A colpi di cuore. Storie del sessantotto 9788842085881

Questo libro non è una storia tradizionale della stagione dei movimenti. È un cammino intorno ad alcune questioni che ha

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A colpi di cuore. Storie del sessantotto
 9788842085881

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i Robinson / Letture

Di Anna Bravo nelle nostre edizioni:

In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945 (con A.M. Bruzzone) Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea (con M. Pelaja, A. Pescarolo, L. Scaraffia)

A cura di Anna Bravo nelle nostre edizioni:

Donne e uomini nelle guerre mondiali

Anna Bravo

A colpi di cuore Storie del sessantotto

Editori Laterza

© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8588-1

A colpi di cuore

Introduzione

Dopo 40 anni Per Jerry Rubin, leader del movimento americano contro la guerra in Vietnam, chi diceva di avere ricordi precisi di quegli anni probabilmente non li aveva vissuti. Visione un po’ romantica e un po’ vera. La memoria è molto spesso puntiforme, mostra vuoti, slabbrature, cronologie incerte. È l’effetto del flusso di emozioni (solo per alcuni di natura psichedelica) che avvolgeva l’esperienza, di un modo di vivere appiattito su un eterno presente, della sensazione che il tempo fosse insieme incalzante e infinito. Forse eleggere vuoti e flash a sigla dell’esserci stato è anche la spia di una concezione patrimoniale della storia. «Io c’ero», e proprio per questo non ho un catalogo ordinato di ricordi, tu puoi costruire il repertorio più minuzioso, ma non ti basterà a scoprirne lo spirito – il che riproduce il luogo comune dell’indicibilità dell’esperienza, fino a mettere in dubbio che sia possibile fare storia di quel che non è vissuto, l’intero passato, salvo il proprio coriandolo di tempo. Atteggiamento proprietario o meno, la stagione dei movimenti (sessantotto, femminismo, nuova sinistra) ha trovato una quantità di cronisti, studiosi, commentatori, e a volte si direbbe sia più incombente per chi l’ha osservata o è venuto dopo che per chi l’ha vissuta dall’interno. Si nota nella concitazione di qualche saggio o pamphlet, ma soprattutto in certi giudizi estemporanei sparsi in articoli e interviste dedicate a tutt’altro. Il modo in cui si parla di quegli anni equivale quasi a una dichiarazione di schieramento, a volte addirittura a un punto programmatico, il «facciamola finita con i sessantottini» di Nicolas Sarkozy. Dopo 40 anni! 3

Succede in parte per l’uso pubblico che in alcuni paesi si è fatto e si fa del sessantotto – qui e in seguito mi servo di questo termine, o della formula «anni ’68», per indicare l’intero ciclo1. Succede anche perché nell’opinione comune ne resta un’immagine vaga ma forte, la sensazione che in quegli anni sia successo qualcosa di importante, di molto negativo o molto positivo. A un estremo, il sessantotto è rovina della famiglia e della scuola, disordine sessuale, sgraziatissimo rock, violenza, droga. Oppure – le polarizzazioni sono più di una – Grande Inganno iniziato con la mascherata antiautoritaria, proseguito con un nuovo marx-stalinismo, e infine rientrato in grembo alla borghesia di origine. Da dove gli ex, nostalgici mal invecchiati, sono ripartiti per insediarsi nei centri del potere, soprattutto mediatico. All’estremo opposto, c’è il sessantotto come lotta contro autorità senza autorevolezza, amore per i più deboli, trasformazione delle culture, bella musica, spinelli. Ma anche come ventata di libertà, sconfitta, oltre che dalla politica «tradizionale», dal proprio stesso imbarbarimento. Qui gli ex sono brava gente sensibile alle ingiustizie, che cerca di fare quel che può per contrastarle. Gente che in maggioranza insegna o ha insegnato in tutti gli ordini di scuole, e che sembra eterna principalmente perché è entrata tardi nel mercato del lavoro dopo 10 anni di militanza a tempo pieno – un dato di fatto raramente citato. Il secondo polo è più sfrangiato, comprende chi cerca di guardare a quegli anni da angolature diverse, incluse quelle oscure e misere – solo alcune, però. Il primo mi sembra più compatto e irremovibile. Ma un punto comune c’è: tutti trovano che la polarizzazione sia sbilanciatissima a proprio sfavore, tutti si sentono un’isoletta assediata dal mare del conformismo. Come se il destino si fosse divertito a sistemarli uno per uno nel posto sbagliato. Il sessantotto è diventato un simbolo, e nei simboli ci si culla, indipendentemente dal loro contenuto. I fatti finiscono per contare poco. O niente? In Italia ci si accanisce da trent’anni contro la legge per la chiusura dei manicomi e per la creazione di comunità 4

sul territorio (troppo poche, il che contribuisce all’ostilità). Si dimentica cos’era l’istituzione totale2, si dipinge la «nuova psichiatria» come una esperienza generosa ma ideologica, si accusa Basaglia di aver visto nella malattia esclusivamente il prodotto della sofferenza familiare e sociale, dimenticando le sue componenti fisiologiche. Falso per omissione. Non solo non le negava, ma se necessario impiegava gli psicofarmaci, per lenire il male con ogni strumento disponibile. Come facevano anche gli psichiatri inglesi e americani. Niente chiusura dei manicomi e apertura verso l’esterno senza quell’aiuto chimico – che fra l’altro strideva con la diffidenza di allora verso i farmaci e con le illusioni sul potere salvifico della parola. Del resto Basaglia e altri medici lavoravano contro la segregazione già prima del sessantotto. Realtà guastafeste. Guastafeste anche in altri casi, per esempio i comportamenti sessuali, dove i movimenti non hanno aggiunto molto alle idee e pratiche diffuse fra le avanguardie artistiche e intellettuali del ’900 – coppie aperte, vagabondaggio erotico, rapporti plurimi e plurisessuali. Ma le hanno estese a minoranze ampie, visibilissime, intrecciate alle maggioranze. Scandalo e consensi nascevano da questa caratteristica più che dalla radicalità: una cosa sono Sartre e de Beauvoir che al Café de Flore teorizzano sugli amori essenziali o contingenti, altra cosa è l’anomalia nel cortile di casa. L’immagine di dissipazione sovrapposta al sessantotto è povera quanto il suo contrario, che racconta di amori lievi e felici – ma lo fa sempre più stancamente, perché il femminismo e il tempo hanno lavorato nella testa delle persone. Molti hanno capito che c’erano aspetti del passato da cui si potevano elaborare buone idee – alcune e alcuni lo dicevano già allora, e di rado sono le stesse persone che oggi scagliano la prima, la seconda e l’ennesima pietra. In ogni caso, su questo piano il sessantotto non era così nuovo e neppure così pervasivo da cambiare il mondo con le sue sole forze. Come hanno scritto Flores e De Bernardi, far risalire cambiamenti epocali all’azione di un gruppo sociale composito, esteso ma largamente minoritario, «significa avere una idea ben semplicistica, a dir poco, del divenire storico», accompagnata 5

dalla fantasticheria che «le cattive idee possano trasformarsi in realtà direttamente e senza mediazioni»3. Fare dei movimenti il deus ex machina rischia allora di cancellare quel che gli si intrecciava da vicino, come la pillola e la crescita del lavoro femminile, e da lontano, come il lungo processo che ha portato dall’unione contrattuale a quella d’amore. Rischia di instaurare un cortocircuito con l’oggi in cui scivolano via fenomeni e eventi di questi ultimi decenni. Non esageriamo. I movimenti hanno inventato molto, non tutto, spesso hanno accelerato tendenze in embrione, in qualche caso ne hanno bloccate altre. Il che non toglie niente al loro peso. Anzi. Potevano non nascere, e infatti nessuno se li aspettava. Potevano prendere una strada progressiva o regressiva, avere una impronta ugualitaria o gerarchica, spesso le hanno mischiate in un quadro nuovo – non interamente nuovo, ma costruito a modo proprio. Non era scritto da nessuna parte che le cose sarebbero andate come sono andate.

Immagini e contesti Peccato, quella polarizzazione. Scoprire quali tradizioni un movimento ha rivendicato o inventato, quali ha respinto o non ha visto, capire il modo in cui le ha combinate in qualcosa che prima non c’era, è uno degli aspetti più attraenti della storia che si legge – e anche di quella che si scrive. Nei primi anni settanta c’è chi, come Morin4, accetta la diagnosi di fenomeno giovanile, ma assimilando l’età a una sorta di nuova classe. Con l’avanzare del decennio, altri collocano i movimenti sullo sfondo del distacco giovanile dal mondo adulto, iniziato con il rock, i beat, le controculture5, e ne vedono il clou negli anni sessanta6. Di recente, in Francia si sono cercate le radici dei movimenti nella guerra d’Algeria, e la continuità del ’68 nelle lotte operaie e contadine che sarebbero state imperdonabilmente trascurate7. In Italia ci si è chiesti se il «vero ’68» non sia invece il 1969, l’anno dell’autunno caldo, culmine di un’insorgenza operaia capace di disarticolare il sistema di fabbrica e di resistere, almeno per qualche tempo, alla ristrutturazione della seconda metà del decennio8. 6

Sembrano spaccati di storie diverse e in parte lo sono, gli anni ’68 hanno più facce che coesistono o si alternano. Fra gli osservatori, inizialmente ha prevalso lo stupore di fronte al carattere mondiale dei movimenti studenteschi, alla loro esplosione contemporanea e non preordinata, e si è cercato di capirne i nuclei comuni e i canali di comunicazione. In seguito è cresciuto l’interesse per soggetti e problemi specifici, per realtà circoscritte, dalla nazione alla singola università – il che implicava darsi coordinate storiche diverse. Interpretazione e contesto camminano insieme, prendono forma uno a partire dall’altro. A conferma che il secondo, sempre invocato come garanzia di realismo e oggettività, è il frutto di un’operazione soggettiva, con cui il ricercatore sceglie lo sfondo che gli sembra più congeniale all’agire dei protagonisti e alla propria immaginazione storiografica. Per esempio: se si guarda al voto alle donne italiane e francesi nel solo quadro della seconda guerra mondiale, sembra una concessione; se lo si colloca nel contesto verticale e secolare delle lotte per il suffragio, ecco che diventa anche una conquista. Niente storia senza contesto, si dice giustamente, solo generalizzazioni indebite e anacronismi. Ma anche niente storia con troppo contesto, direi, pensando a come è ottimamente servito per spiegare qualsiasi comportamento e per distribuire sconti etico-storiografici. Del resto, a movimenti così interessati alla soggettività non si addice l’argomento delle condizioni oggettive. Credo non piacerebbe neppure a molti ex, che di quella stagione hanno dato interpretazioni diversissime. Su un solo punto commentatori e protagonisti fanno coro, il femminismo. Ironia: per anni temuto, minimizzato, a volte messo in ridicolo, il femminismo è diventato il parente ricco dei movimenti, la loro faccia bella, buona e democratica, di cui non ci si può appropriare ma che viene comunque rivendicata allo spirito del tempo e delle lotte. Ma su come sia nato devono essere mancate finora la capacità o la voglia di documentarsi, con la buffa conseguenza che in certi testi lo si elegge a sola rivoluzione riuscita del ’900, e dopo due pagine si passa a altro. 7

Autopresentazione Questo libro non è una storia della stagione dei movimenti, neppure limitata a alcuni luoghi e tempi. Già ne esistono di belle, e del resto le imprese monumentali, come quella di Marwick sugli anni sessanta9, toccano secondo me ai più giovani. Io ho tentato un cammino intorno a alcune questioni che per me sono state importanti e che mi sembrano tali anche oggi. Per quanto le attualizzazioni a tutti i costi siano fastidiose, in questo caso la forzatura sarebbe negarle. Ma ho incluso temi all’apparenza obsoleti – a seconda delle fasi e dei punti di osservazione, quegli anni possono sembrare preistoria, oppure l’altro ieri. È un pezzo di storia che riguarda anche i e le giovani dei partiti di sinistra, dei sindacati, dell’associazionismo laico e religioso, le donne dell’Udi e le loro omologhe francesi; ma uscire dall’area dei movimenti avrebbe cambiato il progetto che avevo in mente10. Come storica, ho guardato ai contesti di breve e media durata, alle diverse temporalità che si intersecano nel reale, ai riflessi che le filosofie e ideologie nate in quegli anni o da quegli anni hanno avuto sulle culture, i comportamenti, le sensibilità – gli aspetti che mi piacciono particolarmente. Soprattutto mi sono posta alcune domande. Il versante positivo di quegli anni era davvero bello e ricco come molti ricordano, nel versante negativo non c’erano spiragli barlumi momenti che ancora vale la pena discutere? Se è vero che i movimenti hanno avuto successo nel cambiare le culture e le mentalità, siamo certi che abbiano vinto bene? e dove hanno perso, la politica, siamo certi che abbiano perso male (e tutto)? A distanza di 40 anni, i bilanci possono comprendere anche questa variabile, l’eredità, o il residuo, che quello spaccato di generazione ha lasciato mentre disseminava pezzi di sé nei luoghi più diversi, senza badare molto a come si sarebbero potuti combinare fra loro. In questo libro c’è anche un fondamento personale. Anni fa, mi sono accorta che i temi su cui avevo lavorato di più – genocidio e deportazione, corpi in prigionia, pratiche antinaziste non armate – rientravano tutti in due aree: il dolore patito da esseri 8

umani per la violenza di altri esseri umani; i tentativi di resistere alla distruttività senza farsene contagiare, o il meno possibile. E naturalmente i modi di raccontarli. La scelta era stata in parte inconsapevole, ma non per questo meno motivata. Cosa c’è di più storicamente e soggettivamente significativo della cognizione del dolore e delle «maschere» predisposte dalla cultura per esprimerlo? O della violenza e delle strategie per fronteggiare il male riducendo il danno per sé e per gli altri? Eppure la storiografia, e non solo in Italia, se ne era tenuta lontana per decenni. Penso in particolare alla prigionia nei Lager nazisti, messa ai margini perché dichiarata indicibile e inimmaginabile, come se questo bastasse a esimere chiunque dalla pena di immaginarla e dallo sforzo di renderla almeno in parte comunicabile. Il clima è stato questo fino all’inizio degli anni ottanta, e veniva spontaneo criticarlo. Per me è stato più facile. Ho avuto una sorella elettiva con cui ho diviso per trent’anni pensieri e pezzi di vita. Era ebrea, figlia di genitori che avevano sofferto la persecuzione; se Hitler avesse vinto non sarebbe nata. Intrecciati alle motivazioni storiografiche ci sono sempre elementi personali, e scegliendo quei temi partivo anche da lei e, tramite lei, da me. Ora molte cose sono cambiate – più studi su genocidio e deportazione, sulla resistenza civile, aperture alla nonviolenza. Lo scarto impressionante fra la produzione dedicata al terrorismo degli anni settanta e quella dedicata alle sue vittime sta piano piano riducendosi11. Ma ancora oggi, ogni volta che vedo il dolore subordinato alla storia di chi l’ha inflitto, e gli orrori chiamati errori o sconfitte politiche, non posso non pensare al senso di colpa degli ex deportati per essere sopravvissuti ai compagni, al rimpianto di Primo Levi per non aver diviso un sorso d’acqua con un amico. E le assoluzioni e autoassoluzioni in nome del contesto, dei fini, dell’età giovane, dell’intellighenzia compiacente, suonano spaventosamente frivole. Le pretese di chiamarsi fuori con la motivazione di non aver partecipato in prima persona mi sembrano un’offesa a chi ha sofferto – e a chi ha speso mezza vita a ripensarci. 9

Che la violenza abbia trovato appoggio fra intellettuali e artisti è vero. Ma certe chiamate di correo finiscono per assomigliare alla giustificazione del bambino: «C’era anche lui!», quando in realtà nessun Sartre, nessun Marcuse sarebbero bastati a convincere i movimenti a fare o non fare una cosa. Certo, i militanti erano giovani, ma non tanto da sfuggire al criterio della responsabilità personale, che non si misura sulla quantità e il prestigio dei compagni di strada. Al massimo può esserne alleviata, mai rimossa, neppure, scrive Hannah Arendt, nei regimi totalitari. Ho cominciato a ripensare agli anni ’68 sulla spinta di questa suscettibilità al tema della violenza, che qui compare all’ultimo capitolo, ma è il primo che mi stava a cuore presentare. Diversamente da quanto ritengono due giovani storici12, non credo che la violenza, innanzitutto quella della parte politica cui si è stati legati, sia un tema affrontabile allo stesso modo di altri. Ammesso che la storia abbia un senso, è quello di dare a cose e persone il nome che gli corrisponde. Come ha detto Andrea Casalegno, si può cambiare, e molti lo hanno fatto senza sbandierarlo; ma non si può diventare ex assassini, per l’identico motivo per cui non si diventa mai ex madri.

I temi Racconto per temi vuol dire sguardo trasversale, e sguardo trasversale vuol dire ballare sul filo della dispersione, dell’ovvietà, dell’azzardo, un azzardo acuito dal fatto che non tutte le realtà sono state documentate allo stesso modo e con criteri paragonabili – in Italia ci sono più libri su Lotta continua che sulle altre organizzazioni extraparlamentari, più sul femminismo radicale che su quello delle donne dei gruppi, troppo poco sui cattolici nei movimenti e sul ruolo del partito radicale. Eppure mi pareva che alcuni pezzi di storia potessero guadagnare chiarezza dall’essere messi in consonanza all’interno di uno stesso indicatore. Come sfondo ho scelto la storia delle donne e quella dei giovani, come vettori narrativi i modi in cui si formano e si disfano le soggettività, spesso in bilico fra rigetto delle vecchie norme, 10

prove di autodeterminazione, richiamo di un nuovo conformismo. A volte ho dovuto tagliare senza pietà neppure per me stessa. Avrei scritto pagine e pagine su Carla Lonzi, o sul diverso rapporto con il passato degli studenti della Repubblica federale tedesca13 e di quelli italiani, i primi tormentati dalla ricerca della verità sul nazismo, i secondi stranamente acritici sulle responsabilità nazionali nella guerra e nella Shoah e pacificati dalla funzione di riscatto della resistenza. Mi sono trovata a muovermi fra ragazzi e ragazze delle grandi università americane e delle nostre Trento, Torino, Roma, fra la nonviolenza di Martin Luther King e la sua crisi, il maggio francese e le sue derive, l’autunno caldo e l’«antifascismo militante» in Francia e in Italia; tra la inaffondabilità apparente del modello patriarcale (ovunque) e la tempesta che gli scatena addosso il femminismo (ovunque). E tra Presley, We Shall Overcome e Mr. Tambourine Man. All’Italia ho dedicato uno spazio a sé dove l’economia del libro mi sembrava lo permettesse, ma faticando molto a selezionare un patrimonio in cui è difficile trovare storie meno che interessanti. Nei primi due capitoli, ho cercato di mostrare le origini plurime dei movimenti misti, dai primi segni di malessere e ribellione dei giovani al distacco dalla società adulta. Ma per il femminismo ho dato spazio, oltre che al contesto orizzontale dei fenomeni e ideologie di fase, all’orizzonte lungo rappresentato dai pensieri e gesti di altre donne e altri tempi. Sebbene il femminismo sia spesso considerato una filiazione del sessantotto, c’è un filo che dai gruppi radicali dei primi anni sessanta risale alle lotte delle donne europee nella guerra e nella resistenza, all’emancipazionismo tardo ottocentesco e primo novecentesco, al femminismo fine ’70014. L’espressione second wave o neofemminismo vuole rivendicare proprio questa «prima ondata». Nei capitoli successivi uso un’accezione estesa di politica, quella di allora. Mi interessava seguire due direzioni. Innanzitutto il passaggio dalla politica come specializzazione al principio del partire da sé, sostenuto dall’ala antiautoritaria del sessantotto e imposto dal femminismo, fino al ripiegamento sul modello del partito. Poi, la tensione fra il mito della democrazia 11

assembleare, gli esperimenti di democrazia partecipativa, il ruolo delle élites, il sogno della sorellanza e le differenze fra donne. Un posto particolare ha il movimento per i diritti civili dei neri americani, che precede il sessantotto, contribuisce a crearlo, ma oltrepassa il tema delle radici. Al suo interno si trovano, già dispiegati, molti problemi con cui dovranno misurarsi i movimenti, non solo americani: le forme organizzative, la violenza, l’amore politico e l’amore romantico, i rapporti maschile/femminile e uomo/donna. Il filone percorre tutto il libro, in particolare come terreno di coltura del femminismo americano, non il solo, ma il primo. Alle politiche delle donne ho affiancato quelle degli e delle omosessuali: per la comune rivendicazione della differenza, per il legame fra linea politica e identità scelta, infine per la capacità che mostra la loro parte più vivace di irridere all’imperativo della rispettabilità in cui spesso cade la nuova sinistra. Anche nel quinto capitolo sull’amore ho usato un’accezione ampia. Amore come innamoramento collettivo, deriva narcisistica, vicinanza agli oppressi, diversamente dosata a seconda non delle persone, ma della collocazione sociale – e non intendo i «nemici di classe», intendo i soggetti giudicati ininteressanti. Poi c’è l’amore fra persone, legame, incontro. E rivoluzione sessuale? Sì, con l’avvertenza che si parlava di sesso più di quanto lo si facesse, meno di quel che si pensava all’esterno, molto di più di quanto succedeva prima e di quanto sembra oggi se non si tiene conto delle emozioni che scatenava allora. Il sesto capitolo, intitolato al dolore, è, con l’ultimo, quello dove mi è stato più faticoso patteggiare, perché tocca momenti e prove il cui senso è stato spesso deformato dalla politica o respinto nella «preistoria» di cui parla Lea Melandri15. Penso al male d’amore e al male delle amicizie finite. All’atteggiamento verso la morte, che l’incrudelirsi dello scontro – quanti uccisi fra i militanti dei diritti civili – trasforma da ipotesi astratta a eventualità. Penso soprattutto all’aborto, già allora raccontato con toni diametralmente diversi: atto di liberazione trionfale, perdita, morte, peccato per le credenti, evenienza della vita, maledizione femminile. E questione etica, anche se nei movimenti lo 12

dicevano in poche e a bassa voce, per paura di essere usate dai proibizionisti – o di scoprire che era davvero così. Sull’ottavo capitolo, aggiungo che la violenza su cui mi concentro è quella di chi è rimasto al di qua dello spartiacque rappresentato dall’aver versato il sangue degli altri – un criterio tragicamente utile per orientarsi nel magma della violenza politica o parapolitica. Lungo tutto il libro faccio molte incursioni nel passato. È il mio lavoro, credo aiuti a capire, e che per le donne sia specialmente importante scoprire storie capaci di influenzare altre storie e infine le vite. Storie vere e inventate, storie amichevoli aperte a sprazzi di felicità e buona fortuna – la bruttina Lolita del racconto di Dorothy Parker, che delude le speranze materne trovandosi un marito bello innamorato e straricco (oggi c’è Ugly Betty, benvenuta). E anche storie impietose: la Bella Bionda che passa la vita a adattarsi agli uomini e si ritrova in compagnia di una bottiglia di whisky16. Infine un’osservazione. A volte mi permetto domande troppo esigenti, quasi anacronistiche, oppure faccio la storia con i se. È che penso sia un modo per non dimenticare che le cose potevano andare diversamente.

Memoria generazionale Per questo libro ho lavorato con atti di convegni e raccolte di materiali dell’epoca, giornali, alcuni documenti inediti, letteratura, analisi storiche, e in alcune ho trovato grande aiuto. Ma mi sono rivolta soprattutto alla memoria, quella incisa in slogan, immagini, canzoni, leggende, e quella narrativa, orale e scritta. Memoria come strumento per la storia, e qui ci si affida a metodi collaudati. Memoria come oggetto specifico di ricerca, come racconto con la sua cifra, stilizzazioni, derive, errori, con la sua scommessa di far fruttare l’«esserci stato» senza farne un attestato di verità e senza l’illusione di dire tutto. È un problema della memoria come della storia, che non consiste tanto nel diverso peso assegnato a alcuni momenti (è anzi interessante, per esempio, che esistano molte versioni della «fine del sessantotto»), quanto nella dif13

ficoltà di selezionare i fatti. Se dipingere è l’arte di svuotare una tela, qui si tratta di svuotare una tela di cui si è parte. La tentazione può essere allora quella di farci entrare tutto, le idee strutturate, quelle in farsi e quelle fisse, gli eventi e i minimi particolari, i barlumi, le schegge: la mappa dell’impero, così accanitamente dettagliata da ridursi a una duplicazione del reale. Forse non è l’ultima delle ragioni di una certa renitenza a studiare anni cruciali sia per la storia dell’Italia repubblicana, sia per quella dei giovani e delle donne del XX secolo. Le vaghezze, in fondo, sono il meno. C’è un’infinità di esempi sul modo in cui da un ricordo incerto, da una datazione sbagliata, si può risalire a un mondo. Il più citato, per la chiarezza e il rispetto che mostra ai narratori, si deve a Alessandro Portelli17. Negli anni ottanta alcuni metalmeccanici di Terni gli avevano raccontato che nell’ottobre 1953, durante un ciclo durissimo di lotte per il lavoro, un giovane operaio era stato ucciso dalla polizia. Se non che, il fatto era avvenuto nel 1949, nel corso di una manifestazione contro l’ingresso italiano nella Nato, e non si era riusciti a organizzare uno sciopero in risposta. Slittamento temporale non deliberato ma non incidentale, che rifletteva la spinta a trasformare quella morte, interna a una battaglia perduta, in un potente simbolo della tradizionale combattività ternana. La data era falsa, l’orgoglio operaio era vero. Peccato che per gli anni ’68 a volte la memoria sia spesso trattata un po’ troppo sommariamente, senza tener conto delle sensibilità maturate dalla storia orale, delle riflessioni su biografia e autobiografia, dei metodi dell’analisi del racconto. Poche notizie su chi scrive o parla e sul contesto dell’incontro, sul rapporto fra intervistato e intervistatore, sul modo in cui un ricordo è incastonato nel tessuto della narrazione. Dimenticanze ormai irrisolvibili. L’importante è che abbiamo ricerche sull’autoimmagine dei militanti, sulla presa di coscienza politica e sul disincanto, sulle relazioni personali, sulle genealogie familiari e ideologiche. È una memoria ricca. Maschile e femminile, anche se esiste una compartimentazione per cui di femminismo parlano le donne (e rari uomini), di tutto il resto gli uomini, e molte meno don14

ne. Socialmente e geograficamente variegata. Mista negli Usa fino all’esodo dei militanti neri. Ovunque estesa a tutte le componenti della cosiddetta nuova sinistra. Soprattutto è una memoria doppiamente generazionale. Che aver vissuto un evento da ragazzi aggiunga bellezza al ricordo è noto, la storia orale ha insistito molto sulla variabile dell’età. In questo caso è particolarmente importante, perché si tratta di vicende di giovani in quanto giovani e in comunanza con altri giovani. E perché è raccontata da adulti/anziani, che convergono nei medesimi sottogruppi di età. Le memorie passano attraverso corpi invecchiati, di cui in genere si parla poco, mentre non si parla quasi mai, come fosse una colpa, del sentimento di perdurante giovinezza che può irrompere nel ricordo – e nella vita. Anche se i movimenti hanno contribuito alla tendenza a spostare indefinitamente in avanti la vecchiaia, questi ex sembrano avere una coda di paglia eccessiva, tanto più se li si confronta con altri narratori. La rivendicazione più solare del proprio sentirsi tuttora giovani viene da alcune tranches biografiche di militanti del 1977 riunite in un bel libro da Enrico Franceschini18 – sarà l’età comunque più giovane, sarà che il bersaglio ideologico principale sono gli ex sessantottini, accusati di aver fatto un salto dall’adolescenza alla vecchiaia senza passare per la fase adulta. Il che, in fondo, non sarebbe così terribile: la vecchiaia è un momento biologico inevitabile, essere adulti è un criterio sociale, cui non è obbligatorio uniformarsi. Ma stranamente sugli aspetti generazionali c’è meno dibattito di quanto ci si aspetterebbe, meno tentativi di comparazione con altre memorie di gioventù, scolastiche, di gruppi di pari. Credo che a fare ostacolo sia il peso simbolico delle guerre moderne, specie la grande guerra, in cui la paga del soldato, il giovane per eccellenza, è la morte, e la memoria, ribelle o rassegnata che sia, è sempre estranea e carica di dolore, a cominciare dalla memoria incorporata nei canti popolari. Difficile confrontarsi con questo estremo. Ho invece incontrato punti di contatto fra racconti degli anni ’68 e altri di resistenza, in cui le smagliature sembrano legate sia al rischio fisico, sia al modo febbrile di percepire i fatti, 15

si tratti di uno scontro armato o di una corsa spericolata in macchina. Nell’accumulo di memorie spiccano grandi divergenze e topoi straordinariamente simili. Come quello che in Italia e Francia circola in alcune battaglie di strada: «Arrivano gli operai!», dalla cintura torinese, dalla banlieue parigina – e dai western, dal canto Partisans dove i resistenti sbucano da ogni parte, dalle chansons de geste, dalle fiabe. La memoria è una grande miscelatrice di fatti, leggende, materiali letterari, immagini. E una grande narratrice di genealogie: in un testo recente, la figura del partigiano, presente in molti racconti come padre simbolico, diventa protagonista, mediatore con la polizia e nume tutelare19. È una rivendicazione di identità per interposta persona così fusa nel racconto dei fatti da movimentare la distinzione fra registro narrativo dell’autopresentazione e registro del resoconto. Spesso i racconti più interessanti sono di donne, come se ci fossimo fatte carico di traghettare fatti e sentimenti nella sfera del pubblicamente memorabile o semplicemente di conservarli. Mi vengono in mente le parole di un ventenne di Sarajevo che spiegava il suo bisogno di voltare pagina, e la risposta della ragazza italiana Sabina Langer: «Potete dimenticare perché ci sono le madri che ricordano per voi»20.

Memorie del femminismo Il femminismo ha una memoria meno generazionale – si andava dalle ragazzine alle più che adulte; più omogenea socialmente, con una prevalenza vistosa di ceto medio, più varia culturalmente – studentesse, casalinghe, insegnanti, fotografe, grafiche, pittrici, musiciste. Fra le donne, il filone delle artiste è più interno al movimento che fra i giovani. Molte memorie anche qui, ma anche un legame fondativo con la memoria quale nessun altro movimento ha avuto. Il tramite è l’autocoscienza, metodo conoscitivo e narrativo che vuole svelare «come sono andate realmente le cose», e marcare la propria differenza rispetto alla storia. La prima che sa di essere parziale, e fa di questa consapevolezza la sua promessa di verità, la secon16

da che si pretende oggettiva solo perché non si accorge di essere completamente interna alla versione maschile. Il piccolo gruppo di autocoscienza è molte cose, ma innanzitutto il luogo di una contronarrazione, una comunità di parola e di ascolto in cui non si può ovviamente condividere l’esperienza del passato, ma quella di ricordarlo e interpretarlo sì. Con tutto il potenziale di rottura che ne deriva, e che fa della biografia l’orizzonte della soggettività femminile. Questo dono di nascita non scioglie di per sé i dilemmi della memoria. Al femminismo spetta il compito equilibristico di raccontare una vittoria vistosa ma parziale, senza svalutarla e senza nascondere che il conflitto non è chiuso e che i risultati non sono irreversibili. Spetta rendere avvincente una storia che l’etichetta del successo fa apparire conclusa, come un poliziesco di cui sia già noto il finale. Alcune delle conquiste degli anni settanta sembrano talmente ovvie da far pensare alle più giovani che ci siano sempre state. Per il femminismo, è un effetto a doppio taglio – la misura di quel che si è ottenuto e insieme il rischio di essere archiviato come reperto più o meno prezioso di un tempo concluso. Uscire da questa impasse è un’impresa da politica politicante, quella che fra le donne incontra più insofferenza. Secondo dilemma. Nella prima fase del femminismo dominava il paradigma dell’oppressione – la storia come una catena di sopraffazioni, le donne come vittime assolute, condannate al confino domestico, escluse dal mondo. Presto si è fatta strada una visione più ricca, attenta alle strategie femminili per guadagnare spazi di libertà, alle connivenze con il maschile, al modo in cui le donne creano una propria sfera pubblica e esercitano alcuni poteri. Ma se il paradigma andava sfumando, l’oppressione patita restava. E restava la tentazione di rappresentare un passato tutto in perdita, in cui l’approdo al femminismo simboleggiava una seconda nascita, il frutto della gravidanza di se stesse. Solo che raccontarsi come vittime è difficile, specialmente da quando il modo principale per avere voce è dichiararsi tali, in una gara a chi è più oppresso21. Solo che la nuova vita non è tutta nuova né tutta bella, mentre l’opinione comune misura il valore del movimento sulla situazione personale di chi ne ha fatto 17

parte. È «l’esame felicità»22. Caso unico: dalle svolte politiche non si pretende mai il passaggio istantaneo alla beatitudine. Dal femminismo sì. E alle donne si chiede, come a un minore che abbia voluto fare di testa propria: «Almeno [cioè: dopo tante proteste avventatezze sconvolgimenti], sei felice?». Il che contribuisce a rendere impervio il racconto dei limiti del movimento, specialmente in tema di democrazia e di sofferenze patite nei rapporti fra donne – idiosincrasie, abbandoni, ribellioni, logiche di dominio. Una femminista torinese, Angela Miglietti, ricorda la cartolina – «vi saluto SS» – che aveva mandato a una compagna del collettivo da cui era stata espulsa a inizio 197323. Ma in genere si tende a raccontare, più che gli scontri, la loro cornice teorica e politica. È un peccato che le rare registrazioni e i verbali delle riunioni di autocoscienza siano circolati pochissimo. Perché ritenuti deludenti rispetto al pathos della comunicazione verbale, forse per uno spirito proprietario simile a quello che qualcuno imputa agli altri movimenti, forse per la convinzione che l’esperienza non fosse comunicabile. Le competenze in tema di narrazione autobiografica guadagnate nell’autocoscienza sono ancora in buona parte da mettere a frutto. E sì che sarebbero «trattate» con cura e passione, in Italia certamente. In compenso si sono inventate formule narrative nuove, in cui si intrecciano, o semplicemente si giustappongono, memoria e teoria (o ricerca). Fra i primi esempi, Nato di donna di Adrienne Rich24, una riflessione sulla maternità come è stata costruita socialmente, la maternità istituzione, e su come invece la vivono le donne, compresa l’autrice. E Donne e guerra di Jean Bethke Elshtain25, che, mentre smonta i luoghi comuni sul naturale pacifismo femminile, racconta squarci della propria vita. È una risposta al buon imperativo, già posto dal sessantotto, di chiarire a chi legge la posizione da cui si scrive: l’essere nata donna in un paese o in un altro, avere la pelle bianca o colorata, una certa cultura, una certa immagine agli occhi degli altri, un certo corpo, sano infermo curato lasciato a se stesso. Giovane o vecchio. Scriveva Virginia Woolf che come donna la sua patria era il mondo intero. Sì, ma a condizione di tenere se stessa al cen18

tro; per una orientale o una latinoamericana sarebbe sempre rimasta una borghese bianca britannica colta. Per questo la posizione cambia a seconda della consapevolezza che si ha di altre storie e persone. Il femminismo bianco americano l’ha imparato. Dopo una fase in cui presumeva di rappresentare tutte le donne, ha capito che le radici intellettuali del femminismo nero stavano nei movimenti e nell’analisi dell’esperienza afro-americana fatta da alcune autrici nere. A proposito del Terzo mondo, Gayatri Spivak ha spiegato alle femministe occidentali che se vogliono capire queste donne devono riconoscere l’enorme eterogeneità delle situazioni, smetterla di sentirsi privilegiate come donne, e fare i conti con la forza d’inerzia dei quadri mentali costruiti a misura del loro pezzo di realtà26. In Italia, il lavoro di memoria ha un posto importante. Una delle prime riviste si è intitolata «memoria»; un’altra, «Lapis», ha dato molto spazio a racconti di origine. Varie autrici hanno lavorato sulla memoria biografica e autobiografica, i non molti testi di storia del femminismo anni settanta se ne sono serviti. Esiste una politica degli archivi di donne, una rete di centri di studio. Vuol dire che il femminismo si è fatto istituzione? In parte sì, come succede quando si vogliono far pesare le proprie idee nella sfera pubblica in assenza di un movimento di massa. Vuol dire che esiste una politica della memoria del e sul femminismo anni settanta? Più di una.

Violenza e lutto Rifiuti («non c’è più niente da dire», «non è così interessante»), ritardi, appuntamenti mancati. Così una storica, Isabelle Sommier27, descrive gli ostacoli frapposti da ex militanti della sinistra extraparlamentare italiana e francese alla sua richiesta di intervistarli. Che l’oggetto della ricerca fossero la violenza e il lutto ha sicuramente avuto il suo peso, anche se era prevista la possibilità di anonimato, e se si trattava di persone che non erano passate alla clandestinità e all’azione armata. Altri studiosi si sono scontrati con le stesse difficoltà, indipendentemente dal tema – quanto basta a smentire lo stereotipo dei sessantottini ver19

bosi. Ma l’interessante è che questo è un comportamento anomalo. Ricreare la propria memoria è una sfida per i movimenti e per i protagonisti di vicende collettive: pochi partigiani hanno rifiutato di raccontare, i reduci della Repubblica di Salò lo desiderano, fra gli ex terroristi di tutti i paesi prospera la vena autobiografica28. Forse molti ex sessantottini vogliono essere dimenticati, o ricordati solo per un segmento della loro storia. Come altri studiosi, Sommier registra la tendenza a indugiare sul sessantotto rappresentato come età del sogno e della festa, separandolo dal dopo, quasi che quel dopo fosse un’escrescenza aliena prodotta dal rinnovato dominio della politica sulla vita. Parla di rimozione, negazione, forclusione, di strategie per evitare i punti più dolorosi. Le fa risalire, oltre che alla frattura segnata dalla fine della militanza e dall’approdo alla condanna della violenza, alla questione del rapporto fra sessantotto e gruppi extraparlamentari da un lato, terrorismo dall’altro. Punto storicamente controverso e soggettivamente irrisolto, almeno per una parte degli ex, che rende più che mai faticoso il racconto. A dispetto del titolo, La violence politique et son deuil [La violenza politica e il suo lutto], mi pare che la violenza sovrasti il lutto, e il lutto sia stranamente impersonale, fuso in una sorta di piattezza che fa pensare sia al pudore, sia a una difficoltà di narrare la compassione. Si gioca spesso a fare l’elenco delle parole abusate o gergali di allora, sarebbe utile farlo per quelle perdute. Compassione è una (che ora sta vivendo un ritorno), insieme a bontà e cattiveria, assimilate a categorie ininfluenti, per non dire stravaganti se applicate a un adulto. Il problema di queste memorie è che per molti è difficile riconoscersi in quel che si era allora. Persone che schiacciavano l’individuo sulla sua appartenenza politica, che conoscevano la storia dell’Urss, Kronstadt, il Gulag, l’Ungheria, ma si accontentavano di dire di non aver ancora incontrato il comunismo – c’è da stupirsi per il sarcasmo di chi giudica la «scoperta del Gulag» da parte della gauche francese post-sessantotto una facile via di evasione dal proprio passato29. Come se di quel passato non facessero parte anche il Gulag e il suo oblio. 20

Fatta eccezione per chi la pensa come allora, questo è un fardello che si può nominare o no, assumere su di sé o diluire nella dimensione collettiva, ma che pesa comunque in ogni memoria, tanto che a volte ascoltando o leggendo si intuisce da quale esperienza è partita la riflessione. Altro che rottura biografica, il rischio è una sfiducia durevole verso se stessi, mitigata dall’essere forse il solo movimento al cui interno molti si rallegrano pubblicamente della propria sconfitta. Nella scelta non rara fra gli ex militanti di rinunciare alla politica per altre forme di impegno sociale, c’è sicuramente la sensazione che non si ritroverebbe comunque l’intensità di allora; ma insieme c’è la riscoperta di una preziosa ovvietà, che non a tutto si rimedia.

