalmente, nutro grande rispetto per gli uomini in divisa. Dò atto del lavoro difficile che compiono. E il mio riconoscimento va anche agli odierni imputati, perché no? Tuttavia, lei oggi si trova di fronte un ragazzo che, proprio perché ha fiducia nelle istituzioni, nella polizia e nella giustizia, sa di poter avere la giustizia che merita... – E come no, Antonella... Sapessi quella domenica che fiducia che aveva nella polizia. E che belle parole che ha avuto per le istituzioni... – Le lesioni che M. ha ricevuto sono un banco di prova per avere fiducia in questa giustizia, per non rassegnarsi ad addormentarsi nel sonno della ragione! Non riusciva più a stare fermo nella poltroncina. L'avvocato gli strinse la gamba che aveva preso a ballare di un fremito incontrollabile. – Non voglio fare un processo alle forze dell'ordine. Ma devo una risposta a una semplice domanda: come ha fatto M. a lesionarsi da solo? In quest'aula si è parlato di scavalcamento delle transenne. Mentre nell'annotazione di servizio leggo il verbo «superare». C'è differenza tra scavalcare e superare. L'italiano è lingua precisa. I due verbi denotano attività diverse. Indicano la stessa differenza che esiste tra prevenire e reprimere. Vede, signor giudice, in quest'aula le difese hanno intentato un processo alla vittima. Ma la vittima non ha nulla di cui vergognarsi, perché dice la verità. Dice la verità quando sostiene che era normale per gli abbonati dei Distinti sud, come lui era, accedere dopo i cancelli al settore curva Sud. Perché in fondo il problema era semmai l'opposto. Che chi aveva pagato un biglietto più economico di curva non poteva accedere a un settore più caro. Ma non il contrario. Lo Sciatto non riusciva a tacere. Sussurrava all'avvocato per non gridare: – Ha preso lo stadio per un teatro. Ho pagato la platea, ma vado con gli amici in piccionaia. – Io vedo in quanto accaduto in quella domenica del 2002, l'affanno degli odierni imputati nel giustificare e coprire una storia che doveva rimanere chiusa nel segreto delle caserme. Come si fa a sostenere, come pure hanno incredibilmente sostenuto gli imputati, che M., dopo la lesione, non si contorceva nei lamenti, come ci ha drammaticamente ricordato in quest'aula, perché non si prova dolore alla rottura degli incisivi? Non so 108

lei, ma io soffro frequentemente di mal di denti, signor giudice, e so cosa significa. Come si fa a sostenere che quella rottura sia stata il gesto autolesionista di un uomo che si trasforma in giraffa? Come si fa a sostenere che M. mente per aver detto di non essere stato visitato al posto di polizia da un dottore, soltanto perché si scopre che è stato visitato da un signore con una giacca blu e una croce rossa sul petto? Che vuol dire avere una croce rossa sul petto? Che si è dottori, forse? Insomma, signor giudice, il punto è questo. Se escludiamo che la versione di M. sia attendibile, allora dobbiamo offrire un'altra eziologia alla rottura degli incisivi... – Eziologia? L'avvocato per la prima volta gli sorrise, dandogli del tu. – Gli risponderò. Stai tranquillo. – Si dice che M. avesse già scavalcato in passato. E allora? Una denuncia è forse una prova di colpevolezza? Una denuncia del 1998, non seguita da un processo, ha forse un valore? Io rispondo a queste allusioni, signor giudice, chiedendole di giudicare i due imputati al di là della divisa che indossano e di dichiararne la penale responsabilità per le accuse che gli sono ascritte. Signor giudice, nel congedarmi dalla sua squisita attenzione, mi sia infine concessa un'ultima parola. Oggi, avrei voluto parlare di diritto in quest'aula e lo avrei fatto se un pubblico ministero, cambiato all'ultimo momento e che non conosce questo processo, non avesse concluso come ha fatto. Grazie. Ora toccava ad Antonella Bruno Bossio. Mentre indossava la toga, tirando su gli sbuffi delle maniche per avere libertà di movimento sui fascicoli, per la prima volta in cinque anni gli apparve una donna animata da una forza tranquilla che lui, forse, non aveva mai avuto. E che ora ammirava. Parlava a bassa voce. Con parole e argomenti affilati. Era una donna che si rivolgeva a un'altra donna, schiacciata dagli sguardi di uomini incattiviti. – Signor giudice, proverò a far parlare i fatti. E soltanto quelli. Ma non la annoierò riassumendo quello che lei già conosce. Proverò ad argomentare seguendo la traccia della parte civile, che ho appena ascoltato. Senza giri di parole, signor giudice. Chi sono i due agenti imputati? Sono due carogne, giusto? Due indicibili e vigliacche carogne che senza un motivo afferrano un ragazzo in una tranquilla domenica di calcio e, al riparo di un paravento protettivo, gli spezzano i denti. Non parliamo dell'agente che colpisce, poi. Non è soltanto una carogna. Non è soltanto un vigliacco. È anche un folle. Un prepotente. Consuma la sua violenza su 109

M. e poi convince il collega a tenergli bordone in un odioso falso. Allo Sciatto cominciava a mancare il respiro. «Carogna». «Vigliacco». «Folle». «Prepotente». Forse anche l'avvocato si stava liberando. Forse stava ripetendo quello che doveva esserle passato per la testa la prima volta che si erano conosciuti. Quando, nell'anticamera del suo studio, aveva intravisto la rivista dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, realizzando all'improvviso di essere finito forse nel posto sbagliato. Quando aveva accettato di difenderlo con una timida stretta di mano e un «Vedremo che si può fare». Quando la verità di quella domenica era ancora quella depositata nel fascicolo del pubblico ministero dalla denuncia di M. – E allora, signor giudice, se i due imputati sono i figuri che ho appena descritto, qualcosa però non funziona. M. ha i denti rotti e le due carogne che fanno? Avrebbero modo di farlo a pezzi una seconda volta. Potrebbero scrivere nel loro verbale che gli incisivi se li è rotti prima di essere fermato alle transenne. Potrebbero scrivere di aver ricevuto lesioni durante la resistenza che gli è stata opposta. Lei lo sa, è sufficiente farsi refertare un mignolo dolorante. Oppure, potrebbero evitare di farlo soccorrere da una guardia medica, accompagnandolo magari all'esterno dello stadio rendendosi così per sempre non identificabili. E invece che cosa fanno le due carogne? Scrivono la verità. Non hanno paura di scrivere quel che è successo semplicemente perché è vero. Ora la ascoltava rapito. – Ho sentito parlare di diversità tra verità storica e verità processuale. Non c'è nessuna diversità, perché in quest'aula, la verità che è stata ricostruita è una sola. Quella annotata nella relazione di servizio dei due agenti. Si obietta: già, e i due incisivi spezzati? Non sono forse un dato obiettivo? Ho imparato studiando Diritto che dire che un fatto è accaduto non è sufficiente ad attribuirne la responsabilità a chi è accusato di esserne l'autore. E M., oggi, questo ha in mano. Solo quello che ci ha raccontato. I suoi testimoni lo hanno abbandonato. Sono inattendibili per non dire menzogneri. E peraltro non sono gli unici a dissimulare il vero. Perché anche M. mente, signor giudice. Ci racconta di una tranquilla domenica di calcio. Bene. Le leggo i dati del dispositivo del servizio predisposto dalla questura di Roma quella domenica: seicentotrenta uomini in assetto antisommossa, venti unità cinofile, due unità di artificieri. Già, una tranquilla domenica di pallone. Ora lo Sciatto stringeva i pugni sotto la poltroncina. «Brava, cazzo. Bravissima». 110

– Vede, signor giudice, io capisco M. Lui quella domenica pensa di poter fare quello che vuole. È un tifoso, e lo stadio, non solo per lui, ma per molti come lui, è territorio extra legem. Lui non si rende neppure conto che scavalcare da un settore a un altro viola una legge dello Stato che, peraltro, in quel gennaio del 2002 era stata appena approvata proprio per garantire maggiore sicurezza all'interno degli stadi. Per M. quella legge non esiste. E quando due agenti lo fermano, come prevede la legge, per denunciarlo a piede libero, dà in escandescenze, si sente vittima di un abuso. Si ribella. Ma come? Ho pagato per i distinti e non posso fare come mi pare e piace? Ordine pubblico? E che cosa è l'ordine pubblico? E costruisce su questo incipit tutta la sua storia. Una storia da garage Olimpo, da G8 di Genova, che non è mai esistita. Il divanetto nel posto di polizia. Lui, denudato e picchiato. Dove sono i lividi? Quando M. si fa refertare per ben tre volte nelle quarantotto ore successive ai fatti non viene riscontrata una sola ecchimosi in nessuna parte del corpo. Neppure sul volto, dove, a suo dire, si sarebbero accanite le due carogne in divisa. E si badi bene, non è la polizia che lo visita, ma il posto di pronto soccorso di un pubblico ospedale. Anche quei medici fanno parte del complotto? Signor giudice, mi creda, qui nessuno ha voluto processare la vittima. Qui si è cercato soltanto di dimostrare che M. non ha raccontato il vero. E lo abbiamo dimostrato. Qui si è cercato soltanto di dimostrare che gli agenti sono innocenti. Che quella domenica non ci fu nessun abuso, nessun massacro delle garanzie. Non ci fu dolo, né colpevole negligenza. Lo abbiamo dimostrato e, dunque, esiste una sola conclusione. Gli imputati vanno assolti con formula piena da entrambi i capi di imputazione. Lo Sciatto aveva le mani gelate, ma era fradicio di sudore. Avrebbe voluto abbracciare Antonella Bruno Bossio, girarsi verso M. e gridargli se aveva ascoltato bene. Eppure non riusciva a muovere un muscolo. Non era ancora finita. Si era alzato l'avvocato di A. – Signor giudice, non le riproporrò le ragioni che ha appena ascoltato dalla mia eccellente collega... Ora, ascoltare era diventato uno sforzo insostenibile. Era come se si fosse esaurito lo spazio emotivo per afferrare le parole che avevano ripreso a frullargli intorno. – Vorrei solo osservare che a cinque anni dall'inizio di questa vicenda, siamo tornati al punto di partenza. Questo procedimento era stato archiviato da un pubblico ministero che, saggiamente, non ne aveva visto sbocchi processuali. Il motivo per cui siamo arrivati sin qui è che, 111

all'improvviso, appaiono due testimoni capaci, si dice, di dimostrare che tra M. e i due agenti, il primo dice il vero e gli ultimi due dicono il falso. Bene, quei due testimoni cadono. E nel cadere trascinano nella polvere M., svelando quanto artefatta sia la ricostruzione degli eventi che propone. Signor giudice, in questo processo, la parte lesa oggi deve prendere atto di un deserto probatorio... La testa si era messa a viaggiare. Davvero non sentiva più. Un vortice di immagini – Genova, gli ultras, Claudia – si stava mangiando gli ultimi istanti che separavano dalla camera di consiglio. L'avvocato stava concludendo. – Per questo, signor giudice, chiedo che voglia dichiarare la non colpevolezza degli agenti, assolvendoli con formula ampia. E, solo in via subordinata, ai sensi del 530 capoverso, per insufficienza e contraddittorietà della prova. Grazie. Il rumore delle sedie trascinate sulla pedana dello scranno del tribunale lo avevano fatto trasalire. Il giudice era in piedi e con lei la cancelliera. – Dichiaro chiusa la discussione e mi ritiro in camera di consiglio. Mi raccomando, vi chiedo di non allontanarvi. Sarete chiamati. – Vuoi un caffè? La richiesta del suo avvocato aveva ricordato allo Sciatto il crampo che gli stringeva lo stomaco. Scosse la testa. A. si era attaccato al cellulare. Lui si assicurò che i suoi fossero spenti. Ne aveva due e staccò a entrambi persino la batteria. Quanto tempo passò non lo avrebbe saputo dire. Dieci minuti. Mezz'ora. Sapeva solo che il cartello che campeggiava sul fondo dell'aula gli era apparso sempre più grande, come in un'allucinazione alcolica. «La legge è uguale per tutti». La legge è uguale per tutti. Aspettava il suono di un campanello. Perché era così che si annunciava la fine, giusto? Ma non ci fu nessun campanello. La porta della camera di consiglio che dava sul retro dell'aula si aprì di scatto e il giudice ne uscì con passo svelto, riportandosi al centro dello scranno. Sollevò lo sguardo. – Ci siamo tutti? Mancava il pubblico ministero. Il sostituto del sostituto. Si girò alle sue spalle. Dove cazzo è? Dov'è finito? Finché la porta di ingresso si aprì e il magistrato non entrò a passo lento stringendo tra il pollice e l'indice un bicchiere di plastica fumante di cappuccino. Il giudice si schiarì la voce. – In nome del popolo italiano, visti gli articoli di legge, questo giudice 112

assolve gli imputati dal reato di lesioni gravissime perché il fatto non costituisce reato, e dal reato di falso ideologico perché il fatto non sussiste. Lo Sciatto si lasciò andare sulla poltroncina. E pianse.

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13. La notte di Roma

Quanto tempo ci aveva messo quel ragazzo di ventotto anni a passare dalla luce al buio eterno? Meno di un secondo? Tra uno e due secondi? La Beretta 92sb parabellum di ordinanza porta la morte a una velocità di trecentocinquanta metri al secondo. Dunque, il proiettile calibro 9 che aveva spaccato la giugulare di Gabriele Sandri quanto poteva aver impiegato ad attraversare la carreggiata dell'A1? Che diavolo era passato per la testa dell'agente della polizia stradale di Arezzo Luigi Spaccarotella? Che cosa aveva visto dalla piazzola di sosta dell'autogrill Badia al Pino? Cosa credeva di fare? Aveva sparato ad altezza d'uomo da un ciglio all'altro dell'autostrada per interrompere la corsa di una Renault e spegnere i fuochi di una rissa a colpi di cinghia tra tifosi laziali e juventini in trasferta verso stadi diversi. Il grido che intima l'alt. L'arma che «brandeggia». Il colpo che parte «accidentalmente» e fa esplodere i finestrini della Renault prima della gola di Gabriele. Fanculo i distinguo. Fanculo le giustificazioni. Quell'agente aveva commesso un omicidio. Questo aveva fatto. Aveva ammazzato un ragazzo con la sciarpa della Lazio al collo. Gabriele. Gabriele il Dj. Vampiro aveva saputo subito. Alle 11 del mattino di domenica 11 novembre. Gli aveva telefonato Maurizio. Er Fusaja. Come chiamano i lupini gialli a mollo nei secchi di salamoia che allo stadio vendono ancora nei cartoccetti di carta assorbente. – Alessandro, so' er Fusaja. È morto Gabriele il Dj. L'hanno ammazzato, Vampi'. Una guardia gli ha sparato in gola. – Ma che cazzo stai a di'? Ma dove? – Nun lo so bene, Vampi'. A un autogrill. È successo un quarto d'ora fa. Dieci minuti fa. Dice che stavano a litiga'. Ma nun so co' chi. Erano pochi. Dieci, 'na cosa così. Un poliziotto dall'altra parte dell'autogrill ha tirato fuori la pistola e gli ha sparato. Mo' vedemo er modo de scende' giù a Roma... – A te chi cazzo te l'ha dette, 'ste cose? – Hanno sentito er Messicano che stava a piagne'. Er Messicano stava in macchina co' Gabriele. Ce l'aveva in braccio, ce l'aveva... Se ce sta qualche novità famme sape', 'a Vampi'. Aveva cominciato a piovere e si era fatto vivo Yoghi. 114

– 'A Vampi', calcola che io sto a fa' la mattina al lavoro. Ma calcola pure che ho mannato via un cliente, perché ho sentito che hanno ammazzato un laziale. 'A Vampi', me so' impazzito, me so'. So' subito annato a accenne' er televisore e a aumenta' er volume. Me so' detto: famme un po' senti'... – Yoghi, gli hanno sparato in testa. Se so' appiccicati co' quattro juventini e 'na guardia gli ha sparato. – 'A Vampi', vojo brucia' tutto. Tutto vojo brucia'. – Vabbe', se sentimo più tardi. Il sangue dell'autostrada cambiava tutto. Altro che romeni. Per quelli ci sarebbe stato tempo. Il culo glielo avrebbero fatto strippare, certo. Ma subito. Senza aspettare un minuto di più. Ci avevano pensato le guardie ad accendere la miccia. E loro avrebbero fatto saltare tutto. Insieme, per una volta. Laziali e romanisti. Dove cazzo era, piuttosto, Marzapane? Lui doveva portare la gente della curva Sud. I migliori della Sud. I Bisl. «Basta infami solo lame». Per fortuna, era un tipo che capiva al volo. – A Fabri', so' Vampiro. Lo sai, no, del Dj? Allora? – Allora, se è per stasera me devi solo fa' sape' immediatamente. Solo questo, va bene? – Sì. – Hai capito bene? – Sì, ho capito. – Me basta pure che me fai solo uno squillo. E io capisco. La domenica di campionato se ne stava andando a puttane. Quelli della Lega calcio avevano deciso di far giocare la serie A. Tutta, o quasi. Tranne che a Parma, dove era attesa la Juve, e a Milano, dove l'Inter avrebbe dovuto affrontare la Lazio e dove Gabriele non era mai arrivato. Ma i bergamaschi avevano cominciato a devastare lo stadio e anche AtalantaMilan era stata sospesa. Il posticipo della sera sarebbe stato RomaCagliari. Un'occasione magnifica. Avevano otto ore per trasformarla in un inferno. Vampiro aveva un solo casino da sbrigare. Gli era morta la nonna nella notte. Chi glielo diceva, ora, a casa, che lui aveva da fare? D'altra parte, la giostra dell'odio girava a pieno regime. Nessuno poteva più fermarla e lui non aveva nessuna intenzione di scendere. Alle tre del pomeriggio, si era attaccato di nuovo al telefono. Aveva parlato con Alessio, con Sandro, con Gianluca e non aveva dovuto convincere nessuno. Perché non devi convincere chi è più avvelenato di te. 115

Come Gianluca. – 'A Vampi', che cazzo famo mo'? O ammazzi 'na guardia o sennò che cazzo famo? – Famo che se vedemo stasera allo stadio. Forse non hai capito, Gianlu'. Ho già chiamato er Cinese, Zazà e anche er Capitano. Se dovemo risenti' alle cinque de oggi pomeriggio... – Annamoce ora allo stadio. – Che ce vai a fa'? So' le tre de pomeriggio. Stasera se va. Se vedemo alle sei e mezzo. I romanisti già sanno. So' annati a parla' co' Valterino dei Fedayn. A me me serve che ce sia gente, stasera. Chiama chi puoi. Gente grossa. – E dove se vedemo, a piazza Vescovio? – A piazza Vescovio. Anche Marzapane era andato dritto come un treno. Per questo piaceva così tanto a Vampiro. E 'sti cazzi che era un romanista. Quella domenica contava forse qualcosa? Marzapane aveva chiamato il Capitano. E non c'era stato bisogno di spiegarsi. La batteria di Tor Bella Monaca sarebbe scesa in battaglia con gli altri. – Noi stiamo tutti insieme. Siamo una cinquantina e stamo già verso piazza Vescovio. Aveva chiamato Danielone per spiegargli di convergere con i suoi prima in piazza Euclide, il cuore del quartiere Parioli dove ci sarebbe stata una fiaccolata per Gabriele, e da lì di puntare sull'Olimpico. Aveva chiamato Fabrizietto, che non stava nella pelle. – 'A Marzapa', te dico solo che se sta a schiera' anche er Guerriero. Belle cose, Marzapa'. Una quarantina, coi caschi. Stasera te metti paura. Non mancava proprio nessuno. Tantomeno quel matto di Pierluigi Mattei, uno dei capi di «In basso a destra», ultima costola dell'orgoglio nero della curva Nord. Un tipo così gonfio di veleno da farsela addosso anche soltanto a sentirlo parlare. Lui, della morte di Gabriele aveva discusso con Metallica, che quella mattina era salito ad Arezzo per vedere con i suoi occhi. – 'A Metallica, ho sentito 'sti giornalisti de merda. Non s'azzardassero a di' mezza parola sbajata su Gabriele che a 'ste merde l'annamo a pija' sotto le redazioni. Stanno a di' che nun se pò critica' er gesto der poliziotto, 'ste merde. Che nun lo sanno che le pistole d'ordinanza so' armi da guerra? So' cannoni. Gridava, Pierluigi. Gridava sempre. Era tutto il giorno che gridava. 116

Anche con la madre. La donna aveva provato a dirgli di starsene a casa. Gli aveva telefonato alle sei del pomeriggio, quando lui già vedeva l'Olimpico e annusava il profumo della mattanza. – Ti prego, non fare casino. – Ma che devo fa'? Eh, che devo fa'? 'A ma', lassame perde'. Sarebbe da sparaje in faccia alle guardie. Lo sai come la penso, no? Che te credi, che nun m'andrebbe de ammazzalla 'na guardia, a me? Che devo fa'? – Guarda che in televisione dicono che forse Roma-Cagliari non si gioca. – E allora? Hanno paura degli scontri, 'sti conigli. Mo' hanno paura. E già, devono ave' paura. – Ce l'hai coi romanisti? – Ma che romanisti. Ce l'ho co' le guardie, 'a ma'. – Fammi stare tranquilla. – E allora sta' tranquilla, ma'. Sta' bona. Michelangelo Fournier tranquillo non lo era affatto. Quella domenica era rientrato a casa di corsa, avvertito da un Sms. Sarà stato neanche mezzogiorno. Tra sbirri funziona così. È una rete invisibile e reattiva fino al parossismo. Se uno sbirro finisce nella merda, sia il tavolo di marmo di un obitorio, la corsia di un reparto di rianimazione o una cella di sicurezza, la comunità degli sbirri lo saprà in un baleno e in un baleno mobiliterà i suoi occhi e le sue orecchie. Di questo Spaccarotella nessuno sembrava sapere nulla. Anche se la stradale era un mondo a parte. La nobiltà della polizia di Stato. Fournier conosceva troppo bene Roma e troppo bene i romanisti e i laziali per non sapere che cosa si agitava nella pancia della città. E come gli accadeva ogni volta che l'ansia lo aggrediva allo stomaco, si era sbattuto sul divano e aveva accesso la Tv senza rivolgere monosillabo né alla moglie né alla figlia. Il silenzio era durato per un po'. Riempito da uno zapping forsennato e ossessivo di voci e informazioni monche dall'autogrill di Badia al Pino. Al Viminale sembrava essersi evaporato chiunque. E nell'ascoltare al Tg il portavoce del dipartimento di Pubblica sicurezza, Fournier era ripiombato nell'incubo di Genova, come avvertisse la conferma del peggio che già era accaduto e del peggio che ancora doveva accadere. Sua moglie gli si era avvicinata posandogli una mano sulla spalla. – Michelangelo... – Non dire nulla. 117