Vincere Cosa succede sui terreni dove per accordo quasi unanime i movimenti avrebbero avuto successo, la cultura, il costume, le sensibilità? Intanto, va detto che la prima ribellione viene dal beat, la più duratura dagli hippie, e chissà se sarebbero bastati loro a produrre cambiamento, magari in tempi più lunghi. Mentre la spallata si deve al movimento delle donne e ai movimenti gay. Come conquista civile o come segnaletica del politically correct, il linguaggio di oggi è figlio della costellazione controculture/ studenti del ’68/donne degli anni settanta/gay, non meno che di internet e della tv. Credo che anche questa memoria abbia una cicatrice: il dubbio di aver vinto male. Non mi riferisco al malfamato sbocco nel permissivismo e nell’ugualitarismo distruttore del merito, su cui vale lo stesso argomento applicato ai comportamenti sessuali: che la storia non va avanti trasponendo direttamente le idee nelle pratiche. Penso proprio alla scoperta più affascinante e effimera, il principio del partire da sé. Era una ribellione plurima. Contro il mito della neutralità della scienza, contro l’ideologia che fa dipendere la coscienza dalla condizione lavorativa, contro la logica del bisogno in nome del desiderio. Punto di partenza e di ar21

rivo, la rivendicazione del valore di ogni esperienza come spinta alla trasformazione. Oggi si direbbe sia avvenuto il contrario. Il partire da sé sembra ridotto a riflesso dell’ambiente, senza alternative e senza vie di cambiamento, a identità ripetitiva, a destino. Oppure a nuovo domicilio legale delle buone intenzioni. Caduto in relativo disuso, il paradigma intenzionalista che controbilanciava errori e crimini con la bontà dei fini si è riproposto per i «ragazzi di Salò» e per i terroristi anni settanta. E ha contribuito a spostare l’attenzione dalle vittime ai carnefici, come se la storia delle prime cominciasse e finisse con la morte, e quella dei secondi fosse una traversata passionale dell’ignoto. È l’esiziale mito romantico della soggettività annidata nel profondo del profondo, in contrapposizione al niente della superficie. Che al contrario, lo insegnano le scienze umane e il buon senso, non è soltanto il luogo dell’artificio, è quel che filtra da una negoziazione fra sé e sé e con gli altri. È vero, neanche su questo piano si poteva mettere il guinzaglio o il copyright alle idee. Dagli anni sessanta molte cose sono cambiate, la società dello spettacolo si è gonfiata al punto che il primo termine tende a dissolversi, il secondo a debordare ovunque – l’avevano previsto i situazionisti. L’interesse per le soggettività è diventato bulimia biografica che non distingue fra privato e intimità. Però mi chiedo se germi di queste derive non fossero presenti già allora, nel rapido ritorno alla separazione fra mezzi e fini, nello stesso principio «il personale è politico». Una cosa è lo show di Cohn-Bendit che irrompe in un incontro con docenti e autorità invitandoli a parlare della sessualità dei giovani, oppure la beffarda litania di guai amorosi con cui il Guido di Due di due disturba le riunioni del bellicoso movimento studentesco milanese30. Altra cosa è stata la cattiva commistione dei due terreni, l’incapacità di prevedere le derive panpoliticiste, le censure, l’arma delle richieste di autocritica. Persino la beata irriverenza aveva i suoi punti ciechi. Oggi è rito, vezzo, a volte un ben dosato servilismo – si irride chi conta e in quanto conta, e insieme gli si accredita il talento dell’autoironia. Ma già all’epoca, la scoperta euforizzante che il re è nudo era scivolata verso la ripetizione, l’accanimento estatico con22

tro persone che avevano già perso una parte del loro potere e tutta la loro sicurezza. Un nemico atterrato deve restare necessariamente un nemico? Da un certo punto in poi, diverso da situazione a situazione, l’autorità vera stava all’interno del movimento, ben identificabile in idee e persone in duro scontro fra loro. Così anche nei collettivi femministi. Quanto avrebbe giovato uno sberleffo. Che sia mancato fa pensare a una coesione super partes, ma soprattutto al ritorno della paura di esporsi, della «soggezione», parola oggi felicemente scomparsa, ma stato d’animo che riaffiora come voglia di rivalsa in certi spaccati di memoria. Anche per questo avrebbe poco senso parlare di un sessantotto tradito (dal cosiddetto revisionismo, dal terrorismo, dalla violenza del capitale), come si diceva allora della resistenza. Si è tradito da solo, è morto orfano di se stesso, fortunatamente senza lasciare custodi ufficiali, e purtroppo con poca cura per le fonti della propria storia. Il femminismo no. È la sola realtà che ha continuato a cambiare, investita da un lato da nuove generazioni che vogliono ridefinire il femminismo «in modo tale che voi rischiate di non riconoscerlo»31, dall’altra dalle esperienze e teorie lesbiche e transgender, da quelle di paesi in transizione o in sviluppo, delle migranti. Certo, ci si può chiedere se ci sia un rapporto fra la lotta femminista per la libera disponibilità del proprio corpo e le belle veline microvestite di Striscia la notizia. Se anche fosse? mostrarsi non è peccato né reato, non autorizza giudizi di valore; rientra nel diritto a andare all’arrembaggio, a «pazziare» un po’, che va riconosciuto all’età giovane. È anche vero che sono spariti molti aspetti del movimento di massa, sebbene in Italia l’ipotesi di una modificazione della legge 194 abbia portato in piazza una folla di donne. Comunque, ha ragione Donna Haraway, non si può ridurre la fisionomia dei movimenti sociali soltanto alla forma di massa32 che ha avuto tanto rilievo nel passato. In molti paesi il femminismo anni settanta conserva nuclei di elaborazione e documentazione, che vigilano, per così dire, sulla propria memoria. È una differenza da 23

cui si potrebbe partire per scrivere un altro pezzo di storia degli anni sessanta/settanta.

Perdere In compenso, credo che gli anni ’68 abbiano tutto sommato perso bene, e proprio sul terreno dove secondo gran parte dei commentatori avrebbero inciso meno, la politica. Per alcuni, lo scacco del sessantotto apre nell’Europa orientale la strada all’89: gli studenti sono stati schiacciati militarmente insieme ai movimenti di cui erano parte, ma nel giro di pochi anni nasceranno Solidarnos´c´, il dissenso e la lotta contro le burocrazie al potere, fino alla dissoluzione dei regimi. Per altri, la fine del sogno di cambiamento universale rappresentato dal sessantotto è andata a rafforzare movimenti che si fondano sulla parzialità – su diverse identità di genere e di gruppo, sulla lotta a fianco dei migranti e dei disabili, a protezione del vivente non umano, per la pace o per un fine, come la difesa dell’ambiente, in cui l’universalità è qualcosa di molto diverso e più ampio di quella pensata negli anni sessanta e settanta. Al modello del militante starebbe subentrando quello del volontario nonviolento33. Secondo Paul Berman34, che vede una radice del sessantotto nella storia delle sinistre americane fra le due guerre e durante la caccia alle streghe, una parte degli ex studenti si è spostata su posizioni libertarie-liberali, facendosi paladina dei diritti umani e civili. È tornata così alla critica della sovranità statale in cui decenni prima Hannah Arendt aveva visto una delle origini del movimento americano. E ha sostituito all’utopia della rivoluzione quella di un mondo capace di farsi carico dei più vulnerabili, al di là e a dispetto degli Stati in cui vivono. A prezzo di contraddizioni frontali. Perché da un lato quell’utopia si inserisce nella spinta alla delegittimazione della violenza che caratterizza in occidente il passaggio del secolo. Dall’altra è costretta a scommettere sulla capacità regolatrice di organismi internazionali che hanno già dato cattiva prova di sé. Ma dopo 40 anni di storia e di vite, avrebbe poco senso discutere se Fischer, Langer, Kouchner, cofondatore di Médecins 24

sans frontières e favorevole all’intervento in Kosovo, siano figli legittimi del sessantotto. Oppure se lo sia Gino Strada, ex militante del movimento studentesco della Statale di Milano, creatore di Emergency e esponente del pacifismo «senza se e senza ma». La saldatura (e la contraddizione) fra «mai più guerre» e «mai più Auschwitz» era già nata; l’idea di un nuovo diritto internazionale fondato sul principio di opposizione ai genocidi, alle violazioni dei diritti umani, alle pulizie etniche, era ancora in nuce. In fondo, aver perso bene vuol dire qualcosa. Che quel che si è capito nel fallimento conta, che forse l’eterogenesi dei fini esiste – specialmente se è sospinta da un movimento, quello delle donne, che a quei fini ha guardato fin dai suoi inizi. In molti paesi, le grandi (piccole) manovre per una rivoluzione che non c’è stata hanno contribuito a legittimare riforme di civiltà e di modernità – detto senza alcun retropensiero negativo. L’assaggio di rivoluzione simbolica, e dunque politica, vissuto nella «presa di parola» del maggio parigino35 ha messo in scena un’altra idea di cittadinanza, in cui è decisiva la facoltà di presentare/raccontare se stessi in autonomia. Si sono formulati nuovi diritti umani e civili, ma la cosa più importante è che sono aumentati i soggetti in condizioni di rivendicarli in prima persona, dalle carceri, dalle caserme, dagli ospedali, dal non lavoro, dalla disabilità. E dovranno aumentare, dalle strade, dagli incroci delle strade, dai margini, dalle terre di nessuno. Quante cose ha contribuito a far nascere quella che a Raymond Aron era sembrata una rivoluzione introvabile, un evento in cui non era successo niente36. Per chiarire meglio da che «posizione» guardo a quegli anni: non avevo e non ho alcun tipo di fede religiosa. Sono una ex del sessantotto e di Lotta continua (non del femminismo), in genere piuttosto smemorata. Ma quando si è sperimentato qualcosa di simile alla felicità pubblica, lo scotto sono certe visite a sorpresa della nostalgia.

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Radici I

Nati ieri «Del passato facciamo tabula rasa», recita un verso dell’Internazionale dei lavoratori in lingua francese, e non c’è quasi canzone politica in cui non si parli di fine di un’epoca e di seconda nascita. Ogni movimento ha bisogno di immaginarsi nuovo, e in un certo grado è davvero così. È nuovo per quanti scoprono al suo interno la politica e il piacere di essere parte di un collettivo, lo è per chiunque vive lo stupore di fronte al suo manifestarsi – diversamente, non ci sarebbero il gusto e la forza di agire. Vale in particolare per il ’68, che ai suoi esordi si sente per così dire «nato ieri», senza antenati né maestri; ma per essere legati a una tradizione non c’è bisogno di rivendicarlo e neppure di saperlo. Del resto novità non significa mancare di radici, significa selezionarle, rimescolarle, a volte distorcendole, occultandole, gonfiandole. Più che stabilire continuità, la funzione elettiva degli alberi genealogici è mostrare i modelli cui si rivolge un fenomeno nuovo, quelli che ignora, quelli che inventa, e gli effetti che le scelte hanno sull’autoimmagine, la memoria, la storia. È proprio su questi punti – da dove veniamo, in compagnia (o in assenza) di chi – che le interpretazioni spesso divergono, e che possono scontrarsi gli stessi movimenti quando, passata la fase nascente, cercano forza e legittimazione nel passato. Per questo studiare una genealogia può essere affascinante. Vista dall’oggi, quella del sessantotto è a dir poco affollata. Si va dai marxismi variamente critici al maoismo all’anarchia alla tradizione della democrazia partecipativa, dai consigli alla teologia della liberazione ai molti «anti»: antimperialismo, anti26

razzismo, anticonsumismo, e, in Usa, l’antitotalitarismo libertario di cui è capofila Hannah Arendt. In primo piano, la critica alla famiglia dell’esistenzialismo francese e della Scuola di Francoforte, che la vede come una fabbrica di personalità rigide e autoritarie, funzionali al successo del nazismo. Mentre la Comune di Parigi convive con le lotte di liberazione anticoloniale in Africa e in Asia, con l’Algeria, con Cuba, si stagliano su ogni modello di antagonismo le campagne per i diritti civili dei neri d’America e contro la guerra del Vietnam. A questo patrimonio attingono in forme proprie tutti i movimenti studenteschi, e poco importa che la sua influenza cambi da situazione a situazione, o che alcune sue componenti siano in contrasto fra loro. Per la prima volta dal dopoguerra si crea, indipendentemente da partiti e sindacati, una comunanza internazionale di idee e di lotte. È l’aspetto più citato del sessantotto. Non per questo spariscono le specificità nazionali o locali. In Italia i tardi anni cinquanta e i sessanta sono quelli detti della sprovincializzazione. In un paese che sull’onda del miracolo economico sta sempre più urbanizzandosi e scolarizzandosi, arrivano la letteratura beat, Marcuse, Goffman, Betty Friedan, Simone Weil, Hannah Arendt, Simone de Beauvoir, la sociologia, lo strutturalismo, la psicanalisi. Nella produzione nazionale coesistono gli ultimi romanzi neorealisti e le avanguardie letterarie, i film di Pasolini, Antonioni, Fellini e la commedia all’italiana, riviste come «L’espresso» e poi «Panorama», i primi cantautori, i Beatles, le ricerche sulla musica popolare del Nuovo canzoniere italiano, le canzoni politiche del gruppo torinese dei Cantacronache. Alcune riviste – «Quaderni rossi», «quaderni piacentini», «giovane critica» – cercano di proiettare il pensiero di Marx sul contesto della piena modernità. «Ombre rosse» guarda al nuovo cinema e alle nuove culture. Nel 1965, alcune donne del gruppo milanese Demistificazione dell’autoritarismo (Demau) stendono quello che si può considerare uno dei primi manifesti del neofemminismo internazionale1, in cui si teorizza la necessità per le donne di una riflessione autonoma dai partiti. Verso la fine del decennio, piccolissimi gruppi traducono e 27

diffondono documenti del movimento studentesco e dell’antimilitarismo americani, che fanno scoprire quanto siano ampie la renitenza e la diserzione alla guerra in Vietnam. Intanto si struttura il mondo della nonviolenza, cresce, come in Francia, il ruolo del dissenso cattolico, con i preti operai, le comunità di base, e figure come padre Ernesto Balducci e don Lorenzo Milani. Fondatore a Barbiana nel Mugello di una scuola per i ragazzi di famiglia contadina, don Milani denuncia con Lettera a una professoressa2 l’anima di classe della scuola – in nessun altro paese europeo un religioso avrà tanto seguito. Ancora fragile il riferimento alla resistenza, amata e insieme tenuta a distanza dalla celebrazione che ormai ne fanno tutte le istituzioni. Sono altri gli eventi cui molti giovani si sentono vicini: il luglio 1960, quando il democristiano Fernando Tambroni, capo di un governo monocolore costituito con i voti determinanti dell’Msi, concede ai neofascisti di tenere il loro congresso nazionale a Genova. E Genova, città di forti tradizioni operaie, scende in piazza, subito seguita da moltissime altre: nel corso degli scontri – in prima fila quelli che il Pci chiama «i ragazzi con la maglietta a strisce»3 – la polizia spara, uccidendo 10 manifestanti a Reggio Emilia e in Sicilia. È una scossa psichica e politica, che porta alla caduta di Tambroni e all’archiviazione di formule governative di questo tipo. Due anni dopo, i «fatti di piazza Statuto» a Torino, quando l’accordo separato sottoscritto da un sindacato padronale e dalla Uil per il contratto dei metalmeccanici provoca giorni e giorni di rivolta operaia, che il ministro dell’Interno addebita a trame comuniste, i sindacati e il Pci alla presenza di «teppisti prezzolati». Invece si tratta per lo più di giovani operai meridionali, che il boom economico ha portato nelle fabbriche del nord4. La nuova offerta di idee e di pratiche – che vengono sia dall’interno del mondo giovanile sia dall’esterno e che hanno un raggio di influenza molto diverso – fa crescere la politicizzazione, soprattutto a sinistra, e varie forme di agitazione investono le scuole superiori. Momento clou, nel 1966, lo «scandalo» della «Zanzara», giornalino di istituto del liceo milanese Parini, che pubblica il resoconto di una tavola rotonda organiz28

zata da due studenti e una studentessa su sessualità, rapporto con i coetanei, famiglia, religione, morale. Titolo: Che cosa pensano le ragazze d’oggi?5. Le ragazze di oggi rispondono, con qualche ingenuità, qualche estremizzazione e molto coraggio, rivendicando «assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità [...] in modo che il problema sessuale non sia un tabù, ma venga prospettato con una certa serietà e sicurezza», uguale diritto ai rapporti prematrimoniali per maschi e femmine; infine, osano sostenere che «la purezza spirituale non coincide con l’integrità fisica». Mentre il preside e alcuni professori cercano un confronto, la Gioventù studentesca di don Giussani protesta duramente e vari genitori minacciano di ritirare i figli dalla scuola. Il vicequestore avvia un’indagine, e i tre promotori vengono convocati dal sostituto procuratore a palazzo di Giustizia. I due maschi sono costretti a spogliarsi e a sottoporsi a ispezione corporale da parte di un medico. La ragazza rifiuta e chiama i genitori6. La «Zanzara» guadagna grandi titoli sui giornali, una parte dell’establishment culturale protesta, l’Associazione nazionale magistrati si spacca. Al processo, che si chiuderà con il proscioglimento, interviene una folla di giornalisti, «Le Monde» e il «New York Times» mettono in prima pagina il caso, visto come il debutto di uno scontro fra due modi di concepire la morale, la vita, l’educazione, il diritto, e come una sferzata contro l’ipocrisia travestita da purezza etica.

La scuola di massa L’episodio della «Zanzara» prefigura vari contenuti del ’68: la combattività degli studenti, il desiderio di trasformazione nei comportamenti sessuali e privati, lo sconcerto degli adulti, la reazione violenta e rigida delle istituzioni – a Milano solo alcuni docenti hanno scelto da subito la via del dialogo. Quasi tutta la scuola italiana sembra fare del suo meglio perché i conflitti esplodano, ed è così in grandissima parte dell’occidente, proprio mentre sta crescendo enormemente la frequenza in tutti gli ordini di studi (in Italia già prima della riforma che introduce la 29

media unica nel 1962). Non è solo effetto del baby boom, è che l’istruzione viene ora considerata una delle forme più importanti di servizio sociale, un diritto umano fondamentale, uno strumento irrinunciabile per l’uguaglianza delle opportunità e per la tenuta delle democrazie. Governi e famiglie investono sempre di più nella scuola, si tende a ridurre la separazione fra indirizzi di formazione culturale e indirizzi di avviamento al lavoro, a alzare l’età dell’obbligo scolastico, a sovvenzionare gli studenti degli strati più poveri. Peccato che molte cose restino sulla carta. Manca un rinnovamento dei metodi e dei programmi (e in vari paesi mancano le strutture). Se è vero che molti ragazzi di nuovi ambienti sociali proseguono oltre la scuola dell’obbligo, resiste una selezione affidata al meccanismo degli esami, e influenzata dai vecchi parametri di censo e di estrazione familiare. La nuova scuola nasce fra grandi contraddizioni, e già in origine è minata nel suo ruolo formativo dal grande «educatore clandestino» che è la cultura di massa. In compenso, diventa un luogo di incontro e di relazione come mai era stata fino allora: il tempo passato nelle aule aumenta, la condizione di studente diviene una parte sempre più lunga della vita, adolescenti dei due sessi e di provenienze sociali diverse condividono esperienze e stati d’animo. Nelle università degli anni sessanta si affolleranno giovani già predisposti a una critica radicale dell’istituzione; e presto scopriranno che anche la cultura accademica è poco attraente, e che essere studenti non ha più niente di prestigioso. Al contrario, prolunga la dipendenza dalla famiglia, costringe a vivere con il denaro contato, non garantisce un lavoro – che comunque sarà per lo più dequalificato e a basso reddito, perché ai nuovi intellettuali «di massa» si chiedono compiti di esecuzione. Sono di inizio anni sessanta, e toccano moltissimi paesi, fra cui l’Italia, le prime lotte per il diritto allo studio e sugli sbocchi professionali. Alla vigilia del ’68, l’Internazionale situazionista, piccolo gruppo artistico e politico fra i più radicali, diffonderà un libretto, De la misère en milieu étudiant7, che smonta ogni illusione sul presente e sul futuro degli universitari. 30

Culture contro, cultura di massa Già nella seconda metà degli anni cinquanta, scrive Goffredo Fofi, fa la sua comparsa una generazione – la prima – che rifiuta di crescere «sana e conformista, nella subalternità beneducata all’autorità adulta»8; che vede l’establishment come una forza di occupazione9. In tutto l’occidente inizia un movimento di distacco da una società vissuta come il regno della noia, della smania consumistica e del vuoto di idee, di una competizione frenetica e patetica – e dell’incubo della catastrofe nucleare. I ragazzi del baby boom ritirano la fiducia al mondo adulto, mentre il gruppo dei pari, un tempo tappa regolamentare della maturazione, tende a costituirsi come universo separato e antagonista, con propri stili di vita e propri idoli e ideali10. Culla e centro di irradiazione sono gli Stati Uniti della guerra fredda, del benessere e dei ghetti neri, dove in molte scuole si risponde agli studenti che chiedono un rapporto con l’attualità istituendo corsi sui doveri della babysitter o sui modi per sviluppare lo spirito di corpo. Anche se il principale terreno di coltura dell’insofferenza giovanile sono gli adolescenti maschi di classe media, il fenomeno tocca ragazzi e ragazze sia neri sia bianchi e di diversi strati sociali. Le differenze restano, ma il dato dell’età ha una forza unificante prima sconosciuta, il conflitto generazionale quasi si sovrappone a quello di classe. È a partire dalla vita quotidiana che il principio di autorità comincia a vacillare. In tempi rapidi, i modelli adulti perdono presa, il sogno americano – l’approdo a una vita media e mediamente soddisfatta – viene irriso e parodiato. Cambia il modo di presentarsi – capelli troppo lunghi o troppo corti, jeans, giubbotti, stili trasandati e casuali. Si fanno strada forme di trasgressione sul piano sessuale e amoroso. Dilaga la passione per il cinema, i viaggi, la musica, i nuovi balli, i concerti, la velocità – si corre in motocicletta o su vecchie auto truccate e ridipinte, ma si possono anche passare ore al tavolino di un caffè o sdraiati sull’erba di un parco, occhiali da sole e sigaretta spenta in bocca. In senso figurato e letterale, i ragazzi non stanno più al posto previsto per loro. 31

Nella genealogia del sessantotto questo spaccato di comportamenti ha un posto speciale, e così i suoi primi laboratori di idee e di immagini, la cultura di massa e le controculture beat e hippie. È del 1954 The Wild One (Il selvaggio) con Marlon Brando teppista proletario in giacca di pelle; è del 1955 Rebels Without a Cause (Gioventù bruciata), con i ribelli e fragilissimi figli della borghesia James Dean e Natalie Wood. Nel giro di un anno, nel cinema si è compiuto il passaggio dalla classica rivolta della povertà impersonata da Brando, a una rabbia confusa e indefinita, diretta contro il sogno americano e nello stesso tempo contro l’inadeguatezza degli adulti ai loro ruoli tradizionali: Gioventù bruciata, una storia di autodistruttività giovanile, è anche una testimonianza della crisi della mascolinità adulta seguita alla guerra, e del desiderio di un adolescente che il padre riprenda appieno la parte del capofamiglia. Lo stesso anno, un film non a caso sulla delinquenza minorile, Blackboard Jungle (La giungla delle lavagne, tradotto da noi in Il seme della violenza) proietta in testa alle vendite Rock Around the Clock di Bill Haley e The Comets. Ma Haley è più che adulto, e si vede. La seconda metà del decennio è nel segno del fragorosamente giovane Elvis Presley. A calamitare l’identificazione dei teenager è l’abbinamento fra suono e immagine, fra corpo e voce, il suo appeal erotico, la sua contaminazione fra la musica pop ascoltata dalla borghesia, il country, diretto alle masse contadine del sud e alla classe operaia da poco trapiantata nelle città, il rhythm and blues, sound urbano dei neri – tre filoni allora separati, ciascuno con le sue classifiche di vendita, i suoi studi, i suoi circuiti di diffusione. D’ora in poi, quell’ibrido musicale e politico che è il rock sarà in molti paesi la colonna sonora della rivolta di due generazioni. Nel frattempo ha preso forma la controcultura della Beat generation, fenomeno prima letterario poi sociale. Ispiratori, un gruppo di narratori e poeti (Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Lawrence Ferlinghetti, Diane Di Prima, Gregory Corso), che uniscono alla ricerca di nuove forme espressive il rifiuto dell’occidente aggressivo e tecnologizzato, il culto 32

dell’amicizia, l’amore per il jazz e il buddismo Zen, l’uso di droga e alcol per ampliare le capacità percettive; che scelgono la precarietà lavorando saltuariamente, vivendo mentalmente e spesso materialmente «sulla strada» – On the Road è il titolo del libro più famoso di Kerouac, scritto nel ’51, uscito nel ’5711. È anche attraverso questi trenta-quarantenni nemici della «meccanizzazione delle anime», che un’intera generazione incontra il pacifismo, l’anticonsumismo, l’oriente, l’identificazione con i diseredati, le droghe, una sessualità più aperta (ma a volte soltanto più disinvolta e svuotata di significato). In questi ambienti fiorisce l’underground, che crea e fa circolare fuori dal mercato un’infinità di pubblicazioni e filmini autoprodotti. Da qui prende origine negli anni sessanta il movimento hippie – capelli lunghi, vestiti a poco prezzo, unisex, colorati e scintillanti, marijuana e acidi, un rispetto affettuoso per la natura e gli animali, lo slogan «fate l’amore non la guerra», le comuni alternative dove sperimentare rapporti diversi. Gruppi e movimenti di protesta esistenziale e di «contestazione» dell’ordine anche in Francia con i Blouson noir, in Olanda con i Provos, a Mosca con gli Hooligans, in Gran Bretagna con i Mods e gli Skinheads, ragazzi per lo più di famiglia proletaria, che reagiscono allo smantellamento delle tradizionali comunità operaie esasperandone le connotazioni12. Non organizzato e non sistematico, lo sforzo per capire quali sono i propri diritti e bisogni inizia in questi anni e in questi modi, e paga costi alti. Quale che sia la provenienza sociale, i giovani oscillano dall’euforia al senso di insignificanza e solitudine, a ribellioni, fughe da casa, episodi di teppismo. La trasandatezza diffusa non è casuale né necessariamente anticonsumistica; ma non è neppure il conformismo alla rovescia che idolatra il nuovo, piuttosto un intrico di motivazioni che partono tutte dal rifiuto di considerare l’esistente come l’unico mondo possibile. Ecco l’imperdonabile. Fra gli adulti – l’ultima generazione a aspettarsi di essere obbedita e imitata – sedimentano astio, disprezzo, e una voglia di repressione ampiamente soddisfatta da polizie e tribunali. Se si sommano questa insofferenza/turbolenza e le prime lotte nelle scuole, ce n’è abbastanza per dire che il ’68 arriva inat33

teso, ma che non era affatto imprevedibile. E per rimescolare a fondo la genealogia del movimento. Per quanta parte il ’68 rientra nella storia della ribellione dei giovani nel XX secolo, per quanta parte si inserisce in quella delle lotte popolari e di classe? C’è chi come Peppino Ortoleva, Nanni Balestrini e Primo Moroni13, valorizza il primo aspetto, chi tenta di incrociare i due percorsi, come Edgar Morin, che unifica i due poli dell’esperienza giovanile, il disagio esistenziale e il progetto rivoluzionario, in un’unica «classe adolescenziale», destinandola allo stesso ruolo svolto dalle classi in senso proprio – con il che, però, la peculiarità della rivolta rischia di perdersi, ipotecata da concetti e quadri interpretativi troppo mediati14. In molti testi recenti, beat, hippie, rock sono invece a mala pena ricordati, e per lo più solo come antecedente del sessantotto. Strano disinteresse, se si pensa a come da decenni il concerto rock e pop sia diventato una componente indispensabile delle manifestazioni giovanili, dai raduni di papa Wojtyl´a alle iniziative politiche e sindacali. Forse è un dispettoso residuo politicista, che porta a vedere nelle espressioni organizzate la misura delle cose, e si lascia sfuggire alcune verità. Innanzitutto questi movimenti giovanili, per quanto ingenui e pieni di limiti, sono i primi a avvertire l’invivibilità sociale, e reagiscono con un tentativo di «secessione» rilevante in sé e per sé, che non si fonda sulle etnie o sui localismi, ma cerca di costruire negli interstizi della società qualcosa di interamente diverso, un mondo parallelo non più basato sul lavoro e sulla integrazione subalterna nella famiglia, nello Stato, nelle ideologie. Anche per questo – è la seconda verità – contribuiscono a modellare alcuni nodi delle relazioni e della politica su cui la tradizione dominante nelle sinistre tace, sorvola, o riproduce l’esistente, per esempio il rapporto con il mondo adulto, con la famiglia, con il lavoro, la cognizione del dolore, il corpo, la sessualità. Infine, sono portatori «di un’universalità fondata sul bisogno (o desiderio) di comunicare in maniera ‘altra’ e di trasmettere in forma nuova, anche attraverso la musica beat, la propria particolare condizione fondata sulla ‘diversità’»15. 34

Elvis è una tigre di carta?16 Trovare sullo stesso fronte fenomeni come la controcultura e le culture giovanili legate al cinema e al rock, sembra una contraddizione. La linea di confine è invece straordinariamente fluida, e non solo: tutte e due confliggono con l’accademia e le élites intellettuali, con il robusto versante perbenista della produzione di consumo, con la vocazione egemonica della politica, tutte e due hanno un potere unificante straordinario (anche se quello del rock è ineguagliato), e nascono nel clima ossessivoestremista della guerra fredda. Persino dove la diversità è radicale e dichiarata, il rapporto con il mercato, esistono punti di contatto e di sovrapposizione. La controcultura non rimane chiusa in se stessa e nei propri circuiti informali. Ci sono progetti artistico/culturali – di fotografia, pittura, design, artigianato, moda – che guadagnano nicchie di mercato. Anzi, secondo Marwick, un tratto degli anni sessanta è proprio l’intreccio fra individualismo, solidarietà e uno spirito imprenditoriale che consente a molti giovani di mantenersi e imporsi facendo quel che gli piace fare17. L’ostilità sociale colpisce in blocco le culture dissonanti, ma è più smaccata verso il rock. Per il reverendo David A. Noebel, autore di Communism, Hypnotism and the Beatles18 la nuova musica è il frutto di una cospirazione comunista per distruggere la gioventù americana. Secondo un documento governativo Usa sulla delinquenza giovanile, «il gangster di domani è il tipo alla Elvis Presley di oggi». Agli occhi degli adulti, Presley è il segnale che i «bravi ragazzi» bianchi possono trasformarsi in teppisti occupati a sfidarsi in gare di velocità o a trascinarsi come vecchi sui marciapiedi, in alieni che mutuano gesti, posture e abbigliamento dai neri, dal proletariato, dalle ragazze, scompaginando le barriere di classe, di colore, persino di genere – la caccia alle streghe unisce in una sola categoria di nemici i comunisti e gli omosessuali, e Presley, con le sue giacche luccicanti, i capelli lunghi sul collo, l’aspetto adolescenziale vagamente effeminato, il modo di ruotare il bacino e la spinta in avanti del pube («Elvis the Pelvis») sembra inaugurare una sessualità insieme 35

iperbolica e incerta. Oltre che alla sua formula musicale, si devono alla novità della sua immagine corporea sia il culto di cui lo circondano i giovani e le band, a cominciare dai Beatles, sia l’astio del ceto medio rispettabile. Sul «Los Angeles Mirror News», nell’ottobre 1957, si legge: «L’esibizionista sessuale Elvis Presley si era finalmente materializzato in carne e ossa davanti a una Los Angeles femmina di adolescenti in visibilio offrendo alla libido di tutte le ragazzine uno stimolo impossibile da dimenticare. [...] Urlavano a squarciagola senza sosta mentre Elvis si dimenava, saltava e ruotava il bacino da un lato all’altro del palcoscenico fino a ridursi, 35 minuti dopo, a una massa fremente a terra. Con chiunque altro la polizia avrebbe interrotto lo spettacolo a 10 minuti dall’inizio. Ma non nel caso di Elvis, il nostro nuovo eroe adolescenziale nazionale»19, dove si sente un orgoglio reticente per il neonato mito americano. Del resto, nella società adulta non c’è solo il reverendo Noebel. Anzi, secondo Marwick, il cambiamento culturale si deve anche alla flessibilità con cui donne e uomini in posizioni autorevoli nella mainstream culture guardano alle nuove tendenze20. Resta aperto il problema vero, il rapporto dei comportamenti cosiddetti irregolari con le strategie produttive, la pubblicità, i media. Mentre oggetti, luoghi e modi di divertimento, usi del tempo libero, diventano sempre più identificabili in quanto «giovanili», il mercato si adegua e li stimola, esaltando la duttilità, la curiosità, l’individualismo e associandoli ai nuovi prodotti. Il ’900 è il secolo dei giovani non solo per la nuova consapevolezza generazionale, ma perché gli adulti hanno capito che buon investimento siano per i consumi. E per la prima linea – nella seconda guerra mondiale l’età minima, fatta eccezione per la Germania, è simile a quella della grande guerra, ma è nuova la preponderanza numerica di ragazzi che dovrebbero ancora andare a scuola. Della cultura di massa e dei persuasori occulti21, come venivano chiamati allora i pubblicitari, si preoccupano intellettuali e politici. Per (alcuni) conservatori, il rock è sesso, violenza e droga, per (alcuni) progressisti è una rivolta fittizia, senza la prospettiva di classe a darle dignità. Trasversalmente agli schiera36

menti, chi crede nell’onnipotenza del mercato ritiene che la cultura giovanile sia essenzialmente una sua emanazione, come se un fenomeno capace di coinvolgere decine di milioni di persone si potesse costruire dall’esterno e a tavolino. Ovvio che tutto sia più complicato. Portelli ricorda che a metà anni cinquanta per la prima volta una canzone di Presley e una di Carl Perkins si impongono in tutte e tre le classifiche della musica americana. E collega questa svolta non tanto alla pubblicità quanto alle molte facce che fanno parte a pieno titolo del rock, e, scrive un critico nel 1975, del «ritmo delle nostre vite»22: l’aggressività sessuale esplicita e la tenerezza, la violenza e il sentimentalismo appiccicoso, le parole per bene cantate con voce da preorgasmo, la ribellione, il sogno e l’accettazione dell’esistente, la banalità e la raffinatezza. Poli contrapposti e complementari, come lo sono il cattivo ragazzo Presley, colpevole di aver imbiancato la musica nera (o annerito quella bianca) e il bravo ragazzo Paul Anka, portavoce del rock melodico e rassicurante. Del resto, la prima ambiguità passa attraverso i protagonisti: al country, Presley affida l’amore e il rispetto verso i limiti e le convenzioni della sua famiglia, della sua comunità, del suo paese; ai blues, il rifiuto di quei limiti e di qualunque limite. Ma «una trasgressione immaginaria è già una trasgressione reale [...]. Congelando questa trasgressione illusoria e amministrata [...] si riconosce al tempo stesso ai giovani il diritto di desiderare di essere diversi, e lo si arricchisce di una specie di memoria collettiva, sia pure fittizia e surrogata», scrive Portelli. «Anche l’adolescenza permanente può essere l’anticamera di una diversità permanente»23. E conclude, parafrasando lo slogan maoista, che Elvis è una tigre di carta, ma pur sempre una tigre.

Visto dall’Italia Ancora lontana dai livelli di modernizzazione dei paesi più industrializzati, l’Italia non lo è se si guarda all’insofferenza giovanile, già visibilissima alla fine del decennio cinquanta con il teppismo adolescenziale e le fughe da casa, poi con la compar37

sa di quelli che i media chiamano teddy boys, beatniks, lolite, rockettari, capelloni. Elvis Presley e James Dean diventano rapidamente icone, i primi cantautori e i primi «urlatori» sono portati al successo e adorati dal pubblico giovane. A Napoli nel 1966, diecimila adolescenti invadono le strade in attesa della cantante Rita Pavone, di cui quell’anno sono stati venduti un milione di dischi in quattro mesi. Nel 1959 la diciannovenne Mina aveva dichiarato: «devo solo preoccuparmi di tirar fuori l’inferno di ritmi che tutti noi giovani abbiamo dentro»24. Dire tutti era una forzatura. All’epoca non c’è ancora un «noi» onnicomprensivo, ci si riunisce in realtà circoscritte o per gruppi, la «condizione giovanile» di cui cominciano a parlare esperti e inesperti è tutt’altro che omogenea. Ma anche in Italia il dato dell’età si impone: i primi a emigrare al nord sono i giovani, fra i ragazzi di classe operaia e quelli di ceto medio corrono predilezioni e idiosincrasie simili, forme (o speranze) simili di trasgressione sessuale e amorosa. Nell’immaginario degli adulti irrompe così la «gioventù bruciata», che chiama a raccolta «i minus habentes [...] i tarati, i pigri, gli invertiti, gli anormali, tutta la fauna parassitaria», spoliticizzata e incapace di fare sacrifici. Su molti giornali e in molte lettere ai giornali si irridono i cantanti più popolari, ma anche le messe beat organizzate in qualche parrocchia dopo il Concilio Vaticano II. Si chiedono arresti, fogli di via, lavoro forzato, rasature coatte, idranti per lavare via la «sporcizia», insetticidi, disinfestazioni, repulisti – linguaggio parafascista in cui gli irregolari sono veicoli di contaminazione del corpo sociale. «Sono brutti», si legge in terza pagina sul «Corriere della Sera» del 5 novembre 1965, «infestano la scalinata di Trinità dei Monti, [...] tipi di apparente sesso maschile che portano i capelli lunghi quasi come le donne [...] secondo una moda mutuata dai Beatles, i quattro giovanotti che l’Inghilterra anziché premiare, avrebbe dovuto [...] esiliare in Patagonia»25. Sulla «Stampa» dell’11 novembre, Elsa Morante risponde di non vedere «nessun oltraggio nella foggia dei capelli lunghi e del vestiario dimesso, [...] foggia già confortata da innumerevoli esempi illustri tra i quali (per citarne solo due) Dante Alighieri e Giuseppe Garibaldi»26. 38

Pajetta denuncia «crociate moralistiche e teppismo contro minigonne e capelloni» a Roma, e il quasi linciaggio di una cinquantina di loro da parte «di un migliaio di moralisti improvvisamente impazziti». Per Andrea Barbato, «la ribellione delle zazzere non è un caso snob, viene dalle borgate», e secondo Enzo Forcella testimonia «di un più generale senso di insoddisfazione [...] di una stanchezza accumulata in tutti i settori della società italiana»27. Nel frattempo Fernanda Pivano fa conoscere in Italia gli autori beat, Oreste Del Buono inventa con Umberto Eco e Giovanni Gandini «Linus», la prima rivista colta a pubblicare fumetti, mentre Beniamino Placido guarda con curiosità a tutte le espressioni della cultura di massa. Sono voci già importanti, che testimoniano la presenza anche in Italia di una componente adulta aperta e solidale; ma sono piuttosto isolate persino all’interno dell’area detta progressista. In questa ostilità senza pudore, forse la più accesa e duratura dell’intero occidente, pesano la rapidità con cui il miracolo economico ha trasformato il paese da industriale-agricolo a pienamente industriale e l’impronta americanizzante del nuovo corso. Mentre si spengono i «valori contadini», cominciano a cambiare l’uso del tempo libero, il modo di vestirsi bere mangiare, il linguaggio. Si va meno alle riunioni di partito e ci si iscrive meno, la religiosità perde terreno sul piano sia delle vocazioni sia delle pratiche di culto. Centri storici e coste vengono cementificati, prosperano speculatori e mafie della costruzione, le città del nord ingigantiscono senza piani regolatori e senza progetti di edilizia popolare. In tempi brevi il paese si riempie di autostrade, motel, distributori di benzina, scritte al neon, bar, cinema, mentre le campagne si spopolano: in agricoltura si passa dal 45% di occupati del 1951 al 30% del 1961, nell’industria dal 29 al 37%. Comincia a dilatarsi il ceto medio occupato nei servizi. Le élites – scrive Elena Croce – assistono con sgomento all’esplodere di «un’enorme caricatura collettiva [del loro] sistema di agi e prestigiosità borghesi»28, una caricatura che però rivela l’impronta materialistica e conformista dell’originale. La cultura di sinistra teme che attraverso le automobili e i frigori39

feri la classe operaia si «integri» nel capitalismo – trent’anni dopo Vittorio Foa riconoscerà che per i lavoratori e le loro famiglie l’automobile era stata una conquista di libertà29. A destra, c’è chi stigmatizza il benessere, per altro relativo, come consumismo indotto dalla pubblicità e dall’imitazione, e si scandalizza che i braccianti spendano prima per il cinema, i vestiti, la radio, la tv, e poi per il cibo. Molti scrittori, intellettuali, artisti, cantautori, denunciano il clima di competizione brutale, alcuni rimpiangono una immaginaria genuinità preindustriale, il caro mondo contadino d’antan. Sui rotocalchi continua a imperare l’ironia a buon mercato che offende il buon gusto, ma che si addice a un paese dove il massimo della vis polemica – scrive Alberto Arbasino – «è chiamare ‘signor’ un tizio, o anche mettergli il cognome prima del nome: il signor Rossi Mario». Mentre cresce la nostalgia, gli imperativi pedagogici da sempre radicati nella politica italiana si gonfiano di urgenza e drammaticità. «Scrivere versi non ideologici o governativi sarà antisociale», prevede ancora Arbasino30 e ha ragione. Spirito del tempo e spirito dei luoghi vanno in parallelo: in Italia la società di massa appare relativamente nuova, la contrapposizione fra cultura alta e cultura di consumo rimane rigidissima, mentre le centrali egemoniche di allora, la comunista e la cattolica, condividono una visione della cultura di consumo e intrattenimento come oppio dei popoli dispensato alla parte più povera e arretrata del paese, donne e giovani31. Da qui l’ansia per l’«omologazione» e per il diffondersi di fantasie di ascesa individuale, che urtano contro il culto della dimensione collettiva. Da qui l’interpretazione apocalittica della cultura di massa32 come pervertimento senza ritorno. Per resistere alle sue lusinghe, si pensa, bisogna essere colti, adulti, avvertiti e preferibilmente maschi. Al popolo, molte brave persone sono pronte a dare tutto, tranne fiducia – figurarsi a giovani spesso poco scolarizzati, lavoratori saltuari o senza occupazione, e senza un ruolo nella società. Sono anni in cui intellettuali e politici quasi in blocco continuano a ritenere che la libertà delle persone dipenda dalla loro posizione economica e lavorativa, e liquiderebbero con sarcasmo 40

l’idea che anche i giovani (e persino le ragazze!) siano in grado di negoziare la loro adesione alle norme e di prenderne le misure e le distanze.

Due modelli per essere giovani Beninteso, i movimenti di controcultura e quelli studenteschi hanno molte facce, cambiano fisionomia nel tempo, si danno nomi diversi. A Roma prevale il beat di strada, senza luoghi che non siano le scalinate di piazza di Spagna, senza figure incombenti. A Milano il beat più acculturato, con leader carismatici, qualche sede improvvisata, qualche rapporto con singoli intellettuali interessati e interessanti, Fernanda Pivano, Nanni Balestrini, Ettore Sottsass e l’outsider Primo Moroni. Area della controcultura e area studentesca non sono del tutto separate fra loro, in alcune realtà e momenti si mischiano e si sovrappongono, c’è chi fa da ponte fra gli uni e gli altri. In America spesso sono indistinguibili. Soprattutto, molti dolori e furori sono gli stessi. L’Italia dei primi anni sessanta pullula di obblighi e divieti, la privazione sessuale è la norma, la politica non coglie la profondità del conflitto intergenerazionale, il teppismo giovanile è colpito con durezza, sebbene siano già parecchi gli studi che se ne occupano seriamente. Le famiglie non smettono di interferire nelle scelte dei figli. Resta fortissimo il controllo sulle donne e sulle ragazze, soprattutto al sud, dove ancora negli anni sessanta qualche osservatore straniero denuncia forme di «confino femminile». Quanto faccia paura l’omosessualità è evidente dal caso limite di Aldo Braibanti, ex partigiano, poeta, scrittore, che nel 1964 viene denunciato dal padre di un ventiquattrenne per plagio. Che Braibanti sia omosessuale viene considerato prova di colpevolezza, e porta a una condanna a 9 anni33. Il goffo neologismo «sessuofobia» ha una corposa base di realtà. Per quanto l’Italia sia considerata un vertice di arretratezza34, non si discosta molto dagli altri paesi dell’Europa continentale. Anche se fra i genitori si comincia a cercare il consenso dei figli anziché l’obbedienza a ogni costo, in famiglia di regola non 41

si parla. Ne nasce molta più sofferenza di quanto si possa immaginare oggi – la ribellione nasce dal vuoto di dialogo, ma il vuoto di dialogo non elimina il bisogno di affetto e il dolore di non trovarlo, mentre il desiderio di libertà e cose nuove deve fare i conti con l’insicurezza adolescenziale in una fase di transizione accelerata. «Avevo vent’anni. Non permetterò mai a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita», aveva scritto nel 1931 Paul Nizan nel suo Aden Arabia. Fatte le proporzioni, vale anche per i ragazzi di questi anni: e infatti secondo Sartre «Nizan può parlare della sua giovinezza ai nostri giovani. Essi riconosceranno la propria voce. Egli può dir loro tutto perché è un bel giovane mostro, come loro»35. Nonostante gli aspetti di convergenza, la ribellione esistenziale e le lotte degli studenti rappresentano modelli diversi dell’essere giovani, e non solo perché i movimenti di controcultura precedono quelli nella scuola, e in alcuni paesi sono più esili quantitativamente. È innanzitutto diversa l’immagine corporea, sempre più importante in un mondo dove si vive sotto lo sguardo altrui, e sapendolo. Nel mondo beat abbondano jeans, minigonne, cotonine indiane, capelli sulle spalle; i ragazzi si «effeminano, si de-mascolinizzano»36. I duemila studenti del Parini e di altri licei milanesi che il 23 marzo 1966, preceduti dai loro professori, fanno una «marcia per la libertà», sono ben vestiti e ben pettinati, come si addice a chi frequenta le scuole dell’élite cittadina; le prime fotografie del ’67-’68 mostrano una grandissima maggioranza di ragazzi in giacca, ragazze in gonna a pieghe e borsetta al braccio, e anche quando il look studentesco cambia, resta la differenza fra capelli lunghi e casacche indiane e le barbe alla Fidel Castro37. Fra i beat circolano Kerouac, Ginsberg, «Mondo Beat», «Big» e altre riviste autoprodotte o commerciali38, si ascolta il rock americano, inglese, italiano, Guccini, l’intero repertorio dei Nomadi e dei Giganti, da Proposta, che riprende lo slogan «Mettete dei fiori nei vostri cannoni»39, a Dio è morto, a Noi non ci saremo, veri manifesti della frattura giovani/adulti. Si fa teatro: a Napoli il gruppo femminista Le Nemesiache spiega sulla rivista omonima che non intende rappresentare la realtà, 42

intende provocarla, come nei rituali magici dove «la danza della pioggia non è l’interpretazione della pioggia ma la preparazione dell’evento»40. In Francia Johnny Halliday e Sylvie Vartan diventano bandiere giovanili contrapposte alla tradizione gloriosa degli chansonniers, Brel, Brassens, Ferré. In Danimarca, Svezia, Svizzera, le controculture si rifanno al filone dadaista che ha vissuto come un doppio nelle società serenamente decorose. Fra gli studenti del sessantotto primeggiano Marcuse, Sartre, il giovane Marx, Fanon, anche se il primo tour italiano di Ginsberg ha un grande seguito. Si ascoltano Dylan e Joan Baez, canti popolari, politici e non, Guccini con La locomotiva e la Canzone del bambino nel vento, meglio conosciuta come Auschwitz, Fabrizio De André, che aveva fatto conoscere in Italia Georges Brassens; molto meno i Nomadi – troppo commerciali! dopo la loro partecipazione al Festival di Sanremo41. La tradizione orale vuole che sul muro di una facoltà occupata campeggiasse la scritta «Voglio essere orfano»; ma in qualche caso gli studenti hanno, oltre che fratelli maggiori come Arbasino e Eco, padri e madri reali e/o simbolici di fama. A Torino, dove il fenomeno è più marcato, si chiamano Antonicelli, Bobbio, Casalegno, Galante Garrone. A Milano si contano, fra gli altri, Camilla Cederna, Laura Conti, Dario Fo e Franca Rame, a Roma Morante, Moravia, Maselli, Rosi; in Francia, Sartre, de Beauvoir, i cineasti e critici della Nouvelle vague. Molti i genitori della buona borghesia colta – il che non vuole affatto dire che in questi ambienti il conflitto fra generazioni sia morbido, e tanto meno che il sessantotto sia un movimento a composizione esclusivamente borghese; sono ormai parecchi gli studenti di ceto medio-basso e di origini contadine o operaie. Ma i capelloni, come i Blouson noir francesi, vengono spesso da famiglie più modeste, a volte meno solide e meno aperte, dal sottoproletariato, da coabitazioni provvisorie – in Italia il gruppo che creerà «Mondo Beat», la prima rivista underground, coagula ragazzi di strada, drop-out, giovani operai, «Onda verde» si rivolge a studenti e figli della piccola e media borghesia. Agli studenti non spiace avere una casa, sebbene nel pieno delle lotte ci tornino di rado. I beat vivono almeno in parte sul43

la strada, qualcuno dorme dove capita, sotto una tenda in un parco, su una scalinata. Il sessantotto è una realtà cittadina. I beat sono disseminati un po’ ovunque, persino in piccoli centri, dove non ci sono università e licei, ma arrivano la tv, i dischi, la radio, i giornali, e soprattutto i film – in Italia, già nell’immediato dopoguerra le case di produzione con ambizioni popolari hanno guardato con attenzione al pubblico di paese e di periferia, propiziando la nascita di molte piccole sale sparse. Gli studenti hanno una progettualità comune, i beat vivono alla giornata. Gli studenti trovano nel marxismo una koiné già pronta. I beat hanno propri linguaggi e propongono la Decultura – il rifiuto dei meccanismi e oggetti della cultura «vera e santa», per arrivare a cambiare l’ordine dei valore: «Andate allo Smeraldo a vedere l’avanspettacolo come se andaste al Piccolo Teatro a vedere il Galileo di Brecht. Andate a vedere Django con Franco Nero, regia di Sergio Corbucci, come se andaste a vedere Ombre rosse, regia di John Ford»42. In breve, i primi si presentano, pur senza teorizzarlo, come l’embrione di una possibile classe dirigente, i secondi come mutanti. Anche in politica. I Provos olandesi, secondo i quali il proletariato è ormai schiavo dei politici e fa tutt’uno con la borghesia in una massa grigia, lanciano Piani Bianchi per camini contro l’inquinamento, Biciclette Bianche antitraffico, vita più umana grazie a anticoncezionali e libertà sessuale, e una nuova legislazione per i minori. «Onda verde» fa conoscere la campagna olandese, «Mondo Beat», su cui convergono nel ’67 il gruppo omonimo, la stessa «Onda verde» e i Provos, rifiuta tutti gli «ismi», perché «devastano l’umanità»43, teorizza la nonviolenza, critica entrambi i blocchi. Nel 1967 un articolo di Andrea Valcarenghi condanna l’intervento americano in Vietnam, ma chiede il ritiro dal Vietnam del sud sia dei marines sia dei combattenti nordvietnamiti, e libere elezioni sotto controllo Onu in tutto il paese44. Posizione traumatizzante per l’intera sinistra, compreso il movimento studentesco. Per quanto i modelli siano astrazioni che alla realtà corrispondono solo in modo grossolano, in questo caso aiutano a de44

scrivere quella che mi sembra una specificità italiana, o meglio, dell’Europa continentale, nel rapporto fra sessantotto e ribellione giovanile. Da noi è inimmaginabile una manifestazione studentesca al canto di We All Live in a Yellow Submarine, in America succede a Berkeley nel dicembre 1966, contro l’arresto di Jerry Rubin e Mario Savio, iniziatori del Free Speech Movement45. Quando, dopo il maggio, gli studenti francesi cominciano a guardarsi intorno cercando nuovi temi e soggetti, scopriranno con costernazione che in Francia non esistono «vere» controculture46.

La «Zanzara», i rockettari, gli adulti Dopo la fase della demonizzazione, in America il beat riesce a incidere sull’opinione pubblica, alcuni autori sono consacrati dalla critica letteraria, e hanno qualche eco persino nei paesi dell’est. On the Road diventa un libro di culto nelle università e in generale fra i giovani. E sono oggetto di culto alcuni cantanti del rock di protesta. Nel mondo anglosassone, la distinzione fra cultura di élite, di massa, di «intrattenimento», è meno rigida che nell’Europa continentale, e consente di mischiare spunti dall’una e dall’altra. Sebbene a fine anni sessanta i movimenti di controcultura siano ormai logori, continuano a essere socialmente rilevanti. Il rock resta la koiné dei giovani. Jimi Hendrix, che nel ’69 a Woodstock deforma con la sua chitarra elettrica l’inno americano fino a farlo sembrare una raffica di mitragliatrice, è un simbolo per tutta l’America giovane, e non solo per l’America. In Italia i giornalini scolastici che affrontano temi politici o legati alla sessualità, badano a distinguersi dai non politicizzati capelloni e rockettari. Nel 1965, il ragazzo Walter Tobagi, assassinato anni dopo da terroristi di sinistra, lamenta su «La Zanzara» «l’indifferenza della maggior parte dei giovani [...] che brancola nel buio, priva di ideali, estranea ai grandi problemi sociali e politici»47, proponendo una distinzione tipica dell’area progressista – la marcia della «Zanzara» viene applaudita da molti passanti, la richiesta del Pm di spostare il processo in al45

tra sede per legittima suspicione suggerisce che esista un flusso di simpatia verso gli studenti. Ma è quasi tutta la cultura adulta, in primo luogo alcuni media, a incrementare la separazione con l’uso intensivo del doppio standard. Per quanto possano essere esecrati come marmaglia, facinorosi, ribelli, gli studenti non sono feccia, deviati sessuali, idioti telecomandati dalla pubblicità e dalla televisione, marionette «della rivolta dello yé-yé [...] prefabbricata dagli adulti»48, incoscienti che corrono sulle loro motociclette o parassiti che vegetano negli interstizi della società – viene in mente la quieta, inscalfibile scelta di marginalità dello scrivano Bartleby. Nel 1960, «Vie Nuove», un giornale fra i più attenti ai giovani e fra i più restii a demonizzarli, descrive uno sciopero milanese con queste parole: «In testa ci sono sempre i più giovani, e sono magari gli stessi che certi bacchettoni avevano fatto passare per teddy boys e gioventù bruciata dai flippers, dagli urlatori e da Altafini [...]. E in mezzo a loro ci sono gli studenti universitari [...]. Uno sciopero moderno nella città più moderna d’Italia»49. Non è il riscatto dei teddy boys, ma dei ragazzi che erano stati considerati tali mentre non lo erano. Morin rifiuta invece di contrapporre cultura yéyé e cultura di studenti e militanti, perché anche lo yéyé ha un «polo ‘nero’ che contiene le potenzialità di una rivolta adolescenziale»50. Con il tempo, qualche osservatore dallo sguardo fine sente che è iniziata una fase di rimescolamento fra culture e fra soggetti sociali, un processo difficile da capire e da raccontare. Umberto Eco fa notare che questi giovani sono gli stessi cresciuti davanti alla tv, nutriti di pubblicità e fumetti, immersi «nel fragore di radio e giradischi, in un bagno di comunicazione indistinta che [...] doveva renderli insensibili ai valori, ottusi alle distinzioni, negati al discernimento fra la Moda e la Verità». Dopo aver parlato di una «generazione fiacca», Giorgio Bocca si accorge nel ’67 che l’interessante è proprio «il modo di resistere dei giovani, all’apparenza assurdo, certamente fuori dagli schemi tradizionali, dalle ideologie e dai partiti [...] un modo di resistere con la moda, il costume, la non violenza, la sorpresa o l’happening». Lo stesso anno, racconta le malattie dei giovani operai, i tremori, le tristezze: «valli a capire questi operai yé-yé 46

[...] cosa significa, signor medico fiscale? Cosa significa, signor psicologo fiscale?», mentre in un articolo di inizio ’68 su La fabbrica nevrotica, descrive un percorso che va dal «disadattamento [...] a un’accettazione dolce e passiva [...] e poi raptus fulminei, sfoghi individuali e di gruppo», che lo portano a vedere nel radicalismo e nella violenza le caratteristiche delle nuove leve operaie. Ottiero Ottieri è invece colpito soprattutto dai «ribelli incruenti, miti e senza una lira, che protestano contro l’attuale società meccanica sedendosi su una gradinata, non facendo niente, nemmeno parlando»51: è il peccato mortale dei capelloni, perché niente crea rabbia e frustrazione negli adulti come il silenzio e l’inerzia. Del resto, anche a L’avventura e a Deserto rosso di Antonioni, pubblicizzati come manifesti dell’«incomunicabilità», non si risparmia il sarcasmo, a I pugni in tasca di Bellocchio l’astio; e – ennesimo sintomo dell’avversione per gli intellettuali che tormenta molta gente per bene – dichiarare di non averci capito niente è un vanto.

Capelloni e sessantotto Confrontato agli adolescenti della «Zanzara», il sessantotto è più aperto, ecumenico, sincretico52. Mentre molti ragazzi passano rapidamente dall’identità di capelloni a quella di studenti, il movimento accetta inizialmente la presenza di gruppetti beat, destinata però a restare occasionale, e di cerchie studentesche che per certi aspetti fanno storia a sé. Così a Roma con gli Uccelli della facoltà di architettura, che nelle assemblee fanno la parodia degli interventi più rituali, dipingono sui muri immensi affreschi, si autoinvitano nelle case degli intellettuali di sinistra. Così a Torino, con i Vichinghi della facoltà di architettura e con il cosiddetto gruppo dei Pinerolesi, che portano nell’occupazione un di più di irriverenza guardata con apprensione da alcuni leader: non si dipingono di rosso gli scaloni dell’università, non si rischia la galera per scrivere sui muri nonsense o versi di filastrocche infantili! Anche questa attitudine guardinga ha una sua piccola genealogia. Pur rigettando i criteri dei padri in tema di rispettabilità 47

pubblica, gli studenti devono essersene formati di propri, in cui le «stravaganze» impolitiche stonano. Pur irridendo il Pci e il suo perbenismo, non sfuggono del tutto al suo modello di militanza senza sbavature. Forse condividono la contrapposizione cultura alta/cultura di massa, diffidano della commercializzazione della protesta, pensano che una cosa sono Kerouac e Ginsberg, un’altra i loro epigoni italiani, confondono la fine del beat con lo svuotamento della sua eversività originaria. Forse, in particolare nelle città industriali del nord, hanno introiettato la tradizione del produttivismo: quando uno studente dice a un altro che sta sprecando la sua intelligenza perché ha abbandonato la militanza e il lavoro intellettuale, usa le stesse parole con cui il padre ha rimproverato a lui il rifiuto di inserirsi brillantemente nello studio professionale di famiglia. Rudi Dutschke, leader del movimento tedesco, vuole invece che «il campo antiautoritario diventi sempre più grande, cominciando a darsi una organizzazione, a trovare forme di vita proprie in comune»53. Il distacco aumenta proporzionalmente alla politicizzazione del sessantotto. Con l’imporsi dell’una o dell’altra versione del marxismo e con l’uscita dall’università verso le fabbriche, si chiude la stagione «esistenziale»: la festa è finita, e non è durata molto. Guido Viale, leader del movimento torinese, è fra i primi a riconoscere che le culture alternative sono fra le principali vittime del sessantotto, che toglie loro respiro e seguito. Viale si riferisce al beat di strada, alla base del movimento54. Le avanguardie culturali trovano invece impulso nelle lotte degli studenti: non c’è settore artistico e culturale in cui non nascano nuove sperimentazioni, a volte ai danni di quelle preesistenti, spesso a rischio di una iperpoliticizzazione che sovrasta la specificità dei linguaggi55. A me pare che nel rapporto con i giovani «ribelli senza causa», il sessantotto italiano abbia funzionato come una rete a maglie larghe. Ha fatto proprie alcune tendenze politicizzandole: l’ironia, il gioco, almeno nella fase iniziale le pratiche nonviolente, il sospetto verso il mondo adulto, i quattro accordi di chitarra che bastano a accompagnare una canzone, l’immagine corporea, con maglioni, eskimo, jeans che sostituiscono rapida48

mente giacche e cappotti. Altre già gli appartenevano: l’informalità nel dibattito e nell’organizzazione, il giovanilismo, la critica alle istituzioni, dalla famiglia alla cultura ai media alla Chiesa. A rimanergli esterno è un impasto di idee e pratiche che va dal pacifismo alla retorica new age, dalla diffidenza verso ogni politica alla sensibilità ambientale all’identificazione con la musica rock – e con la cosiddetta cultura della droga, dell’eccesso, dell’autodistruttività, che di lì a poco si porterà via Jimi Hendrix, Janis Joplin e tanti altri, noti e non. Una deriva che sarà contrastata con anche maggiore durezza dai gruppi extraparlamentari, e che – tristezze della storia – si riaffaccerà nei movimenti del ’77. Fra quel che al sessantotto è decisamente estraneo, spiccano la strategia del silenzio e l’esperienza di stigmatizzazione vissuta ovunque dai movimenti giovanili; portare i capelli lunghi è un fatto, il capellone è una specie umana, meglio: una sottospecie. Spicca il groviglio di solitudine e di sofferenza che aveva ispirato a Ginsberg i primi versi dell’Urlo56: Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa [...] che indugiavano affamati e soli a Houston in cerca di jazz o sesso o minestra, e seguivan il brillante Spagnolo per chiacchierare sull’America e l’Eternità, causa persa, e così si imbarcavano per l’Africa, che scomparivano nei vulcani del Messico non lasciando che l’ombra dei jeans e la lava e ceneri di poesia sparse nella Chicago caminetto [...]57.

Non che il beat sia una valle di lacrime e di autodistruzione (Beat generation significa «generazione battuta», «sconfitta», ma i protagonisti preferivano il significato di «beata» dal latino beatus o, meglio ancora, nessun significato). La sensazione di andare alla deriva raccontata da Uwe Timm convive con l’appagamento e la gioia di cui parla Edmondo Berselli58. Né il sessantotto è un paradiso: alle sue origini c’è molto dolore, molta 49

frustrazione e rabbia, che tuttavia si sciolgono nella gioia improvvisa di ritrovarsi in tanti e di provare a dare un senso a se stessi e alla vita. Alle origini del sessantotto c’è anche questa ricerca, il cui limite è aver ceduto troppo presto alle ricette offerte dalla politica. Certo all’epoca il patrimonio delle controculture era ormai affogato in una palude mediatica, e si poteva faticare a distinguerlo, tanto più che era fatto di poesie, canzoni, racconti, film, molto meno di discorsi direttamente politici. Ma un contenuto era inequivocabile, il rifiuto della forza, della competizione, della corsa all’efficienza, della sfida a superare se stessi, della cosiddetta «grinta», in sostanza dei virilissimi principi inscritti nel motto olimpico «citius, altius, fortius», che negli anni ottanta sarà capovolto in «lentius, profundius, suavius» – più dolcezza, più lentezza, più profondità. Per quanto il femminismo abbia tante anime, la rivendicazione dei tempi propri delle donne e l’invito alla «decultura» come autosottrazione alle ideologie hanno un legame almeno virtuale con i ragazzi che stazionano nelle piazze in attesa di niente.

Radici II

Applicato al neofemminismo, il tema delle radici basta da solo a mostrare la differenza fra essere donne e essere giovani maschi. Come uomini, gli studenti sono associati alla cultura, alla razionalità, alla dimensione pubblica; fanno parte della storia e lo sanno, hanno dimestichezza con le regole e i linguaggi della politica – alcuni vengono dalle organizzazioni studentesche e dai gruppi del marxismo critico pre-’68. Infine, la loro è una condizione per eccellenza transitoria, che prelude a altri ruoli, identità, interessi. Non che i movimenti studenteschi siano indifferenti alla questione delle radici: devono tutelarsi dalle false immagini diffuse su molti media, vogliono evitare di essere rinchiusi nella gabbia del fenomeno giovanile. Di lì a poco, per esempio in Italia e Francia con i gruppi extraparlamentari, le filiazioni diventeranno matrici (o giustificazione) di scelte teoriche e organizzative, motivo di fratture, scritte sulle bandiere, slogan nei cortei – con quale consapevolezza, con quale investimento esistenziale è un aspetto di cui discutere ancora. Per il femminismo il discorso cambia. Donne si è per sempre, diverse nel tempo e nello spazio ma accomunate dalla differenza originaria. E le donne sono state identificate con la natura, il corpo, l’istintualità, il privato, respinte più o meno marcatamente dalla sfera pubblica, giudicate inadatte alla politica, messe ai margini della storia e ancora più dal suo racconto, anche quando sono state le prime attrici degli eventi. Nella seconda guerra mondiale, guerra di occupazione e di resistenza, alcune hanno combattuto con le armi, praticamente tutte hanno lavorato per far continuare la vita. È stata un’impresa quotidiana senza la quale vincere o perdere avrebbe fatto poca differenza, 51

eppure ci sono voluti decenni (e l’iniziativa delle storiche) perché passasse dalla memoria familiare all’area del pubblicamente rilevante. Certo, le nuove femministe possono specchiarsi nella letteratura, nel cinema, nelle opere di finzione. Che il genere femminile sia una risorsa narrativa irrinunciabile non cambia però la sua condizione di oggetto storico secondario. Il risultato è che le ragazze degli anni sessanta sanno pochissimo delle loro simili, con l’eccezione forse delle figure eminenti descritte nei repertori appositi. A fare tabula rasa del passato hanno provveduto gli uomini, e l’hanno fatto dappertutto, sia pure in misura diversa. E dappertutto ci si accorgerà che non conviene. Anche se sentirsi nate ieri può essere esaltante, ci sono troppo cose da scoprire, a cominciare dal cumulo di ingiustizie e sofferenze su cui si fonderà il primo paradigma della storia delle donne, quello dell’oppressione. E a seguire, non necessariamente in questo ordine, i conflitti, gli spazi di potere e di politica femminili, le vicende di libertà e di ribellione e il loro significato per il presente. Lungo lavoro. Nei secondi anni quaranta, una grande madre del neofemminismo, Simone de Beauvoir, attiva tutte le risorse della conoscenza, dalla letteratura alla storia alla psicanalisi all’antropologia comparata, per dare un quadro il più ampio possibile del modo in cui le donne hanno vissuto e sono state «costruite» per essere l’eterno «altro» dell’uomo, vale a dire dell’Uno, soggetto esclusivo della politica e della filosofia. Il secondo sesso1 è un libro-monumento per l’importanza che avrà nella formazione di tante e tanti, e nello stesso tempo è un libro-documento di un’epoca e di una posizione teorica. Quando de Beauvoir scrive che «donna non si nasce, lo si diventa», risponde alle concezioni «essenzialiste», che fanno prevalere il fondamento naturale della femminilità sul suo aspetto di creazione culturale. E nello stesso tempo esprime il punto di vista di una intellettuale francese emancipata del primo dopoguerra, erede dell’illuminismo e della grande rivoluzione, paladina dell’universalismo che promette di riconoscere a tutti la stessa dignità al di là delle diverse condizioni e connotazioni. 52

Molti dei primi documenti del neofemminismo aprono passato – vita quotidiana e eventi, personaggi e persone –, come usassero la lente bifocale di cui ha parlato Gabriella Bonacchi2. Sono incursioni a volte sommarie e cariche di aspettative, in cui può pesare il bisogno di legittimazione e autolegittimazione. Squarci di memoria più che di storia3. Ma per le nuove femministe la storia non è l’erede universale del passato, le storiche di mestiere non hanno il monopolio dell’interpretazione. Del resto, in una fase aurorale, si può dover vagabondare a lungo fra storie oscure, mai raccontate o mal raccontate. La sensibilità al tema delle radici rende interessante vedere quali si scelgono, e come cambiano da fase a fase. Nel movimento americano ci si richiama al suffragismo e alle lotte per l’abolizione della schiavitù come a una tradizione da tenere cara, e a George Sand, Charlotte Perkins Gilman, Clara Zetkin4. In Italia si guarda alle devianti e alle ribelli – streghe, eretiche – mentre un manifesto di Rivolta femminile, gruppo fra i più importanti sul piano teorico, inizia con una citazione di Olympe de Gouges. Alle emancipazioniste fra ’800 e ’900 e alla resistenza si arriverà dopo, nella seconda metà degli anni settanta5. Come in Francia, dove fra l’altro bisogna aspettare gli anni novanta per la scoperta delle sansimoniane6. In Danimarca le ragazze del movimento saltano la resistenza, la generazione delle madri, e vanno a scoprire l’influentissimo femminismo anteguerra, di cui ignoravano tutto, e grandi figure come Emma Goldman e Aleksandra Kollontaj7. Naturalmente pesano le specificità nazionali. In Germania e Italia la ricerca delle radici è resa più difficile dall’eredità della misoginia diffusa dai due totalitarismi8, in Francia è facilitata dall’interesse persistente per i momenti innovativo/rivoluzionari. E pesa il filtro maschile: le femministe mancano l’incontro con Lise Meitner, genio della fisica che intuisce per prima il meccanismo della fissione nucleare, e dalla Svezia, dove era rifugiata perché ebrea, nell’inverno1938-39 ne denuncia pubblicamente lo spaventoso potenziale distruttivo, rompendo la prassi di prudenza e segretezza in vigore nella comunità scientifica. E che mentre tutti, compreso il pacifista Einstein, caldeggiano 53

la costruzione della bomba atomica, rifiuta di partecipare al Progetto Manhattan, anzi augura apertamente ai colleghi di fallire; dopo di che abbandona per sempre gli studi sulla fissione. Quale miglior esempio di coscienza del limite, di coraggiosa infedeltà al proprio ambiente? Solo che la fama e il Nobel non andranno a Lise Meitner, ma al collega che prosegue il suo lavoro. E di lei nella storia della fisica si parla poco. Con il risultato che un vuoto della cultura maschile si riproduce nelle genealogie femminili.

Un comodo campo di concentramento Nei primi due decenni del ’900, il femminismo aveva fatto e ottenuto molto, dal voto alle donne in America e nel Regno Unito a maggiori sbocchi professionali, più autonomia, più istruzione, leggi migliori. Nonostante o forse a causa di questi successi, fra gli anni venti e gli anni cinquanta aveva perso gran parte della sua presa, quasi avesse esaurito i suoi compiti storici. All’inizio del decennio sessanta, i cambiamenti nella vita delle donne sembravano legati al lavoro, e soprattutto alla novità della pillola anticoncezionale, che per la prima volta nella storia faceva della maternità una scelta. A riproporre in un libro del 19639 il termine femminismo è l’americana Betty Friedan, psicologa, giornalista, madre di tre figli. Friedan si trova sotto gli occhi una massa di casalinghe di ceto medio, spesso istruite, che hanno rinunciato al lavoro e alla carriera, e nelle loro villette dei sobborghi con giardino e barbecue vivono per (e attraverso) il marito e i figli, curano ossessivamente la casa, cercano di darsi uno scopo in attività di volontariato – che comunque negli Usa ha una tradizione lunga e preziosa, in cui si è già fatta strada l’attenzione all’ambiente. Sono donne che dovrebbero rallegrarsi di aver realizzato il sogno americano, e che invece soffrono di un’infelicità confusa e senza nome, per di più sentendosene colpevoli. Di qui un numero notevole di suicidi e infanticidi, molto alcolismo, molte malattie psicosomatiche, cure psicanalitiche, psicofarmaci; di qui un eccesso di protezione e controllo sui figli. 54

Forte dei suoi studi e delle sue inchieste fra le donne, Friedan butta in faccia al paese una verità elementare, ma sconvolgente, a giudicare dalle reazioni: quel malessere non è personale, è generale. È il frutto dell’americana «mistica della femminilità», che sacralizza la funzione di moglie e madre presentandola come il miglior destino possibile, e vieta alle donne una vita propria al di fuori della casa. Nel frattempo le scienze umane predicano che la gioia e la gloria femminili stanno nella famiglia, e che senza una madre a tempo pieno i bambini andrebbero incontro a turbe irrimediabili. Non è sempre stato così. Confrontando la stampa femminile degli anni trenta/quaranta e quella dei cinquanta e inizio sessanta, Friedan ha visto che nella prima gli articoli trattavano anche di politica e economia, mentre la seconda è il regno esclusivo di moda e bellezza, salute e igiene della famiglia, arredamento, saper vivere. La sua soluzione è investire di più su se stesse, cercando una occupazione fuori casa, più occasioni di incontro, un ruolo pubblico. Per questo promuove nel 1966 la fondazione della National Organization for Women (Now), la più importante associazione femminista moderata, che punta a sostenere la carriera delle donne anche in politica, e in breve diventerà una lobby potente. È la via dell’emancipazione. Infatti si dà per scontato il doppio lavoro, su cui avrebbero invece molto da dire le donne europee, che spesso si dibattono fra casa, figli, orari di fabbrica o di ufficio, sforzo di tutelare la funzione affettiva della famiglia. Nel frattempo molte ragazze cercano la propria strada non nel lavoro, quanto nell’utopia hippie, nelle controculture, nel movimento per i diritti civili e poi contro la guerra del Vietnam. Nasce fra loro il filone più vasto e radicale del femminismo americano, e su basi simili, di quello europeo. Sul problema di come trattare con le istituzioni tipico del Now, prevale la questione ben più intricata del rapporto con i movimenti, simbolizzati dal sessantotto. Con il suo progetto di spingere verso l’esterno le madri di ceto medio, Friedan viene scavalcata dalle più giovani, che vedono nel sogno americano e nel sistema-famiglia una prigione da smantellare. Ma è questa donna adulta, colta, criticata per le sue 55

semplificazioni e il suo moderatismo, a aver coniato la definizione più pungente di quel mondo: un comodo campo di concentramento.

Femminismi e movimenti Il femminismo europeo ha molte madri autoctone, da Simone de Beauvoir a Virginia Woolf a Olympe de Gouges a Mary Wollstonecraft a qualsiasi donna abbia saputo trasmettere coraggio e consapevolezza a un’altra. Condivide gran parte della genealogia dei movimenti misti. Ma la matrice principale è il femminismo americano. Gli Usa sono il paese in cui debuttano le sperimentazioni esistenziali, politiche, artistiche, musicali, e nello stesso tempo si perpetuano le roccaforti conservatrici più retrive. Sono il paese dove le ragazze vivono per prime il disagio giovanile, l’ebbrezza delle nuove conquiste, la delusione per le aspettative irrealizzate. Dagli Usa arrivano libri tradotti velocemente, documenti, immagini, slogan portati da giovani viaggiatrici. Arrivano donne pronte a incontrare altre donne per raccontare di sé e della propria politica, e una cultura in sommovimento che dilaga con rapidità straordinaria. Eppure, secondo una vulgata di successo il femminismo nasce nel e dal sessantotto, che avrebbe portato le ragazze a staccarsi dalla famiglia, a scoprire la politica, a sperimentare rapporti nuovi fra i sessi, a sentirsi protagoniste. Chi fa proprio questo schema, di solito è anche più o meno convinto che quello degli studenti sia stato il movimento perfetto, troppo presto stravolto dalla voracità della politica – quasi che la politica non fosse stata invece il suo cuore. Come al solito le cose sono più complicate, particolarmente in questo caso. I partiti si fondano, i movimenti si formano, con tempi diversi da una componente all’altra, con aspetti di discontinuità, scarti, impasse; e sono anticipati da mutamenti molecolari, tanto importanti quanto poco visibili. Ma la vulgata tocca un problema reale, la parentela del femminismo con il sessantotto e i movimenti che lo precedono e lo seguono. In Italia se ne è discusso molto fra le donne10, poco fra gli ex studenti e ex militanti: un altro indizio del peso diverso as56

segnato alle radici, e insieme della riluttanza – difficoltà, disinteresse? – dei maschi a pronunciarsi su «cose di donne». Per alcune studiose, il ’68 è un momento clou, che vede la ricerca di sé iniziata nei secondi anni sessanta esaltarsi e estendersi, e che poi ne sarà travalicato, come sintetizza l’espressione di Mariella Gramaglia «venire dopo, andare oltre»11. Nella maggior parte della storiografia maschile, invece, il terreno di incubazione del femminismo sono le lotte degli studenti tout court – agli uomini riesce sempre difficile non considerarsi il motore della storia. C’è del vero in tutte e due le interpretazioni. La coscienza di genere si affaccia prima – all’autoritarismo, la parola chiave dell’incombente ’68, il Demau aggiunge presto «patriarcale», la parola chiave del femminismo. Il sessantotto, con il suo espandersi a ondate nella società, contribuisce a preparare il terreno per un movimento delle donne tendenzialmente di massa. Bisogna aggiungere che a metà anni sessanta anche fra beat e capelloni qualcuna comincia a criticare il primato che alcuni di loro assegnano all’amore fisico spogliato da qualsiasi componente sentimentale e spirituale. Non è la diffidenza dei beat originari verso il coinvolgimento emotivo con il suo potenziale di sofferenza, è il mito degli istinti come ultima oasi dell’autenticità – vecchio stereotipo che incrina l’aura innovativa del beat, e che sbocca nel veto della gelosia. Veto programmatico ma non incontrastato. «Come puoi pensare che a una donna innamorata non debba importare che tu vai con le altre? E tu, che dici di amarmi, come puoi sopportare che io un minuto prima di stare con te sia stata con un altro?», «Ho tentato di spiegargli che amore libero non vuol dire fare l’amore col primo che capita»12 – così alcune raccontano il loro rapporto con il compagno. Intanto fra le ragazze si fa strada l’idea di una verginità spirituale anziché fisica, capace di rompere con la tradizione e insieme di dare valore alla sessualità. Temi che torneranno nel ’68, con la differenza che poche studentesse avranno il coraggio (e l’ingenua vena retorica) della «ragazza ribelle» che nel ’67 scrive: «Il loro [delle ribelli] valore morale è dato dal contrario della purezza, ossia dalla ricchezza di esperienze. Esse sono passate per il bene e per il male, hanno conosciuto le vette e gli abissi della 57

vita, hanno vinto e perduto le loro battaglie, si sono coperte di allori e di cicatrici. E non hanno mai chiesto niente a nessuno»13. Chi sono le (poche) ragazze che scrivono alle o sulle riviste beat, le non poche che partecipano al movimento, spesso rompendo con la famiglia e l’ambiente in modo più radicale delle future studentesse del ’68? Mentre negli Stati Uniti sembra ovvio riconoscere l’influenza della cultura beat e hippie sul femminismo, in Italia e Francia quasi la si ignora. Perché era indubitabilmente più debole, ma anche perché non si è pensato di metterla a tema. Un tratto comune a tutte le situazioni nazionali e locali è che fra donne e movimenti c’è sempre una sfasatura, e la più netta riguarda l’andare oltre. In Francia, mentre l’insorgenza studentesca si dissolve, il femminismo fiorisce. Così negli Stati Uniti, in Germania. E anche in Italia, dove pure la durata delle lotte ha portato alla definizione di «lungo ’68». Da noi la crisi della seconda metà del decennio settanta, con l’esaurirsi del ciclo di iniziativa politica su larga scala, non risparmia nessun movimento14. Per le donne è finito il tempo dei grandi cortei, delle piazze traboccanti come era successo nelle campagne per la depenalizzazione dell’aborto e contro la violenza sessuale; sono finite le illusioni di un cambiamento radicale e accelerato, nuove teorie sono ancora in gestazione, mentre il terrorismo cerca di appropriarsi dei temi delle donne, ferendo o uccidendo persone (medici, ostetriche, vigilatrici carcerarie) di cui gruppi femministi avevano semplicemente denunciato i comportamenti. Molte si allontaneranno dalla politica, tutte ne soffriranno. Ma il femminismo può far leva sulla sua posizione più periferica rispetto al centro della crisi, e riesce a reinventarsi. Si fondano riviste, librerie, case delle donne, centri per la salute15. La separazione delle militanti dai gruppi originari di appartenenza, avviata nella prima metà del decennio settanta, va avanti nella seconda, mentre nasce un fenomeno nuovo di grande rilievo, il «femminismo sindacale»16, che diversamente dalle tradizionali commissioni femminili, punta all’autonomia e crea sedi separate; così anche in Germania e Francia. Nell’82 dopo un dibattito ricco e teso, l’Unione donne italiane, la storica organizzazione di 58

massa di area comunista, si staccherà dal Pci, e dissolverà le strutture centrali a favore dell’autonomia delle singole sezioni17. Certo il movimento è diventato altra cosa, un «femminismo diffuso»18 che non equivale a un ritiro dalla politica, piuttosto a una presenza più legata alla cultura e più mischiata alle istituzioni pubbliche – di qui la definizione di femminismo di Stato per l’area che va dalle strutture per le pari opportunità ai centri e archivi parzialmente finanziati. Anche questa tendenza è largamente comune. Mentre l’Archivio Internazionale di Amsterdam diventa un punto di riferimento per gli studi sull’emancipazionismo, dappertutto si moltiplicano le sedi culturali. Ma qualcuna si chiede dove sia finita l’energia rinnovatrice di pochi anni prima19. Eppure una cosa va riconosciuta. Se è eccessivo sostenere che il femminismo diventa in quegli anni «il depositario delle speranze in una futura rigenerazione dei movimenti sociali»20, è vero che la sua cultura politica non si disperde, che le sue tesi continuano a circolare, magari in forma semplificata. Quelle dei gruppi extraparlamentari, invece, diventano presto obsolete. È un’ironia, se si pensa che nei movimenti circolava un’immagine del femminismo come lotta senza strategia. Invece era una storia altra.