– Tu sei di servizio stasera, giusto? – Sì. Si sono ricordati di me. Devono aver pensato che una partita del cazzo come Roma-Cagliari era perfetta per un giovane pensionato come il sottoscritto. E invece guarda che razza di inferno. – Pensi che... – Io penso quello che sai perfettamente anche tu. Che stasera ci sarà la guerra. – Magari invece non si gioca... – E allora? Pensi gliene freghi un cazzo a quelli che ci aspettano se si gioca o meno? Pensi che qua fuori, qui, a piazza Vescovio, si stiano chiedendo se si gioca o pensi che stiano rimediando la roba per farci a pezzi, eh? Perché ti è chiaro, vero, che è noi che vogliono. Vogliono le guardie. Il calcio non c'entra. Questa è la chiamata dell'odio. Piuttosto, la mia roba dov'è? Di là nel ripostiglio? Nonostante fosse domenica, Drago si era tirato giù dal letto di soprassalto. E a giudicare dalla luce, non dovevano essere neanche le otto. Si era infilato sotto la doccia armeggiando con il termoregolatore, costringendosi a un bagno scozzese che gli aveva soltanto ricordato la ragione di quella inquietudine. Aveva passato il sabato ad aspettare la telefonata di suo figlio. Che non era arrivata. Sapeva di avere il turno 1723. Glielo aveva comunicato il giorno prima il furiere, con una punta di sarcasmo. – Sei di Olimpico, Drago. Posticipo Roma-Cagliari, va bene? I sardi sono simpatici, no? Alle cinque del pomeriggio mancava un'eternità, e la verità era che quelle domeniche mattina gli erano insopportabili. Di domenica i padri stanno con i figli. Non ammazzano il tempo da soli, in una casa piena di oggetti e vuota di voci, prima di farsi mandare affanculo la sera da un branco di stronzi. Si era infilato la tuta da Op in gran fretta e aveva deciso di raggiungere la caserma con largo anticipo. Odiava dirselo, ma almeno lì non sarebbe stato condannato a starsene da solo con se stesso. Lungo la strada per la Portuense si era fermato nella cappella di quella piccola chiesa in cui, non sapeva bene se per fede o per scaramanzia si andava a inginocchiare da anni prima di ogni partita all'Olimpico. Aveva recitato un Padre nostro tra i banchi deserti della navata, sotto lo sguardo compiaciuto di una vecchia beghina che gli aveva sorriso con un cenno del capo. Era stato allora che si era sorpreso a parlare con Gesù Cristo con un tono così alto che lo avrebbero potuto sentire dal sagrato. 118

– Signore, cosa ho fatto di male per non vedere mio figlio? Non sono un buon padre? Non mi comporto da buon cristiano? Ho la mano pesante, ma non ho mai fatto male a una persona che non lo meritasse. Si era fatto un segno della croce furtivo mentre la beghina continuava a sorridere seguendolo con lo sguardo, e aveva raggiunto la Stefano Gelsomini che non erano ancora le dieci del mattino. Perché, in fondo, era quella casa sua. La notizia era arrivata con uno strillo in sala mensa. Una voce strozzata, quasi irreale. – Uno dei nostri ha ammazzato un laziale. Insieme a una trentina di colleghi si era rovesciato nello squallido salottino televisivo che occupava il cuore dello spaccio. Le immagini di Badia al Pino scorrevano su tutti i canali. In un angolo del maxischermo, il volto sorridente di Gabriele Sandri vivo. Al centro, l'asfalto dell'A1, la Renault Mégane rimorchiata nel cortile della questura di Arezzo, avvolta dal cellophane della scientifica come un sudario. Nessuno aveva avuto la forza di pronunciare una parola. Che non fosse il sussurro di una bestemmia ricacciata in gola insieme alla rabbia. Finché non si era deciso lui a dire qualcosa. – Stasera, all'Olimpico, doppia dose di veleno. Ci faranno pagare tutto. Il collega che gli era accanto lo aveva afferrato per un braccio. Era arrivato al nucleo da qualche settimana. – Tutto cosa? – Tutto quello che non funziona in questo paese. Tutto l'odio di questa città. Non immagini nemmeno da quanto tempo aspettano una giornata come questa. Se ti dico da sempre, credo di non sbagliare. A mangiare non ci era tornato nessuno. Il bancone dello spaccio si era riempito di caffè e il fumo delle sigarette si era fatto spesso come nebbia. I cellulari si erano messi a suonare impazziti. Drago aveva attraversato il cortile diretto verso l'armeria. Alle cinque del pomeriggio mancavano ancora molte ore, ma era come se di tempo non ne fosse rimasto abbastanza. Conosceva perfettamente quella sensazione. Dell'ebbrezza da adrenalina riconosceva i sintomi. Le voci si facevano più alte nei toni. I rumori, più nitidi. Il pensiero, più lesto. Il corpo si induriva. Finché non aveva incrociato il volto di Fournier. – Comandante, mi dica che c'è anche lei stasera. Mi dica che è vero. – Devono essersi sbagliati, ma è così. Ci sono anch'io. – E allora, il suo autista sarà il sottoscritto. 119

– Scordatelo. – Perché? Se le succede qualcosa, chi la protegge? – Non mi servi a nulla se mi stai appiccicato al culo. Stasera mi serve gente con le palle dove farà caldo. Perché hai capito in che casino ci infiliamo stasera, vero? Fournier aveva lo sguardo serio. E anche quello di Drago lo conosceva bene. Gli ricordava altri pomeriggi, altre notti maledette. Si era messo istintivamente a contare gli uomini che cominciavano a uscire con il materiale dall'armeria. Ottanta. Ne contava soltanto ottanta. I mezzi erano usciti dall'immensa rimessa sul lato sud della caserma in uno scatarrare di motori diesel, svicolando tra blindo e jeep antisommossa, come animali meccanici pronti a inghiottire nelle loro pance gli uomini destinati alla battaglia. Gli autisti avevano formato la colonna con il muso dei Ducato rivolto verso la porta carraia. E la vista di quello spettacolo, come sempre, gli suggeriva qualcosa di antico. L'imbarco di una legione, in un intrupparsi di scudi, elmi, borse cariche di proiettili. Cominciava a fare buio. La città era di nuovo lucida di pioggia. Non sapevano ancora se quella maledetta partita si sarebbe giocata o meno. Vampiro aveva sentito Alessio intorno alle sei del pomeriggio. Era tutto pronto. Sulla riva destra del Tevere, lo stadio Olimpico, come una magnifica preda, si era già acceso dei suoi riflettori. L'armata dell'odio, silenziosa, si raccoglieva sulla riva opposta, tra piazza Euclide e piazza Vescovio. Tra il cuore nero dei Parioli e il cuore nero del quartiere Salario. In mezzo, il fiume sembrava una lingua di pece. – Ahò, so' io, so' Vampiro. Senti un po' 'na cosa. So che stanno a decide' se sospende' o meno la partita. Voi ve siete già mossi? – Sì. E avemo le stampelle. Perciò famme sape'. Voi 'ndo' state? – Stamo pe' parti'. Poi era toccato a Tommaso e ai suoi. – Allora? – Allora semo pronti, tocca solo comincia' a gioca'. Anche Alessio sapeva quello che doveva fare. Gli mancava solo un pezzo. I romanisti. – 'A Vampi', sai gnente de quello che devono fa' i romanisti? – Tranquillo. I romanisti se uniscono a noi alle sette a Ponte Milvio. Lungo due direttrici, come le braccia di una tenaglia, la vendetta si stava chiudendo sullo stadio. Ora bisognava solo aspettare che in quel budello si infilassero le guardie. 120

Dai vetri appannati dei Ducato, Roma, nelle sue luci fradice di pioggia, sembrava svuotata da un coprifuoco non dichiarato, eppure ovvio in quella domenica da cani. Drago aveva fissato in silenzio la Portuense sfilare via veloce, quindi le tre corsie del raccordo inspiegabilmente vuote per una sera di calcio, finché, lungo i viali alberati del quartiere Delle Vittorie che annunciavano lo stadio, la radio che qualcuno aveva sintonizzato su un Gr aveva cominciato a gracchiare che forse davvero Roma-Cagliari non si sarebbe giocata. Drago aveva allungato una pacca sulle ginocchia serrate di un collega con la faccia da bambino. – Ti sei mai trovato in una guerriglia urbana, ragazzo? – No, marescia'. – Non mi chiamare maresciallo. Sono Drago. E poi che mi dài del lei? Cazzo, ti sembro una donna? Stai tranquillo e stai sempre vicino agli anziani. E vedrai che riporti a casa il culo tutto intero. La colonna dei mezzi aveva superato le carraie dell'Olimpico ed era arrivata al posto di polizia sotto la tribuna Monte Mario. Fournier ne era entrato e uscito in pochi minuti con la lista per il dispiegamento delle squadre. Aveva radunato gli uomini e, come al solito, era stato di poche parole. – Allora, ragazzi, le notizie sono due. La prima è che Roma-Cagliari non si gioca. La seconda è che da questo momento, dunque, siamo noi e loro. E loro significa laziali e romanisti insieme. Ci aspettano. Anzi, ci cercano. Occhi aperti. Prendete le posizioni che vi sono state assegnate e ascoltate sempre le radio. Fate quello che vi viene detto. Non vi inventate nulla. Mi sono spiegato? Quello che vi viene detto. Fournier era rientrato a piedi nel sottopasso della Monte Mario e aveva salito lentamente le scale che rimontavano la bocca di accesso alle tribune. Si era affacciato sul catino illuminato a giorno, lasciandosi accarezzare dall'odore intenso del prato dell'Olimpico e dal senso soverchiante di vuoto che trasmettevano quegli ottantamila seggiolini azzurri orfani del tanfo e del rumore di una domenica di calcio. Non ci aveva mai pensato che un posto così potesse essere anche un luogo di silenzi. E che, prigioniero di quel castello assediato, i rumori della battaglia in arrivo potessero distinguersi così nitidi. Un vociare collettivo e gutturale, interrotto da grida belluine, ritmate come tamburi e sempre più vicine. – Assassini... Assassini... Assassini. Lo squarcio assordante di una serie di bombe carta lo fece voltare d'istinto verso la curva Sud. L'eco arrivava da lì. Le avanguardie 121

dell'armata dell'odio dovevano aver raggiunto i viali di ingresso allo stadio che si aprono sui giardini di piazza Maresciallo Diaz e superato la linea invisibile della zona di rispetto che divide la quiete dalla furia. Per un attimo pensò al nome di quello slargo intitolato alla Grande guerra, all'eroe del Piave, e alle oscene coincidenze della toponomastica. Guardò l'orologio. Le 18 e 15 minuti. Avevano attaccato all'improvviso. Almeno in duecento. Ed erano romanisti. I Bisl. «Basta infami solo lame». I peggiori. Nel novembre del 2003, quando avevano fatto trovare il primo volantino in curva Sud, qualcuno aveva pensato che l'ultimo fungo velenoso nato dalla polverizzazione della curva avrebbe avuto la vita di una spora. E invece era diventata una pianta carnivora che si era mangiata centinaia di ragazzi. Quel manifesto era stato ed era diventato una delle tavole dell'odio. Seppur formato da tifosi romanisti, teniamo a precisare che non vogliamo essere identificati come un gruppo, ma come una linea di pensiero adottabile da chiunque non si trovi d'accordo con chi vuole stravolgere delle regole antiche come il mondo. Ci riferiamo a quel «Progetto ultras» che sicuramente è un buon progetto a livello economico – per chi lo porta avanti, visto che riceve finanziamenti dalla regione – ma che di ultras ha ben poco. I promotori dimostrano di non conoscere le basi del mestiere andando contro il calcio moderno, quando a nostro avviso di moderno ci sono solo loro con le riunioni dove bergamaschi e bresciani siedono allo stesso tavolo dichiarando guerra alle lame. Bene, noi vorremmo ricordare a questi «sportivi» che fare l'ultras è un reato, pertanto si deve rispettare un determinato codice che parte dalla strada; di conseguenza la parola infame non si dice a sproposito visto che non sono le lame il problema dell'ultras, ma i progetti che tanto piacciono a Marinelli. Quindi il progetto di Balestri nasce in questura, luogo in cui l'ultras vero entra solo se arrestato. Lo stesso vale per tutti coloro che credono che l'ultras debba avere un progetto, un negozio, una radio, e una mano da stringere all'ispettore Digos di turno. L'ultras nasce e muore clandestino, soprattutto non tradisce i suoi amici perché il nemico numero uno resta chi lo vuole eliminare. Per il resto (scontri) non esistono regole. Non diremo mai il significato di B. I. S. L. anche se intuibile. Questa spiegazione è doverosa ma non ne seguiranno altre. Onore ai detenuti, ai diffidati, morte alle spie! B. I. S. L.

Le squadre del reparto che dovevano tenere piazza Maresciallo Giardino 122

li avevano visti venire avanti nel buio con la velocità e la furia di un fulmine. Muoversi con la precisione bellica di una macchina dagli automatismi perfetti, affinati nel tempo alla scuola della strada. Prima le bombe carta, per stordire il nemico. Quindi, due file di frombolieri armati di cubetti di porfido, calcinacci, bottiglie. Un primo e un secondo lancio, per poi aprirsi a ventaglio e lasciare che il lavoro venisse completato dalla fanteria. Caschi da motociclista, spranghe, bastoni. E lame, naturalmente. Il dirigente che guidava la resistenza era crollato sull'asfalto tra i primi, sanguinando come una fontana. Le cariche di alleggerimento avevano avuto l'effetto di un pugno sferrato alla testa di una medusa. Gli uomini penetravano in profondità nello schieramento nemico solo per esserne inglobati, urticati. Le grida dei feriti erano coperte dallo schianto delle mazze sugli scudi, sulle macchine e i motorini in sosta. Una pioggia di fumogeni fucsia si era abbattuta sui parabrezza dei Ducato, per sollecitarne la fuga. Nel piazzale della tribuna Monte Mario, Michelangelo Fournier ascoltava alla radio le comunicazioni disturbate di quel primo contatto. La richiesta disperata di istruzioni dai reparti. L'invito a disingaggiare. A ritirarsi. Perché questo era stato deciso al Viminale. Gli uomini accanto a lui tacevano con occhi di odio. Qualcuno aveva preso a gridare. – Non possiamo lasciarli macellare così! Che cazzo ci facciamo qui dentro, chiusi come topi? Tiriamoli via da lì! A piazza Euclide, nel cellulare di Vampiro, la voce di Alessio era quella di un'eccitata avanguardia. – Ahò, 'a Vampiro, vie' subito allo stadio. Portali tutti qui. Sbrìgate. Stamo a fa' 'i scontri. Sbrìgate. Sbrìgate. Semo tutti qua. Della Nord, della Sud. Semo tutti. Le notizie che arrivavano da piazza Maresciallo Diaz confermavano che tutto procedeva a meraviglia. Il braccio meridionale della tenaglia che doveva chiudersi sull'Olimpico aveva superato di slancio la prima resistenza dei reparti celere. Le guardie battevano in ritirata, e ora l'intero tratto di lungotevere fino a ponte Duca d'Aosta diventava una terra di nessuno lungo cui attestare la linea avanzata dell'assedio e saldare ai romanisti arrivati da sud le centinaia di laziali che – da nord, da piazza Vescovio e piazza Euclide – avevano raggiunto il Tevere all'altezza di piazza Mancini, per poi superarlo di slancio. Vampiro ne era compiaciuto. E, del resto, le istruzioni di Alessio erano quelle di chi era nel pieno controllo della mischia. 123

– Vieni co' i tuoi a piazza Mancini. Lì ce sta er gruppone tutto nero. Sta a veni' lì. Noi li stamo a segui' coi ragazzi. I laziali, almeno quattrocento, si erano avventati su piazza Mancini con un ordine di battaglia preciso. Ripulire dalle guardie la riva sinistra del fiume. Se necessario, andandosele a cercare. Una vera caccia all'uomo. Resa formidabile dal buio. Alle 18.40, investiti dallo spostamento d'aria di due bombe carta, avevano tremato i portoni e le finestre del posto di polizia Porta del popolo, in via Ferdinando Fuga. I due agenti all'interno avevano avuto solo il tempo di barricarsi e osservare lo spettacolo di un'orda di ombre armate di spranga rovesciarsi a ondate successive su qualsiasi cosa potesse essere distrutta dalla mano dell'uomo. Un pullman della polizia, parcheggiato lungo il marciapiede, era stato acceso come una torcia e i bagliori delle fiamme avevano preso a illuminare il tappeto di vetri dei parabrezza delle auto in sosta, fatti esplodere sistematicamente come palloncini. Alcuni motorini erano stati rovesciati su un fianco e la miscela incendiata del fuoco necessario ad accendere improvvisate molotov. Un cartello stradale, divelto dall'asfalto, aveva preso a roteare come un ariete, frangendosi e rinculando sul portone d'ingresso del posto di polizia. Poi era successo qualcosa. Come rispondendo a un richiamo improvviso, l'orda aveva mollato l'assedio e in un coro di grida belluine si era infilata nel reticolo di strade che sbuca sui viali alberati di via Guido Reni. Sotto la tribuna Monte Mario, aggrappato alla radio di servizio, Fournier aveva sbarrato gli occhi. – Via Guido Reni. La caserma delle volanti. Non è possibile... Non può essere vero. Si era voltato d'istinto verso il primo uomo che gli era accanto. E aveva finalmente detto ad alta voce quello che sapevano tutti. – Il morto. Vogliono altro sangue. Chi era il pazzo che pensava di poter dare l'assalto alla Maurizio Giglio di via Guido Reni? Lo sapevano quegli animali a cosa andavano incontro? Qualcuno di loro sapeva che la legge imponeva di difendere quel fortino e la sua santabarbara di armi, munizioni, automezzi, se necessario sparando sugli aggressori? Da almeno quaranta minuti, Drago avvertiva gli echi della battaglia sempre più vicini. La sua squadra era stata disposta a nord dello stadio, tra i viali di pini che separano il catino dal parallelepipedo di marmo bianco e i parcheggi deserti della Farnesina. Il racconto sincopato delle radio di 124

servizio indicava nel suo quadrante il prossimo naturale punto di contatto. Piazza Maresciallo Diaz, ponte Duca d'Aosta, piazza Mancini. Per chiudere l'accerchiamento, ponte Milvio e la Farnesina erano decisivi. Se i suoi calcoli erano esatti, li avrebbero avuti addosso molto presto. Gli uomini erano sprofondati in un silenzio di pietra. Drago si strinse la mentoniera del casco, rivolgendosi ai due ragazzi più giovani della squadra. – Allora, giovanotti. Ci siamo. Tra poco tocca a noi. Statemi attaccati al culo. Perché al primo che scappa, appena rientriamo in caserma, gli stacco la testa di persona –. Non era la prima volta che faceva quel numero, ma era la prima volta che nessuno abbozzava neanche un sorriso. Aveva incassato solo dei cenni del capo. Riprese a parlare. – Respirate, ragazzi. Respiri profondi. Non andate in apnea. Non ora, perché non è ancora successo niente. Se sentite crampi allo stomaco, respirate con il diaframma. E se non sapete dove cazzo è il diaframma, mettetevi una mano sotto lo sterno e fate in modo di sentire che quell'affare che ci sta sotto si alzi e si abbassi senza somigliare all'affanno del cane. Perché se non funziona quello, siete fatti. Un'ultima cosa. Non mi perdete. E per non perdermi guardate qui. Con il palmo aperto della mano aveva picchiato sulla base posteriore del casco, dove un adesivo con la bandiera imperiale del Giappone avrebbe dovuto ricordare a lui il senso di quell'ordalia e agli altri la direzione. Qualcuno farfugliò qualche monosillabo. Proprio mentre cominciavano a piovere i primi oggetti. Arrivavano dal buio, impossibili da indovinare nella loro traiettoria. Sassi, bottiglie. Prima a intervalli di quindici secondi, poi con la furia di un uragano. Drago aveva intravisto oltre i pini la linea di lancio e ordinato di alzare gli scudi. Il fracasso si era fatto infernale, e la prima linea a protezione della squadra cominciava a sbandare. Aveva afferrato per il cinturone uno dei due «ragazzini» che aveva con sé, strattonandolo. – Compatti. Dobbiamo essere e rimanere compatti. È chiaro? Il giellista aveva aperto il fuoco e le prime nuvole di lacrimogeni avevano avvolto i bersagli. Troppo lontani per essere caricati. Troppo vicini per non essere micidiali nei loro lanci. Soprattutto perché ora su di loro piovevano pezzi di asfalto. Un collega era crollato in terra tenendosi il volto pieno di sangue. Altri due, in borghese, si erano inginocchiati per vomitare. Finché, all'improvviso, la squadra non era stata investita da una pioggia 125