Il figliastro Ammettiamo che il femminismo nasca dal sessantotto, e almeno in parte dai movimenti successivi. Che figlio è? Direi un figlio non previsto, non voluto, in molti casi avversato. Fra gli studenti la sensibilità è scarsa, il che fa del sessantotto un padre amabile e incompetente; nelle organizzazioni extraparlamentari, sia pure con differenze notevoli dall’una all’altra, il separatismo delle militanti nei primi anni settanta calamita sarcasmi quando non ostilità dichiarate. Quello del rapporto con partiti e movimenti è un problema che ha già investito in forme diverse il femminismo del passato e le sue origini interne alle rivoluzioni della modernità (inglese, americana, francese, il 1848, il Risorgimento italiano). Quadro 59

non consolante. Olympe de Gouges finisce ghigliottinata nel 1793, i club femminili vengono sciolti – e i club erano i nuovi luoghi in cui si imparava a far politica e a discutere. Nell’800 gli operai si oppongono all’ingresso delle donne nel lavoro – i tipografi americani, per esempio, sostengono nel 1850 che la dattilografia esige un insieme di muscoli e intelligenza che le donne non hanno. Nel 1875, al Congresso di Gotha di fondazione del partito socialdemocratico tedesco, il voto finale definisce il lavoro delle donne dannoso per la salute e la moralità, mentre i sindacati spesso scoraggiano o rifiutano l’iscrizione delle donne, sempre le escludono da ruoli impegnativi. Nell’Italia del primo ’900, i socialisti non appoggiano il suffragio femminile, e Anna Kuliscioff attacca pubblicamente il partito, chiedendo cosa abbia fatto «per essere verso la donna meno ingannatore delle religioni, meno prete dei preti»21. Le emancipazioniste trovano l’appoggio di alcuni uomini, a volte mariti che apprezzano le realizzazioni sociali delle mogli – Casse di maternità, Uffici di assistenza legale e di collocamento del lavoro intellettuale femminile, Scuole delle madri; e gli Uffici Indicazioni, strutture pensate per spiegare ai nuovi arrivati e ai marginali di sempre quali forme di aiuto possono ottenere e per guidarli attraverso l’iter burocratico necessario. Come hanno scritto Annarita Buttafuoco, Anna Rossi-Doria e altre storiche, è un lavoro innovativo sul territorio che punta a rendere meno nemica la città e più padroni di se stessi i cittadini, a diffondere una visione dello Stato in cui le istituzioni devono assumersi più responsabilità verso chi è in condizioni di bisogno. Eppure, quando alcune città cominciano a istituire proprie strutture sul modello degli Uffici Indicazioni, la primogenitura di queste pioniere del volontariato sociale sarà poco o niente affatto riconosciuta. Anche le donne della resistenza si sono scontrate con la chiusura maschile: alle elezioni che si tengono nelle zone provvisoriamente liberate dai partigiani nell’estate-autunno 1944, a votare sono solo gli uomini. Dunque su questo punto il richiamo al filo di pensieri e lotte intessuto da singole e gruppi delle generazioni precedenti è tutt’altro che rituale. E porta a chiedersi se il femminismo nelle 60

sue varie forme storiche non si sia addirittura affermato a dispetto di partiti e movimenti, se lo stesso ancoraggio all’area progressista e di sinistra sia stato un buon affare – e se noi donne non siamo afflitte da un eccesso di fedeltà verso le idee e le organizzazioni di riferimento. Tanti anni dopo, Anna Maria, ragazza di Lotta continua, scrive al giornale omonimo per raccontare che il compagno A.A. ha picchiato una compagna: «È la riconferma per chi ancora non crede che chi mena non sono solo i fascisti, ma anche i ‘compagni’»22. E Daniela di Pescara, dopo aver descritto alcuni comportamenti maschili, conclude: «E questi sono rivoluzionari? Ma fatemi il piacere di analizzarvi un po’ quando vivete e dite certe cose, perché veramente non avete capito niente. E se tutto questo è rivoluzione, beh, allora mi dispiace tanto, anzi non mi dispiace per niente, ma io con voi la rivoluzione non la voglio proprio fare, non mi interessa»23. Siamo nel 1977, il che mostra i tempi diversi con cui può maturare la consapevolezza di sé (o il passaggio all’atto di andarsene). Il punto è che l’orizzonte progressista – dai liberali e repubblicani ai socialisti, dagli anarchici ai socialdemocratici ai comunisti ai cattolici di sinistra – è sempre sembrato lo sbocco naturale per i movimenti delle donne degli ultimi due secoli, nati in nome dell’uguaglianza, della giustizia, della libertà, della lotta per e con gli oppressi. Sebbene le donne siano considerate le custodi della tradizione, una parte visibile e rilevante di loro agisce per l’innovazione, scegliendo quali aspetti appoggiare, quali contrastare. Del resto non c’erano molte alternative per chi puntasse al cambiamento. Il polo di attrazione dei nazionalismi si fonda sulla svalutazione dei diritti dell’individuo sanciti dallo Stato liberale, su gerarchie di genere e di generazione rigide e legittimate in nome della natura, sullo schiacciamento dei conflitti – il che non ha impedito la nascita di un femminismo conservatore e di un femminismo rivoluzionario di destra e modernizzante come quello futurista. Insieme allo spessore teorico, al coraggio personale, alla fermezza politica, il lascito del femminismo fine ’700 comprende una grande capacità di illudersi, una fiducia presto tradita nella rivoluzione degli uomini. Il suffragismo britannico testimonia la 61

violenza isterica che lo Stato gli scatena contro. L’emancipazionismo mostra la capacità di negoziare con i poteri e di esercitare il proprio, e nello stesso tempo la consapevolezza della tensione fra uguaglianza e differenza, l’importanza delle reti di relazioni femminili e molto altro, che inizialmente il neofemminismo non raccoglie, anche perché lo conosce poco. Ma negli anni sessanta (e oggi chissà), nessuna scuola, nessuna istituzione politica dicevano alle ragazze che erano esistite Mary Wollstonecraft, Olympe de Gouges, Anna Maria Mozzoni. Per fortuna, quel patrimonio si è trasmesso per vie laterali a quelle della memoria storica, contribuendo alla conquista dei diritti civili, mentre la psicanalisi, il teatro, il cinema, soprattutto la letteratura scritta da donne e da uomini, hanno creato immagini nuove delle relazioni di genere e familiari, in particolare del rapporto madre/figlia. Nei romanzi femminili ottocenteschi, scritti da donne e da uomini, abbondano le eroine orfane e a volte compaiono terribili madri vittoriane, potenti e furenti fino alla pazzia, oppure banali, ridicole, sempre così letali che la rottura delle genealogie femminili sembra l’unica strada per salvarsi. La libertà della figlia ha bisogno del vuoto materno. È il copione freudiano ante litteram, cui le autrici di rado resistono, anche se a volte si servono di alcune caratterizzazioni materne negative per dare voce alla propria rabbia e desiderio di potere24. Nei primi decenni del ’900 si affaccia invece la possibilità di un altro intreccio per i racconti e per le vite. Processo non irreversibile e non generalizzato, che il fascismo punta a rallentare, la seconda guerra accelera, il boom economico espande.

In Italia: generazioni, generi, modernità Nel rimescolamento indotto dalla modernizzazione degli ultimi anni cinquanta e del decennio sessanta, molti aspetti toccano direttamente la vita delle donne e ragazze25. Anche in Italia si assottigliano i confini fra ruoli maschili e femminili, aumentano le occasioni di lavoro e la scolarità. Mentre deperiscono i valori e disvalori del mondo contadino, crescono la mobilità geografica 62

e sociale e la comunanza di costumi e linguaggi (omologazione, la chiamerà Pasolini), si diffonde la sensazione tipica della modernità di trovarsi di fronte a più mondi e a diversi squarci di futuro. Se il risultato siano perdite o guadagni dipende da chi giudica. Certo sembrano guadagni alle donne, che benedicono frigoriferi, lavatrici, assorbenti e modernità varie, e li sognano anche dove la crescita dei redditi resta lontanissima. Nella seconda metà degli anni cinquanta si fanno indagini sul campo in varie zone del sud, e in provincia di Potenza capita che una donna intervistata per una inchiesta sul folklore inviti perentoriamente le ricercatrici a lasciar perdere, e a dare invece notizie sui «bei cosi bianchi e rosa che tenete voi di città per le menestrazioni», mentre una ragazza di Nardò chiede «la medicina pe’ non cattà piccini»26. Al nord, le giovani rifiutano di sposarsi in campagna, madri e nonne, che sanno cosa vuol dire essere la moglie di un contadino, le incoraggiano a emigrare in città per lavorare in fabbrica e nei servizi, a evitare i troppi figli, a essere economicamente indipendenti, in sostanza a non seguire il loro esempio. Tanto che qualche parroco le accusa di condannare alla solitudine i figli maschi. Per accasare i giovanotti piemontesi e lombardi dovrà nascere un mercato matrimoniale con le regioni del sud27. Vere protagoniste dell’esodo dalle campagne, le contadine del nord sono praticamente le uniche a avere il privilegio di cambiare la propria vita con l’appoggio delle più anziane. Intanto in una minoranza di famiglie, non necessariamente colte, o politicizzate, o del nord, si profilano rapporti più paritari e si investe anche nell’istruzione delle figlie. Eppure gli anni sessanta, l’età d’oro di cui si favoleggia, hanno molti lati bui, specie per le adolescenti, che vivono lo scontento dei giovani, e insieme molte ansie legate all’essere donna. Prendere le distanze dalla generazione dei genitori è insieme più facile – quanti sì detti ai figli, quanti no detti alle figlie – e più difficile, perché la tensione verte soprattutto sulla sessualità, sfida delle ragazze, ossessione degli adulti; e perché non esistono modelli accessibili e insieme attraenti cui rifarsi. Quasi come negli anni cinquanta. 63

Per restare nei confini elastici del ceto medio, c’è la ragazza per bene che segue i comandamenti degli adulti o finge di seguirli. C’è la «deviante» che li rigetta, magari scegliendo il mondo degli hippie e dei capelloni, dove è in minoranza ma colpisce ancora di più l’immaginario – la «lolita» e la «ninfetta» sono uno scandalo e un sogno proibito. C’è la ragazza «da poco», poco seria, poco autorevole. E c’è la ragazza «intelligente come un maschio», spesso allevata come un maschio, che primeggia nelle classi miste, giudica riprovevoli i comportamenti delle demivierges, che fanno l’amore in tutti modi purché non minaccino la verginità, e soprattutto è convinta che la cultura sia il passaporto per una libera competizione con qualsiasi uomo28. Al di là o ai margini del ceto medio, l’arcipelago popolare in transizione, e a sua volta composito. Vita dura, bisogno di sognare, spesso partecipazione in prima fila alle lotte, voglia di politica, nella borsa «Grand Hôtel». Che qualche ragazza intelligente come un maschio giudica orrendamente diseducativo. Anche i giovani di classe popolare leggono fotoromanzi, ma o non si sa, o glielo si perdona. Quando nel ’59 esce Le Italiane si confessano29 una raccolta di lettere scritte a due settimanali femminili, e si scopre che le corrispondenti si torturano sulla prova d’amore o sul rischio di aver perso la verginità in giochi infantili, nessuno rileva che per vivere una vera, certificata arretratezza bisogna essere in due. Certo, il mondo adulto degli anni cinquanta e sessanta, soprattutto di sinistra, esibisce anche il modello prestigioso dell’emancipata, che si occupa sia del lavoro sia della famiglia, che tiene insieme femminilità tradizionale e successo esterno senza recriminazioni, senza, almeno apparentemente, interrogarsi sul corpo e sulla seduzione – e, a sentire le dieci donne anticonformiste intervistate da Julienne Travers30, senza avvertire neppure il fastidio delle mestruazioni. Di questa versione semplificata dell’emancipazione, si portano a esempio la professionista affermata e soprattutto l’esponente politica che nella sua vita ha fatto tutto, la partigiana, la dirigente, l’intellettuale, la madre, la moglie. Donne eccezionali per risultati eccezionali. Ma alle ragazze si spiega che l’eccezionalità non è un fi64

ne, è il mezzo necessario per arrivare a una vita che si prospetta invece soffocata e sacrificata, marito figli casa lavoro. Il doverismo imperante predilige la formula dell’«armonico equilibrio» con cui vanno conciliati ruolo familiare e lavorativo, e su cui insistono i documenti delle associazioni sia cattoliche sia di sinistra31. Nel frattempo la modernizzazione ha investito cinema, stampa, fotoromanzi, rotocalchi, creando un patchwork affascinante e poco padroneggiabile. Alle maggiorate padane o meridionali si sono affiancati i volti e i corpi di donne come Elsa Martinelli, la ragazza romana indossatrice per le maggiori case di moda, e ancor più come Lucia Bosé, che potrebbe interpretare il ruolo della commessa che è stata, o di una alto-borghese. Le prime sono il simbolo di un’Italia contadina povera ma bella, le seconde sono corpi quasi mutanti, che possono mostrarsi a New York o a Parigi senza essere minimamente identificati con l’Italia, perché rimandano a un ideale estetico sovranazionale e di mercato32. Se c’è un segno della sprovincializzazione in corso, sono queste apolidi di lusso che fanno da tramite fra i modi di vita della grande provincia e quelli urbani. In Italia, il distacco dal corpo materno e dal destino materno comincia dalle loro silhouettes, dalle ragazzine fragili o smagate di Lattuada e Moguy – Anna Maria Pierangeli, Jacqueline Sassard, Catherine Spaak. Su tutte, le due icone Bardot e Monroe.

Solitudine Che il femminismo abbia radici anche in questi anni oggi è un fatto acquisito, e lo si deve a Simonetta Piccone Stella, la prima a attirare l’attenzione sui mutamenti grandi e piccoli che li costellano, sui modelli offerti alle ragazze, sulle loro resistenze e rifiuti33. Viene allora spontaneo chiedersi non solo chi è figlio di chi, non solo cosa il sessantotto dà alle donne, ma cosa portino le donne nel sessantotto: se storie e impulsi di tipo «emancipativo», come le giovani contadine inurbate, oppure avvisaglie di quella che di lì a poco sarà chiamata «soggettività desiderante», ancora incerta e vulnerabile, ma carica di sogni e pulsioni dis65

sonanti. Nel primo caso, le ragazze guarderebbero al sessantotto come a una possibilità per accelerare l’emancipazione, nel secondo come a una occasione favorevole per sperimentare e sperimentarsi. In Italia, già nei tardi anni cinquanta e nei primi anni sessanta molte adolescenti del ceto medio, le principali destinatarie del modello emancipativo, cominciano a disamorarsene, probabilmente in compagnia di ragazze di classe operaia, dalle quali nessuno ha la sfacciataggine di pretendere l’armonico equilibrio, ma la fatica del doppio ruolo sì. Piuttosto che le grandi emancipate, le ragazze ammirano attrici e scrittrici, altrettanto inarrivabili ma tanto più suggestive. Sognano i nuovi lavori «americani», la hostess, la modella, l’arredatrice, l’estetista, che mettono in primo piano l’abbigliamento e il corpo; oppure l’architetto, il giornalista, l’interprete, che favoriscono viaggi e conoscenze. Vorrebbero informazioni sulla sessualità, ma per lo più non conoscono neppure i pochissimi che affrontano i temi del divorzio, dell’aborto, della contraccezione, dell’omosessualità, come l’Aied, Associazione italiana per l’educazione demografica, fondata a Roma nel ’53, e la più volte sequestrata rivista «Scienza e sessualità». Osservano avidamente i corpi e le pratiche della seduzione, su cui famiglia, scuola, media rispettabili tacciono; ma sebbene siano ormai molte le immagini possibili, si trovano di fronte l’eterno modello «gonna a pieghe e mocassini», poco o niente trucco, divieto di colorarsi i capelli, di portare tacchi alti e così via. Crescono confuse, in un quadro dove opportunità e difficoltà si trasformano facilmente le une nelle altre, dove neppure per gli adulti è facile distinguere fra la vitalità e la cialtroneria. Crescono ansiose, adepte semiclandestine del nuovo, a volte inasprite dagli ostacoli frapposti al sogno di felicità che cominciano a sentire come un diritto, raramente in grado di produrre la simulazione di naturalezza che potrebbe proteggerle. Cercano un nuovo modo di diventare donne procedendo con esitazioni, molti compromessi sul piano dei comportamenti sessuali, a volte con ribellioni, inganni, fughe da casa, scontri all’ultimo respiro con le madri, sempre con un enorme dispendio di ener66

gie. E in relativa solitudine. A differenza che fra i maschi, non si è ancora formata una struttura di protezione come il gruppo di coetanee; anzi, robuste barriere dividono le adolescenti a seconda dei modelli in cui sono fatte rientrare e dell’immagine che vogliono avere di sé. Dalle rare donne di successo, più attacchi che appoggi. «La ragazza moderna insegue il divertimento e sono i ricchi quelli che sanno meglio divertire [...] anche il gioco del flirt è diventato una scala a pioli [...]. All’uomo munito di Ferrari pare proprio che poche resistano [...] il maschio che vuole sposarsi logicamente diffida di un tipo così»: così Camilla Cederna nel ’5734. Il messaggio è chiaro: le adolescenti devono stare al loro posto. Evidentemente il desiderio femminile fa così spavento che gli adulti si affrettano a squalificarlo come frivolezza e corruzione. A costo di rivelare una buona dose di classismo: la ragazza moderna in cerca dell’uomo munito di Ferrari appartiene presumibilmente all’universo popolare. Come le lettrici di fotoromanzi, che per la giovane Rosellina Balbi sarebbero ipnotizzate dal miraggio del ricco matrimonio e incapaci di distinguere fra vita e finzione. Bisognerebbe aver chiaro quello che si vuole, ma è già un buon risultato sapere quello che non si vuole: il controllo continuo, la doccia scozzese dei piccoli spazi di autonomia ammessi e poi revocati al primo battibecco. Nella gerarchia familiare, le ragazze stanno all’ultimo posto, e nelle preoccupazioni in cima. Sorvegliate speciali, con il loro bel corpo in evoluzione cui tocca testimoniare la rispettabilità familiare e onorare il futuro contratto matrimoniale. Mina ha un figlio senza essere sposata, lo paga caro, ma resta Mina; una ragazza qualsiasi diventerebbe una sorta di paria. Per quanto su luoghi, tempi, abbigliamento, amicizie, possano esserci regole più o meno rigide, la vigilanza degli adulti non manca mai – il che aiuta a capire quanto conti in tanti matrimoni giovanili il desiderio di lasciare la famiglia di origine. Sono gli ultimi fuochi di uno strapotere familiare oggi difficile da immaginare, e pesano talmente che a molte ragazze di allora non passa neppure per la testa che la famiglia possa avere, oltre a un ruolo di repressione, uno di protezione. 67

Un’emancipazione ferita Pochi anni dopo, le metaforiche sorelle minori di queste prime sperimentatrici affollano le scuole, dove la loro presenza cresce molto più di quella maschile, imparano a trattare con i ragazzi (quasi) da pari a pari e a passare insieme il tempo libero. Ma neppure essere ragazze in un gruppo misto è semplice, perché implica il problema di gestire femminilità e sessualità tentando di mediare fra la morale tradizionale e il conformismo di clan, mentre i maschi usano il crisma di spregiudicatezza associato alla modernità per convincerle a fare all’amore. Su questo, il modello emancipativo non ha molto da dire. Non solo: per le ragazze del ceto medio acculturato, che sarà la base elettiva dei movimenti degli studenti e delle donne, quel modello non ha neppure l’alone di conquista con cui qualche anno prima poteva presentarsi alle loro sorelle maggiori o alle adolescenti di classe popolare. Molte di quelle che confluiranno nel sessantotto e nel femminismo, o che formeranno i primi gruppi di autocoscienza senza passare attraverso il movimento studentesco e i partiti, sono ragazze già destinate a proseguire gli studi e a lavorare fuori casa, a volte donne appena più grandi che hanno già una professione. Ragazze inserite nella società, radicate in una dimensione più paritaria sul piano delle norme sociali e dei rapporti, che di quella parità sperimentano i limiti e cominciano a capire che derivano dalla differenza fra i sessi. Può essere la percezione che l’uguaglianza attraverso la cultura è uno slogan ingannevole, e che anche i partiti di sinistra sono club maschili, oppure l’intuizione che sentirsi meglio fra donne non è casuale, a volte l’orrore per la prospettiva di un lavoro sempre uguale per tutta la vita, spesso il terrore di una gravidanza e il trauma di un aborto clandestino. Può essere la scoperta del corpo con la sua forza e vulnerabilità, la delusione per rapporti di coppia che si pretendono ugualitari e camerateschi, ma in cui l’imperativo è mantenersi razionali, mentre l’emotività femminile è stigmatizzata come passatismo, debolezza, tradimento del modello emancipativo di padronanza di sé. 68

Ancora Simonetta Piccone Stella segnala che esistono, per lo più all’interno di enclaves religiose (ebree, valdesi) o politiche (i «Quaderni rossi»), giovani coppie davvero solidali, in cui si progetta, si lavora e si avanza insieme, anche se è ancora lei a tenere la casa, lui a far politica a tempo pieno35; ma sono una piccola minoranza. Del resto lo scontento non nasce necessariamente da uno scacco personale, avere una bella testa, un bel fidanzato, una bella famiglia e/o carriera non è una controindicazione alla coscienza di genere. Qualcuna potrebbe chiedersi: «tutto qui?» – lo fa Carla Lonzi, madre di un bambino, affermata critica d’arte, e si stacca da quell’ambiente. Qualcuna può sentirsi una straniera tanto nel mondo costruito per gli uomini quanto nella casa costruita per lei. Come scrive Laura Derossi, nel sessantotto le donne portano non solo un disagio generazionale, ma una testimonianza del rapporto tra la loro storia individuale e la cultura dell’emancipazione, un rapporto contraddittorio che già negli anni precedenti aveva messo in discussione i risultati raggiunti e raggiungibili. Portano una «emancipazione ferita» dalla percezione della propria differenza sessuata, dall’esperienza dei trabocchetti di cui è cosparso il cammino delle donne, siano «eroiche» moglimadri-lavoratrici, intellettuali e militanti politiche36, brave ragazze o giovani beat in fuga da casa e famiglia. Ne esce complicato il problema del rapporto con il sessantotto, e, per gli Usa, con il movimento per i diritti civili e con la nuova sinistra. Come è giusto. Vincolare a un solo scenario un processo eterogeneo nei tempi e nei contenuti come il femminismo cancellerebbe questo travaglio, dando per di più al movimento degli studenti un ruolo di deus ex machina altamente improbabile per qualsiasi soggetto storico. Certo, l’esperienza in prima persona di un sessismo imprevisto è una spinta straordinaria per la diffusione del femminismo. Basta pensare a come Shulamith Firestone racconta i movimenti americani all’inizio degli anni sessanta: «Gli uomini liberati avevano bisogno di pupe disinvolte al passo col nuovo stile di vita, avevano bisogno di sesso e questa era la sola cosa, guai se le pupe chiedevano in cambio una vecchia devozione, diventava una lagna deprimen69

te, la pupa doveva essere indipendente per non essere una noia attaccaticcia; le pollastrelle facevano di tutto, istruzione, lavoro, ceramica, tessitura, terapia»37. Mentre Sara Evans descrive con durezza i meccanismi di emarginazione e cooptazione nel movimento per i diritti civili dei neri americani38. Ma le pupe cui pesa essere disinvolte, trattenere sia il desiderio di un rapporto romantico sia la voglia di contare, non sono nate ieri. Molte hanno alle spalle una storia vissuta, vista letta raccontata, e non una storia amica, neppure là dove ci si poteva aspettare qualcosa di diverso. La cultura beat è fortemente maschile, e i suoi guru sono uomini. Gli eroi della gioventù bruciata sono uomini. A dispetto del rimescolamento iniziale fra modelli di genere, il rock è un regno maschile, maschilista e spesso omoerotico, che ruba alla femminilità modi di vestirsi e truccarsi, gestualità, manierismi, ma per creare un’androginia che toglie spazio alle donne in carne e ossa. Le pochissime – Nico, la ribelle e femminista Janis Joplin, vita estrema, carisma estremo – che si impongono come leader e icone lo pagheranno caro39. Unica eccezione la Francia, dove sono due ragazze a incarnare il nuovo tempo, Françoise Hardy, che canta con un filo di voce la sua solitudine, e Françoise Sagan, autrice di Bonjour tristesse40 e di altri bestseller internazionali sullo spaesamento dei giovani. Per altri paesi, sebbene si possano citare sparsamente figure forti come in Italia Caterina Caselli e Patty Pravo, a nessuna è dato uguagliare gli idoli maschili. I movimenti politici possono dilazionare gli effetti di rimbalzo di questo imperialismo sessuato, ma non per molto.

Politiche

Oggi gli anni sessanta e i primi settanta sono ricordati soprattutto per le durature trasformazioni culturali e di mentalità che hanno innescato. Con ragione. Bastava guardarsi intorno per veder spuntare qua e là qualcosa di nuovo e di interessante, nel cinema, nella musica, nel teatro, nelle arti figurative, nei comportamenti, nelle vite. C’è molto da raccontare, come mostra la gigantesca ricerca di Marwick1, e ci sono molti fili tesi fra allora e oggi. Sul piano della politica invece l’orizzonte è così diverso che certe schermaglie sessantottine e post-sessantottine fra «operaisti» e «movimentisti», certi scontri interni alle sinistre extraparlamentari italiane e francesi, certi dibattiti su struttura/sovrastruttura sembrano articoli del modernariato novecentesco. Da analizzare, magari scegliendo la strada delle «storie particolari», di persone, di realtà locali, di singole fasi2, ma senza investirli di un primato storiografico. Eppure non si renderebbe un buon servizio a quella stagione guardandola soltanto come snodo culturale. Perché è stata innanzitutto politica; se ne possono dare giudizi opposti, non si può negarle questa prerogativa. Ha trasformato modi di vedere e di agire, ha oscillato fra vecchio e nuovo (e simil-vecchio e simil-nuovo), è declinata rapidamente, ha perso. Che molto sia tornato come prima non è un buon motivo per dimenticare quanto e come si è cercato il cambiamento. Singole persone, soprattutto quelle che non trovano deprimente definirsi «ex», ci riflettono da mezza vita. Ma, diversamente da quegli esponenti del terrorismo che fanno della clandestinità e delle armi il motore della loro parola pubblica, di rado hanno scritto il proprio romanzo di formazione. 71

«Vattene via» Quando avevamo barricato le porte di palazzo Campana e avevamo messo per barricarle la sacra cattedra di Allara [...]. E mi ricordo che un giorno, nell’ora in cui avrebbe dovuto fare lezione Allara, Guido Viale era in piedi sulla sua cattedra, e Allara comparve alle sue spalle perché era passato dalla cantina, e Guido Viale lo affrontò a insulti, stando coi piedi – aveva queste scarpe massicce inglesi – stando sulla cattedra, capellone, tutto il peggio che per Allara potesse esserci. Gli diceva: «Vattene via», dandogli del «tu», con Allara che diceva: «Scenda immediatamente da quella cattedra. Lei sta violando una norma giuridica» e Viale: «Ma stai zitto imbecille, hai tormentato gli studenti fin adesso». Fece uno show che lo accreditò come capo carismatico, e che per me – ero quasi matricola – era una dissacrazione incredibile3.

Siamo a Torino, 29 febbraio 1968. Rettore e docente di diritto penale, portavoce dell’estremismo accademico, Mario Allara è da decenni l’incubo degli studenti per la sua pretesa che agli esami gli si ripetano testualmente gli esempi fatti a lezione, e per la tendenza a lasciare fuori dell’aula i principi elementari dell’educazione – sarcasmi, insulti, libretti scagliati per aria. Viale, capellone debuttante cui gli amici chiedono se vuole proprio assomigliare a Gesù Cristo, è una figura nuova, che incarna l’ala antiautoritaria del ’68, dominante a Torino, a Trento e alla Cattolica di Milano. Quella che Marco Revelli fa rivivere è una perfetta scena di teatro politico all’insegna del mondo alla rovescia. Il Magnifico rettore, abituato a veleggiare seguito dall’assistente, costretto a infilarsi nel sottosuolo come un topo. La sacra cattedra ostaggio di piedi esorbitanti. Gli insulti restituiti, l’incredulità che si converte in euforia, l’atomizzazione in sentimento di comunanza, l’aula nel paese della cuccagna o in uno squarcio di carnevale. Come altri movimenti della modernità, il ’68 ha un’anima millenarista che non si accontenta di durare lo spazio di un giorno.

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Partire da sé L’aspetto più interessante è che per togliere la maschera all’«autorità» se ne mostra la pochezza umana, prima ancora che culturale e politica. A Allara non si rimprovera di essere reazionario o di destra, ma di aver fatto soffrire gli studenti – esperienza diretta anziché astrazione, in altre parole il «partire da sé» che i movimenti studenteschi, consapevolmente o meno, hanno mutuato dalle controculture. Trasformata in rifiuto dall’interno, la secessione dalla società adulta iniziata da adolescenti riottosi, beat, hippie, disegna un modello di politica nuovo, che dichiara l’importanza della condizione di ciascuno, degli stati d’animo, bisogni, desideri, frustrazioni, felicità, infelicità. Eresia numero uno per la politica di allora, in particolare di sinistra, in cui l’impegno cominciava (almeno in teoria) dall’oblio della dimensione personale a favore di quella generale. Lo stesso concetto di impegno, con l’inevitabile corollario dell’«a favore di», è lontanissimo dall’orizzonte mentale degli studenti. Ora la priorità sta nel capire se stessi, mettendosi a nudo, scoprendo le complicità interiori senza le quali i poteri crollerebbero o svelerebbero il loro sottofondo di violenza. Sta nel trasformarsi, mettendo in conto anche le sofferenze, come vuole la parola d’ordine «portare il Vietnam dentro di sé» – uno scontro interno fra la parte di ciascuno che rappresenta le forze della sopraffazione e del dominio, la parte che incarna il bisogno di liberazione, la parte che cerca di sottrarsi a questa dicotomia. Infatti lo show di Viale non punta a una conquista da strappare al corpo accademico, vuole seminare irriverenza, fiducia in se stessi, solidarietà, in una sorta di rito di passaggio che dovrebbe contribuire a far cambiare la vita e le persone. «Non domani, da subito»4. Questa è l’eresia numero due, che investe un caposaldo della politica, la tesi dei due tempi: sacrifici oggi, paradiso domani – e nel frattempo la routine toglie senso a parole come libertà e uguaglianza, la politica assomiglia sempre più a un’attività per specialisti. Sebbene possa sembrare una fuga in avanti, quel «da subito» irradia saggezza. Perché nessuna ideologia dei due tempi è mai riuscita a arrivare al secondo. E perché non è detto che 73

un domani ci sia. Quella degli anni sessanta (e cinquanta) è la prima generazione «che non è affatto sicura di avere un futuro»5, che è guidata «dalla sensazione che [potrebbe] essere l’ultima a sperimentare la vita»6. Oggi, che la minaccia del nucleare di guerra è stata largamente rimossa (purché non entrino in lizza paesi giudicati pericolosi); che ci siamo abituati a pensare che la prospettiva della distruzione reciproca fra Usa e Urss ci abbia regalato 50 anni di relativa pace, è difficile immaginare il clima di allora, quanto ci si sentisse impotenti, e però indisponibili a rassegnarsi. Su questo stato d’animo si incontravano giovani non necessariamente politicizzati e grandi pensatori. Nel ’60 Günther Anders scriveva: «alla domanda ‘Come dobbiamo vivere?’ si è sostituita quella: ‘Vivremo ancora?’. Alla domanda del ‘come’, c’è – per noi che viviamo in questa proroga – una sola risposta: ‘Dobbiamo fare in modo che l’età finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo’»7. E Hannah Arendt: il futuro è «come una bomba a orologeria sepolta, ma che fa sentire il suo ticchettio nel presente [...]. Alla domanda che abbiamo sentito tanto spesso: chi sono coloro che fanno parte di questa generazione? si è tentati di rispondere: Quelli che sentono il ticchettio. E all’altra domanda: chi sono quelli che lo ignorano in modo assoluto? la risposta potrebbe benissimo essere: Quelli che non sentono il ticchettio»8. Non è solo giovanilismo quello di Jerry Rubin quando invita a non fidarsi di nessuno che abbia più di 34 anni, quando sostiene «che ogni generazione dovrebbe cercare la propria leadership nella generazione più giovane perché è quella più direttamente e emozionalmente coinvolta dalla repressione della società»9. Secondo l’universo adulto, al presente non c’è alternativa, dunque bisogna augurarsi che la società funzioni eternamente, accettandola come l’unica possibile, anzi la migliore; mentre la maggioranza dei giovani osa guardare in faccia la realtà e non rinuncia a lottare – è «un tipo umano che non c’è mai stato finora», insieme apocalittico e nemico dell’apocalissi10, un tipo che capisce come la minaccia nucleare e i legami 74

economici abbiano reso i destini di tutti interdipendenti. Le autorità mondiali ragionano in termini di blocchi e di nazioni, i giovani sentono che non ci si salva da soli. Partire da sé è innanzitutto dare credito alla tendenza tipica di questa generazione a guardare contemporaneamente al vicino e al lontanissimo, sia nello spazio sia nel tempo: dalle aule delle università al Vietnam, dalla famiglia alle multinazionali, dalla cronaca giornaliera alle grandi narrazioni che hanno presieduto alla trasformazione del passato in storia. È dare credito a una idea di politica che vuole frantumare la storica divisione gerarchica pubblico/privato. Certo, la linea di confine tra le due sfere è sempre stata mutevole, esposta a sollecitazioni e a conflitti di potere; le dittature l’hanno quasi azzerata per dominare meglio ogni espressione vitale. Ma non per questo è meno importante l’idea che i comportamenti individuali abbiano rilevanza politica di per sé, indipendentemente da progetti complessivi; e che la rivoluzione debba passare attraverso la vita quotidiana. Il campo della politica si amplia enormemente, fino all’estremo del «tutto è politica». Con ragione, se si pensa a come la riduzione a merce non risparmi l’intimità e gli affetti. Con molti rischi, se si dimentica l’autonomia della cultura, delle relazioni, delle emozioni; se la pratica dell’autoanalisi si rovescia nella tentazione di costruire l’«uomo nuovo», nel cui nome il ’900 ha sprofondato l’individuo nel corpo collettivo, nel corpo massa e cavia per le ingegnerie statali. Anche la rivoluzione introdotta dal femminismo con il principio «il personale è politico» avrà i suoi punti critici.

Il popolo si servirà da solo Ala antiautoritaria, esistenziale, empirica, sono termini del lessico politico per indicare le situazioni in cui ci si concentra, più che sul «quadro generale» e sull’«analisi di classe», sulla lotta al potere accademico e sull’autopedagogia. Dal marxismo non c’è distacco programmatico, ma neppure filiazione diretta. Infatti il sé da cui si parte non è il sé della classe operaia, la classe generale che nel liberarsi libera l’umanità intera. È il sé di 75

studenti di provenienza per lo più piccolo (medio o grande) borghese, che invece di accettare il ruolo dell’intellettuale al servizio delle masse si sentono legittimati a lottare per il proprio destino, e scrivono sui muri della Sorbona «Il popolo si servirà da solo». Ecco la rottura con la tradizione marxista ortodossa o eterodossa in cui una parte degli studenti si è formata. Rottura profonda, perché nega il caposaldo secondo cui la coscienza delle persone dipende dalla loro posizione economica e lavorativa, e solo il lavoro salariato può crearne le premesse. E perché nega che ci si possa liberare per interposta classe. È una frattura anche il fatto che in molte sedi studentesche non si riconosca in alcun modo il ruolo di sintesi del partito – quello di avanguardia teorizzato da Marx o quello di massa dell’Europa post-’45 – e che se ne rifiutino la gerarchia e la ritualità. Lo è dichiararsi alla sinistra di tutto, mentre fin dai tempi della I Internazionale la linea è stata «nessun nemico a sinistra», che ha contribuito all’espulsione di fatto della componente bakuniniana. Lo è non preoccuparsi troppo di creare una organizzazione strutturata e stabile. Lo è l’empatia verso il filone anarchico, con la sua matrice antilegalitaria e volontarista, che, contro il primato delle condizioni oggettive, nega che le rivoluzioni avvengano in circostanze specificabili in anticipo, e che possano essere previste e pianificate. Prezioso modello cui una parte del movimento deve la capacità di riconoscere espressioni di antagonismo improbabili e improvvise. Non che si ignori il problema di uscire dall’università e di collegarsi a altri strati sociali. Ma nella sua componente più bella e creativa, il movimento rifiuta di farlo al modo delle cosiddette vecchie sinistre, che proponevano un’alleanza fra interessi differenti tenuti insieme dalla mediazione dei partiti. L’obiettivo, ambizioso, è coinvolgere altri soggetti, in tendenza tutta la società; nella teorizzazione più interessante, quella del movimento tedesco e in particolare del suo leader Rudi Dutschke, è il progetto di una «lunga marcia attraverso le istituzioni». Che non punta affatto a una presa del potere di tipo leninista, ma a stimolare nei luoghi di lavoro e nelle strutture sociali una ribellione che parta da esperienze e condizioni specifiche. Se si vuo76

le ancorarlo al marxismo, bisogna almeno dire che il ’68 è un figlio illegittimo – o almeno lo è una sua parte. Come alcuni pensavano già allora. Eravamo molto incompresi, dai milanesi, dai romani in modo fortissimo. E noi eravamo molto incazzati con loro, c’era uno scontro molto forte. Gli spiegavamo per esempio l’importanza della lotta contro i professori [...]. E loro dicevano: «Ma queste sono cazzate. I professori non sono importanti. Sì, si può fare ma noi dobbiamo lottare contro il capitale, dobbiamo trovare il rapporto con la classe operaia». In modo astratto, perché poi a Roma non c’erano neanche gli operai [...]. Io gli dicevo: «Ma voi a Roma non c’avete operai, cosa v’importa? Voi a Roma c’avete gli impiegati dei ministeri, è una città fatta dal popolo ministeriale, dovete riuscire a parlare con loro». Naturalmente a loro non interessava niente, non vedevano l’elemento di liberazione interno11.

A non vederlo sono piccoli gruppi di ultrasinistra preesistenti che si inseriscono nel movimento, sono le componenti studentesche legate al marxismo, che considerano l’università come la base di reclutamento per l’ennesimo partito «veramente rivoluzionario» e vedono il suo soggetto elettivo nella classe operaia (gli operaisti italiani, forti a Roma e alla Statale di Milano, i maoisti francesi). Dunque il marxismo ha peso teorico e seguaci, presto farà da spartiacque temporale – 30 anni dopo Ágnes Heller, una delle pensatrici più seguite fra i giovani degli anni settanta, dirà: «Da quando ho scritto quel libro a oggi qualcosa è cambiato: non sono più marxista. Perché non credo più che il presente sia un breve passaggio di un secolo indirizzato verso una sorta di paradiso. Qui viviamo, qui moriremo»12. Ma tra fine ’67 e inizio ’68, a emergere sono i temi, l’atmosfera, le forme di lotta più nuove: è il discorso sulle istituzioni: le istituzioni sono massificanti e autoritarie e il fatto di appartenere alle istituzioni ti dà titolo a ribellarti contro di esse. Era importante per dire: «Ognuno gioca il suo vissuto nella lotta. Io mi ribello contro la mia oppressione, non contro quella dei vietnamiti. Io sono con loro perché lottiamo contro lo stesso nemico, ma 77

io sul problema della liberazione – io sono lo studente in quanto studente. I miei nemici sono le autorità accademiche, sono i riti dell’università, sono la cultura autoritaria e la manipolazione culturale. Per gli operai sarà un’altra cosa, diversa. Magari loro sono più importanti di noi, contano di più, ma la nostra presa di parola come testimonianza individuale vale quanto la loro, perché è una testimonianza di liberazione»13.

A Torino nessuno si sarebbe riconosciuto nella definizione di «ala esistenziale»; si pensava semplicemente di fare politica. L’accusa di atteggiamento piccolo-borghese non aveva corso, anzi sarebbe parsa fuori luogo; contavano altri criteri, la presenza nelle assemblee, la partecipazione alle attività collettive.

Più i comportamenti che le ideologie A partire dal ’66-’67, e con un picco nel ’68, tutti i paesi industrializzati dell’occidente, e, in forme diverse, il Giappone, la Cecoslovacchia, la Polonia, il Messico, la Jugoslavia, conoscono una grande stagione di agitazioni degli studenti. È un’esplosione simultanea che nessuno avrebbe immaginato. Troppe le diversità nell’economia e nelle culture, nelle forme politiche, nelle mentalità, a cominciare dalla differenza fra est e ovest. Molti osservatori facevano notare già allora che gli studenti dei paesi comunisti lottavano all’interno di un movimento più ampio, non solo giovanile; che i bassi livelli di vita rendevano astratta la critica ai consumi; che il riferimento della protesta era, più che il Vietnam, l’invasione dell’Ungheria; e soprattutto che all’est i movimenti rivendicavano proprio quei diritti di libertà che ai giovani occidentali sembravano irrilevanti: «Non c’è pane senza libertà», diceva uno slogan degli studenti di Varsavia; i loro coetanei francesi, italiani, tedeschi erano abituati a pensare piuttosto il contrario: «Non c’è libertà senza pane». La stessa democrazia è vista in modo diverso. Come scrive Paul Berman, protagonista del ’68 e suo storico ironico e affettuoso, nell’Europa continentale è un «amore secondario», di cui si sottolineano il carattere «formale», i limiti in tema di giustizia 78

sociale, gli aspetti di manipolazione; negli Usa è un «amore primario»14, sorretto da una lunga tradizione di pensiero sulla democrazia partecipata che va da Walt Whitman a Dewey (e che si incarna in molte pratiche di base e locali). Lo stesso vale per la «rivolta contro i padri». I giovani europei li accusano di non capire le nuove idee, gli americani di aver tradito gli antichi valori della nazione, libertà, democrazia, onestà politica e intellettuale. In Italia e Francia esistono partiti comunisti più grandi e influenti dei socialisti, negli Usa un sindacato e un partito socialista ancora forti si contrappongono al partito comunista (e tutti e due sono stati falcidiati dalla caccia alle streghe). Nei movimenti continentali il debito teorico verso il marxismo è maggiore che negli Usa, dove la coscienza antitotalitaria più avanzata contribuisce a mettere in guardia dai sistemi totalizzanti (e totalitari), e la «nuova sinistra» è terzomondista e scettica sulla funzione egemone della classe operaia. Nell’Europa continentale, la critica alla famiglia è particolarmente sentita, perché i giovani restano più a lungo in casa dei genitori; c’è anche un atteggiamento meno aperto verso le culture giovanili, che dilagano ovunque, compresi l’Unione Sovietica e i paesi satelliti, e che sono temute per i loro aspetti commerciali. Lo stesso sistema universitario non è uniforme. Una cosa sono le università dell’Europa continentale, fortemente gerarchiche, povere di servizi per gli studenti, con meccanismi di rappresentanza consultivi legati agli schieramenti politici. E, non ultimo, collocate abitualmente nel cuore delle città. Negli Usa e nel Regno Unito il campus consente più rapporti fra studenti e con i docenti, meno con il territorio, esistono associazioni studentesche attive in vari settori della vita comunitaria; gli accademici vengono da una tradizione di empirismo e pragmatismo, c’è concorrenza fra università, il rapporto con il mercato è decisivo, fino a indirizzare le ricerche e a promuovere un corso piuttosto che un altro. E lo sport ha un ruolo così importante nell’immagine dell’istituzione e nelle carriere studentesche che rifiutare di praticarlo è già una forma di protesta. Tanti e tante, protagonisti di quegli anni oppure no, storici, sociologi, hanno riflettuto sulla diffusione mondiale delle lotte. 79

Alcuni hanno indicato il 1848 come unico antecedente storico, con la differenza che la sua dimensione «totale» passa attraverso la prospettiva nazionale e l’ambizione di tradurla in Stato. Il sessantotto, invece, ha da subito un orizzonte planetario, pone problemi affrontabili solo su scala mondiale, lasciando sullo sfondo gli Stati nazionali. È uno degli aspetti che consentono di parlare di un unico movimento, sia pure in senso lato. Altre interpretazioni vedono il terreno unificante nell’insofferenza per gli apparati burocratici, statali e non, che ovunque dominano la vita, per le grosse macchine di partito che hanno monopolizzato la politica, per l’ideologia secondo cui cultura e scienza sarebbero «oggettive», indipendenti dalle opzioni/condizioni personali e politiche degli studiosi e dal loro universo di riferimento. Altre ancora sottolineano che la cultura di massa è un fenomeno che si estende all’est, dove arrivano, sia pure faticosamente, la letteratura beat, le idee dell’occidente, il rock – il futuro intellettuale del dissenso e presidente della Cecoslovacchia post-comunista Václav Havel amava il rock e leggeva Kerouac. Anche da questo punto di vista, si può secondo alcuni autori parlare del sessantotto come di un movimento unitario, per quanto diversificato. È comune a tutti i movimenti il tema della rivoluzione. Che in questi anni non sembra più impensabile né a chi la sogna né a chi la teme. Vale per il Terzo mondo, vale per la sussultoria Europa. Se non che, scrive l’economista Giovanni Arrighi15, la nuova sinistra coltiva ancora alcune illusioni della vecchia, innanzitutto l’idea che sia già disponibile una strategia vincente, e che il «sistema» sia una macchina gigantesca ma svuotata dall’interno e sul punto di crollare. Come recita lo slogan della «tigre di carta» coniato da Mao Tse-Tung, una delle figure amate e idealizzate dagli studenti occidentali. In Europa circola il «libretto rosso», la raccolta di brevi frammenti di libri e discorsi di Mao che i giovani cinesi levavano in alto durante le manifestazioni della rivoluzione culturale. E proprio la rivoluzione culturale è uno dei riferimenti più forti per il radicalismo studentesco, che ne fa il simbolo della lotta all’autoritarismo necessaria e possibile anche in una società socialista: un simbolo 80

che si regge però sulla rimozione della sua enorme distruttività e del suo stesso fallimento. Per fortuna la rivoluzione degli studenti rientra in quelle di cui si parla molto senza che sia chiaro in cosa consista e senza che ci si prepari davvero a farla. L’immagine della fiammata evoca abbastanza bene la fisionomia del ’68: la brevità; l’ostilità sia contro i gruppi al potere sia contro la sinistra tradizionale, accusata di debolezza e compromissioni. Soprattutto il carattere «spontaneo» che coglie di sorpresa persino i protagonisti – non c’è direzione centralizzata, non c’è alcun piano; gli studenti appena più grandi, spesso espulsi dai partiti comunisti (gli «sbarbatelli rossi», li chiama Berman16) si trovano alla testa di migliaia di giovani quasi senza sapere perché e cosa farne. Dissonanze e somiglianze politico-ideologiche aiutano a capire molte cose, per esempio le immagini del futuro, le modalità della repressione, il rapporto con gli strati popolari, fino al cruciale post-’68. Ma scolorano di fronte all’affinità dei comportamenti, delle forme di lotta, degli slogan e del ritmo con cui li si scandisce, dello spirito del momento17. Perché la cifra generazionale conta come mai prima. Perché l’America, il paese che l’apartheid di fatto e le avvisaglie della guerra del Vietnam rendono unico nell’orizzonte occidentale, lo è anche per la precocità del movimento e per l’imprinting che dà a tutti gli altri.

Gli studenti americani Quando nel 1966 arrivai all’Università del Maine, sulla vecchia station wagon che avevo ereditato da mio fratello c’era ancora un adesivo di Goldwater, era ragnato e scolorito ma perfettamente leggibile (AuU2O-4-Usa). Quando lasciai l’università nel 1970, non avevo una macchina. Avevo viceversa la barba lunga, i capelli fino alle spalle e uno zaino con un adesivo su cui era scritto «RICHARD NIXON È UN CRIMINALE DI GUERRA». Sul distintivo al collo della mia giacca di jeans si leggeva «NON SONO UN FIGLIO FORTUNATO»18.

Nell’arco fra le due date, Pete Riley, che in un questionario della primavera ’66 si era definito fumatore, Giovane Repub81

blicano, aspirante chitarrista folk, nottambulo, ha fatto molte cose. Come giocare ossessivamente a carte. Innamorarsi di Carol Gerber. Vedere per la prima volta il simbolo pacifista (sul montgomery dello studente Stokely Jones) e scambiarlo per una zampa di passero. Discutere sempre più spesso di Vietnam. Scandire «Hey hey LBJ, how many kids have you killed today?». Notare che i docenti esitano a dare voti bassi a chi ha una borsa di studio, perché porterebbero all’allontanamento e l’allontanamento alla coscrizione – per questo, si dice, grazie all’interessamento del presidente Nixon essere una ragazza è una buona cosa. Trovare su un giornale la foto di Carol sanguinante in una manifestazione pacifista. Disegnare sulla propria giacca la zampa di passero. Scoprire l’odio sulla faccia di un poliziotto. Autodenunciarsi per proteggere dall’accusa di scritte sovversive l’indecifrabile, scontroso Stokely che arranca ovunque sulle sue stampelle da storpio. Venire a sapere che Carol è saltata in aria nel tentativo di impedire che lo scoppio anticipato della bomba che trasportava facesse troppi morti. Accorgersi tanti anni dopo di quanto è forte il ricordo del cigolio di quelle stampelle. Non è una storia esemplare, solo una delle tante possibili, e non è storia in senso proprio, ma invenzione letteraria sorretta dalla memoria autobiografica di Stephen King. Ha il pregio di trasporre in forma narrativa una peculiarità del movimento americano, il suo nascere sulla spinta di grandi fenomeni esterni all’università. Nei primi anni sessanta è stata la segregazione dei neri, che ha visto migliaia di studenti del nord spostarsi al sud per partecipare alle campagne per i diritti civili, seguendo l’idea-forza dell’uguaglianza fra i cittadini che i padri non hanno saputo/voluto garantire. A metà decennio è il Vietnam. La nuova sinistra si infoltisce, ma per ribellarsi all’ingiustizia interna della segregazione e a quella esterna di una guerra che sembra il prototipo dello scontro Davide/Golia, non c’è bisogno di essere politicizzati – come infatti non sono Pete Riley e i suoi sodali. Basta seguire il doppio impulso alla rivolta etica e alla sopravvivenza personale. Il sé da cui si parte è il sé di ragazzi che hanno smesso di fidarsi dei loro governanti, e che potrebbero 82

tornare a casa in un sacco di plastica, oppure ciechi, senza gambe e braccia, pazzi, alcolizzati, resi invalidi dall’Agente Orange. Si direbbe che al modello secolare «right or wrong, my country», sia subentrato un «right or wrong, our life». Con quali costi psichici è una domanda cui solo alcuni grandi film hanno dato spezzoni di risposta. Sul no alla guerra si incontrano, sia pure tra incomprensioni e rivalità, hippie, beatnik, ribelli senza causa, oppositori politici, ragazzi spaventati, tutti ormai convinti che non è possibile far convivere il desiderio di cambiamento con l’appartenenza a una società che pure in qualche misura si era aperta all’innovazione – l’assassinio di Kennedy era stato il primo segnale di sconfitta. L’entità pluriforme chiamata «movement» cresce, si va rapidamente verso la «contestazione globale», un termine usato allora per indicare il rifiuto dell’intero assetto sociale, dalla politica alla scuola alla famiglia. L’occupazione dell’Università di Berkeley in California nel 1964 è considerata il debutto del movimento dentro e contro le università. Il 1° ottobre 1964 un gruppo di studenti espone su alcuni tavoli, all’interno del campus, documenti delle lotte per i diritti civili. Quando la polizia intima di toglierli, rifiutano e uno di loro è minacciato di arresto. Si radunano ducento ragazzi, che rapidamente diventano tremila. Il sit-in dura 32 ore, e alla fine le autorità accademiche accetteranno il principio per cui si può discutere di tutto in ogni parte dell’università. È nato il Free Speech Movement. Molto presto l’agitazione studentesca si intreccerà a quella antimilitarista e alla renitenza al servizio militare19. Mentre il rock assicura un’eco di massa alla protesta, si bruciano pubblicamente le cartoline-precetto, si organizzano le diserzioni e le fughe verso il Canada, si diffondono volantini e giornali – alcuni arriveranno in Europa grazie a compagni itineranti. Quelli che seguono sono per gli studenti americani anni di grande attivismo politico e tensione morale, di occupazioni, marce, sit-in. Nelle università si diffonde un antiautoritarismo duro e onnipervasivo, si mette sotto accusa la rigidezza dei contenuti culturali e delle relazioni docenti/studenti. Si rifiutano i tradizionali meccanismi di rappresentanza teorizzando la de83

mocrazia diretta e tentando di praticarla con la forma dell’assemblea. Si denuncia – pratica cruciale, seguita da tutti i movimenti europei, in prima fila quello tedesco – la manipolazione messa in atto da giornali e televisioni. Si prende la buona abitudine di chiedere a docenti intellettuali scienziati da che luogo parlino, e il luogo è l’istituzione, l’ideologia, la condizione personale, il rapporto con l’oggetto studiato, con i media, con il mercato, con le tecnologie – nel linguaggio d’epoca, si chiede di «prendere coscienza del proprio ruolo». Si sperimenta l’autoeducazione con seminari e lavori di gruppo su temi scelti dagli studenti, senza esami e valutazioni di merito, secondo il principio della libertà di espressione e di partecipazione. È il funerale dell’equazione autorità = verità. E non è la sola eco delle controculture underground. Hanno la stessa origine la critica alla famiglia e la «liberazione sessuale», che si esprime in un inizio di cambiamento nella pratica amorosa, ma soprattutto nell’attribuire alla sessualità un carattere politicamente rilevante. Le stesse occupazioni hanno il loro modello principale nella tendenza che ha attraversato il mondo giovanile a separarsi in un luogo fisico e non soltanto simbolico. Come scrive Peppino Ortoleva, un tratto specifico del ’68 rispetto «alle stagioni più lunghe della nuova sinistra e della controcultura è proprio il congiungersi della volontà di rovesciamento del potere costituito e di quella della creazione di un proprio spazio autonomo»20, due spinte diverse, che trovano nelle università occupate un momento di equilibrio, effimero, affascinante, contraddittorio. Infatti, se in questi anni il movimento studentesco americano, in particolare l’Sds (Students for Democratic Society) diventa una forza rilevante, è anche perché sa politicizzare la ribellione generazionale, in qualche modo subordinandola a sé, per quanto in America molto meno che altrove. Del resto, a fine anni sessanta i temi che le controculture avevano elaborato stando fuori dall’industria culturale sono stati ripresi dal mercato e messi in circolazione, dalla riscoperta della spiritualità orientale alla libertà sessuale. Il sogno di superare la divisione fra tempo libero e tempo di lavoro, fra classi sociali, fra bianchi e neri, sta frantumandosi. 84

Tutti insieme, tutti uguali? Come avviene fra i movimenti di paesi diversi, anche nelle università somiglianze e differenze si giocano più sui comportamenti che sulle ideologie, l’identità di giovane/studente/militante sovrasta i tratti propri di singoli e gruppi. Il passaporto per il «movement» è semplice: l’età, la voglia di lottare e di stare insieme (e beninteso essere di sinistra, o in alternativa, spoliticizzati ma pronti a fondersi con gli altri). Ecumenico, duttile, il ’68 si fonda su un universalismo per sottrazione: non importano le origini regionali e sociali, le appartenenze religiose e culturali, in teoria la stessa differenza dell’essere uomo o essere donna. Negli Usa la sola «specificità» riconosciuta a pieno titolo è ovviamente quella dei neri. Come se si attraversasse un filtro semplificatore, ci si spoglia dell’equipaggiamento originario, o almeno lo si lascia all’ingresso delle università, incoraggiati dal diffuso disinteresse per questi aspetti. In Italia, dove non esistono minoranze religiose o «etniche» consistenti, dove l’ugualitarismo comunista e cattolico ha fatto scuola, persino i nomi si sconnettono dal loro significato identitario: Levi e Segre perdono la connotazione ebraica, Peyrot e Bouchard quella valdese. A Torino, Marcello Vitale descrive nel suo diario, e fa tenerezza leggerlo, il distacco dalle ritualità ebraiche: Stamattina sono andato al tempio. Quasi me ne dimenticavo, era il primo anniversario del nonno. Be’, mi sembrava di essere tra gli arabi, dopo anni che non andavo al tempio. Kaddish, Kayon, Gadol, mi sembrava di essere un turista che assiste ad un rito strano. In un certo senso mi fa piacere, perché vuol dire che non mi è rimasto niente di tutta quella parte sovrastrutturale e cerimoniale dell’ebraismo. (Chissà perché le donne stanno sedute a parte!) Solo mi fa un effetto strano quando il rabbino con i rotoli in mano dice Shema Israel21.

Eppure la sua famiglia ha dovuto emigrare in Argentina per sfuggire alla persecuzione, e lui stesso è nato a Buenos Aires. Probabilmente, se fosse vissuto, avrebbe lavorato su quell’«effetto strano», come hanno fatto alcune e alcuni. Adam Michnik, 85

invece, racconta di aver proprio allora scoperto, in più degli altri, di essere ebreo22. Fra i giovani leader francesi, gli ebrei sono parecchi, figli di reduci dai Lager, dal maquis, o da tutti e due23. Probabilmente sentono più dei loro compagni il bisogno di non essere soltanto i «reduci della Cinémathèque»24; forse sono spinti da un impulso simile a quello dei loro cari, che al ritorno dai Lager avevano cercato prima la comunanza con tutte le vittime, e solo in seguito il riconoscimento della propria storia. Forse a ricordargli che sono ebrei è lo slogan della destra «Cohn-Bendit à Dachau», cui gli studenti rispondono con «Siamo tutti ebrei tedeschi». Purtroppo il vuoto di ricerca non aiuta. Che cancellando o autocancellando le origini si perda un pezzo di se stessi, nel ’68 non è certo una consapevolezza diffusa. Non lo è neppure nel criticatissimo mondo progressista di allora – prima parentela impropria cui verosimilmente l’universalismo del movimento non fa caso. Come non fa caso agli aspetti di somiglianza con le visioni illuminista e liberale, secondo cui le differenze devono esprimersi nella sfera privata, senza interferire nella sfera pubblica. È la seconda parentela impropria dell’universalismo studentesco, visto che il ’68 teorizza la fine della separazione fra i due ambiti e fra individuo pubblico e individuo privato. La terza è quella con le ideologie totalizzanti, in cui le specificità devono cedere all’utopia ugualitaria – il contrario della riscoperta dell’individualità cara al movimento, che per altro già convive in equilibrio precario con la spinta a fondersi nel collettivo. È anche su questo impasto empirico di vecchio e di nuovo che si fonda la fisionomia del ’68. Porte aperte a tutti, libertà per chiunque di salire su una cattedra, prendere un altoparlante e arringare i compagni. Vita in comune, vicinanza continua, molte scoperte: per esempio che stare ginocchio contro ginocchio con persone semisconosciute non è più un’infrazione alla «distanza di sicurezza» fra i corpi che vige nello spazio sociale, è un fatto naturale. «Non ci perdevamo mai, ecco. L’individuo era sparito, io non facevo più niente da sola [...]. Era un universo totalizzante, in cui privato e pubblico si mescolavano [...] e questo faceva scomparire il privato»25. 86

Si deve all’«universalismo inventato» se, lo ricorda Morin, capita di provare un benessere fisico fino allora sconosciuto, se ci si sentiva fatti di una «materia stellare»26. Se uno studente che fino al giorno prima balbettava e tremava davanti a un professore da un momento all’altro si trova a guardarlo negli occhi tranquillamente, ed è una vittoria per tutti. L’aspetto più amabile e fugace del ’68 è stato un’accezione di libertà diversa da quella classica, secondo cui la mia finisce nel punto in cui comincia la tua, quasi dovessero inevitabilmente competere e tollerarsi a vicenda. Allora le libertà sembravano camminare insieme, non libertà «di», «da», «fin dove», ma libertà «con», vissute in una sintonia in parte immaginaria, in parte reale. Nelle università occupate si vive qualcosa di simile a quello che Hannah Arendt, riferendosi alla rivoluzione francese, definisce felicità pubblica, un momento magico in cui sembra che la liberazione individuale coincida con quella collettiva, che cada la divisione fra vita quotidiana e politica, e la politica non sia più un mestiere per specialisti, ma coincida con lo stare insieme e comprenda il gioco, il riso, l’affettività. Di qui il suo aspetto di grande famiglia, di comunità «calda»: il ’68 rappresenta anche la rottura della solitudine nella società di massa. È così che a molti piace raccontarsi, ed è vero (o quasi), per una scheggia di tempo – stato nascente, fase della «follia», della festa. Per chi e per quanti? Fra le critiche al ’68, una delle più deboli è che sia stato un ricettacolo di figli di papà; anche volendolo, molti padri non avrebbero potuto svolgere il ruolo di protettori/finanziatori/ procacciatori di carriere. La più interessante è che si sia trattato di un movimento di massa e contemporaneamente elitario. Certo non contavano censo e potere, contavano la condizione esistenziale, il carattere, il caso, il che rappresentava comunque uno slittamento notevole. Ma già agli esordi l’universalismo è selettivo. Non parlo dell’esclusione di chi ha idee opposte, diritto ovvio di qualsiasi aggregato politico – anche se in alcune sedi italiane partecipavano democristiani, liberali, moderati. Parlo delle barriere erette più o meno volontariamente e consapevolmente, che discriminano secondo il criterio della disponibilità materiale: per 87

partecipare davvero, bisogna essere ricchi non di denaro ma di tempo. Chi lavora otto ore al giorno, chi viene dalla provincia e deve rientrare la sera, chi ha un figlio piccolo o un parente cui badare resta fuori, o ai margini. Più donne che uomini. Con tutte le sue novità, qui il movimento studentesco riproduce la situazione di sempre. Sebbene la presenza femminile sia più alta che in qualsiasi partito, le giovani madri si contano sulle dita di una mano, non solo perché l’età al primo figlio sta aumentando, ma perché non sono previste. Può succedere che i mariti/compagni stiano in facoltà 24 ore al giorno, le mogli a casa, tagliate fuori mentre vorrebbero esserci. A volte basta una salute fragile, o una malinconia refrattaria al farmaco della politica. «Per i depressi non c’era posto nel ’68», racconta vent’anni dopo Peppino Ortoleva27. È qualcosa su cui pensare. Spesso l’allegria fa da trait d’union tra la fusionalità e il conformismo di gruppo, e il ’68 non è immune dalla sindrome per cui il conformismo è sempre quello degli altri, il proprio lo si chiama coesione. Dunque c’è qualche ragione se a chi lo guarda dall’esterno, il «branco» sembra un corpo collettivo chiuso in se stesso, arrogante nella sua immagine di autosufficienza, un oggetto del desiderio, con tutto quel che di ambivalente il termine implica, dalla presa di distanza alla gelosia al rimpianto per un’occasione perduta. Che i vecchi clan amicali possano aprirsi, che se ne formino di nuovi, è evidente solo se ci si trova all’interno. Eppure il discorso non può fermarsi a questo punto. C’è chi il tempo se lo procura, per esempio lasciando un posto fisso per vivere di lavoretti, rompendo con la famiglia, dilazionando la maternità, saltando esami decisivi per il curriculum universitario, sgusciando fuori da reti di relazioni, magari facendo a meno di scrivere un libro o, come Gaber, allontanandosi dalla tv. I concetti di sacrificio e di rinuncia non c’entrano affatto. È un rivolgimento della gerarchia di valori che ribadisce la supremazia del presente sul futuro e mette in primo piano il desiderio – del ’68 tutto si può dire tranne che non fosse desiderabile esserci. Infatti sono molti a fare questa scelta, un pezzo di generazione che si troverà poi in ritardo cronico rispetto ai coetanei nelle traiettorie di vita, negli studi, nelle professioni, nelle retribuzio88

ni, che magari sconterà nei concorsi pubblici l’aver approfondito la letteratura del Bangladesh invece dei classici, che negli uffici, nelle scuole, all’università dovrà fare i conti con i sarcasmi dei colleghi contro «i rivoluzionari falliti». A molti operai degli anni settanta andrà peggio. Sul rapporto del ’68 con il mondo degli impieghi e delle professioni si è detto molto, specie per imputargli la crisi della meritocrazia, l’ignoranza diffusa, l’assenteismo: niente invece su queste vicende biografiche. Se neppure i protagonisti ci hanno speso una parola, probabilmente è perché pensano che ne è valsa la pena.

Assemblee Nell’insieme dei movimenti, una delle idee/pulsioni più condivise è il rifiuto della delega, su cui si reggono i tradizionali modelli di rappresentanza, elettivi e non elettivi. Un no che viene da lontano – dalla polis greca ai consigli operai – e da vicino – l’insoddisfazione per i meccanismi delle democrazie, il rifiuto della società iperstrutturata, dove ciascuno deve stare al suo posto e pochi controllano la vita di tutti, il sogno della democrazia partecipata. Nell’ambito circoscritto delle università, dove il criterio una testa un voto sembra dare concretezza alla tensione ugualitaria e al rifiuto delle leadership, la via maestra è l’assemblea generale, strumento tremendamente serio e ambizioso. Nel ricordo di Rossana Rossanda: Una delle rivoluzioni più grandi è che l’individuo, la persona diventa molto importante nel collettivo, perché afferma un principio antigerarchico. Ognuno ha diritto di parlare come gli altri, come i capi. Si metteva in discussione chi aveva il diritto di sedersi dietro a un tavolo a parlare, con gli altri a ascoltare [...]. Mi ricordo che a Parigi, durante il maggio, in una assemblea arrivò Sartre, ma nessuno lo fece passare davanti e lui dovette aspettare che tutti gli altri parlassero, ed erano donne, studenti, pensionati i quali volevano semplicemente raccontare la loro storia. Non sempre era una storia molto interessante, ma era la storia dell’unica vita che uno ha. Volevano che non rima89

nesse soltanto propria, avevano bisogno di dirla, e che gli altri intorno li ascoltassero per non sentirsi uno zero assoluto, un numero anagrafico [...]28.

Parigi è il cuore del ’68, la Francia è il solo paese dove il movimento dilaga in ogni ganglio sociale e invade l’opinione pubblica, dove si può parlare verosimilmente di momento rivoluzionario. Ma, anche se in tempi diversi, le assemblee mettono in scena dovunque quest’altro pezzo del teatro politico del ’68: la fine del monopolio della parola pubblica assegnato a intellettuali e dirigenti politici, un nuovo modello di legittimazione dei discorsi legato alla comunanza empatica fra chi parla e chi ascolta. Come sfondo, una «libertà di muoversi della parola, spazio discorsivo e spazio comunicativo, degli studenti tra loro e col mondo esterno»29. Peccato per certe scivolate al limite dell’autopunizione. Leggenda vuole che nel 1965, a Cleveland, i militanti Sds si siano sottoposti a una assemblea di ventiquattro ore prima di stabilire se fare un giorno di pausa e andare al mare. Le assemblee di massa del ’68 sono spesso interminabili – una volta si arriva alle tre del mattino per decidere come reagire all’intervento della polizia, «e tutti partecipavano sapendo benissimo che, in qualsiasi momento, avrebbero potuto alzarsi molto tranquillamente e uscirsene lemme lemme dalla porta»30. Una testa un voto, ma il numero delle teste può cambiare, o possono cambiare i proprietari delle teste perché nel movimento si entra e si esce senza formalità, e così nelle sue sedi. A raccontare i due episodi è Paul Berman, e si potrebbero inanellare altri esempi del cosiddetto assemblearismo. Ma senza dimenticare cos’è l’università per chi ci si trova allora. Nelle aule occupate si dorme, si mangia, a volte si cucina, si beve, si canta, si parla di tutto o quasi, si fa all’amore. Non è una novità assoluta, basta pensare alle case del popolo del Pci. I movimenti popolari creano volentieri luoghi di svago, conoscenza reciproca, e insieme di educazione ideologica informale; ma non sono sedi di decisione politica, tanto meno surrogati di case e sezioni. L’originalità di (alcune) occupazioni sta nella coinciden90

za fra il dibattito politico e le pratiche quotidiane, che dà alle università una fisionomia spuria di casa/palestra mentale/zona libera. L’idea della rilevanza pubblica del privato si rovescia nella trasformazione di un luogo per eccellenza pubblico in luogo anche privato, anzi domestico. Non senza punti ciechi. Le parole non pesano tutte allo stesso modo, non tutte le differenze hanno la stessa radice. Una cosa è quella che passa fra i discorsi dei leader e quelli dei militanti di base, dei colti e dei meno colti, di uomini e di donne, di giovanissimi e di adulti, di demagoghi e di democratici. Disparità visibili, importanti, affrontabili sebbene di rado affrontate. Altra cosa è il talento verbale, che ha ben poco a che fare con l’anagrafe sociale e culturale, o con il ruolo politico. I grandi narratori/incantatori hanno un potere avvertito da tutti, spendibile in prima persona, affiancabile a una linea politica. Un potere informale che può proiettarli all’interno di una élite o bloccarli al suo esterno. Peggio ancora se l’élite è a sua volta informale.

Siete vivi o morti? Dietro il culto dell’assemblea, dietro l’ostilità diffusa alla creazione di strutture formali e permanenti, preme il rifiuto del sistema gerarchico/elitista delle sinistre dette tradizionali, Chiese/famiglie/centrali di ortodossia, che hanno definito traditore chi ha protestato contro i carri armati sovietici a Budapest, che esigono fedeltà pubblica e privata, pena l’espulsione – e che in Francia hanno tacciato di spirito piccolo-borghese e di revisionismo «les italiens», i giovani parigini interessati al Pci per le sue timide rivendicazioni di autonomia. Troppo facile, però, scaricare tutte le responsabilità sui partiti comunisti. La «nuova sinistra» può essere non meno settaria della «vecchia». In Francia la maoista Ujc(ml), Union de la Jeunesse Communiste Marxiste-Léniniste, che nel ’67 decolla attirando intellettuali e aspiranti rivoluzionari, annuncia «una lotta intransigente contro l’ideologia borghese e il suo complice revisionista, contro l’ideologia piccolo-borghese – specialmente l’ideologia 91

pacifista, umanista e spiritualista»31. A Parigi l’estate ’67 è cinese. Si scomunica l’evasione romantica, il divertimento «egoista e decadente», il costume degli «italiani» di scambiarsi i partner, con le ragazze che si scelgono gli amanti e proclamano che le donne hanno diritto al piacere. I «maos» non hanno tempo di andare al cinema, di leggere, di studiare (se non un programma minimo per i nuovi), sottopongono gli aspiranti membri a batterie di esami, considerano l’autocritica una necessità quotidiana. Sono virtuosi, e vogliono che lo siano tutti: un militante che si è concesso una vacanza sulla neve è costretto a ammettere di essersi messo su una brutta strada. Sono fautori del matrimonio, ma con compagne subalterne, che accudiscano senza interferire, non con intellettuali troppo autonome. Sono rispettabili e controllati: al matrimonio di un militante, un vecchio amico dello sposo butta fuori i maoisti al grido di «siete vivi o morti?». Hanno l’ufficio politico, il comitato centrale, il segretariato del comitato centrale, e nessuno con il compito di controllarli. E hanno un capo supremo, Robert Linhart. Fra i dirigenti, Tiennot Grumbach, suo grande amico, già «riformista cattolico» e seminatore di dubbi nel Pcf. A giugno ’67, Tiennot è messo sotto accusa da Linhart, per aver pensato a una manifestazione comune con i rivali procinesi dei Circoli marxisti-leninisti di Francia, e per aver concesso loro alcune foto di un meeting per illustrare un articolo – segno di una concezione liberale dei rapporti fra organizzazioni d’avanguardia! Tiennot, che ama il Linhart pubblico e il Linhart privato, ora conosce l’Inquisitore. Reagisce, in un silenzio sbigottito denuncia pubblicamente il dandysmo del capo, il suo disprezzo per l’elaborazione collettiva, le civetterie, l’arroganza. All’ufficio politico di luglio la vendetta di Linhart: accuse di soggettivismo, tendenze anarchiche, psicologiche, piccolo-borghesi, mensceviche; e opportunismo, pretese di ugualitarismo nella direzione a dispetto dei ritardi nella formazione teorica e delle debolezze personali. Tiennot tenta un’autocritica penosa, viene isolato. Un mese dopo, scrive a Linhart una lettera: 92

Se pensassi di avere un comportamento opportunista, i costanti fantasmi del suicidio che mi assillano da un mese si sarebbero probabilmente materializzati. Se sono vivo è solo perché credo di essere stato, e di essere, un militante che può essere utile [...]. L’Equanil che ho preso per dormire comincia a fare effetto [...]. Sicuro di non essere «opportunista al 100%», confido nel nostro comune avvenire e spero che la parola fraternamente ritroverà il suo significato. Saluti da un compagno32.

Come sembrano più fortunati i giovani «italiens», con la loro vita da clan, gli scherzi e i gerghi, con l’inno che cantano in coro (ma in privato): Je suis révisionniste, quel cataclysme La révolution, c’est du bidon Depuis que je suis a l’Uec Mon sens de classe s’est émoussé Mon idéal petit-bourgeois Me sert de foi33.