di schegge, che schegge non erano. Drago aveva avvertito una fitta lancinante alla schiena, poi la sensazione che il suo casco fosse stato centrato da almeno una decina di proiettili. Aveva abbassato lo sguardo sull'asfalto e si era chinato per raccogliere uno di quegli aggeggi. Chiodi. Lunghi chiodi da cantiere. Arrivavano a grande velocità. La spiegazione era una sola. Stavano tirando con le fionde. Ora, non sentiva più gli occhi. Il vento aveva cambiato improvvisamente direzione e il Cs dei lacrimogeni che avevano lanciato fino all'ultima granata li stava inghiottendo. Aveva infradiciato il foulard di ordinanza continuando a passarlo sulle palpebre, gridando agli altri di fare altrettanto. Scandendo a squarciagola parole che dovevano essere un ordine ma somigliavano a una supplica. – Roma, compatta. Non mollare, stringi, Roma. L'ordine di ripiegamento via radio era stato liberatorio. Nel Ducato che li portava all'interno dello stadio, Drago si era messo a contare gli uomini per scoprire che ne aveva già persi la metà. E quando ne era sceso aveva capito che in quell'ordine di ritirata non c'era nulla di occasionale, di momentaneo. Alcuni dirigenti discutevano animatamente con i capisquadra. Gli uomini sembravano stravolti, inferociti. – Perché non andiamo a riprenderci i nostri che sono lì fuori? Perché? Che cazzo aspettiamo? Drago si era afferrato la testa ciondoloni tra le mani continuando a bagnarla di acqua. Ora fissava il suo casco con la bandiera imperiale del Giappone coricato sull'asfalto e provava a scacciare i fantasmi di un'altra notte di sei anni prima che avevano preso a ballargli intorno. «Che cazzo c'entrano ora Genova e il G8?» si era detto provando ad allontanare quell'incubo. Ma purtroppo conosceva la risposta. In fondo, nulla era cambiato nel cinismo degli uomini. Forse, era lui a non essere più lo stesso. Come diceva Carletto? «O sei una spugna, o sei uno specchio. O sei incudine, o sei martello». Sei anni prima era stato martello. Quella notte era incudine. Perché quella notte lo Stato si era fatto incudine. Un grido che annunciava un ordine di intervento immediato lo aveva strappato al naufragio dei suoi pensieri. – Via Guido Reni! Hanno attaccato via Guido Reni! Era risalito sul Ducato spinto dalla sola forza dell'adrenalina. E con una 126

gran voglia di fare a pezzi chi avesse trovato di fronte a quella caserma. Non ne aveva mai visti tanti e tutti insieme. Non li aveva mai visti così. Ebbri di odio, come iene intorno a una carcassa con la divisa da poliziotto. Li avevano caricati una, due, tre volte, su un tappeto di sassi, sanpietrini, bottiglie. Li avevano inseguiti mentre si accanivano sulle macchine, mentre levavano il saluto fascista o il pugno al cielo, prima di tornare a stringere d'assedio la carraia della Giglio per strapparne le bandiere che ne annunciavano l'ingresso. Drago faceva roteare lo sfollagente, inseguito da grida lancinanti. – Merde! – Assassini! – Bastardi! Finché non era inciampato in due operatori televisivi. Li avevano conciati davvero male. Uno dei due schiumava dalla bocca una bava rossastra. Chiedeva aiuto. Drago si era fermato con alcuni dei suoi uomini, disponendoli a semicerchio per proteggerli. La reazione dei due era stata istintiva. Si erano accovacciati sull'asfalto in posizione fetale, proteggendosi la nuca con entrambe le braccia. Aveva aiutato uno dei due a risollevarsi, e sostenendolo per un avambraccio lo aveva accompagnato vicino a un mezzo per farlo bere. Non era riuscito a trattenersi. – Pensi di essere a Genova? Pensavi forse che le avresti prese anche da noi? Il tipo si era voltato di scatto. – Io a Genova c'ero. – Questo lo avevo capito. – Perché? – Perché a Genova c'ero anche io e perché ho visto come avete reagito quando ci avete visto. – Capisco... – Capisci? Davvero capisci? – Sì, insomma, credo di sì. Ma queste che razza di bestie sono? – Come hai detto? – Bestie. – Ho capito bene, allora. – Certo che hai capito bene. Mi stavano ammazzando. – Sono le stesse bestie che difendete nei Tg della sera. Con quelle belle inquadrature a stringere, magari dal basso verso l'alto. Quelle in cui vedi 127

tre dei nostri contro uno di questi animali. Sai, quelle immagini che chi sta sul divano, dice: «E questi nazisti da dove sono usciti?» Ma forse serate così aiutano a capire, che dici? Non aveva ricevuto risposta. Si era avvicinato allora alla carraia della Giglio. Era un formicolare di colleghi in giubbotti antiproiettile, mitra. Una galleria di volti sfigurati dalla tensione. Ne aveva riconosciuto uno che non vedeva da anni. Gli aveva appoggiato una mano sulla spalla per ringraziarlo. – Non sai, Drago, quanto ci siamo andati vicini. – A sparare? – Erano quasi entrati. – Non voglio pensarci. – Non dobbiamo pensarci. O sbaglio? La domanda era rimasta per aria. E forse era meglio così. La radio del Ducato aveva ripreso a gracchiare impazzita. Un nuovo ripiegamento. L'armata dell'odio aveva conquistato i punti nevralgici intorno allo stadio. Ogni resistenza era stata travolta. I ragazzi di Vampiro e Marzapane, i «Bisl» e «In basso a destra» avevano dilagato su ponte Duca d'Aosta e alzato le prime barricate. Ma perché? E perché lì? Doveva essere il capolavoro di quella notte. Che Roma non avrebbe mai dimenticato. Un'epopea da consegnare a figli e nipoti. In duecento erano scesi lungo l'argine del Tevere e lì sarebbero dovuti restare in assoluto silenzio. Invisibili perché protetti da un buio pesto, in attesa che le guardie abboccassero all'esca. Le barricate si erano accese di fumogeni e lingue di fuoco. La furia che si era abbattuta sul palazzo delle federazioni, un edificio basso dalle grandi vetrate, sede del Coni, era il drappo rosso agitato di fronte agli sbirri. Quello che avrebbe dovuto perderli. Avevano sfasciato tutto. Una devastazione senza metodo. Selvaggia. Come se in quella bomboniera di vetro, moquette e legni pregiati della sede del Coni si fosse infilata una tempesta tropicale, capace di divellere arredi, sbriciolare tramezzi in cartongesso, frullare oggetti, lasciando che si ricomponessero in un mosaico sfigurato. Chi non aveva le spranghe aveva tirato fuori l'uccello. Per pisciare sui muri o sulle scrivanie del sinedrio del calcio e dello sport italiano. Sotto la tribuna Monte Mario, la radio di Fournier lasciava intuire quello scempio. Le voci dei reparti più vicini alla devastazione erano quelle di naufraghi. «DoppiaVela, sono al Coni, cazzo, che facciamo? Cambio... Ripeto: che 128

facciamo? Stanno facendo lo schifo, cambio...» La parola «Ripiegate» era stata pronunciata di nuovo. Qualche dirigente assennato aveva fiutato la trappola. Il sacco del palazzo delle federazioni era una merdosissima trappola. Bisognava starne lontani. Le duecento ombre acquattate lungo l'argine del fiume continuavano ad aspettare. Perché quelle fottute guardie non arrivavano al Coni? Perché? Farli a pezzi sarebbe stato uno scherzo. Li avrebbero presi alle spalle. Ma non se ne sentiva neanche la puzza, cazzo. Alla fine, chi avesse deciso di mollare l'imboscata non lo ricordava nessuno. E forse non aveva neppure importanza. Non si poteva mica restare lì all'infinito. Se le guardie non arrivavano, tanto valeva andarsele a cercare. Anche perché, ormai, il lungotevere era una magnifica pista da biliardo. E con piazza Maresciallo Giardino già conquistata a sud, prendere Ponte Milvio, a nord, avrebbe significato la vittoria. Per qualche motivo, che nella furia della battaglia aveva ormai rinunciato a comprendere, Drago aveva osservato l'assalto a Ponte Milvio con l'ordine di non muoversi. Aveva contato duecento aggressori o giù di lì. Li aveva visti rimbalzare a ondate successive sui reparti a difesa del commissariato, prima di ripiegare su una caserma dell'Arma poco lontana. Aveva visto un'auto di servizio accendersi come una pira sacrificale, intorno alla quale decine di ombre si erano messe a ballare come impazzite. Poi, era sceso il silenzio. Improvviso. Avevano vinto. Avevano vinto loro. L'esercito delle ombre aveva bruciato Roma. E a lui restava solo una macchia di sangue rappreso sulla tuta da Op. Vampiro era tornato a piazza Vescovio. Aveva cercato il cellulare nella tasca del giaccone. Aveva composto il numero di Alessio. – 'A Vampi', semo ancora tre piotte... Lui aveva sorriso. Con trecento uomini avrebbero potuto immaginare una seconda ondata. Ma poteva bastare così. – Alessio, non credo che la situazione se possa evolvere. Per adesso è finita così. Oggi è finita così. Lasciando lo stadio, Fournier aveva chiesto la lista dei feriti. Cinquantotto. A sua memoria, non ne ricordava tanti in una notte sola. Aveva raggiunto una buona parte di loro nell'astanteria dell'Aurelia Hospital. Non volava una mosca. E il tanfo di sudore e disinfettante in cui 129

gli uomini attendevano il turno per il referto di pronto soccorso gli era apparso il sigillo di un'umiliazione. Decidere di tornare a casa era stato complicato ed era arrivato a piazza Vescovio a notte ormai alta. In strada, un ciccione appoggiato sul cofano di una macchina ruttava tra le risate sollevando una pinta di birra. Si erano fissati per lunghi istanti. Lui nella sua tuta di Op, il ciccione nel suo bomber nero. Aveva rallentato e abbassato il finestrino. – Che c'è, nun se pò guarda'? – No. C'è che non puoi ruttare. Non stasera.