C’è anche una sana autodifesa nell’affermarsi della volontà assembleare e antielitaria, nel successo di leader «affettivi» e seducenti come Daniel Cohn-Bendit e in Italia Mauro Rostagno, che amano essere amati e per questo amano a loro volta, leader «lievi», che di fronte a una impasse possono cavarsela – lo fa più volte Cohn-Bendit – girando la scelta all’assemblea, o a un «chi vuole lo faccia». Gli studenti parigini hanno subito imparato che difficilmente un Comité d’action che cambia composizione dalla sera alla mattina, come a volte succede nel pieno del maggio parigino, farà altrettanto danno di un dirigente convinto di incarnare l’interesse generale. Anche dove si cerca di costruire un minimo di strutture e addirittura si organizza un referendum sul tema «occupare o no», come a Torino, la linea «tutto il potere all’assemblea» resta forte. Il che non cancella affatto il problema delle élites, del loro potere e della loro riconoscibilità. 93

Amici compagni leader Nelle memorie di molti protagonisti del ’68 (e in parte dei gruppi extraparlamentari) domina il tema dell’affettività. Ci si voleva bene, si faceva politica sentendosi fra amici, spesso all’interno di un gruppo di amici. Un dono, cosa si può immaginare di meglio? Ma anche la radice di un paradosso, perché la coesione amicale è uno dei meccanismi attraverso i quali un gruppo si trasforma, volontariamente o no, in una élite politica. È vero che agli esordi lo spirito antigerarchico, antiburocratico e anticentralista ha travolto la secolare superiorità del «generale» sul locale e sul particolare; che la dirigenza è fluida, a volte disseminata. Il modello (e il sogno) è agire in una sorta di vuoto organizzativo, in cui parole come «comitato centrale» o «apparato» sarebbero inconcepibili – un altro punto di rottura con la sinistra detta tradizionale. C’è chi ha visto in questa fisionomia un movimento di regressione verso una indeterminatezza «pre-organizzativa, espressa in un tribalismo comunitario o in un anarchismo senza pastoie», e nello stesso tempo un’aspirazione alla ipercomplessità, a «un modello in cui gerarchia, specializzazione, centralizzazione si ritirano a profitto dell’interconnessione, delle polivalenze, del policentrismo» tipici della globalizzazione e delle sue reti34. Un modello in cui ci si mischia e ci si scambiano i ruoli, si discute quando e dove capita, e dalla discussione si può scivolare nella decisione. Ma a cosa porta questa doppia fisionomia? Dalla sterminata discussione sul concetto di élite, una giovane femminista americana, Jo Freeman (Joreen)35, estrae la figura del gruppo informale di amici impegnati in politica, e senza distribuire note di merito e di biasimo, ne mostra l’equivoco di fondo. Perché non esiste qualcosa come un «gruppo non strutturato», la differenza è semplicemente se si tratta di una struttura informale o formale: la prima può funzionare quando gli obiettivi sono interni al gruppo o la dimensione è circoscritta. Appena si oltrepassa questa fase, molto cambia: più domina l’informalità, più cresce il peso delle élites, e le élites non «sono niente di più, e niente di meno, di una cerchia di amici» cui succede di partecipare alle stesse attività politiche. Che il gruppo lo 94

voglia o meno, ne nasce una disparità netta, e per di più non nettamente identificabile: il potere è mascherato dalle relazioni. Un amico si ascolta con più attenzione, le notizie circolano di bocca in bocca, l’allargamento avviene per cooptazione. Chi è fuori di solito resta fuori. Non diversamente da un sistema sociale o da una filosofia economica, un gruppo ispirato al «laissez-faire» funziona come una cortina di fumo dietro cui si nascondono i rapporti di forza. Con il risultato che le responsabilità si confondono, i processi di decisione diventano opachi, il potere capriccioso, mentre sfuma la capacità di resistere allo star system movimentista, in cui alcune/alcuni sono sovraesposti, intervistati, fotografati, rinchiusi nella figura del portavoce di tutti. Ovvio che i conflitti sbocchino facilmente in accuse reciproche di leaderismo e di democraticismo. A volte nella fuga del leader. Jo Freeman scrive nel ’70, riferendosi al femminismo americano, ma il suo articolo viene ripubblicato sul «Berkeley Journal of Sociology» lo stesso anno, in seguito come opuscolo dal gruppo Agitprop, dal Leeds Women’s Group of the Organisation of Revolutionary Anarchists, dal Kingston Group of the Anarchist Workers’ Association e da vari altri gruppi politici; verrà ripreso in molte antologie. Si capisce perché: è un testo bellissimo, teoricamente profondo e sempre attento a argomentare i passaggi necessari a chi legge, scritto senza ombra di gergo o di vanità intellettuale, accessibile e amichevole – cosa rara all’epoca anche negli Stati Uniti. Nessuno potrà dire di non aver capito, molti sentono che il discorso li riguarda. Vale in particolare per le reti informali maschili, che testimoniano il legame fra genere sessuale, potere, mentalità da clan – l’espressione americana è mentalità «da stanza degli armadietti», cioè da spogliatoio, la roccaforte separata in cui la vicinanza dei corpi contribuisce a costruire/esprimere la mascolinità36. Vale per il movimento degli studenti, che pure è più strutturato di quello femminista: se alcuni dirigenti dell’Sds danno periodicamente le dimissioni, è anche per mettersi al riparo da questo clima. A Torino, nel primo periodo, «c’era proprio [...] un terrore di porsi come avanguardia, di fare il partito, di dire ‘Noi dob95

biamo dirigere le lotte degli altri’; un parola chiave era: ‘comunicazione’, del movimento o della prassi»37. Carla Lonzi abbandonerà il suo gruppo, Rivolta femminile, per timore di influenzarlo troppo38. Il ’68 vede il problema, ma probabilmente non la sua portata39. Teso com’è a mettere in questione le barriere pubblico/privato, non si accorge che il gruppo di amici costituito in élite politica informale è un esempio di come la confusione tra le due sfere non abbia sempre effetti positivi. Sogna di realizzare una «comunità di comunicazione ideale», fondata sul pluralismo delle idee e delle forme di vita, e non ne vede i trabocchetti. È un riflesso della più irrisolta fra le questioni politico/filosofiche, la più mutevole, la più soggetta a cicli altalenanti, il rapporto individuale/collettivo. In quegli anni è facile viverla come dilemma. Il movimento operaio ha insegnato a ragionare in termini sovrapersonali, a vedere nella storia l’effetto di grandi processi in cui il singolo trova posto solo riverberandosi nel collettivo, classe, partito. Diversamente, l’individualità diventa all’istante individualismo. La società di massa maschera l’appiattimento esaltando la singolarità, e – buffo e tipico – produce manuali e programmi tv su come rendere unici il proprio ambiente e se stessi. I giovani reclamano la loro individualità rispetto alla famiglia per poi fondersi nel gruppo amicale. E tutti inorridirebbero alle parole di Simone Weil, pensatrice, insegnante, operaia per scelta, sindacalista vicina ai trockisti, che nel ’42 era arrivata a chiedere la messa fuorilegge dei partiti, con queste motivazioni: L’intelligenza non può essere esercitata collettivamente. Quindi nessun gruppo può legittimamente aspirare alla libertà d’espressione, perché non c’è nessun gruppo che ne abbia il benché minimo bisogno. Anzi, la protezione della libertà di pensiero esige che l’espressione di un’opinione da parte di un gruppo sia vietata per legge. Perché un gruppo, quando vuol avere delle opinioni, tende inevitabilmente a imporle ai suoi membri. Presto o tardi gli individui si trovano ad essere, più o meno gravemente, impediti nella espressione di idee opposte a quelle del gruppo su vari problemi più o meno importanti, a meno che non ne escano. 96

Ma la rottura con un gruppo comporta sempre delle sofferenze, o almeno una sofferenza sentimentale. E, quanto il rischio e la possibilità di sofferenza sono elementi sani e necessari all’azione, altrettanto sono cose malsane nell’esercizio dell’intelligenza. Una paura, persino leggera, fa sempre sì che ci si pieghi o ci si irrigidisca, secondo il grado di coraggio; e tanto basta a falsare quello strumento di precisione estremamente delicato e fragile che è l’intelligenza. Persino l’amicizia, sotto questo punto di vista, è un gran pericolo. L’intelligenza è vinta quando l’espressione dei pensieri è preceduta, implicitamente o esplicitamente, dalla paroletta «noi». E quando la luce dell’intelligenza si oscura, l’amore del bene si smarrisce rapidamente40.

Con la parola d’ordine del partire da sé, l’antiautoritarismo aveva fatto un passo avanti vero: come si potrebbe partire dal sé di un altro, rifiutare la delega per conto di un altro? Senza applicarla a se stessi, cosa è la critica della vita quotidiana se non una buffonata più o meno ben ammannita? A bloccare passi successivi non è stata la fusionalità, è stato il legame con il passato e più ancora, credo, l’innamoramento per una spontaneità mitizzata ma impoverita. Forse non ci bastava intenderla come dimensione autonoma dai partiti, bisognava rivestirla di un’aura quasi magica, da grande epifania. E le grandi epifanie sono eventi collettivi, in cui resta sottotraccia quello che le ha rese possibili, i prodromi emozionali, le reti di relazione fra persone e fra gruppi – la sostanza di cui consiste la spontaneità. «Pensare individualmente, lottare insieme», diceva una scritta sui muri della Sorbona. E il sentire, il verbo caro al ’68? Era la parola che aveva portato il più bel disordine nello schema individuale/collettivo, perché non trasferiva nella dimensione di massa solo i sentimenti classici della rivolta, come era successo tante volte nella storia dei movimenti, ma ne creava via via di nuovi e imprevisti. Solo che per scandagliare questo aspetto c’è poco tempo. Si fa strada la fame di organizzazione, l’idea del partito. Ha fatto scuola il maggio francese. Grande mobilitazione di intellettuali, tecnici, lavoratori statali, guerriglia urbana, studenti in delegazione per chiedere agli operai di «accogliere la bandiera della 97

lotta dalle loro fragili mani», scioperi di massa, mentre i gruppi maoisti, anarchici, trockisti si disputano, con poco successo, la direzione del movimento. Poi gli accordi di rue de Grenelle che, con aumenti salariali e miglioramenti nell’organizzazione del lavoro, chiudono per il momento gli scioperi, tranne che in alcune fabbriche a prevalente manodopera giovane. L’immaginazione non ha preso il potere, anzi, per usare il gioco di parole allora di moda, il potere ha avuto immaginazione (oltre alla possibilità di minacciare l’intervento dell’esercito). Semplificando all’estremo, si può dire che molti collegano l’esito del maggio francese alla mancanza di un partito rivoluzionario. I gruppetti preesistenti si danno strutture più formali, si scindono, se ne formano di nuovi. È il «gauchisme», come lo chiamano in senso peggiorativo i media, gli avversari e gli stessi militanti. Le distinzioni ideologiche fra l’una e l’altra sigla restano e si approfondiscono, ma l’adesione dei singoli passa anche per altre strade – le scelte degli amici, la presenza nel proprio quartiere di una certa organizzazione, il temperamento personale che crea sintonie o rifiuti. Perché i gruppi hanno immagini e stili di vita e di lavoro diversi, più libertari come il mao-spontaneista Vive la révolution, più burocratici come gli altri gruppi maoisti. Conta anche il caso – il che vale persino per l’approdo allo schieramento opposto. Vengono in mente le parole che Italo Calvino fa dire al partigiano Kim: «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte»41.

In Italia Dopo aver debuttato a fine ’67 con l’occupazione di Trento, Torino, della Cattolica di Milano, il movimento accelera: a febbraio del ’68, quasi tutte le università sono occupate, cominciano le manifestazioni all’esterno, e le città fanno conoscenza con una folla giovane e rumorosa, che sembra aver dimenticato i vecchi modelli di vita, rotto i tabù linguistici, scoperto l’Eldorado. Sebbene il coordinamento fra i movimenti locali sia minimo, tutti rifiutano ogni tipo di riforma e ogni gradualismo, tutti pensano, molto confusamente, a un futuro «scontro generale» fra pro98

letariato e capitale. In pochi mesi si è compiuto il passaggio dalla prospettiva della cogestione a quella della «contestazione», dalla logica contrattuale su singoli obiettivi alla agitazione permanente. Particolarmente dura l’opposizione al modello consumista di modernità dell’Italia del benessere (non alla modernità di per sé) e al Pci, il più forte partito comunista in occidente, anche se non si arriva ancora al dissidio descritto da Lucia Annunziata per il movimento del ’7742. Radicale l’attacco alla cultura «borghese», alla scuola43, ai docenti beati di sentirsi i sacerdoti del sapere, ai contenuti culturali spesso arcaici, e anche a alcuni dei più nuovi come la sociologia, appena arrivata in Italia con la facoltà di Trento, cui si rimprovera la funzione di controllo e manipolazione sociale. Il movimento va da subito al di là dei gruppi politici già esistenti, e abbraccia giovani della borghesia e di ceto medio, in parte di classe operaia e contadina, molti che arrivano dalla provincia, moltissimi che scoprono la politica proprio in questi mesi. Quale politica è la domanda clou per gli antiautoritari, che concepiscono l’occupazione come «come evento destinato a durare» e come strumento per la crescita individuale e collettiva44. A Trento si organizzano gruppi di studio, a Torino i controcorsi, strutture fluide in cui ci si riunisce secondo le proprie predilezioni per affrontare i temi i più vari. Consultando il loro elenco, se ne incontrano alcuni più tradizionali oppure «tecnici», altri sperimentali e «sovversivi». Il gruppo Scuola e società ritiene che anche i libri possano essere autoritari e decide di farne a meno, sostituendoli con schede autoprodotte e verbali delle discussioni. Il gruppo Psicanalisi e repressione stabilisce che nessuno è tenuto a leggere Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, una delle bibbie di allora, «per il solo fatto che esso è stato scritto, stampato, tradotto e venduto in parecchi esemplari, e si è dedicato a attività più interessanti»45. Lo slogan «potere studentesco» ha senso in questo clima, non come potere sulla società, ma come libertà di organizzare il sapere a modo proprio. Bisogno cruciale, successo straordinario, con gli studenti che vanno all’università più per i controcorsi che per l’assemblea, e il movimento che se ne resta chiuso a palazzo Campana per un mese. 99

Grazie ai contrasti istituzionali su come agire verso gli studenti, Torino gode – esempio raro – di una fase di relativa tranquillità e di un proprio spazio fisico e affettivo. Dopo gli sgomberi di fine dicembre e di gennaio-febbraio, gli studenti torneranno e ritorneranno all’università come seguendo l’odore di casa. Quando diventerà impossibile prolungare l’occupazione, si cominceranno a interrompere le lezioni sfidando i docenti al contraddittorio. Nel frattempo, ci si divide sul problema della democrazia e della trasparenza. L’assemblea, molti se ne rendono conto, non basta a impedire gergalismi e verbosità, può anzi incoraggiarli. A Roma il gruppetto degli Uccelli si incarica durante le assemblee di fare la parodia degli interventi più rituali. A Torino alcuni sostengono che a far parte del comitato di agitazione incaricato di discutere e fare proposte siano soltanto gli studenti eletti dai controcorsi come propri portavoce – linea «consiliare» antileaderistica, con un tocco elitista, perché si concentra soltanto sulla comunità degli occupanti, legando l’appartenenza all’esserci (chi può), non alla condizione di studente. Si rifà alla seconda alternativa il referendum torinese sulla questione «occupare/non occupare». Votano 1250 persone – una piccola parte degli iscritti, comunque più numerosa di quelli che abitualmente frequentano le lezioni. Cedimento riformista per alcuni, mossa demagogica per altri, organizzato molto artigianalmente, in qualche caso il referendum è un’occasione per capire di più. Io ero assolutamente convinta che fossimo dei minoritari prepotenti, invece ho scoperto che non era così. Tutti noi abbiamo scoperto che non era così. Avevamo una cattiva coscienza, perché dicevamo che eravamo democratici, ma eravamo molto autoritari, anche nelle assemblee. C’era in noi il massimo disprezzo per quelli che erano la famosa maggioranza silenziosa, le pecore – pensa al manifesto del maggio con le pecore che tornano alla normalità – tanto che davamo per scontato che avrebbero votato contro. Per questo al referendum ho votato due volte. Mi sono vestita in due modi diversi. [...] Sono andata a vestirmi come loro (la maggioranza silenziosa), proprio come loro: «Guarda, mi sono messa la pelliccia. Guarda, mi sono messa gli occhiali dell’anno scorso». Sono andata a votare prima come sessantottina e poi come maggioranza silenziosa46. 100

Che l’analisi risenta dell’oggi non fa ombra allo spirito di allora; la ragazzina dei due voti, Maria Teresa Fenoglio, poco dopo partirà per gli Stati Uniti, e sarà il principale trait d’union con il femminismo torinese. Ma il tempo per sperimentare sta finendo. Già a inizio primavera il movimento è in affanno, soprattutto nella componente antiautoritaria, che conosce il rischio di partire da sé e di restarci. Si parla sempre più di aprirsi all’esterno. E l’esterno c’è, ricco, quasi stupefacente. L’Italia è un pullulare di sperimentazioni artistiche di ogni tipo, si attaccano i festival e i premi letterari, si rafforzano le correnti critiche all’interno di molte professioni, dal giornalismo alla magistratura, dallo spettacolo all’editoria, dalla medicina alla psichiatria. Le assemblee dei «matti» di Franco Basaglia sono l’esempio più alto e commovente del bisogno di democrazia – e del suo potere rigenerante. Nel ’71 una piccola avanguardia di donne e uomini omosessuali guidata dal torinese Angelo Pezzana darà vita al Fuori (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano), la prima organizzazione militante: entra così sulla scena politica una realtà di cui era molto difficile parlare anche negli ambienti progressisti e nello stesso movimento47. Si direbbe che stia cominciando la lunga marcia attraverso le istituzioni.

Il lungo ’68 Quando a partire dalla primavera ’68 riprendono gli scioperi nell’industria, molti studenti, che nella tradizione storica italiana si erano sempre mobilitati a destra, vanno a presidiare i cancelli con gli operai. La grande fabbrica di fine anni sessanta porta già i segni della ristrutturazione seguita alla recessione del ’64’65: cottimo generalizzato, maggiore meccanizzazione, aumentati i ritmi di lavoro e il potere dei capi, espulse le «quote deboli» di manodopera (donne, anziani). Ora nella classe operaia della grande industria prevalgono i giovani maschi, una parte che ha un diploma e una certa esperienza della vita cittadina, la maggioranza fatta di lavoratori poco qualificati, spesso emigrati dal sud, scarsamente coinvolti in partiti e sindacati, portatori 101

di un non ideologico rifiuto del lavoro – una nuova figura che un termine coniato allora definisce «operaio-massa». Soggetti diversi, uniti nell’avversione al sistema della linea di montaggio e alla disciplina interna. In fabbrica si sta peggio, in alcuni casi c’è rischio di licenziamenti: come a Valdagno, feudo della dinastia tessile dei conti Marzotto, dove nell’aprile ’68 uno sciopero contro il cottimo sfocia in una manifestazione che invade la cittadina e abbatte la statua del fondatore dell’azienda. Jacquerie urbana, ma intrecciata con il ventaglio di desideri aperto dalla società del benessere e ancora insoddisfatto. Gli operai vogliono più socialità, cultura, svago, tempo libero, una disponibilità di beni materiali pari a quella dei ceti medi. Vogliono anche contare di più. Come scrive già nel ’68 Giorgio Bocca48 parlando degli operai Fiat delle fabbriche torinesi: «c’è evidentemente qualcosa che nessun aumento di salario può dargli, e che la lotta invece gli ha fatto apparire e gustare: il potere, piccolo e effimero, ma un potere, l’uguaglianza nelle ore calde, il trattare da pari a pari con i capi, il vedere impaurita l’organizzazione». Sviluppo imprevisto per i molti osservatori secondo cui la spinta al miglioramento di status si sarebbe inevitabilmente tradotta in strategie a livello individuale. La nuova stagione culminerà nell’estate-autunno ’69 con una grande ondata di scioperi in tutti i settori industriali, l’autunno caldo, e si prolungherà fin quasi a metà decennio. Agli scioperi indetti dal sindacato si accavallano le interruzioni «a gatto selvaggio», decise autonomamente da piccoli gruppi, e in grado di ingolfare le linee a monte e a valle. Con il ’69 si arriva ai cortei interni che attraversano la fabbrica al rombo di tamburi improvvisati per convincere/costringere tutti a partecipare. Alla testa degli scioperi ci sono molto spesso gli operai delle linee di montaggio, ma partecipano tutte le componenti, compresa la «vecchia» aristocrazia operaia cultrice dell’orgoglio di mestiere (anche se meno di quanto vuole lo stereotipo). Sono coinvolte le piccole fabbriche, l’impiego pubblico, settori del terziario, e la situazione più bastarda e disperata, le carceri, dove nel ’69 proteste inizialmente pacifiche chiedono la riforma del codice penale, la riduzione dei termini della lunghissima carcerazione 102

preventiva, possibilità di lavoro e di rapporti sessuali e affettivi. Con il nuovo anno scolastico sono cominciate le occupazioni delle scuole medie superiori. Rispetto ai movimenti degli altri paesi europei, che cadono bruscamente fra estate e autunno ’68, l’originalità italiana sta in questa lunga durata e in questa varietà di soggetti, ma prima ancora nella fisionomia delle lotte operaie. Oltre che contro i ritmi troppo veloci e la nocività del lavoro, si sciopera contro il potere dei capi, contro il sistema di rappresentanza sindacale. Si avanzano due obiettivi antagonisti alla cosiddetta razionalità produttiva: la rottura del legame fra aumenti salariali e aumenti della produttività, la fine delle disparità di salario e di status fra impiegati e operai, fra operai comuni e qualificati, fra qualificati di diversa categoria, fra zona e zona49. A essere messa in questione è l’intera condizione di fabbrica, insieme a un pezzo dell’organizzazione sociale. Nel giugno ’69 alla Pirelli di Milano nascono i Comitati di base (Cub) organismi autonomi per la contrattazione, che diventeranno un modello e saranno visti da molti militanti come un embrione dei soviet. Nel ’69-’70 si tengono grandi assemblee, aperte in alcune città agli studenti e simil-studenti. Clima rovente, fusionalità, conflitti, euforia, storie di emigrazione, solitudine, soprusi, ma anche di scontri vittoriosi con i capi e le guardie di fabbrica – racconti di vita che ricordano quelli ascoltati alla Sorbona da Rossana Rossanda50. Mentre la disciplina letteralmente si disfa, nei reparti tornano il desiderio e il piacere di stare insieme. La trinità operaia – ugualitarismo, ribellione all’autorità, rifiuto della delega – assomiglia a quella degli studenti. Ma raccoglie anche le tradizioni di critica al centralismo sindacale; riscatta le sconfitte popolari al sud; cura le ferite dell’emigrazione in Germania, Belgio, Svizzera; vendica, spesso senza saperlo, i neri anni cinquanta, quando in fabbrica imperava la discriminazione politica e alla Fiat gli iscritti alla Fiom, operai di mestiere, ex partigiani, ex deportati, finivano in reparti confino, tagliati fuori da tutto, oppure erano adibiti a pulire i piazzali, accatastare legna, spazzare nei cunicoli sotto le presse i ritagli di lamiera e il gocciolamento dell’olio. 103

Del resto, secondo uno sguardo interno e affinato, non sono tanto le idee il contributo più originale del ’68 alle lotte di fabbrica, è «l’esistenza stessa del movimento studentesco come movimento politico di massa» che ha saputo crearsi uno spazio proprio anche in senso materiale51. E affettivo, e simbolico. L’operaio che, come il protagonista del romanzo di Balestrini Vogliamo tutto52, non vuole saperne dell’orgoglio del mestiere, sperimenta ora l’orgoglio di sentirsi parte di un mondo a sé, dove ha i suoi amici e la sua gente. «Come se», scrive sulla scorta dei racconti dei protagonisti Marco Revelli, «si fossero riprodotti i fili dell’antica comunità, non più fondata sull’etnia e sul suolo, ma sulla comune appartenenza a un’entità totalizzante (la grande fabbrica), sulla comune capacità di nutrirla col lavoro e cambiarla con la volontà»53. Che valori e regole vengono dal presente come dal passato, dall’esperienza cittadina come da quella rurale, può far nascere conflitti, ma non rompe il comune senso di identificazione nella fabbrica. Infatti, come gli studenti che tornano appena possibile all’università, gli operai escono raramente all’esterno: succede a Torino il 3 luglio 1969, quando, in occasione di uno sciopero sindacale per gli affitti, migliaia di operai Fiat e di studenti sfilano in corteo scandendo «Vogliamo tutto», sono attaccati dalla polizia e si scontrano fino a notte. Entrata subito nella leggenda, la «battaglia di corso Traiano» viene vissuta come un vero e proprio innesco del processo rivoluzionario. Mentre nelle città del nord scoppiano nuove lotte per la casa, il sud mostra ancora una volta di non essere un tutt’uno né una palude. A fine ’68, a Avola, scendono in piazza i braccianti, la polizia spara uccidendo due persone. Nel ’69 Battipaglia si ribella alla chiusura di alcune fabbriche: altri morti. A Reggio Calabria, una delle città più povere d’Italia e un concentrato di ambivalenze, nel 1970 scoppia una lunga e violentissima protesta, perché la scelta di Catanzaro come capoluogo di regione cancella la prospettiva di nuovi posti di lavoro. Verso la metà del decennio, si sviluppa anche al sud la lotta nelle città, nel biennio ’75-’76 Napoli è la sede della prima protesta organizzata degli invalidi e dei disabili, e del più importante movimento europeo dei disoccu104

pati, che contro il sistema clientelare delle assunzioni propone nuove liste stilate in base alla situazione economica e alla partecipazione alle lotte. Ma al centro di tutto ci sono gli operai. Le agitazioni non si fermano con la firma dei contratti, né quando la strage di piazza Fontana spinge le sinistre sulla difensiva, e neppure durante la recessione del 1973. A abbattere il movimento saranno da un lato le pesanti ristrutturazioni industriali partite intorno alla metà del decennio, dall’altro il terrorismo. Ma i primi anni settanta restano il momento di un’unificazione fra zone del paese storicamente divise e fra strati sociali diversi, che non ha precedenti e non avrà riedizioni nell’intera storia italiana.

Cambiamenti Le lotte spingono i partiti in direzioni diverse. La Dc punta ancora una volta a coagulare le inquietudini dell’opinione moderata, la cosiddetta maggioranza silenziosa, e nel 1972 torna al centrismo. Tuttora escluso dal governo per il suo legame con l’Urss ma sempre più radicato nei poteri locali, il Pci mantiene il richiamo più o meno diluito alla rivoluzione, sia pure senza fare alcunché per realizzarla. Come il Psi, guarda con riserve e oscillazioni a lotte così lontane dal modello cui si è abituati. Diversamente dal Psi, diffida delle campagne dei radicali per i diritti civili. A guardarsi intorno, si ha l’impressione che la società corra verso una maggiore apertura, mentre la politica segue con affanno, o fa barriera con toni da apocalisse. Nel ’73 si torna al centrosinistra, e sul piano degli equilibri di governo tutto sembrerebbe immutato. Solo i sindacati, che pure non si aspettavano questa esplosione di conflittualità, la assecondano almeno in parte. In risposta alle richieste di democrazia, potere, cultura, benessere, si rendono più autonomi dai partiti di riferimento, rilanciano l’impegno sul piano sociale con scioperi per la casa, per la salute, la scuola, i servizi sociali, ma senza grandi risultati. Sono invece importantissime le conquiste in fabbrica: le 40 ore settimanali, il diritto alle assemblee interne in orario di lavoro pagate dall’azienda, aumenti salariali uguali per tutti, lo Statuto dei lavoratori, carta dei diritti che garantisce le libertà sindacali e 105

maggiore tutela dai licenziamenti. E un congedo retribuito di 150 ore all’anno per seguire corsi di studio organizzati dal sindacato in collaborazione con le scuole e l’università. La mossa più significativa è la creazione di un nuovo sistema di rappresentanza, i Consigli di fabbrica, composti da delegati di reparto, eleggibili anche se non iscritti, e anche dai non iscritti, al sindacato. La parola d’ordine «Siamo tutti delegati» lanciata da minoranze radicali avrà seguito per un breve periodo. Le lotte investono in profondità quel che resta del movimento degli studenti. L’attenzione, che inizialmente abbracciava tutte le situazioni di sofferenza sociale, si concentra sulla fabbrica. Si rafforza l’operaismo, un insieme di posizioni diverse che però mettono tutte al centro di ogni strategia una classe operaia che si immagina sempre unitaria e sempre rivoluzionaria, ma che, come ha mostrato il maggio francese, può venire riassorbita dalla mediazione sindacale. Mentre continua la diaspora degli ex militanti antiautoritari verso il pacifismo, la new age, forme di impegno sociale, ricerca della felicità privata, altri confluiscono nei partiti di sinistra. Fra studenti, ex studenti, giovani operai, si fa strada, non senza defezioni e resistenze, l’idea di doversi dare un’organizzazione stabile, più disciplina, più ideologia, meno spontaneità. È un effetto della diagnosi che lega la sconfitta del maggio francese alla mancanza di un partito «veramente rivoluzionario», e che viene estesa all’Italia, dove invece sta iniziando un grande e contagioso ciclo di lotta. Dalle ceneri gelate del ’68 si costituiscono (o si rifondano) fra il ’69 e il ’71 i gruppi extraparlamentari, la più consistente nuova sinistra in Europa – Potere operaio, Lotta continua, la IV Internazionale di ispirazione trockista, Avanguardia operaia e il gruppo del Manifesto, costituito da giovani dirigenti del Pci, radiati per aver fondato la rivista omonima e aver chiesto che, dopo l’invasione della Cecoslovacchia, il partito mettesse fine all’ambivalenza verso l’Urss. Ispirata al maoismo e da subito centralizzata, è la preesistente Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti, Servire il popolo. Sono realtà ideologicamente e esistenzialmente diverse fra loro, ma anche in Italia l’adesione segue strade non solo politiche. A volte è tutta «una comunità informale di amici 106

che si sposta in un’altra un po’ più strutturata». A volte si andava «nel primo gruppo che si incontra[va]. E dipendeva dalle città [a Torino c’era soprattutto Lotta continua, a Milano Potere operaio] e un po’ dal carattere: i più spontaneisti a Lc, i più estremisti a PotOp [Potere operaio], i più intellettuali al Manifesto»54. Caratterizzati da un’opposizione dura ai sindacati e al Pci e abbondantemente ricambiati, i nuovi gruppi coagulano la parte più radicale delle avanguardie di fabbrica e raccolgono un buon consenso fra studenti e insegnanti e nei quartieri popolari. Fanno lavoro di agitazione fra i soldati di leva per la democratizzazione dell’esercito55, appoggiano le rivolte nelle carceri, hanno un ruolo spesso decisivo nelle occupazioni delle case. All’opposto della «vecchia sinistra», che si è fatta prendere di sorpresa dal ’68-’69, assolutizzano i fenomeni di antagonismo sociale. Riescono così a cogliere più e prima delle altre forze politiche l’emergere di nuovi soggetti, ma faticano a misurarsi con la situazione che si crea a partire dal ’71-’72, quando la conflittualità, anche se più estesa, è meno dirompente, e ancor più con il pieno riflusso delle lotte operaie iniziato nel ’75. Sono, in sostanza una componente effimera, circoscritta e importante della politica italiana, che si distingue per l’attivismo e che incontra una repressione enormemente più dura di quella riservata al movimento studentesco. Sono anche il luogo di una militanza come scelta di vita, e uno dei fulcri principali della socializzazione di questi anni, quasi una nuova comunità che frantuma le vecchie cerchie amicali e i recinti culturali regionali56. Dopo aver oscillato a lungo fra la struttura centralizzata del partito e la fluidità del movimento, i gruppi alle loro prime prove «adulte» hanno trovato più rassicurante, anche sull’onda dello shock per la strage di piazza Fontana, la triade collettivo/organizzazione/partito. «Straordinarie energie giovanili furono disperse», scrive Vittorio Foa, «nel riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero. In questo senso il ’68, dopo aver fatto la critica più acuta al vecchio mondo, vi è restato dentro»57, facendo proprie molte delle sue distorsioni, dal settarismo alla mancanza di democrazia interna alle forzature politiche. I gruppi moriranno tutti in107

torno alla seconda metà del decennio, di vecchiaia precoce, o per implosione sotto l’urto del conflitto di genere e della questione della violenza. Per trovare il meglio, bisogna cercare le briciole.

Mutazioni A leggere certi documenti del ’68 e certi altri dei gruppi extraparlamentari, si stenta a credere che a volte li hanno scritti le stesse persone. Diverse le parole – comitato nazionale, sezioni, commissioni, segreteria, disciplina, formazione quadri. Diverse le prospettive: obiettivi intermedi, scontro generale, fase prerivoluzionaria. Non solo. Ora si interviene sui comportamenti, dal biasimo verso le droghe leggere (quasi tutti i gruppi, anche se con varia determinazione) al veto dell’Unione marxista-leninista (ma non solo) contro le minigonne, i capelli lunghi, le convivenze extramatrimoniali, le case in disordine, le auto decrepite mai riparate. Infuria (o si affaccia) la rispettabilità: i proletari ci guardano. Torna il primato del collettivo sull’individuale, del futuro sul presente, della militanza tradizionale sul partire da sé. E dell’ideologia sulla mentalità58. È una mutazione, che non avviene da un giorno all’altro e non manca di compagni di strada autorevoli. In Italia, mentre si dipana il ciclo di lotte operaie e popolari, cresce lo scandalo per i partiti che stanno invadendo la società, per lo Stato autoritario, inefficiente e inadempiente, per la continua presenza poliziesca. Nasce l’incubo delle stragi, i gruppi neofascisti si fanno più aggressivi e si moltiplicano gli scontri fra militanti di destra e di sinistra. Mentre centri di potere e di malaffare intrattengono rapporti con istituzioni statali e singoli politici, si scoprono vicende misteriose riconducili a spezzoni dei servizi segreti – tanto che anche il Pci teme un golpe. Quadro politico bloccato, disparità sociali, discredito dei partiti, combattività diffusa alimentano l’aspettativa potente, settaria, generosa, volontarista, di un cambiamento radicale. Ma a spiegare la mutazione, e il fatto che tanti l’accettino, non basta il contesto, e neppure concetti passepartout come il senso di colpa del borghese giovane e idealista. Conta il legame fra persone che più o meno alla stessa età vivono speranze e disastri simili. 108

Conta la baldanza (e l’arroganza) pronta a bruciare i tempi e gli ostacoli, quel credersi fatti di materia stellare che accomunava tanti giovani di allora. Conta persino il fatto che i nuovi partiti sono piccoli e disorganizzati, il che non li assolve, ma contribuisce a renderli sopportabili. Spicca su tutto l’innamoramento per le lotte popolari, che per un tempo non breve si susseguono come se si passassero il testimone. E spicca l’approdo al comunismo, vissuto come un passo naturale, e condiviso da persone e organizzazioni per molti aspetti diversissime. Nel ’68 era una componente, ora è un pilastro, e una fonte continua di automatismi mentali. Quella italiana è una democrazia piena di smagliature e di vizi assurdi. Ma se gli extraparlamentari la considerano assimilabile al fascismo, è perché ricalcano, esplicitamente o meno, l’equazione anni trenta socialdemocrazia = fascismo, o la sua versione ammodernata secondo cui i totalitarismi sarebbero l’anima nascosta delle democrazie. Se disprezzano il riformismo, è perché hanno fatto propria una lunga tradizione internazionale e nazionale – dalla scomunica di Bernstein all’avversione del Pci verso il centrosinistra. Lo stesso ’68 ha portato il suo contributo, basta ricordare il rigetto di mediazioni e gradualismo, l’adesione al concetto di tolleranza repressiva, che sfuma le differenze fra democrazia e regimi autoritari, la mitizzazione del conflitto, l’ambiguità nel rapporto individuale/collettivo, il decadere dell’irriverenza in routine: non è un paradosso che una singola persona (Viale a Torino) venga considerata il simbolo dell’antiautoritarismo? Quante volte ha senso ripetere che il re è nudo? Il comunismo caro agli extraparlamentari non è naturalmente è il comunismo/Stato dei socialismi reali, né quello del Pci, e neppure, salvo che per una minoranza, la «troppo riformista» Primavera di Praga. È un’ideologia umanistico-militarista. Le esperienze cui si richiamano i gruppi, a volte disputandosele, vanno dalla rivoluzione culturale alle esperienze del Terzo mondo, dalla Comune di Parigi a Guevara a Trockij, che non si sa come possa convivere con l’amata Rosa Luxemburg, che a sua volta non si sa come possa convivere con Lenin. Il sincretismo sessantottino si è sviluppato in un melting pot forzato, dove si incontrano la rivoluzio109

ne bolscevica e le sue vittime, gli sconfitti della tradizione europea e i protagonisti vittoriosi del comunismo agrario e postcoloniale. Un melting pot ben protetto. Perché il comunismo gode non solo del paradigma intenzionalista, per cui le catastrofi non inficiano le idee originarie, non solo del ricordo di grandi lotte popolari e del ruolo storico dei partiti europei nella vita pubblica. Ha dalla sua parte l’energia del cuore. Prerogativa contraddittoria per una teoria/ideologia nata nel nome della scienza contro i cosiddetti utopisti del primo socialismo, ma fondamento vivo di una costruzione simbolica straordinariamente capace di rinnovarsi. Per tanti, giovani e no, il comunismo è il polo di attrazione di tutte le cose belle che si incontrano qua e là per il mondo. È un vaso di Pandora all’incontrario, che invece di propagare il male attira il bene, e poco importa da quale parte venga. Come l’universalismo del ’68, il comunismo degli extraparlamentari anni settanta è in parte «inventato», un patchwork in cui si cuciono concetti e temi di origini le più diverse – la libertà come assenza di vincoli tipica del pensiero liberale, l’amore per chi soffre predicato dall’umanitarismo anarchico e dalle Chiese, il riscatto del sottoproletariato straccione (ancora e sempre l’anarchia), le virtù civili di matrice repubblicana; e, del comunismo, la libertà dal bisogno, l’uguaglianza, il primato del corpo collettivo su quello individuale, la violenza rigeneratrice, la concezione teleologica della storia, che punta al suo fine lasciandosi alle spalle i costi. È vero che l’Italia arriva praticamente ultima alla divulgazione dei crimini dell’Urss, ma si farebbe torto a molti militanti assolvendoli per difetto di conoscenze, tanto più che non sono i primi né gli ultimi a seguire questa strada. Anzi, il comunismovaso di Pandora prefigura un atteggiamento diffuso soprattutto dal dopo-’89: la sua riduzione a bagaglio soggettivo, dunque insindacabile, la divisione della sua storia in una parte luminosa e in una parte inabissata, come se fra le due non ci fosse rapporto. Almeno una cosa ci dicono quegli anni. Con la sua aura utopica, la scelta di partire da sé ha finito per dimostrarsi la più realistica, quella che, a dispetto del soggettivismo compiaciuto in cui stiamo affogando, ancora oggi ha senso – sulla scia del femminismo, però. 110

Politiche del femminismo

Una femminilizzazione della politica? Nella primavera del ’64 le attiviste nere dell’Sncc, lo Student Non-violent Coordinating Committee, mettono in scena un sitin per denunciare lo stile di lavoro nell’organizzazione: le donne non ricevono uguale considerazione dei maschi, non hanno uguale voce quando si tratta di decidere, quasi mai compaiono in pubblico come portavoce del movimento. Lo stesso anno, a novembre, a un incontro sulle relazioni interne allo staff dell’Sncc, compare un Paper, Women in the Movement, che paragona la posizione delle donne a quella di un nero assunto in una grande corporation: i dirigenti si sentono virtuosi, lui vive in un clima di condiscendenza e paternalismo. «Bisogna che si sappia che nel movimento le donne non sono ‘felici e soddisfatte’, anche se spesso non si rendono conto dei motivi», come non se ne rendono conto molti neri1 – l’analogia fra le due oppressioni è un punto di forza, e lo sarà poi per buona parte del femminismo. L’Sncc è la più grande e attiva organizzazione per i diritti civili degli afroamericani. Dopo che alla fine degli anni cinquanta hanno cominciato a moltiplicarsi le azioni di protesta dei neri e di solidarietà dei bianchi, nel 1960 il movimento dei sit-in porta le lotte nella «cintura nera» – il delta del Mississippi, l’Alabama, la Georgia sudoccidentale. Studenti bianchi cominciano a spostarsi al sud, nel ’64 saranno moltissimi, e avranno grande peso nel coinvolgere la New Left. Presto nasceranno progetti come il Peace Corps, il Vista, il Southern Student Organizing Committee. Il movimento è misto, neri e bianchi, nonviolento, teoricamente ugualitario, appassionato della democrazia parte111

cipata, con forti radici religiose – l’Ywca, Young Women’s Christian Association, è un laboratorio di pensiero per molte giovani credenti. Nasce da una rivolta etica contro il razzismo, la povertà, lo scarto fra gli ideali del paese e i comportamenti delle autorità2. Mette in primo piano la collaborazione, la moralità, la cura, l’amore. Sono pratiche e valori abitualmente associati al femminile, che accomunano con intensità diversa i movimenti degli anni sessanta, e si fanno sentire in quelli degli anni settanta. Già nel 1962 uno dei leader dell’Sds, Tom Hayden, aveva aperto la questione a un meeting all’università del Michigan: «dopo la distruttività incomprensibile di due guerre e di una terza in arrivo, dopo che la guerra fredda ha distrutto i rapporti fra gli uomini [...] è venuto il tempo per la riaffermazione del personale»3. Fanno leva su questi aspetti le interpretazioni secondo cui il sessantotto porta a una «femminilizzazione» della politica, mettendola in tensione con la cifra dominante, astratta/razionalista/maschile. Ma se davvero fosse così, ci si dovrebbe aspettare una valorizzazione delle donne e dei loro talenti. Non succede. Fare propri valori e pratiche associate al femminile non implica di per sé che si femminilizzi la politica, tantomeno che si riconosca un primato delle donne. Bisognerebbe prendere atto, interiormente e pubblicamente, che la contraddizione di sesso nella società e nelle organizzazioni viene prima di ogni altra, accettare il fatto che il nuovo registro politico nasce dall’esperienza delle donne, e che impone di essere vigili sui propri automatismi, di imparare a mettersi in ascolto, di fare qualche passo indietro, di avere più coraggio. Troppa fatica, troppi costi. Eppure nei movimenti studenteschi sembravano coagularsi molte condizioni favorevoli. Se si teorizzano il metodo del partire da sé, la rivoluzione della vita quotidiana e della sessualità, il superamento delle barriere pubblico/privato, non si può non incontrare il modello base di questa e di altre dicotomie, il rapporto maschile/femminile e uomo/donna. Invece lo si lascia fra parentesi. Strano? Non troppo. Il sé da cui si parte nel ’68 abbraccia l’esperienza di ragazzi e ragazze, ma è filtrato dal maschile, che all’epoca tutti considerano ancora sinonimo di uni112

versale. E arriva fin dove sa, può, vuole. Qualcuna dirà poi che «non è per nulla chiaro come i compagni sono arrivati a stabilire la politicità del loro personale»4. Per capire quanto sia «inventato» l’universalismo studentesco bisogna guardarlo da questo punto di vista. Nella vita quotidiana le donne sono compagne della cui importanza spesso ci si rende conto quando si è lasciati. In politica hanno responsabilità più varie e importanti di quanto lasci credere l’espressione italiana «angeli del ciclostile». Ma la fisionomia delle leadership cambia poco, i rapporti uomo/donna spesso riproducono, aggiornate, le vecchie polarità e gerarchie – e le scontente sono rompiscatole da sopportare. Il fatto è che alle categorie del sessantotto le donne restano quasi invisibili (o meglio, resta invisibile la loro differenza) forse ancora di più che a quelle della «vecchia» sinistra. I partiti comunisti e socialisti sono lontanissimi dal riconoscere l’autonomia della questione femminile, che nel pensiero marxista figura come un aspetto della questione sociale, destinato a risolversi automaticamente con la vittoria della classe operaia. Ma conservano strutture specifiche, capaci se non altro di tenere vivo il tema e di funzionare da apprendistato alla politica; e per attestare il loro interesse alla cosiddetta condizione femminile, hanno bisogno di presentare qualche leader donna. Nei partiti comunisti europei si invitano gli uomini a non scoraggiare la partecipazione politica delle mogli, in quello americano si impiegano comunemente espressioni come supremazia maschile e sessismo. Il movimento degli studenti non lo fa. Si sente così nuovo e ricco da non capire dove è invece antico e povero. Già la New Left americana, con tutto il suo amore per gli sfruttati e i discriminati, era rimasta cieca di fronte all’oppressione delle donne. In seguito quasi tutti i gruppi della nuova sinistra europea, dove fra l’altro i valori del femminile passano velocemente in secondo piano, si faranno forti della formula marxista, e la terranno cara finché potranno. Scacciato dalla volontà di cambiare subito, il primato del futuro si rivale là dove si è sempre imposto nella storia delle politiche antagoniste: il tempo delle donne verrà, ma non è ancora il momento. 113

Se quella dei movimenti anni sessanta e settanta non è una femminilizzazione senza donne, lo si deve al fatto che, a parte i luoghi di massimo prestigio e potere, le ragazze si incontrano dappertutto, compagne di lotta, oggetti del desiderio, scandalo per i benpensanti. A volte sono simboli esibiti: per attestare il carattere di massa dei movimenti, non c’è miglior prova della presenza femminile5. Niente di nuovo, i moderni partiti popolari si sono sempre trovati stretti fra la paura di urtare la (vera o presunta) arretratezza delle masse, il bisogno di mostrare il loro radicamento, la necessità di avere una rappresentanza di ogni soggetto sociale. Nei movimenti e nei gruppi le donne contano sul piano materiale e simbolico, incredibilmente meno su quello strategico. Ma moltissime non sono ancora pronte a inventare la loro rivoluzione – che sarà più politica, perché della politica vorrà cambiare il senso e le priorità, e più profonda, perché si tratterà di cambiare il linguaggio, di trovare nuove connessioni tra i fatti, tra fatti e pensieri, tra pensieri e pensieri. E fra concetti e corpi. Nel frattempo, vogliono considerazione, rispetto, voce nelle decisioni.