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14. Teste matte

Una zaffata dolciastra di vomito e plastica bruciata gli aveva chiuso la gola nello stesso istante in cui Napoli gli si era aperta allo sguardo. Appena oltre l'unto delle vetrate che separavano le pensiline della stazione dai parcheggi dei taxi. Fournier aveva provato a fare due passi, prima di scoprire le suole delle scarpe prigioniere di una gelatina nera. Una poltiglia che, al passaggio, lasciava sul marciapiede un calco pestilenziale di materia in decomposizione. Era entrato in un bar per un caffè, osservando con grande sorpresa che gli espressi venivano serviti solo in bicchierini di plastica. Ne aveva ingenuamente chiesto la ragione. – In tutto questo casino, perché non usate quello che poi potete lavare, anziché quello che siete costretti a buttare? La risposta era stata surreale. – Dotto', dicono che avimm' 'a fa' la raccolta differenziata. In trasferta, il ministero pagava, con la diaria, l'alloggio. E il tre stelle in corso Garibaldi era dignitoso. Un'oasi in un mare di rancido. Aveva controllato che gli infissi delle finestre fossero impermeabili agli spifferi della strada e al suo tanfo. Quindi, nel rovesciare il contenuto della sacca sul copriletto di ciniglia della sua stanza singola, aveva verificato che insieme alla tuta da ordine pubblico, al cinturone e agli anfibi, ci fosse il flacone dell'Amuchina. Riempì di acqua tiepida il lavabo del cessetto che si apriva nella stanza e ve ne rovesciò due misurini. Immerse le mani, strofinandole a lungo, quasi si sentisse già vittima di un qualche contagio. Tornò a sbirciare oltre la finestra, assorto su un ambulante di frutta secca e salamoie che aveva puntellato le assi malferme su cui era esposta la merce con due pilastri di sacconi neri di immondizia, lasciati da chi sa chi, chi sa quando. Fu allora che, malgrado ogni evidenza, si scoprì a pensare che in fondo a Napoli tornava sempre volentieri. Per tanti motivi. Perché la famiglia, nel suo ramo paterno, aveva sangue campano. Perché da qualche parte, a Posillipo, viveva ancora quel gentiluomo di suo zio Antonio, un uomo di ottant'anni ormai cui era legato da un affetto profondo. Ma soprattutto perché Napoli restava lo specchio di un mondo capovolto. Il desiderio di contemplare quel mondo era pari soltanto al sollievo di fuggirne. Per questo, in quei primi giorni di gennaio del nuovo anno, non aveva esitato un attimo ad aggregarsi al reparto 131

spedito di rinforzo a presidiare la discarica di Pianura. Il cicalio del telefono lo avvertì che l'autista era arrivato. Fournier diede un ultimo giro alle stringhe degli anfibi assicurandole alle caviglie, si richiuse la porta della stanza alle spalle e, con un cenno al portiere, si infilò nella Land Rover che a lampeggiante acceso lo aspettava lungo il marciapiede. L'agente al volante lo salutò con una qualche deferenza. Avrà avuto sì e no vent'anni. E, a giudicare dall'accento, non doveva essere nato molto lontano da quella pensione. – Ce ne andiamo subito a Pianura, dotto'? – C'è tempo. Prendiamola larga. – Come volete, dotto'. Possiamo fare un tour. Così capite che ci sta capitando. – E facciamo il tour. Aveva letto che la città era schiacciata da centosessantamila tonnellate di immondizia. E che il mostro si gonfiava a un ritmo di millecinquecento chili ogni ventiquattro ore. Ma solo ora capiva che quei numeri spaventosi, nella loro neutralità olfattiva, non erano in grado di restituire nulla della catastrofe. Il centro storico della città era ridotto a trincea. Di via Toledo, non si indovinavano più le vetrine, oscurate per i due terzi della loro altezza da un caleidoscopio di rumenta marcita. Santa Lucia era percorsa da osceni ruscelli di liquami, che si facevano strada nelle anse create da cumuli di elettrodomestici arrugginiti e cassonetti sventrati. Il traffico, impazzito e indolente come sempre, percorreva nuove e intuitive gincane, aggirando gli smottamenti improvvisi del mostro, lì dove ingombravano le corsie di marcia. Come se quei napoletani in colonna avessero preso atto, con rassegnazione, di un nuovo paesaggio urbano. Come se mettere la freccia per svicolare intorno a una lavastoviglie abbandonata su un passaggio pedonale fosse il più naturale e riflesso dei gesti. Fournier aveva visto il suo autista scuotere più volte la testa in silenzio, e nel suo incomprensibile bofonchiare aveva intuito una sola parola: «ecoballe». Il semilavorato del ciclo dei rifiuti. L'incommestibile prodotto, destinato a inceneritori progettati e mai realizzati, che dell'emergenza rifiuti doveva essere la soluzione ed era diventato, al contrario, la metastasi. Il tappo che, a valle, aveva saturato ogni capacità di raccolta a monte, collassando un ciclo di smaltimento che, a ben vedere, non era in realtà mai esistito e ora condannava Napoli a morire annegata nella propria 132

merda. A tornare a fare quello che aveva sempre fatto: aprire nuovi buchi nella terra. O scoperchiarne di vecchi, come Pianura, che qualcuno aveva deciso dovesse essere il primo. – Dotto', sapete quante ecoballe stanno in giro per la Campania? – No. – Sei milioni, dotto'. Sei milioni. Sui giornali dicono che ci si potrebbe riempire il San Paolo dieci volte. Erano arrivati a Fuorigrotta e la Land Rover si era piantata in una coda che sembrava immobile. Fournier aveva provato ad aprire il finestrino per poi richiuderlo rapidamente. All'orizzonte si alzava una nuvola di fumo nero, denso. – Bruciano, dotto'... Bruciano 'a munnezza... È dal 27 dicembre che va avanti così. Giorno e notte. Quando i mucchi arrivano al primo piano delle case, li appicciano. Mio padre dice che neanche ai tempi del colera. L'autista aveva allungato a Fournier delle mascherine di cartone compresso. – Senza queste non si può girare. Dicono che così, almeno, non si respira diossina. Per qualche incomprensibile ragione la colonna uncinata di automobili e motorini che li aveva fatti prigionieri era tornata a muoversi. Davanti a un mare livido, avevano superato Mergellina e le sue spettrali pensiline di imbarco, attraversato indenni la Galleria Posillipo e infilato l'incrocio di strade che da via Giulio Cesare annunciava il San Paolo. Non ricordava più neppure lui le volte che aveva caricato su quei marciapiedi. La natura bestiale dei corpo a corpo che quello stadio era capace di accendere. Come in quel Napoli-Roma del giugno 2001, l'anno dello scudetto. I romanisti erano stati chiusi in una gabbia costruita in curva A. E con loro il reparto che doveva isolarli dall'assedio dei napoletani. Proprio così, una gabbia. Attraverso la quale era piovuto di tutto. Piscio, pezzi di cesso, carogne di topi, il cui tanfo non aveva mai dimenticato e che ora tornava ad avvertire distinto. Uno sbaffo di spray nero sulla spalletta del marciapiede che stavano rimontando nell'ennesimo rallentamento lo aveva colpito più di altri deliri cui era abituato. «T. M. è azione». Non era il solo. «Noi odiamo tutta l'Italia. T. M.» «Lame agli infami. T. M.» 133

«Da 20 anni in prima linea - 1987 - T. M. 2007». – T. M., dotto'... – «Teste matte», giusto? – Giusto. Ormai si sono mangiati tutto lo stadio. E non solo quello. La Land Rover aveva proseguito verso Pozzuoli, e di lì, lungo la via Campana, fino a Quarto. – Siamo vicini, dotto'. Pianura è qua dietro. Ma prima c'è una cosa che dovete vedere. In via Primo maggio, sui muri della villa comunale, tra i palazzi del rione 167, la litania in vernice nera si faceva quasi ossessiva. «10.5.87 Anno di sangue T. M.» «10, 100, 1000 Nassiria. T. M.» «Da sempre nel nostro mirino, sbirro assassino - Acab». «Caricare la polizia T. M.» «Digos infame per voi ci sono le lame T. M., rione 167». «Poliziotto primo nemico T. M. Napoli». «Teste Matte Napoli 1987 Guerra alla Digos». La Land Rover si era fermata al lato di una rotonda. Fournier ne era sceso ed era rimasto in silenzio per un po'. Quindi era tornato a rivolgersi a quel collega bambino che lo aveva trascinato sin lì. – Perché volevi che vedessi? – Perché se volete capire qualcosa del burdello di Pianura, dovete prima sapere qualcosa di questa gente qui. – Che cosa c'entrano le Teste matte con Pianura? – C'entrano, dotto'. C'entrano. Pianura e Quarto sono casa loro. Questa guerra è la loro guerra. Lo capirete quando saremo a Montagna spaccata. – Se avessi dovuto immaginare, avrei detto camorra, non ultras. – Dotto', qui da noi non sono parole così distanti. Sapete, no, quello che ha raccontato Misso... – No. Non lo so. Emiliano Zapata Misso si era pentito che non era neppure un anno. Era il nipote del boss del rione Sanità. Il suo cognome, Misso, era nobiltà di camorra. Il giorno che si era seduto di fronte a un giudice aveva cominciato a parlare e non aveva più smesso. «Allo stadio ci vado da sempre, eccellenza. Vado in curva A. Lì ci sono i Mastiff, il rione Sanità, le Teste matte e, per un periodo, si è vista anche la Masseria Cardone. Per un periodo, però. In curva B, invece, ci sono i Fedayn. Conosco il capo, Massimo 'o Bandito. Che vi posso dire? I Mastiff 134

controllano Forcella, piazza San Gaetano, Pietro Colletta. Insomma, eccellenza, ve lo dico con una parola. Sullo stadio c'è la camorra. Il che vuol dire che se in un quartiere comandano i Misso, decidono i Misso chi sono i guaglioni che devono portare il nome del quartiere al San Paolo. Vuol dire che in curva esiste una legge di camorra. Decidono i capitifosi, anche sulle cose da niente». – E le Teste matte? – aveva chiesto Fournier al poliziotto bambino. – Che ha detto Misso delle Teste matte? – Dotto', delle Teste matte si sanno vita, morte e miracoli. Come le ho detto, questa è casa loro. Quarto e Pianura. Tengono un simbolo che è un programma. Un pagliaccio che sembra nu diavolo. Stanno 'n coppa al boccaporto centrale della curva A, anello superiore. La cosa più innocua che gli ho sentito cantare allo stadio è «Mi diverto solo se a morire è uno sbirro». Il gruppo storico saranno una cinquantina di soggetti. I capi sono i fratelli Proietti, Ernesto e Fabio, i fratelli Nota, Giuseppe e Massimiliano, Vincenzo Grassi, Luigi Galatola, Gennaro Fiume. Ma sono nomi che non vi diranno nulla. Magari, invece, vi può interessare di più sapere che un anno fa, un pezzo delle Teste matte si è messo in proprio. Con un altro nome: Niss. – Niss? – «Niente incontri solo scontri». – Però. – Dei pazzi, dotto'. Degli assoluti pazzi. Che vi devo dire, gente come Dario Di Vicino, Rosario Longobardi, Giovanni Maione è meglio non trovarseli di fronte. – E sono neri? – Dotto', mi hanno detto come voi la pensate politicamente... – Lascia perdere come la penso io. Sono neri? – Nerissimi, dotto'. Per un attimo, Fournier aveva provato a sovrapporre i dettagli di quella geografia del San Paolo che stava ascoltando alla mappa dell'Olimpico, che conosceva a memoria. Il nero che avvolgeva come un sudario i napoletani, con il nero che ormai definiva e accomunava la curva Nord laziale e quella Sud giallorossa. La camorra, va da sé, all'Olimpico non esisteva. Ma che cosa divideva o poteva dividere davvero, le Teste matte dai laziali di «In basso a destra»? O i Niss dai giallorossi «Padroni di casa», «La peggio gioventù», «Tradizione e distinzione» e Bisl? Non si nutrivano forse dello stesso ciarpame simbolico? Di quella stessa 135