Come rendere (quasi) invisibile una donna Cosa deve fare un gruppo maschile per tenere o rimettere le donne «al loro posto»? Niente, basta che si lasci andare al flusso di idee ricevute, pigrizie mentali, attaccamento ai propri comodi e piaceri: meno concorrenza nelle carriere interne e nell’attenzione pubblica, gioia di sentirsi ammirati, consumo sessuale, esonero da molti impegni pratici, sia in politica sia nella quotidianità. È così innanzitutto per i leader noti e meno noti, ma ogni maschio gode di qualche privilegio per il solo fatto di esserlo. Il che non cancella la volontà ugualitaria di alcuni, né le nuove idee in circolazione, ma le rende platoniche. A schierarsi in tempi diversi dalla parte delle donne saranno pochi, e quasi nessuno appartiene alla palude dei militanti. Per lo più si tratta di outsider o di capi, che non hanno molto da perdere sul piano del potere, i primi perché non ne hanno, gli altri perché il 114

carisma li protegge, almeno fino a quando lo scontro donne/uomini nelle organizzazioni non li scaraventerà nella mischia. Le pratiche si assomigliano un po’ dovunque. Alle strutture locali, dove operano la maggior parte delle attiviste, si riconoscono poco potere e poco prestigio, e viceversa si assegnano le donne a quei settori perché li si giudica secondari. Nelle dirigenze si entra per cooptazione, e la cooptazione presuppone fedeltà e la rafforza. Negli ordini del giorno, gli interventi di donne che parlano di donne finiscono all’ultimo posto, quando i militanti sciamano via. Il femminismo è giudicato un fenomeno dubbio, inopportuno, borghese. Si usa il sarcasmo, o il paternalismo. Si fa leva sul sentimento materno, sulla solidarietà. Il senso di colpa della militante acculturata e spesso agiata può portare le donne a limitarsi da sole. Se tutto questo sia effetto di opportunismo o inadeguatezza maschile poco importa, la storia non ha il compito di guardare come le persone sono fatte dentro. Il risultato è comunque un vuoto di pensiero in cui sopravvivono alcuni capisaldi della cultura «patriarcale». La doppia morale, anzi tripla – una per gli uomini, una per le donne, una molto speciale per la propria compagna. L’associazione della femminilità con la natura, l’irrazionale, l’eccesso, il corpo, e ovviamente la manutenzione del quotidiano, sia pure ridotta al minimo come era allora. Sul piano politico, si riaffacciano i leitmotiv ideologici messi in discussione agli albori dei movimenti, a cominciare dal primato del generale sul particolare, del nazionale sul locale, del razionale sull’affettivo, della mente sul corpo. Torna la preoccupazione per quel che le donne potrebbero fare se le si lasciasse decidere in autonomia – qui i figli assomigliano ai padri e nonni, che in Usa nel ’19-’20, in Francia e Italia nel ’45, avevano diffidato del suffragio femminile. L’esercizio della leadership esige un intreccio di charme e competitività, di resistenza fisica e di durezza mentale, che a una donna, meno abituata al palcoscenico pubblico, riesce più difficile, e che molte non sono proprio interessate a praticare. Qualche gruppo ha una sua specialità. Fra gli «sbarbatelli rossi» dell’Sds americana domina lo «stile cerebrale»: linguag115

gio astratto, gergale, specialistico; culto delle schermaglie ideologiche in cui si dà tutto per scontato e sono decisive la rapidità di riflessi e una certa dose di cinismo6. Riunioni infinite e a ore impervie, molto oltre le possibilità di una donna che debba occuparsi della famiglia. Primato della scrittura sull’oralità, che oscura la leadership verbale di alcune. E una propensione quasi prodigiosa al narcisismo, senza la quale sarebbe impossibile parlare per ore o riempire pagine e pagine senza dire niente di nuovo. Che molte donne, e non solo donne, siano tagliate fuori è facile. Nella sinistra extraparlamentare italiana circola ampiamente il registro populista, per eccellenza maschile, lontanissimo dalle corde di una militante di ceto medio. E anche di una operaia – le eccezioni sono figure mitiche. Il populismo delle donne non può che appoggiarsi al materno, e il materno non è una risorsa molto spendibile in quegli anni. Il linguaggio del ’68, almeno della sua componente antiautoritaria, così antispecialistico, anticoncettuale, aderente alla realtà, si è perso per strada, e all’apparenza pochi si sono chiesti come mai. La dissipazione di sé che alcuni critici identificano nella licenza sessuale, sta invece nella scarsa cura per un patrimonio nuovo e fragile.

Nel movimento per i diritti civili Il sit-in delle attiviste nere e il Paper Women in the Movement nascono in una fase in cui le lotte non rispecchiano ancora l’esperienza degli studenti, né si teorizza il principio del partire da sé. Eppure rappresentano quasi il paradigma del modo in cui si forma una componente del femminismo. Le protagoniste sono giovani donne per lo più di ceto medio, idealiste deluse dai loro compagni. Nere e bianche, che però non riescono ancora a agire insieme. Le prime sono viste come amazzoni capaci di fare tutto ciò che fa un uomo, a cominciare dagli scontri con la polizia, le seconde come la base di supporto logistico. A dispetto dell’ideologia ugualitaria e della presenza di alcune leader, è sulle loro spalle che ricadono abitualmente tutti i 116

lavori di segretariato e di manutenzione della vita comunitaria – battere a macchina, tenere pulite le Freedom Houses, cucinare se necessario, coltivare le relazioni, cercare soldi, avvocati, simpatizzanti. Le donne assumono ruoli maschili, gli uomini si guardano bene dal condividere ruoli femminili. Storia vecchia e destinata a ripetersi. Fra i maschi la mistica della femminilità stenta a morire, mentre le giovani cominciano a rendersi conto che l’autostima e le abilità maturate nelle lotte sono soffocate dal modello politico dell’Sncc. Un’impressione condivisa dalle ragazze del nord, che scrivono: «Noi non siamo venute per fare le cameriere, siamo venute per lavorare nel campo dei diritti civili», «questa divisione dei ruoli è disgustosa», «non ho mai visto un’impresa cooperativa così poco cooperativa»7. Che si trovano inserite in numero sproporzionato nell’insegnamento alle Freedom Schools, nelle biblioteche, nella preparazione dei progetti, molto meno nelle registrazioni per il voto, considerate più pericolose e affrontate spesso dai compagni con lo spirito della pistola più veloce del west – è anche un aspetto della recuperata virilità nera dopo il tempo della sua umiliazione, che non li aiuta comunque a politicizzare le bande di strada, mentre le donne organizzano con successo reti di welfare, grazie anche alla tradizione di aiuto reciproco delle black mamas. La decisione di aprire il conflitto deve essere stata sofferta, perché quella del movimento per i diritti civili è una storia spesso tragica. Nel paese simbolo della libertà, dove il governo centrale ha sancito da più di un secolo l’uguaglianza dei cittadini, gli Stati del sud continuano a praticare la discriminazione e la segregazione: i neri non possono iscriversi alle liste elettorali, frequentare le stesse scuole dei bianchi, gli stessi bar, le stesse sale da ballo; negli autobus esiste la parte per i bianchi e quella per i neri, nei locali notturni entrate diverse. Molti cuori sensibili piangono quando Billie Holiday canta Strange Fruit, dove gli strani frutti sono i corpi dei neri linciati penzolanti dagli alberi; ma tollerano il revival del Ku Klux Klan. Un nero può essere ucciso se ha rapporti con una bianca, se è sospettato di averne, se è stato «irrispettoso» con un funzionario; e le autorità chiudono spesso gli occhi. Il movimento finirà con l’ottenere una vittoria legale 117

grazie alla nonviolenza, al coraggio fisico e morale e all’uso accorto del principio del come se: come se le leggi fossero davvero uguali per tutti, come se il primo pensiero del governo federale fosse farle rispettare. Ma il clima resta a lungo terribile. Nelle «estati al sud», quando neri e bianchi lavorano insieme per convincere i più poveri a presentarsi agli uffici elettorali, le polizie locali infieriscono sugli attivisti. Lottando per i diritti civili si può essere arrestati, feriti, uccisi, magari da uno sceriffo membro del Ku Klux Klan o da un bianco razzista che sa di restare impunito. Si può sparire nel nulla, e tutti lo sanno. «Questione razziale» e «questione sessuale» si esasperano a vicenda: le ragazze bianche dell’Sncc sono viste come «nigger lover bitches», i giovani neri come potenziali stupratori. E tutti come «commie sympathizers», simpatizzanti comunisti. Mettere sotto accusa compagni con cui si sono condivisi tanti sogni – e la galera, il tribunale, le manganellate, le fucilate – può diventare un dilemma etico, tanto più se si pensa all’ideale di una comunità solidale e amorosa che ispira molti attivisti del sud, fedeli delle Chiese protestanti, battiste, metodiste, episcopali, presbiteriane8. Infatti sia il sit-in sia il Paper lasciano la porta aperta a una mediazione, persino a un arretramento. Si temono le ritorsioni maschili, l’isolamento, il sarcasmo. Il sit-in è semischerzoso, il Paper è anonimo, un ballon d’essai lasciato a se stesso, come se le autrici pensassero che nell’Sncc non si è affatto pronti a misurarsi con il problema. L’eco del documento è scarsa. Fra i maschi, alcuni ironizzano, i più sorvolano, c’è chi scoppia a ridere alla battuta di Stokely Carmichael: «la sola posizione per le donne nell’Sncc è prona», e non reagisce alle sciocchezze sulle ragazze del nord che avrebbero passato l’estate «stese sulla schiena». Fra le militanti nere, poco entusiasmo. Nell’estate del ’65 Mary King e Casey Hayden, due attiviste bianche del sud che avevano partecipato alla stesura del Paper, se ne vanno fra le montagne della Virginia, e dopo giorni di discussione scrivono, firmandolo, A Kind of Memo, diretto alle altre donne dei movimenti. Come i neri, dice il Memo, le donne 118

sono catturate in un sistema di casta che le tiene fuori o ai margini delle strutture di potere, e lo stesso avviene nel movimento. Ma proprio dal movimento, molte hanno imparato a pensare radicalmente sul valore e le abilità di persone il cui ruolo nella società non è mai stato messo in discussione, e [...] hanno cominciato a applicare questa lezione ai loro rapporti con gli uomini. Ciascuna di noi ha probabilmente la sua storia dai diversi risultati [...]. Ma manca una comunità di discussione: nessuno scrive, o organizza, o parla in pubblico delle donne in un modo che rifletta i problemi contro cui molte donne si scontrano nel movimento9.

A Kind of Memo è già un testo esterno. Forse le autrici non se ne rendono conto, anche perché non hanno gran fiducia nella possibilità di un movimento fondato su un concetto così estraneo al pensiero americano come un sistema di casta fondato sul sesso. Invece, un mese dopo, le donne che hanno letto il documento abbandonano clamorosamente il convegno nazionale dell’Sds. Il solo uomo a difendere la loro iniziativa è un nero dell’Sncc. Quando, nel ’67, il chairman di un convegno rifiuta di accettare un documento sui diritti delle donne perché «ragazzina, abbiamo cose più importanti da discutere»10, molte cominciano immediatamente a organizzare un movimento separato, usando proprio le capacità organizzative e le reti di relazioni nate dalle lotte per i diritti civili e nelle università. Il primo passo sarà mettere in piedi piccoli gruppi di discussione che si apriranno presto al «consciousness-raising», la presa di coscienza.

Strade per il femminismo Al femminismo si può arrivare da molte altre strade. Si può passare dalla casa e dai rapporti familiari, quando una donna si stanca di essere quel che la società l’ha addestrata a essere, e di provare vergogna a dichiararsi «solo» casalinga. Si può passare dalla scuola, se una ragazza trova ridicolo il modello cheerleader, fanciulla seducente ma innocente, fragile ma ferrea nel pretendere il matrimonio, intelligente ma non tanto da competere con 119

i maschi. Ancora dalla famiglia, se centellina le libertà. Dall’amore, quando lui si trasforma da principe azzurro in padrone da servire, Barbablù, Andy Capp; oppure non si trasforma affatto. Ancora dall’amore, quando una donna che ama una donna scopre di non essere prevista né tollerata. Dalla maternità, quando i figli diventano alieni programmati per divorare, sporcare e strepitare. Si può passare anche dalla Factory di Andy Warhol, vedendo belle creature soffocate dalla dominante androginia maschile. O dal mondo del rock, dove o si è una groupie o niente, a meno di farsi avanti a spallate. Dalla cultura. Dal lavoro, dove molte donne oscillano fra una marginalità devota e una marginalità ribelle. Dal non lavoro. Sarah Ruddick, futura pensatrice femminista, si sente paralizzata, incapace di lavorare perché non ha un’immagine di sé come lavoratrice. Marilyn Young, specializzata ai massimi livelli in storia della Cina, si ritrova a 30 anni imprigionata nel ruolo di madre di figli piccoli e moglie di un preside di facoltà, e nel ’67 scrive nel suo diario: «Dovrò vivere il resto della mia vita come se non fosse reale e morire sorpresa [...]. Non ho un lavoro adatto e per me è dura. E divento più pigra mentalmente di ora in ora»11. In questi casi, il principio del partire da sé sta nella quotidianità e dà l’imprinting alla politica, spingendo giovani donne come queste verso i gruppi femministi detti radicali, poco interessati alle prime leggi sulle pari opportunità, e molto all’analisi dell’oppressione. Ma quel principio è un passaggio obbligato anche per le militanti. Una ragazza comincia a far politica per lottare al fianco degli oppressi, cresce, sperimenta la comunanza, la gioia di fare. E prima o poi si accorge che gli uomini la danno per scontata, che le iniziative per migliorare la vita delle donne non comprendono la sua. Scopre in se stessa un senso di mancanza esistenziale, politica, culturale. E apre il conflitto all’interno della sua organizzazione, fino a separarsene tranquillamente o con furia. Qualcuna se ne va individualmente. Marina D’Amelia, futura storica e fondatrice della rivista di storia delle donne «memoria», lascia il movimento studentesco romano nel ’69, delusa 120

dal rifiuto degli studenti di fare un seminario su Hannah Arendt. Carla Lonzi incontra fugacemente il ’68 e ne vede presto i limiti. Così Shulamith Firestone negli Stati Uniti. In Francia c’è un esodo dai gruppi maoisti e trockisti. In Italia, la stragrande maggioranza delle militanti di Lotta continua abbandona fragorosamente l’organizzazione nel 1976, contribuendo al suo autoscioglimento. Con meno clamore, negli anni precedenti se ne erano andate molte compagne di Potere operaio, del Manifesto, di Avanguardia operaia. Quale che sia il suo percorso, per una donna il metodo del partire da sé divide un prima magari fecondo ma votato a una causa esterna, e un dopo in cui l’amore per quella causa non si esaurisce, però deve misurarsi con il bisogno di essere per sé. Spesso le storie sono dolorose, piene di ansia e collera – il che sembrerebbe confermare lo stereotipo della femminista frustrata e perdente. E se anche fosse? Frustrazione è il termine classico usato per svilire la sofferenza altrui, perdente (e vincente) sono parole simbolo del meccanismo che trasforma un fatto, l’aver perso o vinto, in un tipo umano ammirevole o disprezzabile. Molte femministe erano (sono) donne felici nel lavoro e negli affetti, che però intravedevano la possibilità di esserlo di più, e in molte di più. Le strade del femminismo sono spesso accidentate. Quando esce Women in the Movement, le autrici attribuiscono il suo scarso successo all’inconsapevolezza delle loro compagne. Se non che, le donne nere si trovano in una diversa traiettoria della loro crescita politica, in cui la priorità è la segregazione razziale. Se non che, i rapporti fra nere e bianche sono complicatissimi: le prime occupano posizioni di relativa forza e potere, le seconde hanno un posto più marginale; le prime guardano con sospetto al modello di femminilità delle bianche, le bianche guardano con ammirazione alle loro madri nere, potenti, autorevoli, accoglienti. E nere e bianche sono al centro dell’ingorgo di questione razziale, questione sociale e questione sessuale. Se lo si comprime nella dicotomia consapevolezza/inconsapevolezza, questo groviglio di contraddizioni rischia di non essere colto per eccesso di ortodossia femminista. 121

Siamo nel 1964-’65, in una situazione difficile, ma l’atteggiamento giudicante durerà a lungo. Ci vorranno anni per arrivare a una visione più libera, a uno sguardo affettuoso e critico sul passato – Franca Fossati, per esempio, ricorda di aver considerato traditrici le donne di Lotta continua che erano rimaste legate all’organizzazione, e si rammarica di non aver cercato di capire le ragioni di quella fedeltà.

L’arcano, l’estremo, l’antico, il futuribile C’è chi nel femminismo ha visto molto folklore: le ragazze che bruciavano in pubblico i reggiseni e rifiutavano di depilarsi le gambe, le americane che invadevano il palco a un concorso per Miss America, i cortei dove si alzavano le mani, pollici uniti e indici uniti, a simboleggiare il sesso femminile, e qualcuna vestita di stracci portava una ramazza. In Italia si scandiva «tremate tremate le streghe son tornate», oppure, «dito dito orgasmo garantito, cazzo cazzo orgasmo da strapazzo» – trattandosi per lo più di donne giovani e belle, gli imbecilli dicevano: «che spreco». Nel 1970 Joreen scrive The Bitch Manifesto, ironico, cattivo, allegro – e limpido come tutti i suoi testi: le Puttane «ben riuscite» sono quelle che hanno una relazione con una persona o un’organizzazione, ma non sposano niente e nessuno – veri soggetti nomadi ante litteram. Sono state le prime donne a andare al college, le prime rivoluzionarie sociali, leader dei lavoratori, organizzatrici di altre donne. Si sentono oppresse non perché pensano di essere inferiori agli uomini, ma perché sanno di non esserlo. Devono organizzarsi per la loro liberazione come le altre si organizzano per la loro. «Dobbiamo essere forti, dobbiamo essere militanti, dobbiamo essere pericolose. Dobbiamo renderci conto del fatto che Puttana è Bello e che non abbiamo niente da perdere. Niente di niente»12. Ha ragione chi si allarma. Non è folklore, è antagonismo, che, al contrario di quello maschile, non ha paura dell’arcano, dell’estremo, dell’antico, dell’eresia. In Italia i due testi fondativi della storia delle donne sono dedicati alla caccia alle streghe e alla storia di dodici partigiane refrattarie alla retorica della re122

sistenza perfetta13. Le streghe sono prese a simbolo di un sapere cancellato dal razionalismo, di un’anomalia messa al rogo da Chiesa e Stati – e qui non importa se la storiografia le ha viste invece come povere donne (e donne povere) che sotto tortura ammettevano qualsiasi cosa. Ora sono richiamate dal passato per testimoniare di un patrimonio disperso di conoscenze empiriche che viene rivendicato alle donne, anche se non è una loro esclusiva; per contrapporre alla brava figlia/moglie/madre il potere oscuro della fuoricasta14. Il corpo «selvaggio» è la negazione di quello levigato delle miss, il reggiseno bruciato corona il cammino per liberarsi da busti e corsetti. I riferimenti a filosofe e leggende dell’antichità (Diotima, Ipazia, Melusina) mostrano che tutta la storia è stata mutilata. Al polo del futuribile, Shulamith Firestone, nata in Canada, sorella di un rabbino, tra le fondatrici delle New York Radical Feminists, scrive nella Dialettica dei sessi15 che le donne devono impadronirsi della cibernetica e usarla, insieme agli anticoncezionali e all’aborto, per portare la riproduzione nei laboratori, in modo da liberarsi dalla biologia e dalla «barbarie della gravidanza». Le trasformazioni dovranno portare a un mondo post-patriarcale, dove la famiglia nucleare non esisterà più, sostituita da libere comunità all’interno di una società socialista. Un preoccupante modello di falansterio, una posizione quasi isolata nella generale diffidenza verso la tecnologia. Ma a dispetto della sparizione dell’autrice dalla politica attiva, la Dialettica dei sessi continua a essere citato come una tappa del pensiero femminista. Non siamo rispettabili, e non vogliamo esserlo, sembrano dire le donne. E neppure potrebbero. La dicotomia fra corpo e mente e fra pubblico e privato implica una graduatoria della rispettabilità, vale a dire del modo appropriato di presentarsi al mondo, fuori dalla casa e dai rapporti familiari16. Al polo positivo sta il maschio bianco, eterosessuale, borghese, cristiano. Al polo negativo le donne, gli omosessuali, gli ebrei, i non occidentali, i non bianchi, i non borghesi, gli imperfetti (oggi anche i grassi e i fumatori), con la loro carnalità disordinata, indecente, sporca. Che la donna sia contemporaneamente eletta a custode della moralità privata conferma una verità dell’antropolo123

gia: lo sporco in sé non esiste, è sporco quello che sta nel posto sbagliato. Un pugno di terra sulla tavola imbandita, un residuo di cibo su un libro, un nero vicino a una bianca – e una donna in parlamento. Nell’800 i deputati italiani inorridivano all’idea, e nello stesso tempo consideravano la propria moglie una santa creatura. Fantasmi del passato? Certo negli anni sessanta i codici ottocenteschi e la disciplina dei corpi sono in agonia. Ma non erano residui medievali, venivano dal cuore della filosofia e della scienza occidentali, che facevano del decoroso dignitoso uomo pubblico il vero soggetto angelicato, capace di trascendere inclinazioni e passioni, e per questo legittimato a parlare per tutti gli altri. Oltre che nella riprovazione per i politici sorpresi in comportamenti detti inappropriati, spezzoni di quei codici sopravvivono ancora oggi nelle reazioni inconsapevoli e in certe forme di adattamento/mimetizzazione. Come la giacca d’ordinanza di manager politiche intellettuali, promessa di affidabilità di cui ci si spoglia appena rientrate a casa. I cortei variopinti delle prime femministe, le gonne a fiori, le collanine, i ricci sulle spalle, sono sia una barriera contro l’omologazione al maschile, sia un’invasione nel mondo della politica per forzarne confini e contenuti. Quando mai prima un gruppo si è dato il nome Nemesiache, Redstockings, Witch17, Io sono curiosa? Quando mai uno slogan ha nominato gli organi sessuali e la masturbazione, un corteo ha scandito «Io sono mia»? Le femministe di movimento fanno teoria, come le donne appena meno giovani che scrivono libri intitolati Nato di donna, Eretica dell’amore, Maglia o uncinetto, L’infamia originaria18. Come sembrano scolastici al confronto Dialettica dell’illuminismo, Storia e coscienza di classe, o anche Della miseria nell’ambiente studentesco19 ricalcato sul Della miseria della filosofia. Di rado le donne cadono nella tentazione di parafrasare titoli classici. Dell’umorismo femminile esistono precedenti meravigliosi, come la geniale oca bionda Mae West, primo sex symbol del cinema americano, autrice e sceneggiatrice che nei contratti imponeva il suo diritto di scegliersi il coprotagonista e di riscriversi la parte, e che con il suo «Is that a gun in your pocket, or are 124

you just happy to see me?» uguaglia Groucho Marx. Non diventerà una icona del femminismo, troppo camp, troppo smagata nel prendere tutto quel che la vita concede a una donna, e se possibile di più. Troppo individualista. L’ironia del primo femminismo è politica, collettiva, fiduciosa nella possibilità di cambiare il mondo. Al concorso di Miss America dell’agosto 1968, giovani femministe incoronano una pecora, portano un bidone della spazzatura e lo riempiono di arricciacapelli, bustini, numeri del «Ladies’ Home Journal», reggiseni (di qui la vulgata del rogo e il termine giornalistico di braburners), battezzandolo il «bidone della libertà». Vestita da agente di cambio, Peggy Dobbins mette all’asta un ritratto di Miss America: «Signori, vi offro il modello 1969. Ogni anno è migliore. Cammina. Parla. Sorride a comando. E in più sbriga le faccende domestiche». In Francia, agli Stati generali delle donne promossi dal settimanale «Elle» nel novembre 1970, con ministri e politici di spicco, Mitterrand, Rocard, le femministe conquistano la sala distribuendo una parodia del questionario sulla condizione femminile proposto dalla rivista, e aggiungendo domande paradossali: «Una femminista è schizofrenica, isterica, paranoica o soltanto perfida?». E un gruppo di ragazzine, arrestate e portate alla prefettura di polizia, getta nel panico gli agenti semplicemente mettendosi a gridare «Voglio fare pipì!», «Anch’io, anch’io, anch’io!»20. Si capisce perché la memoria del femminismo ai suoi albori rimanda a un’aura di benessere fisico e di felicità simile a quella ricordata per il ’68. Dopo il dover essere dell’emancipazione, si pensa di poter tornare a se stesse, sebbene non sia chiaro in cosa quel se stesse consista. Ma qui aiuta la nuova possibilità di misurare la propria forza non sulla seduzione o sulla competizione donna/donna, e neppure sullo scontro sociale classico, ma come pressione collettiva sui rapporti fra i sessi. Si dissolve così la paura del ridicolo che aveva tormentato molte attiviste dei diritti civili, si impara a rovesciare il sarcasmo là da dove proviene, si esercita il talento del paradosso, dell’umorismo lieve – o greve. Sebbene non abbia sempre resistito alla tentazione di prendersi instan125

cabilmente sul serio, sebbene abbia camminato attraverso drammi e infelicità, il femminismo ha avuto una seconda natura burlona e mordace, che nel tempo ha contribuito a generare i fumetti di Claire Brétecher, in Italia di Pat Carra e Ellekappa, e la piccola schiera di eredi di Franca Valeri. Da nessun altro movimento è nato un filone di humour altrettanto duraturo, una prerogativa che dovrebbe avere più posto nella riflessione.

I movimenti omosessuali Sulle lesbiche, le meno rispettabili fra le donne, si riversano sospetti speciali. Sono per lo più single in una società dove ogni cosa, dal welfare ai surgelati, è modellata sulla famiglia coniugale e con figli. Sono le fuori posto e fuori ruolo, irriducibili al modello della coppia eterosessuale, donne che con la maggior libertà e l’aumento dell’indipendenza economica hanno più possibilità di relazioni durevoli e di convivenze. Naturalmente non si può parlare di lesbiche e di movimento omosessuale più di quanto non si possa parlare di donne, uomini e movimenti in generale. Anzi, quella delle donne che amano donne è una storia segnata come poche altre dalle diversità di fase, di ideologie politiche e religiose, di culture, di ambiente – e dalle scelte individuali. Per lo più è dolorosamente complicata, in passato è stata drammatica. E così la storia dell’omosessualità degli uomini. Nel Terzo Reich, lo Stato Maschile per eccellenza, già all’indomani della presa del potere sono vietate le organizzazioni omosessuali, nel ’34 si crea un nucleo apposito di polizia. L’omofobia è tale che nel ’37 Himmler arriva a stabilire la pena di morte per i membri delle SS colti in atteggiamenti sospetti; che si fantastica su due milioni di omosessuali organizzati, pronti a complottare contro la nazione, e se ne chiudono a migliaia nei Lager. Ma anche nelle società democratiche esistono leggi punitive, e quando mancano si ricorre a altri titoli di reato, come in Italia per Pasolini e Aldo Braibanti. Nell’America della caccia alle streghe, insieme ai comunisti si colpiscono molti omosessuali, attori attrici registi; negli anni settanta, potenti uomini politici 126

erano terrorizzati dall’idea di apparire deboli e femminili21. Le Chiese, in particolare la Chiesa cattolica, aggiungono allo stigma sociale quello del peccato contro natura. Neppure oggi, e neppure in paesi relativamente miti, è sparita la povera ebbrezza di sentirsi veri uomini attaccando un omosessuale (ma non il gay macho alla Freddie Mercury). In genere si crede che alle lesbiche sia stato riservato un trattamento meno feroce. È vero che nell’800 l’amicizia amorosa è tollerata, perché la si considera una fase della vita destinata a chiudersi con il matrimonio; che tra le fantasie maschili primeggia l’immagine delle «cerbiatte» in amore e in attesa di essere risvegliate dal vero uomo. Ma sono altrettanto forti il fantasma della diserzione femminile dalla maternità e dalla sessualità regolamentare, l’incubo della virago rivale del maschio. Nell’immaginario occidentale, le lesbiche sono sempre riconoscibili, o deliziosamente trasgressive o fisicamente repellenti – il che ha se non altro consentito a molte il rifugio dell’anonimato. Per loro fortuna. Nella crociata contro gli erotismi eterodossi che caratterizza gli anni a cavallo fra ’800 e ’900, il «mistero» dell’omosessualità femminile sta al centro. Su una seria testata accademica come l’«Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale» di Cesare Lombroso, si illustrano le caratteristiche fisiche della «tribade», la sua conformazione genitale, le sue pratiche; si segnalano i suoi terreni di caccia – collegi, carceri, manicomi; si indaga sui matrimoni delle travestite, e non si capisce come mai le loro compagne continuino a amarle anche dopo lo smascheramento; si descrivono i metodi cruenti e le mutilazioni usate per reprimere questo delitto di lesa moralità, questa «pura perdita per la specie»22. Cinquant’anni dopo, un ragazzo inglese, Peter Burton, gestisce un club londinese dove si discute di come cambiare il mondo e dove nelle notti folk spesso compaiono Andy Warhol, Rod Stewart, Paul Simon. «La mia generazione non si sarebbe fatta condizionare dalle loro leggi e limitazioni [...]. Indipendentemente dal fatto che la legge cambiasse nel 1967 o dieci anni dopo, noi saremmo stati come eravamo in quel momento sto127

rico». Nella vita di Peter scherno e ostilità sono sconosciute, l’autocompassione «gli è aliena come una maschera antigas»23. Qui si tratta di un’esperienza giovane, metropolitana, di nicchia – e britannica. Il Regno Unito si distingue per la relativa esilità del movimento studentesco e per il ruolo di punta nelle controculture, nella musica, nel costume: due caratteristiche che sembrano andare in parallelo. In Francia e Italia è l’opposto, come se controcultura e politica in senso proprio si rubassero spazio a vicenda. Sono di nicchia anche i bar dei quartieri operai inglesi e americani, dove si incontrano le butch e le iperfemminili. Esistevano da decenni, ora al loro successo contribuiscono gli hippie, le lotte studentesche e per la pace cui molte donne e uomini gay partecipano. Contribuisce il femminismo, con l’omosessualità dichiarata di alcune, la critica della sessualità coniugale, le relazioni fra donne viste come il luogo di una nuova soggettività; e infatti molte lesbiche si avvicineranno con fiducia. Solo il gruppo francese Psychanalyse et politique, che teorizza l’amore fra donne come fatto politico antagonista alla società «uomosessuale», liquida sia il lesbismo sia il femminismo. Il primo sarebbe l’ennesima riproduzione dei ruoli sessuali (ma si guarda soltanto alla butch). Il secondo si limiterebbe a rivendicare per le donne il diritto di essere «uomini come gli altri» (ma si considerano esclusivamente le tendenze ugualitariste, una componente neppure troppo ampia del femminismo francese). Per Monique Wittig, autrice del testo cardine Il corpo lesbico24, la donna che ama una donna mette in questione lo stesso concetto di differenza sessuale. Le donne lesbiche si accorgeranno presto, un po’ dovunque, che moltiplicare le identità possibili non basta a far loro pienamente posto nel movimento. Si ha un bel parlare pubblicamente dell’amore fra donne, proporlo come una necessità politica o come una tendenza naturale, si ha un bel ricordare il potenziale eversivo dell’omosessualità, anche qui devono lottare per essere riconosciute. Si dice «noi» parlando di aborto, lavoro, maternità, rileva il gruppo parigino delle Gouines rouges, si dice «loro» parlando delle omosessuali. Scrive Alessandra De Perini: 128

Nei dibattiti politici tra donne ho subito l’umiliazione di vedere la mia vita semplicemente accettata, in virtù di una coscienza democratica pluralista, oppure valorizzata come eccentricità, equiparata e assimilata alla vita sentimentale del rapporto uomo/donna. Ho subito la sofferenza del misconoscimento, e a mia volta ho accusato, negato la vita dell’altra, la donna «eterosessuale» che mi appariva costantemente stanca, poco disponibile alla relazione faccia a faccia, eccessivamente paurosa dell’omosessualità, intenta a giustificare e sostenere le ragioni dell’uomo25.

Fra le donne lesbiche circolano riflessioni fini: voler convincere le altre donne a un piacere diverso non è una forma di proselitismo autoritario? – e grezze: le donne non possono più amare un uomo, ogni maschio è potenzialmente uno stupratore26 – dove si dimentica che una cosa è il rapporto sfruttatore/sfruttato, un’altra quello uomo/donna, con le sue disparità e violenze, ma anche con l’amore, i progetti comuni, il piacere dello stare insieme. Lasciato sullo sfondo, il problema è se l’emancipazione stia alla libertà come l’eterosessualità sta al lesbismo. Domanda che rischia però di ridurre le donne eterosessuali a residuo in via di estinzione. I rapporti non sono semplici neppure negli altri movimenti. Pur nella sua astrattezza, l’ugualitarismo ha aiutato a trovare la forza per affermare la differenza, ma non per questo si è liberato dall’omofobia. Il ’68 ignora i gay, o li ingloba come variante di nessun peso politico – gli studenti europei non hanno un loro Ginsberg, capace di squassare l’ordine eterosessuale. In gran parte delle nuove sinistre vige la regola del non chiedere e non dire, e le difficoltà di rapporto si traducono in abbandoni alla spicciolata, in coming out successivi, spesso sull’onda del femminismo. Naturalmente nuova sinistra vuol dire molte cose. In Francia fa storia a sé il gruppo erede del movimento del 22 marzo, Vive la révolution, il cui giornale di riferimento, «Tout», pubblica nel ’71 un numero definito apolitico dedicato alle questioni sessuali, in cui l’omosessualità esce dall’ombra e si definisce come forma d’amore sovversiva. Ne seguono molte lettere al giornale, piene di entusiasmo e di fiducia27. Ma la svolta c’è già stata. La notte del 28 giugno 1969, 129

quando la polizia irrompe in un locale gay di New York, lo Stonewall Inn, per una delle solite operazioni di controllo, i presenti si ribellano con un tumulto subito entrato nella leggenda28. Da questo momento, l’obiettivo non è solo la fine delle discriminazioni, ma la rivendicazione della propria identità. Nel giro di pochi anni una ventina di Stati americani abolirà le leggi contro la sodomia, il 28 giugno sarà festeggiato come la giornata dell’orgoglio gay. Interessante riaggiustamento. Nella prima metà dell’800 l’omosessualità era stigmatizzata, ma come comportamento, non come sintomo di un modo di essere. Con il positivismo viene considerata la caratteristica principale di una persona, la sua identità, mentre gli omosessuali cominciano a dare vita a «una corrente, lenta ma decisa, di resistenza collettiva [...] contro l’oppressione»29. Negli anni cinquanta, l’americana Mattachine society, formata da uomini e donne del mondo professionale, chiede la fine delle discriminazioni perché l’unica diversità starebbe nella preferenza sessuale – è il periodo in cui la pressione sociale spinge a cercare integrazione e rispettabilità. Così una parte dell’Homosexual Law Reform Society in Gran Bretagna30. Invece la generazione più giovane del Gay Liberation Front rigetta il termine omosessuale, che viene dal gergo clinico e per di più indica solo una categoria sessuale, mentre quello gay è uno stile di vita. E uno stile di lotta fantasioso, con una radicale inclinazione drag – spazio ai travestiti, ai transgender, abbigliamento e atteggiamenti che mischiano maschile e femminile, ricerca dell’inclassificabilità, gusto della parodia e della beffa. Come quando il Gay Liberation britannico fa saltare il raduno di una organizzazione «contro i costumi corrotti», mettendo in giro falsi pass, modificando i cartelli stradali, entrando nella sala vestiti da suore e preti, e alla fine l’exploit di un attivista che alza le braccia al cielo gridando che ha visto dio, ha visto la luce: «alleluia, sono stato salvato!»31. Donne e uomini lottano insieme per nuove leggi e contro la violenza, manifestano insieme, ma quasi ovunque i rapporti si inaspriscono fino alla rottura. Gli uomini non sanno ascoltare, non capiscono la sessualità femminile, non cedono un grammo 130

di potere e visibilità, caricano sulle donne il lavoro organizzativo. Un omosessuale può essere macho e maschilista come e più di un eterosessuale. Oggi sembra ovvio, ma non all’epoca. Nel colpo di pistola esploso da Valerie Solanas contro Andy Warhol deve aver pesato anche la collera per il modo in cui le donne erano trattate alla Factory.