fascisteria da quattro soldi, che altro non era che scrigno di un odio liquido, senza progetto e per questo senza fine? La Land Rover era ripartita in direzione di Pianura, risalendo via della Montagna spaccata, la strada che ne raggiungeva il cuore. E il paesaggio, che fino a quel momento gli era apparso abitato solo da rifiuti, si era improvvisamente popolato di un'umanità dolente e furiosa. Vecchi chini sul bastone, bambini, handicappati in carrozzella. Madri di famiglia con il volto sfigurato dalla collera. Le tracce dei blocchi stradali si erano fatte più evidenti a ogni curva. Lampioni e cartelli divelti restringevano la carreggiata, fino a farne un budello in cui la velocità doveva essere ridotta. La marcia della jeep ne veniva arrestata di continuo e, a ogni colpo di freno, Fournier poteva constatare come la loro discesa verso l'inferno fosse accompagnata da uno zigzagare di motorini che all'improvviso scomparivano per poi riapparire dopo neanche un chilometro. – Sono le vedette, dotto'. Avvertono in cima al quartiere chi sta arrivando e, soprattutto, se ad arrivare sono sbirri. Il reparto di Roma e i suoi mezzi occupavano la rotonda Don Giustino. Gli ordini erano di tenere libero l'accesso al vecchio sito della discarica. La Land Rover accostò a uno dei blindati, da cui si staccò un collega che Fournier non faticò a riconoscere. – Drago. – Dottore... – Cosa è successo? Hai una faccia orribile. – Lasciamo perdere. Un'altra notte come ieri e qualcuno da qui non esce vivo. Mi avevano detto che avremmo trovato vecchi e donne incazzati, non la feccia del San Paolo. A Pianura lo sapevano tutti. A fare burdello e menare tarantelle erano capaci tutti. Ma per fare baraonda dovevi chiamare Dario dei Niss. Aveva trent'anni e negli ultimi cinque si era guadagnato il rispetto del quartiere e dello stadio. Si era preso il primo Daspo nel 2002 e da allora era decollato. Aveva fatto «la guerra» ad Ascoli e sistemato a catenate i ternani a Roncobilaccio, sull'Autosole. E se non lo avessero fermato a Campi Flegrei avrebbe lasciato un buon ricordo anche a quelle fetenzie dei cagliaritani in trasferta. Teneva le palle, Dario. Perché, altrimenti, in proprio con i Niss non ti ci metti. Perché, altrimenti, i romani non si sarebbero messi a telefonare per chiedere di scendere a Pianura anche loro per fare baraonda. Come pure era successo. Si erano fatti vivi quei due lì, 136

Vampiro e er Capitano. «Du' macchine de ragazzi», avevano promesso. Anche se poi nessuno li aveva visti. Dario era amico di tutti e teneva amici importanti. Leopoldo Carandente e Marco Nonno, i due capibastone del quartiere. Costruttore il primo, consigliere comunale di An il secondo. Carandente, a Pianura, si era arricchito con calce e mattoni. Nonno venerava la memoria del duce e coltivava culti nibelungici, ma i soldi anche lui li aveva fatti con i terreni di Pianura. A quei due, Dario diceva sempre sì. Perché conveniva a tutti. A cominciare da lui, che ne guadagnava in rispetto. Servivano i ragazzi a Pianura? E a Pianura li avrebbe portati. Serviva baraonda? E baraonda avrebbero avuto. Per la rivolta, Nonno si era conciato una bellezza. Elmetto mimetico della Wehrmacht e giacca nera con l'aquila nazista. Un paracadutista, 'o vero? E quando Carandente aveva telefonato, tutto era finalmente cominciato. – Dario, sono Leopoldo. Sentimi un poco, dove siete? – A Pianura. – Bene, stammi a sentire. È guerra. È guerra. È cominciata la guerra. – Dicono che vogliono aprire la discarica stasera... – Stai zitto. Non parlare. – Ma... – Devo parlare io e basta. – Dici, dici... – Stasera c'è la guerra. Quindi, ora, tutti alla rotonda Don Giustino. Dobbiamo chiudere la via. Dario si era portato i migliori tra i guaglioni della paranza. Gino 'o topo, Rafilone, Popoff, Scricciolo, Masaniello. Sapevano quel che c'era da fare. Tenevano lame, mazze e kobra, i razzi da curva. Soprattutto, tenevano odio. Ciro Roccasecca se li era visti addosso quando era troppo tardi, ormai. Come ogni sera, stava portando al deposito quel bestione di linea che guidava da una vita e, all'altezza della rotonda Don Giustino, aveva dovuto inchiodare di fronte a un fetente che si era messo di traverso con la macchina. Si era voltato istintivamente alla sua sinistra e aveva visto quelle ombre. Dieci, forse quindici. Si erano avventati come furie sulla porta anteriore, fracassandone il vetro a calci e colpi di mazza. Aveva dovuto aprirla. E di lì in poi ricordava solo le lame. Due, tre. E un punteruolo. Un tipo con il cappuccio e la sciarpa sul volto aveva 137

continuato ad agitarglielo di fronte agli occhi. Ciro sapeva che glieli avrebbe cavati volentieri. Lo sentiva dalla puzza di alcol che sfiatava da quella sciarpa, lo vedeva dalle pupille di quel macellaio piccole come spilli. Ciro aveva mollato la presa dallo sterzo del pullman come ci si libera di una pietra che ti trascina nell'abisso. Il resto lo avevano fatto loro. Avevano messo il bestione di traverso sulla carreggiata e ne avevano squarciato le ruote. Quindi lo avevano circondato di cassonetti cui avevano dato fuoco. Ciro era scappato a piedi in tempo per vedere un collega fare la sua stessa fine e il bus che guidava arenarsi in coda al suo. Era notte fonda e Carandente sorrideva. La guerra era cominciata come lui aveva previsto. E sarebbe durata. Durata a lungo. Per dieci giorni e dieci notti, non avrebbe risparmiato nessuno. Sbirri da tirare a forza fuori dai commissariati, vigili del fuoco da mazziare come disgraziati. E negozianti, naturalmente. Non volevano fare la serrata? Avrebbero assaggiato le spranghe. Avevano intenzione di cacare 'o cazzo? Li avrebbero bombati. Anche Marco Nonno sorrideva. – Ora, a noi ci possono solo cacare il babà, – disse. – A noi non ci devono cacare il cazzo, – aveva detto Drago ai suoi quando era arrivato l'ordine di caricare oltre la rotonda Don Giustino. Poi, aveva cominciato a correre nel buio e nella merda. Inseguendo delle ombre. L'aria era gelida. Spaccava i polmoni e lasciava una patina di rancido sui denti. Anche per questo respirare con la bocca era impossibile. Chi ci aveva provato non smetteva di vomitare. Non riusciva a capire in quale fottuto buco quei maledetti si andassero a cacciare. Né da quale fogna continuassero a uscire. Sapeva solo che continuava a trovarseli alle spalle. Fino a quando il buio non era stato squarciato da un bagliore. Bruciava una Smart e le fiamme illuminavano chi le era intorno. Aveva gridato non appena aveva capito. Il primo disco d'acciaio era schizzato velocissimo verso la prima linea del reparto, schiantando lo scudo di uno dei ragazzi, che si era accasciato come un sacco vuoto. Il secondo aveva urtato la base di un pilone, arrestando la sua corsa. Stavano lanciando i freni a disco di quella maledetta Smart. Quegli affari pesavano almeno cinque chili. Avrebbero staccato una testa di netto, sbriciolato una gamba o un braccio al solo contatto. Accucciato, osservava quel frammento di battaglia, ripensando alla 138

donna che lo aveva accolto al mattino quando era arrivato alla bocca della vecchia discarica. Una madre di famiglia. Aveva alzato le mani al cielo, avvicinandosi in pace ai mezzi del reparto. Aveva raccontato con la voce rotta dal pianto la vita di un quartiere che aveva le sue fondamenta nell'immondizia dell'Italia intera. Il calvario di un piccolo popolo seduto sull'argine di un vulcano pieno fino all'orlo dei veleni che, per vent'anni, la camorra, l'ignavia e il cinismo di un paese intero avevano voluto sversarvi. E che, silenziosamente, dopo aver contagiato aria, acqua, piante, avevano minato la vita di innocenti. Il giorno che il buco era stato chiuso, era stato promesso che l'inferno avrebbe avuto fattezze e profumi di paradiso. Campi da golf, piscine, alberghi. Perché ora si tradiva quel giuramento? Perché si voleva tornare a uccidere lentamente la gente di Pianura? Quella donna gli aveva stretto il braccio, aggredendolo con la più semplice delle domande. – Marescia', ma vuje facesse vivere vostro figlio 'ncoppa a 'sta munnezza? Drago sapeva come risponderle. Sapeva che, al suo posto, sarebbe stato in mezzo a quella gente. Ma non le aveva risposto e per un po' era rimasto a pensare se, per una volta, non avesse fatto male a tacere. Ora, però, quei maledetti freni a disco della Smart cancellavano ogni pietà. Che morissero nella loro merda, che affogassero nel loro schifo, diceva a se stesso aspettando il lancio del terzo e del quarto disco. E quello dei bulloni che un tempo dovevano aver stretto quegli aggeggi ai mozzi delle ruote. Vaffanculo Pianura e vaffanculo la teppa da stadio. Vaffanculo questo paese di ipocriti. Vaffanculo questo vulcano in cui ci si scanna tra gli ultimi della terra. Fournier aveva insistito con il suo autista. – Portami lì dentro. – Dove, dotto'? Dentro il buco? – Sì, dentro il buco. La Land Rover aveva rimontato il ciglio del cratere che un tempo annunciava un vulcano. Si era quindi infilata nel sistema di colline e calanchi che, al suo interno, erano stati formati dal completo riempimento dell'invaso ai tempi della discarica. Gli echi della rivolta arrivavano smorzati. L'erba aveva un colore acceso e le foglie degli alberi una consistenza che ricordava quella della plastica. Sapeva che la suggestione poteva modificare profondamente la percezione delle cose, ma era convinto che ciò che vedeva, quella curiosa manifestazione di equilibrio 139

della terra e dell'aria, avesse qualcosa di innaturale e diabolico. Non riusciva a smettere di pensare che la linfa di quegli alberi fosse nera come i veleni dell'Acna di Cengio che lì erano stati clandestinamente sversati e in cui dunque quelle piante affondavano le loro radici. Non poteva smettere di pensare alla putrefazione di una carogna di balena che la leggenda del posto voleva si fosse spiaggiata nel golfo, prima di essere scaricata lì sotto, insieme a vernici industriali, oli sintetici, mercurio, metalli pesanti, garze, pannoloni e medicinali scaduti. Fournier scese dalla jeep e rimase per un po' con gli anfibi piantati in quell'erba velenosa. Pianura gli appariva la metafora perfetta del paese in cui era vissuto. Del suo presente e del suo futuro. Del suo mestiere e dell'odio degli uomini. Si voltò di scatto verso l'autista. – Mi puoi riportare in città? Lungo il tragitto non scambiarono parola, ipnotizzati dalla luce vermiglia di un tramonto di una bellezza violenta. Che, nell'aria fredda e tersa, avvicinava alla città le sagome nere di Capri, Ischia, Procida, dando la sensazione di poterle quasi afferrare. Quando arrivò alla pensione, era buio. Si tolse gli anfibi sulla soglia della stanza, lasciandoli all'esterno. Si liberò della tuta da Op e la infilò in un sacchetto di plastica che sigillò in una delle tasche esterne della sacca, insieme ai guanti, al basco e a qualunque altro pezzo di stoffa che avesse assorbito l'aria di Pianura. Quindi rimase sotto la doccia per una buona mezz'ora, strofinandosi in modo compulsivo, come in preda all'ansia. Telefonò a zio Antonio. Che lo invitò a cena nel suo circolo velico a Posillipo. Si erano abbracciati con affetto e Antonio aveva fatto strada nel ristorante che guardava il mare. La tovaglia era di un candore immacolato e profumava di lavanda. A centro tavola, un'orchidea brillava alla luce di un piccolo lume ad alcol. Esposto sul lato corto della sala, un trionfo di antipasti di pesce, verdure gratinate, canapé, sfoglie, latticini comunicava un senso di gioia. Un inno alla gola e alla vita. Due camerieri armeggiavano su un sartú intorno a un monumentale peltro. Aveva fame. E Antonio, dopo aver ordinato una bottiglia di Fiano, decise di risparmiare i convenevoli. – Per cominciare, te la mangi una bella mozzarella? – Di quelle vostre alla diossina? – Il circolo tiene quelle di Mondragone. Non quelle che compri al mercato. Le può mangiare un bambino. 140

– Già, sono i disgraziati che vanno al mercato che possono anche mangiarsi il veleno, giusto? – Maronna mia, Michelangelo. Sempre lo stesso sei. – Maronna un cazzo, zio... È questa città che è sempre la stessa, che non cambia mai. – Cos'ha Napoli di diverso dal resto del paese, eh? Me lo spieghi tu? – Ti sembra normale che a quattro chilometri da qui c'è lo schifo, mentre al circolo si mangiano bufale di Mondragone e ogni altro ben di Dio? – Assolutamente sì. Pensi forse che a chi ci ha avvelenato freghi nulla di quello che succede a Pianura? Pensi che stiano digiunando per senso di espiazione? O non pensi invece che stiano ragionando su quale altro buco del Sud mandare la loro merda tossica? – Non ho mai capito se questa città è più cinica o semplicemente sopraffatta. Se quello che vedo e sento è sfinimento o accidia. – È la vita. Perché il mondo è così. Da sempre. E i napoletani, questo te lo concedo, forse lo hanno imparato prima degli altri. La verità, se proprio lo vuoi sapere, è un'altra. – Sarebbe? – Ce l'hai con Napoli e, come la maggior parte del paese, ti fa comodo pensare che sia un mondo a parte, perché ce l'hai con te stesso. – Non dire cazzate. – Lo penso davvero. – Come no. Io vengo a Pianura dove immagino una rivolta di popolo e chi trovo? Trovo degli ultras del cazzo che sfasciano tutto. Gli stessi ultras del cazzo che mi trovo davanti ogni domenica. È un problema mio o un problema di Napoli? È un problema mio se questa città ha una borghesia che mi fa orrore? Che se ne sta chiusa nelle sue belle case di Posillipo e del Vomero, magari arrotando qualche seccato commento con la erre moscia, perché tanto la sua merda finirà in qualche buco oltre la tangenziale? – Non è un problema soltanto di Napoli. A Napoli, semplicemente, vedi quello che altrove confondi o forse non vedi con la stessa nitidezza. La borghesia romana è forse diversa da quella napoletana? E quella milanese? Dove abita la borghesia italiana coraggiosa? Ti prego, dimmelo tu se lo sai, così, prima di morire, forse faccio in tempo a farne la conoscenza. Tu sei di destra, giusto? E sei un borghese. Borghese e di destra, proprio come il sottoscritto. – E allora? – Lo sai chi sta soffiando sulla rivolta, o no? Lo hai visto, giusto? Sono 141

neri come te e me, Michelangelo. Plebei di destra, dirai tu. Ma in corpo hanno la tua stessa rabbia borghese. Quegli ultras e quella gente di Pianura stanno incazzati come te. Come i tuoi uomini. Siete la stessa cosa. Il contagio è avvenuto. Parlate, parliamo la stessa lingua. Stessa lingua, stessi desideri, stesso egoismo. Stesso odio. – Ora, zio, mi fai incazzare sul serio. – Incazzati pure, ma non serve. Perché sai perfettamente che quello che ti sto dicendo è vero. – Io non lo so se è vero. So che lo schifo è qui. È a Napoli. Non è a Roma e non è a Milano. – Napoli è un laboratorio. Ed è uno specchio. Se non ti piace quello che vedi qui, prova allora a pensare a come è ridotto il paese. Fammi solo la cortesia di non attaccare la solfa sulle responsabilità della sinistra e su quelle della destra. Perché a Napoli, come nel resto del paese, hanno governato entrambe. E chi governa non è né meglio né peggio di chi li elegge. – Vorrei tanto capire dove vuoi andare a parare con il tuo ragionamento. – Non voglio dimostrare nulla. Mi piacerebbe soltanto che tu finalmente guardassi nel fondo delle cose. Il fatto di essere un poliziotto non te lo impedisce. Anzi, ti dovrebbe aiutare. Fatti qualche domanda, Michelangelo. Oggi sei qui a dare qualche calcio in culo a chi non vuole riaprire la discarica. La domenica sei allo stadio a non farti linciare da ragazzini gonfi di veleno. Durante la settimana ripulisci alla bisogna i marciapiedi da puttane e clandestini, giusto? Poi, magari, ci scappa qualche centro sociale, qualche scuola occupata. Assorbi ogni giorno una dose omeopatica di rabbia. Magari in attesa che qualcuno, di tanto in tanto, ti liberi della museruola. Quanto può durare, Michelangelo, eh? Quanto può durare? – Non molto, credo. – E allora difenditi. – Come? – Magari cominciando a chiamare le cose con il loro nome... – A Genova, al processo per il G8, l'ho fatto. È per questo mi hanno annientato. – Continua a farlo. – Non so se ne ho ancora la forza e soprattutto non so se abbia un senso. Rimasero in silenzio per un tempo che a Fournier sembrò lunghissimo. Finché zio Antonio non sollevò dal cestello del ghiaccio la bottiglia di 142

Fiano, riempiendone i calici. Prese il tovagliolo e lo aprì sulle ginocchia. Toccò il risvolto della sua morbida giacca di lana. – Allora, Michelangelo, che dici, ce la mangiamo questa mozzarella di Mondragone?

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Epilogo

MICHELANGELO FOURNIER è stato condannato il 13 novembre 2008 dal tribunale di Genova a due anni di reclusione (pena sospesa) per concorso in lesioni con altri dodici tra agenti e funzionari di polizia che parteciparono all'irruzione nella scuola elementare Diaz la notte del 21 luglio 2001, durante la quale vennero pestati a sangue, riportandone in numerosi casi lesioni permanenti, novantatre donne e uomini innocenti. Il giorno della sentenza ha detto: «Sono innocente, e dovesse essere l'ultima cosa che faccio, riuscirò a dimostrarlo». Ha deciso di ricorrere in appello, dove ha annunciato che rinuncerà ad avvalersi della prescrizione. Omer, il suo dobermann, lo ha lasciato per sempre due settimane prima della sentenza, dopo una malattia improvvisa, nel cuore di una notte di pioggia. «DRAGO», indagato per i fatti della Diaz e archiviato in istruttoria come tutti gli altri agenti privi di funzioni di comando del VII nucleo, sta provando a mettere ordine nella sua vita. Ha trovato una nuova compagna e sta cercando un accordo che gli consenta di vedere suo figlio con maggiore regolarità. Il suo ufficio continua a essere la strada. «LO SCIATTO», indagato per i fatti della Diaz e come Drago archiviato in istruttoria, tornerà in tribunale per difendersi dall'appello di M., il tifoso romanista che ha perso gli incisivi. Aspetta di entrare nella casa della cooperativa cui ha consegnato i suoi risparmi. Dopo un periodo in fureria, è stato riassegnato ai servizi di piazza e si è messo a dieta. VINCENZO CANTERINI («BIANCANEVE»), già comandante del VII nucleo, è stato condannato a quattro anni di reclusione (pena sospesa) dal tribunale di Genova per i fatti della Diaz. Ha annunciato appello dichiarandosi innocente. Lo separa un anno dalla pensione. Vive a Bucarest, dove il ministero gli ha affidato un importante incarico di dirigenza presso l'Interpol. CARLETTO, non si è mosso dal gabbiotto di guardia giurata all'ingresso di una scuola inglese per bambini.

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«VAMPIRO», «MARZAPANE», «CAPITANO» e gli altri ragazzi della notte di Roma sono stati arrestati all'alba del 26 febbraio 2008 con l'accusa di associazione a delinquere, lesioni, devastazione e saccheggio. Dopo otto mesi di carcere preventivo, il Gup di Roma li ha rinviati a giudizio con altri diciassette imputati in un processo che si aprirà dinanzi al tribunale di Roma nel febbraio 2009. ROMULUS NICOLAE MAILAT è stato condannato il 29 ottobre 2008 dalla corte di assise di Roma a ventinove anni di reclusione quale assassino di Giovanna Reggiani. Alla pronuncia del verdetto ha gridato: «No!» Il suo avvocato ha detto: «Il problema è capire se si rende davvero conto di quello che gli è accaduto». Sta scontando la pena e verrà espulso dall'Italia a condanna espiata. LUIGI SPACCAROTELLA, l'agente della polizia stradale che ha ucciso Gabriele Sandri sull'autostrada A1, è stato trasferito in un ufficio distaccato della Polfer. La procura della Repubblica di Arezzo ha chiesto il suo rinvio a giudizio per omicidio volontario. L'11 novembre 2008, primo anniversario della morte del giovane Dj e tifoso laziale, il prefetto Antonio Manganelli, capo della polizia, ha detto: «Davanti all'uso della pistola per sedare una rissa non si può non parlare di avventatezza. Dissi che mi assumevo la responsabilità di questa morte e lo confermo oggi». NISS e TESTE MATTE Il 7 ottobre del 2008, i fratelli Proietti, Ernesto e Fabio, i fratelli Nota, Giuseppe e Massimiliano, Vincenzo Grassi, Luigi Galatola, Dario Di Vicino, Gennaro Fiume, Rosario Longobardi e Giovanni Maione, insieme ad altre due dozzine di ultras appartenenti alle due sigle, sono stati arrestati per ordine del giudice delle indagini preliminari di Napoli in relazione ai fatti di Pianura. Con loro sono finiti agli arresti anche Marco Nonno e Leopoldo Carandente. Il procedimento è in corso.

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