Autocoscienza Le femministe americane non hanno paura del pragmatismo. Pratica regina degli anni sessanta e dei primi anni settanta, l’autocoscienza ha qualche antecedente politico, dal metodo dell’Sds di iniziare le riunioni locali con l’autopresentazione personale degli organizzatori, allo speaking bitterness praticato nella Cina comunista, un modello narrativo che descrive il passato come una catena di sofferenze riscattate dalla rivoluzione culturale32. Ma il vero modello è il piccolo gruppo di autoaiuto – alcolisti anonimi, vittime di traumi, donne divorziate – che si è fatto strada negli Stati Uniti del dopoguerra in consonanza con l’ethos fattivo e positivo del paese. È una terapia della parola in cui ciascuno racconta la propria storia, e ci si stringe gli uni agli altri per sostenersi nella presa di coscienza delle proprie traversie emotive così da facilitare il cambiamento – il che non esclude i conflitti, ma la responsabilità di governarli spetta a una persona sperimentata interna al gruppo, non a un esperto esterno. Il femminismo riadatta questo metodo. Anziché al reinserimento nella società così com’è, si punta a creare una consapevolezza che la urterà frontalmente. Patto del silenzio sui contenuti dei discorsi, ma nessuna segretezza sull’esistenza del gruppo e sulle partecipanti. Scelta reciproca guidata da simpatia e amicizia invece dell’incontro di estranei uniti soltanto dall’avere lo stesso problema. Per incontrarsi, non sedi apposite, ma la casa di qualcuna. Se il ’68 ha portato schegge di domesticità nelle università occupate, l’autocoscienza trasforma l’ambito elettivo della domesticità in luogo politico. In Italia, alcuni gruppi prendono il nome dall’indirizzo dell’abitazione in cui ci si riu131

nisce. Quale modo più semplice per mettere in questione la dicotomia pubblico/privato? Il flusso del discorso rompeva gli argini e scorreva via via più velocemente. Parlavamo delle nostre famiglie, delle nostre madri, dei nostri padri, dei nostri fratelli e sorelle; parlavamo dei nostri uomini; parlavamo della scuola; parlavamo del «movimento» (che voleva dire gli uomini della New Left). Parlavamo per ore e ci sentivamo sollevate; ci salutavamo con il morale alle stelle, dandoci appuntamento alla settimana dopo33.

Visto così, il separatismo (che dividerà le femministe quando si tratterà di applicarlo alle organizzazioni complessive) non è una opzione ideologica, è il primo modo di partire dall’esperienza. E l’esperienza insegna che i discorsi in circolazione non rendono giustizia alle donne su molte cose decisive, quotidiane e non. Ci si mette allora a cercare, oltre che fatti nuovi, nuove connessioni tra fatti noti, nuovi intrecci: contronarrazione e controstoria. Per una donna quel metodo è insieme più semplice e più complesso di quanto potrebbe essere per un giovane. Più semplice, perché le pressioni e le imposizioni sono vistose e subito avvertibili. Più complicato perché le donne hanno sì voglia di libertà, ma tutte prima o poi vivono l’oscillazione tra fierezza di sé, dubbi, senso di inferiorità, fra amore, delusione, voglia di scappare, fantasmi di colpa. E fra aspetti della vita messi in contrasto dalle condizioni date e dalle ideologie: lavoro e cura dei figli; spinta a proteggere e bisogno di essere protette; desiderio e paura dell’autoaffermazione, rancore per la maggiore autorità dell’uomo e tendenza a misurare sul suo prestigio e potere il proprio successo come mogli e madri. «L’autocoscienza ha legittimato quella parte di me più assertiva, più intraprendente, quella che comunemente viene attribuita al genere maschile, parte che avevo rimosso per adeguarmi all’immagine femminile, in sostanza per piacere ai maschi. È stato come se dentro di me io non avessi più bisogno della complementarità, sentendomi finalmente un essere psicologicamente completo», dice una femminista italiana34. E una ame132

ricana: «Quella del movimento è globalmente l’esperienza più entusiasmante della mia vita. Questi ultimi otto mesi hanno rappresentato una rivoluzione personale. Eppure mi rendo conto del potenziale esplosivo e ne sono stata atterrita»35. Raccontandosi, non ci si accorge soltanto che l’inferiorità è invece oppressione. Si scopre che i messaggi sedicenti progressisti sono per lo più comandi paradossali: «Sii libera», «Devi fare quello che vuoi», «Non farti condizionare da me». Si scopre che la capacità femminile di identificarsi con gli altri – la base del famoso mestiere sociale delle donne – ha la sua contropartita nell’abitudine a mediare con i propri desideri, con il risultato che alla mediazione con l’esterno si arriva già rimpicciolite. Di qui la ricerca dell’autenticità, su cui in questi anni cresce un dibattito appassionato. Si parla di bisogni e desideri reali o indotti, sebbene non sia chiaro chi possa assegnare voti in autenticità alla vita interiore altrui. Si discute sulla pervasività della cultura di massa, che preformerebbe l’esperienza impedendo di cercarne il senso in prima persona, sulla natura triangolare del desiderio – soggetto, oggetto, mediatore: come ha insegnato Réné Girard, si vuole quel che una terza persona, più forte, più influente, addita come desiderabile. Ma per le donne c’è un orientatore decisivo. Una volta riconosciuto che l’esperienza si compie in un corpo dotato di un sesso, un corpo che sa, pretende, resiste, confonde, il pensiero che la elabora non può più metterlo fra parentesi. Le donne hanno sempre saputo di sentire e reagire da donne, in caso contrario c’è stato immancabilmente qualcuno a ricordarglielo – fosse l’accusa popolare di ragionare con l’utero, fosse la concezione della donna come nemica di ogni legge in nome della maternità o della pratica della prostituzione36. Adesso diventa possibile liberarsi dalla coazione a dimostrare il contrario, si può rispondere: «Sì, e allora?». Molti anni dopo, una autrice più giovane parlerà di una nuova forma di «materialismo corporeo», [in cui] il corpo è visto come nuovo punto di interazione (inter-face), soglia, campo di intersezione di forze materiali e simboliche [...]. Il corpo non è un’essenza, 133

è perciò non è un destino anatomico: è la propria collocazione primaria nel mondo, la propria situazione primaria nella realtà. Di conseguenza, nelle filosofie femministe radicali della differenza sessuale, la strategia di ripossedere il corpo mira a elaborare forme alternative di sapere e di rappresentazione del soggetto37.

Sulla scorta del ’68 e, prima ancora, del pensiero della crisi, si comincia a svincolarsi dal dogma della separazione fra soggetto e oggetto della riflessione, eredità del positivismo che mostra una capacità straordinaria di riproporsi periodicamente. «Sii oggettiva», è l’eterno ammonimento rivolto alle donne. L’autocoscienza è una contronarrazione anche come metodo di ricerca, che lavora sul soggetto, sull’oggetto e sul loro rapporto. Ne nasce un’idea di soggettività mossa e pluriforme – volontà, razionalità, emozione, rinnovamento, ripetitività, regressione. Risaputo, oggi, non allora. È anche il luogo originario della sorellanza – l’intesa fra simili, la condivisione solidale. Molti uomini entrano in ansia – che le donne abbiano sempre parlato fra loro è vero, ma una cosa è confidarsi con un’amica, un’altra è raccontare in un gruppo politico. Alcuni cercano un modello di mascolinità capace di esprimere le componenti di dolcezza, passività, cura per l’esistente che sentono in sé38. Altri temono di perdere, insieme allo specchio che tante volte li ha rassicurati – «Sei il più bello del reame» – il potere monopolistico sul dolore e sulla gioia delle donne. Molte coppie, molte complicità politiche e non, si rompono. L’autocoscienza ha la sua età d’oro nelle fasi iniziali del femminismo, e la sua diffusione varia da paese a paese – in Francia non avrà mai molto seguito, in Italia creerà entusiasmo – e da gruppo a gruppo. Le femministe dei gruppi extraparlamentari la scoprono nel ’72-’74, nel momento in cui altre la stanno abbandonando, convinte di averne ricavato tutto il possibile, o stanche dei suoi aspetti ripetitivi, insoddisfatte del suo carattere troppo «artigianale» per lo spessore dei problemi. Nel passaggio all’analisi individuale, nella pratica dell’inconscio con cui alcune si avventurano dentro se stesse39, c’è l’idea che fra don134

na e donna passano troppe cose perché non sia necessario un metodo più guidato.

Uguaglianza e differenza Nel 1977, la Fiat progetta nuove assunzioni a Torino, e con la legge appena approvata sulla parità nelle chiamate, si trova 300 donne in fabbrica. A quel punto c’è stata la battaglia con gli uomini del sindacato: venne fuori quella delegata che chiedeva di andare a lavorare in fonderia. Un delegato, un compagno enorme, le ha detto: «Compagna, ma cosa vuoi venire a fare in fonderia se non sei nemmeno capace di tirar su questa roba?». Lei lo ha guardato dal basso verso l’alto e gli ha detto: «Beh, ma tu sei scemo a tirare su quella roba, ti fa male alla schiena»40.

Capovolto lo svantaggio in vantaggio, l’operaia offre al compagno un’uguaglianza al rialzo, facendosi forte di una doppia differenza, quella del corpo, quella politica che irride alla gerarchia uomo/donna e al primato della produzione: il diritto di non sfiancarsi viene prima. Aria di femminismo. Le ragazzine che mettono in agitazione i poliziotti parigini al grido di «voglio fare pipì», seguono una strada simile: fanno trasmigrare da se stesse all’uomo l’imbarazzo femminile per le funzioni corporali – con una agente donna non avrebbe funzionato. Aria di femminismo, anche qui. Ma trent’anni prima una contadina delle Langhe, che durante un rastrellamento aveva lasciato che i partigiani nascondessero le armi sotto la paglia nella sua stalla, vede arrivare i tedeschi, e nel momento in cui si affacciano alla porta si accuccia a urinare proprio in quel punto dello strame – e li scaccia protestando rabbiosamente. Si salva così, e salva i partigiani, una donna anziana, inerme, sola, che sa che i tedeschi usano trafiggere coi forconi le balle di fieno e la paglia per scovare persone e armi, sa che le chiederanno notizie sulla banda, e in una frazione di secondo decide di giocare il doppio tabù del suo corpo anziano parzialmente nudo, e del fiotto di urina emesso davan135

ti a occhi maschili. Genio, cos’altro?41 Solo che di fronte a episodi come questi la cultura «patriarcale» dell’antifascismo diventa cieca e muta, e anche oggi qualcuno li fa rientrare nell’economia della sopravvivenza, la tradizionale pratica di chi si trova in condizioni di vulnerabilità e deve attrezzarsi a interpretare l’altro. E con questo? È lucidità nel vedere l’ordine maschile com’è, pieno di punti ciechi e di paura del corpo sessuato. È un attacco a alcune connessioni basilari, donna = sprovvedutezza, corpo = vergogna, e l’espressione di una infinita lontananza dal registro eroico-esibitivo che altre hanno condiviso. La politica comincia così. In tutti e tre i casi la differenza è corpo e insieme codice di comportamento – cambiare le carte in tavola, ridurre il danno. In nessuno dei tre è in gioco la maternità. In nessuno la donna ha la parte della vittima, e nessuno è raccontabile in chiave di uguaglianza – che del resto non si contrappone a differenza. All’inizio degli anni settanta, prima ancora di Luce Irigaray, Carla Lonzi42 aveva enunciato una verità semplice. La differenza non nega affatto l’uguaglianza, la seconda è un principio giuridico, da applicare a ogni essere umano in nome della giustizia, la prima è un principio esistenziale che riconosce i modi in cui quell’essere umano agisce, sente, fa esperienza della realtà in una situazione data e nella situazione che si vuole dare. Oggi Claudia Mancina ricorda che il contrario di uguaglianza è dominio, gerarchia, il contrario di differenza è identificazione, omologazione, e mostra come alcune autrici si misurano o si arenano sulla questione43. Sono passati 40 anni e siamo sempre allo stesso punto? No: è anche partendo da discorsi di donne che qualche filosofo della politica ha lavorato per complicare l’idea di individuo del liberalismo, non più soggetto disincarnato, ma persona che nasce, muore, prova sofferenza e piacere in un corpo suo e soltanto suo. No, essendo la questione troppo carica di storia e di futuro per poterla impostare una volta per tutte. Nessuno è così folle da sostenere che donne e uomini sono uguali, ma lavoro e politica sono stati (sono) a misura maschile, anche quando si caldeggia la presenza femminile. Il modello (la 136

caricatura) dell’emancipata esige controllo, imparzialità, padronanza di sé. L’amore per i figli è sacro, ma una donna che lavora è sconsigliata dal farne – a meno che non sia la proprietaria dell’azienda. La maternità è definita miracolo della natura, ma è scissa ben più di quanto non fosse in età premoderna, quando procreazione, allevamento, educazione erano opera di donne diverse in luoghi diversi. Una cosa resta ferma: il posto delle donne nella società non dipende da quello che fanno, dipende dal significato che gli viene attribuito. Un significato di cui il maschile ha ormai perso il monopolio, ma che resterà a lungo terreno di frizioni incrociate. Ecco dove cambia il rapporto individuale/collettivo: sul piano simbolico un uomo non è mai solo, una donna sì, lo è stata, può esserlo ancora. Quello che colpisce di più nei racconti di chi non è maschio, bianco, eterosessuale, cristiano, è lo stupore felice nel momento in cui ci si accorge di non essere più isolati. Una breccia nella cultura può nascere da un gesto individuale, ma vive soltanto se c’è una relazione personale o con un gruppo di simili. Diversamente si chiude. Fra ’800 e ’900 quante donne sono state spedite in manicomio dalle famiglie perché volevano quel che allora era impensabile, libertà sessuale, andare in guerra, vestire da uomo, cercare fortuna da sole, avere la stessa quota ereditaria dei fratelli. Nella popolarissima ballata ottocentesca Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar, la ragazza che vuole emigrare muore in fondo all’oceano, maledetta dalla madre. Anche se le cose sono talmente cambiate da rendere ovvio l’impensabile, il bisogno di condivisione resta. Per esempio: ci si può rendere conto che in uno scontro fisico la debolezza è una chance, perché permette di agire con la quasi certezza di non infliggere danni gravi. Si stabilisce una connessione nuova, in cui la potenza è associata, invece che al dispiegarsi della forza, al suo contrario. Si può cercare di estendere quella connessione allo scontro verbale, rinunciando ai linguaggi da parata intellettuale o da messa all’indice. Si può volerne fare un caposaldo del proprio codice: le guerre migliori sono quelle che si 137

vincono senza combatterle, diceva un leggendario generale cinese. Si può tentare di portare quel principio nella sfera pubblica. Ma prima bisogna pensarlo insieme a chi sperimenta la medesima debolezza, separandosi provvisoriamente da chi la vivrebbe come diminuzione. Oggi sull’incrocio donne/femminismi/nonviolenza esistono riflessioni ammirevoli, ancora troppo poco conosciute44. Il che non vuol dire, beninteso, che le donne siano aliene dalla violenza – se lo fossero non avrebbero bisogno di nonviolenza. E non implica rinunciare al conflitto, che anzi può radicalizzarsi proprio perché incorpora un limite naturale o autoimposto, come quando Gandhi diceva a un governatore britannico: «Vi sfiniremo con la nostra capacità di soffrire». Significa piuttosto fedeltà al corpo che si è.

Differenze «Le donne», scrive Imelda Whelehan, «sono in un certo senso il massimo problema del femminismo»45. Perché più ci sente vicine, più è difficile accettare le differenze individuali e di gruppo, politiche, di vita, di «origini», quasi fossero concorrenziali al comune essere donna. E per certi aspetti lo sono – storie diverse, corpi diversi. Insieme alle lesbiche, l’esempio classico sono le donne nere, che il femminismo bianco inizialmente pensa di inglobare. Ma anche il «tutte uguali, tutte vicine» delle donne è inventato. Una delle voci più originali del femminismo afroamericano, bell hooks, lo chiarisce con durezza: le bianche si limitano a un riconoscimento rituale delle differenze, costruiscono una analogia indebita fra donne e neri, con il risultato che quando si parla di neri si pensa ai maschi, quando si parla di donne si pensa alle bianche. La concentrazione sullo statuto di vittima è una trappola che offusca il modo in cui classismo, sessismo, razzismo, omofobia si perpetuano. E le bianche – aggiungerà ironicamente negli anni ottanta – che tengono tanto a presentarsi e vedersi come vittime, sono più potenti e privilegiate della grande maggioranza delle donne nella società attuale46. 138

Critica capita e accettata, e così quelle che vengono dalle donne del Terzo mondo. C’è invece un non detto che fa il suo coming out solo nell’82, con la prima Jewish Feminist Conference di San Francisco: una vena di antiebraismo, sia pure sotterranea, minoritaria, forse inconsapevole. Sembra assurdo, il femminismo ha una visione universalista della società, contraria a ogni forma di razzismo e discriminazione. Eppure alcune hanno notato che in discorsi e testi all’apparenza anodini si nascondevano stereotipi sugli ebrei e la loro storia, ma che nessuna lo ammetteva; che non si teneva in alcun conto la specificità di essere donne e ebree; che la Shoah veniva ignorata o minimizzata. Con il coming out comincia, spesso tempestosamente, una ricognizione su questo aspetto, in particolare su una tendenza interna alla teologia femminista. Alcune, e sono studiose di spicco, fanno di Cristo una figura androgina, quasi femminilizzata, comunque favorevole alle donne. Fanno del patriarcato ebraico «il» patriarcato, e gli imputano di aver messo fine all’era delle dee madri – la prima immagine era già diffusa nell’800, la seconda accusa è del tutto nuova, l’insieme è una revisione cosmetica del tema del deicidio, in controtendenza con il Concilio Vaticano II. Gli ebrei, colpevoli niente meno che di aver inventato il sistema patriarcale, e dunque lo stesso patriarcato nazista, avrebbero pagato per la propria religione47. Secondo Mary Daly, nota per la radicalità della sua critica alla Chiesa, «sebbene le vittime del nazismo – malati mentali e ebrei – appartenessero a entrambi i sessi, rientravano tutte nel ruolo della vittima forgiato sul modello di quelle del ‘ginocidio’ patriarcale, che è la radice e il paradigma del genocidio»48. La persecuzione degli ebrei perde così la sua centralità fondativa nell’ideologia nazista, il genocidio diventa una variante o una conseguenza della fobia antifemminile. Che i fatti contraddicano la sua costruzione mentale, a Daly non sembra interessare, e probabilmente neppure si è preoccupata di conoscerli: ha la sua spiegazione plurimillenaria. L’antiebraismo è un’accusa così infamante che si ha sempre timore di addossarla ingiustamente a qualcuno. Quello sparso 139

nel femminismo, si dice, è un effetto della questione mediorientale e dell’antiebraismo presente fra i neri più radicali. Ma, primo, nasce piuttosto dal modo in cui la questione mediorientale viene vista da una parte delle sinistre estreme. Secondo, all’antiebraismo nero non era proibito opporsi. Terzo, cercare le radici del pregiudizio in altri movimenti equivale a sostenere che il bello del femminismo viene dal femminismo, il meno bello o l’intollerabile viene dall’esterno. Come se condividere le idee della sinistra estrema fosse un caso, come se le donne fossero eterne minori, cui altri danno la linea sui temi politici e geopolitici. La difficoltà di riconoscere e amministrare le differenze è lo scoglio classico per i movimenti nati su una affermazione di identità. E per il femminismo ancora di più. Essere donne è altra cosa dall’essere parte delle «comunità immaginarie» dell’etnia o della nazione, e anche le differenze più ovvie – biografiche, culturali, di carattere, di buona o cattiva fortuna – possono sembrare un attentato all’unità, perché nella politica e nelle relazioni le donne portano tutto di sé, e si aspettano il calore della sintonia – come la casalinga americana che a fine anni sessanta si diceva sicura che se avesse incontrato Gloria Steinem, teorica e leader del femminismo, si sarebbero sentite subito in sintonia49. Nella crisi (o nell’esaurirsi) dell’autocoscienza pesa moltissimo questo bisogno di amore e riconoscimento. Pesa non aver trovato la fusione sperata, nuovi rapporti orizzontali anziché gerarchicamente verticali, pesano certe simulazioni di parità, la peggiore caricatura della democrazia.

Né potere né organizzazione? Il femminismo produce molte analisi del potere e dei poteri, di rado esprime teorie articolate, almeno nei suoi primi anni. Anzi, pratica il culto dell’informalità. È il frutto dell’ideale della sorellanza, un’eredità dell’antiautoritarismo, una eco del libertarismo hippie e del suo rifiuto di accettare la logica dei rapporti di forza – non si fa politica contandosi o ingaggiando un braccio di ferro. In più, le donne sanno che neppure la democrazia perfetta basterebbe a fare tabula rasa del sessismo. Tra quello radica140

to a livelli profondi e quello che ispira le leggi moderne c’è, insieme a molte differenze, un filo diretto. Quasi ovunque, i collettivi, gruppi, centri, oscillano fra la paura del verticismo e del leaderismo e l’ambizione di creare qualcosa di completamente nuovo. Confidano nell’iniziativa individuale, nella soggettività, nella nuova coesione fra donne. Diffidano, oltre che del potere, dell’organizzazione, vista come il suo travestimento ipocrita: «La natura di un movimento è antitetica a quella di una organizzazione. Lasciamo che i movimenti fioriscano e la rivoluzione verrà. Lasciamo fiorire le organizzazioni e la rivoluzione morirà», dicono le femministe francesi autrici di un appello «alle sorelle» trockiste e maoiste50. E propongono, in odio agli atteggiamenti di élite e al mito dell’organizzazione, di sopprimere da subito l’uso della sigla Mlf (Mouvement de libération des femmes), di farla finita con quel «mostro astratto» per tornate a essere donne e basta. In Italia, inizialmente documenti e volantini sono spesso firmati «un gruppo di compagne», «alcune donne», «le donne» del tale quartiere o della tale fabbrica, con i nomi del collettivo, con i nomi propri. Lo fanno anche le politiche, con lo scopo aggiuntivo di attestare che esiste un movimento popolare. I collettivi femministi comunisti del Manifesto, le commissioni femminili degli altri gruppi, in genere chiuse ai maschi, sono strutture relativamente fluide – secondo alcune dichiarazioni di allora, per ragioni di autonomia, secondo altre per «consentire la crescita di ogni singola partecipante secondo le sue possibilità»51. Ha una struttura aperta l’Intercategoriale donne, uno dei gruppi femministi più nuovi, che nasce a Torino nel ’75 all’interno del sindacato metalmeccanici, mettendone in discussione i rapporti uomo/donna, i sistemi di rappresentanza, e naturalmente l’organizzazione del lavoro in fabbrica52. Sostanzialmente informali anche i consultori, aperti da una parte delle femministe in parallelo con la campagna sull’aborto. L’effetto dell’avversione al potere è che quasi ovunque i gruppi mancano di strutture identificabili di decisione, di meccanismi di ricambio, di regole per la partecipazione. Ma concordare sul rifiuto del centralismo e delle leadership è troppo 141

poco, anzi la situazione può sfuggire di mano ancora più che nel movimento degli studenti – chi ha patito duramente le gerarchie vive l’ugualitarismo come un imperativo morale. In alcune organizzazioni americane, scrive Sara Evans, lo sforzo di vivere in modo coerente con le proprie idee ha la meglio sui programmi e sulle valutazioni di efficacia, e si scivola verso una specie di autoritarismo collettivo53. Con il risultato che le leader reali e potenziali sono accusate di fare le star, e qualcuna finisce per ritirarsi, come avevano fatto alcuni uomini dell’Sds: secondo Naomi Weisstein, il movimento le aveva dato la parola, e poi gliel’aveva di nuovo tolta. Si sprecano così talenti e disponibilità, mentre altre, che rifiutano di sparire dalla scena pubblica, agiscono come portavoce del movimento, anche se non esistono strutture che possano assegnare loro quel ruolo, o chiedere conto di quel che fanno e dicono. Una brillante, carismatica (e autoritaria) ragazza può così girare per gli Stati Uniti con un piccolo gruppo di seguaci, e i media ne fanno un simbolo del nuovo femminismo. Altre ancora restano tagliate fuori, perché l’antiautoritarismo di per sé non esalta le nuove arrivate, le meno brillanti, le meno note. Come avvertiva Jo Freeman, anche i gruppi amicali femminili si trasformano in élites politiche che tengono a distanza le esterne. In Francia alcune donne sono accusate di praticare la «democrazia del telefono». Sisterhood is powerful, scrive Robin Morgan, ma non dice che sia taumaturgica. Tanto più quando le élites sono informali, e nella comunicazione si affaccia qualcosa di simile allo stile cerebrale di cui parla Berman a proposito dell’Sds. In questa dichiarazione di Psychanalyse et politique si parla di un potere nuovo, non un potere legale, patriarcale, sadico, pederasta, di rappresentazione, di padrone, di nome, di stupro, di repressione, di odio, di avarizia, di avere, di sapere, di ordine, di individualismo, di idee astratte [ma] un (im)potere materno di generazione, di dispendio, di caos, di differenze, di libertà collettive, di apertura, di corpi (plurale), di riconoscimenti, di rimozioni di censura, di godimenti, dall’esterno della legge, un potere-agire-pensare-fare con/per tutti, tutto54. 142

Che anche qui abbondino le «idee astratte», insieme a seduttive espressioni immaginifiche, non impedisce che Psychanalyse et politique abbia una schiera di seguaci. Proprio mentre (non) si affrontano questi nodi, il movimento si espande. Le donne creano giornali e luoghi di incontro; i media danno loro spazio, la pubblicità cambia, c’è euforia. La ribellione promette di diventare una rivoluzione. Ma è una rivoluzione in cui può vigere la legge della giungla, in cui si lotta aspramente per l’egemonia sul movimento. Se i rapporti interni ai collettivi sono complicati, quelli dei collettivi fra loro possono essere violenti. Françoise Ducrocq ricorda di essersi stupita di fronte alla calma con cui le sue amiche londinesi, di qualsiasi tendenza, guardavano alle altre, persino a quelle «femministe rivoluzionarie» che avevano tesi al limite del razzismo biologico, mentre in Francia un conflitto simile aveva creato lacerazioni terribili. Quella calma non è un dono di natura di cui le francesi mancherebbero, ha alle spalle la tradizione anglosassone di partecipazione comunitaria e di pragmatismo, il sistema di contrappesi al potere centrale, la duttilità con cui Stato e enti locali sovvenzionano le iniziative di gruppi associativi privati. In Francia (e in Italia) la centralizzazione dello Stato e di tutte le istituzioni ha trasmesso il modello di un’unica sorgente del potere e della legittimità, che funziona sul principio del diritto all’esclusiva55. Sono i paesi dei prefetti, degli ordini professionali, della Chiesa di Stato (o della religione privilegiata), dei partiti gerarchici, delle accademie nazionali, delle scuole di pensiero che rivendicano ciascuna di essere l’unica autentica. È l’ambiente meno adatto per trapiantare il sorteggio degli incarichi, la rotazione, la divisione dell’autorità proposte da Jo Freeman, e il culto anglosassone della pluralità, che ha protetto – in parte – il movimento inglese e americano. C’è anche il riflesso di questa tradizione culturale e istituzionale, dietro le scomuniche, le scissioni, l’insofferenza alle critiche, le dispute sul diritto a dirsi femministe (e sui finanziamenti pubblici), e in Francia dietro il ricorso al tribunale (il Padre!) per rivendicare la proprietà di una sigla o del titolo di una rivista. Nel 1979 Psychanalyse et politique fa registrare come marchio depositato la ragione socia143

le «Mouvement de libération des femmes», proclamandosi sua unica portavoce e diffidando chiunque altra dall’usarlo. Sono querelles fra donne più che adulte, ricche di influenza e prestigio, impegnate su questioni teoriche. Ma sono così dure perché la posta in gioco è l’esclusiva sul femminismo, è mostrare che «quelle vere siamo noi». Vere femministe e vere donne, tanto è stretto in quegli anni il rapporto fra politica, ricerca, lavoro, e identità personale.

I conti con le madri La sorellanza è stata travolta – il che non vuol dire che fosse assurdo cercarla – dal fantasma del rapporto madre/figlia, il più forte, contrastato, ambivalente fra quanti uniscono e dividono le donne. È lo snodo attraverso cui passano gran parte delle questioni care al femminismo, dal modo in cui si concepisce una genealogia, alla scelta di generare, dal legame con il registro materno a quello con le madri concrete. C’è stata molta gioia nella ricerca/scoperta delle madri simboliche, de Beauvoir, Woolf, Mansfield, e via via figure più lontane nel tempo, meno note, sconosciute. Con le sue tante vicende disperse, la storia delle donne è un esempio di eredità senza testamento, il concetto/immagine coniato da René Char e citato da Hannah Arendt56 per indicare le tradizioni interrotte, che non hanno destinatari né canali ufficiali, che bisogna cercare e guadagnarsi. Ma quella storia è anche un esempio di testamenti senza eredi, di patrimoni politico-culturali costruiti con determinazione e ciò nonostante inaccolti. Ci sono madri che gran parte del femminismo non ha riconosciuto, o l’ha fatto tardi. Come Rosa Luxemburg, la donna fragile, la teorica che Lenin considerava un’aquila anche quando la combatteva, la rivoluzionaria che ammoniva a non disprezzare la democrazia, e che finisce assassinata dopo la sconfitta di una sollevazione cui ha partecipato pur vedendone la debolezza. La compassionevole, che rinchiusa nel carcere di Breslavia guarda i bufali razziati dai tedeschi in Romania presi a bastonate dai soldati perché non ce la fanno a trainare carri pesantissimi, e vede: «uno, quello che 144

sanguinava, [che] guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’epressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo»57. Le genealogie sono per definizione costruzioni altamente soggettive, e il femminismo sceglie di guardare altrove, alle grandi autrici che parlano come donne e di donne, mentre lei scrive di lotta di classe e si palesa solo nella corrispondenza privata. Guarda alle eretiche, alle streghe, alle devianti, e lei lo è per compagni e avversari – brutta, sporca, esaltata (e ebrea), la descrive il futuro Pio XII, allora nunzio a Berlino58 – ma il suo peccato è la rivoluzione. Una cosa la accomuna alle madri simboliche: nessuna è madre carnale, come se l’eccellenza esigesse una dedizione totale. Nei primi anni settanta, moltissime donne dei movimenti sono lontane dall’idea di fare figli. Non è tanto un rifiuto quanto un rimandare. Ora che comanda la politica, un bambino scandisce troppo le giornate e la vita, ci sarà tempo. E c’è persino chi pensa che sarebbe pur sempre un essere bianco di ceto medio, un ennesimo privilegiato! Del resto, i tassi di natalità calano in tutto l’occidente – voglia di libertà, effetto dei discorsi sulla sovrappopolazione e l’esaurimento delle risorse alimentari. Il mondo non è un buon posto per nascere e le società affluenti neppure, con la loro smania di consumo immediato e subito desueto. Quando si riaffaccia il registro materno, è una rottura. Per alcune autrici inglesi e americane, che spesso si appoggiano a ricerche sui comportamenti, al centro stanno i modi di sentire/agire e le strutture psichiche/culturali, come nella famosa teoria di Carol Gilligan sulla diversa attitudine morale delle donne59. In Francia e Italia, molte riflessioni sui simboli elaborati nei millenni, dalle dee primordiali alla Grande Madre mediterranea a Maria; spazio privilegiato ai linguaggi della filosofia e della psicanalisi. Già gran parte delle emancipazioniste puntava per accedere alla politica sull’estensione alla sfera pubblica delle virtù materne. Proposta forte, che però rischiava di connotarle più come «paladine della comunità» che come cittadine60. Ora un settore ascoltato del femminismo – in Italia la Libreria delle donne di Milano, in Francia Psychanalyse et politique e Luce Irigaray, la 145

voce più conosciuta a livello internazionale – sostituisce a questa maternità sociale sempre positiva e progressiva un’immagine anche più potente. Al politico, che spesso ha tradito le donne dopo averne usato la forza, fa subentrare il simbolico – il principio che dà nome e significato alle cose, che butta luce su una parte della realtà e ombra sull’altra, che stabilisce il vero il falso il dicibile il non dicibile, e che fa sembrare queste classificazioni del tutto naturali. Finora ha dominato la legge del padre, che parla un linguaggio padronale e guerresco, tattica, strategia, schieramenti: «se tu dici a un politico tradizionale di parlare senza simboli militari non arriva alla fine della prima frase», osserva Lidia Menapace61, illustrando con chiarezza rara come funziona il simbolico. Ora è venuto il momento di creare un orizzonte in cui sia riconosciuta l’autorità materna (il simbolico femminile di Luce Irigaray, il matriciel di Julia Kristeva e di Antoinette Fouque, l’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro, la nuova polis di Adriana Cavarero)62. Una autorità che diversamente dal potere, fondato nelle culture occidentali sulla distanza, nasca nella prossimità della relazione. È un modo articolato di ricondurre le differenze fra donne a un principio comune. Che Francia e Italia siano antichi paesi latini e cattolici conta. Il grande psicologo junghiano Ernst Bernhard, analista negli anni cinquanta di mezza intellettualità romana, si stupiva del dominio della Grande Madre mediterranea nell’immaginario nazionale: una madre così appassionata e indulgente da irraggiare ovunque «un benefico calore umano» e una speciale attitudine alla tolleranza, e nello stesso tempo così primitiva e possessiva, così tesa a «trasformare tutto ciò che è impersonale in qualcosa di personale» da contrapporsi alla Legge63. Per le credenti, e non solo, la figura più vicina è Maria, abitatrice secolare del paesaggio fisico e mentale64, simbolo di amore, di pietas, di redenzione. Di patimento, come Madonna dei sette dolori, della passione, delle sette spade, Mater dolorosa. Di gioia, anche, quando ha il bambino al sicuro fra le braccia in un cerchio esclusivo con lui al centro. E simbolo di potenza, in veste di vincitrice del serpente – che però è l’ispiratore del peccato di Eva, il desiderio di instaurare un rapporto di conoscenza personale con il mondo. 146

Le guerre europee, specie la seconda guerra mondiale, traboccano di esempi sull’uso che le donne fanno dei simboli del materno, un uso calcolato che include lo stratagemma e la simulazione: cuscini legati in vita a mimare la gravidanza per eludere code e controlli, figli piccoli esibiti al proprio fianco per scoraggiare una avance sessuale, borse piene di volantini o munizioni – piene di politica e di guerra – con un corredino da neonato steso sopra. A conferma che nella tradizione latina non c’è antagonismo fra sacro e commerciabile; proprio perché carica di significati, la maternità è una moneta preziosa che ci si augura abbia corso anche presso il nemico. Colpisce la divergenza con il mondo reale: mai come in questa guerra madri e bambini sono stati uccisi e violati. Eppure, le donne ricorrono a quei simboli non soltanto perché non dispongono di altra difesa, ma perché sanno quanto sia numinosa la maternità. Come la donna ebrea – forse una leggenda – che pianta gli occhi in quelli del soldato che sta per portarla via gridandogli «io sono tua madre», e lui la lascia andare. La maternità è un simbolo talmente ricco – dedizione e possesso, umiltà e gloria, nutrimento e voracità, bellicosità e pace – che sarebbe insensato isolarne un aspetto solo, peggio ancora usarlo per misurare l’adesione o meno a un dato ruolo. Piuttosto, cosa succede quando se ne fa la chiave di accesso al mondo, il passaporto per la libertà? Si cammina su un filo. Il primo rischio è l’appiattimento del femminile su una funzione/prerogativa che è stata contemporaneamente la massima forza delle donne e l’ostacolo maggiore alla loro partecipazione politica come soggetti individuali, indipendentemente dalle relazioni e dai ruoli65. Come ha mostrato la Francia rivoluzionaria, la polis moderna nasce sull’esclusione delle donne: al padre di famiglia la sfera pubblica, alla madre di famiglia il compito di liberarlo dalle angustie della quotidianità garantendogli l’ordine della casa, il benessere, la pace66 – e il riposo del guerriero. Le donne ricevono il titolo di mogli, madri e educatrici del cittadino, e appunto per questo vengono ritenute incapaci di esserlo in proprio67. Il secondo rischio è che il corpo, la sessualità, il rapporto con il maschile, le diverse esperienze, diventino più il piedi147

stallo della teoria che i luoghi di una storia da scoprire – tutto è già detto, si tratta solo di capire come si è inverato. Lo stesso vale per la preistoria iscritta nell’inconscio, per le infamie originarie68, per le differenze fra donne e fra le identità sessuali. Che secondo alcune – tema dibattutissimo – vanno oltre l’essere uomo e l’essere donna. Lo ha scritto Judith Butler69, lo segnala la sigla Glbt (gay, lesbiche, bisessuali, transessuali), lo raccontava nel ’74 una femminista francese in un omaggio «à une lesbienne barbue rencontrée à New York»: una donna che tutti avrebbero definito di «aspetto mascolino», ma che apparteneva invece a un altro genere, né uomo né donna70. E negli anni novanta, Prince abbandonava il suo nome per la sigla Tafkap (The Artist Formerly Known As Prince, l’artista in precedenza conosciuto come Prince), deliberatamente priva di connotazione maschile o femminile, e inaugurava una nuova immagine in cui l’identificazione sessuale era provvisoria, reversibile, inclassificabile71.

E con la madre «Maman, libère–toi, tu es d’abord une femme!», scandiva un corteo francese contro la festa delle madri72. «Mère-ma-mort» comincia la poesia di una donna del movimento73. Madre amica, madre guardiana e giudice. Chi rimprovera alle femministe anni settanta (e post) di essersi sempre viste nel ruolo di figlie, dimentica che sono le prime a affrontare come fatto politico il bisogno femminile di amore materno e il dolore di non trovarlo. Anche qui spiccano Francia e Italia. Nel discorso sull’ordine simbolico, l’amore della madre per la figlia si lega, scrive Luisa Muraro, all’amore dovuto dalla figlia alla madre per il dono della vita e del linguaggio74. Poggia su questo modello di rapporto con la madre la proposta dell’affidamento da donna a donna, avanzata dalla Libreria delle donne di Milano, un legame asimmetrico, in cui sono rese esplicite le differenze di capacità e autorevolezza. Il pezzo italiano della vicenda registra a metà anni settanta una rapida impennata di interesse. A volte di sconcerto: anche se l’autorità teorizzata si fonda sulla relazione, la disparità delle posizioni rimanda ancora, o di nuovo, al modello verticale della cattedra, 148

dell’altare, del trono, del podio – un modello in linea di principio mobile, ma poco propizio agli scambi di ruolo. Per chi ha cercato di non trasformare il sapere intellettuale in preminenza complessiva, per chi pensa che, come diceva Carla Lonzi, «il varco va passato una per una», sembra un passo indietro. L’affidamento è invece una sorta di illuminazione per chi vede nei grandi miti femminili, a partire dalla coppia Demetra e Core, la prefigurazione di un potere improntato a giustizia e compassione, per chi crede nell’urgenza di creare una società femminile forte e autorevole, di imparare a stringere legami anche con la politica istituzionale, come avverrà nell’86, dopo il trauma di Cˇernobyl’, con donne leader del Pci75. Fra detrattrici e sostenitrici, si apre una discussione «apertamente passionale e appassionante»76. Ma cosa ne è dell’uguaglianza come modello di relazione cui tendere, come «ribellione alle ingiustizie, solidarietà, rifiuto di gerarchie prestabilite»?77 La madre simbolica può apparire strapotente, minacciosa, autoritaria78. Niente garantisce che non si ricrei la vecchia distinzione fra avanguardia e masse, che non si riduca a reperto del passato il rifiuto della fedeltà ai poteri in cui è consistito l’antiautoritarismo. In una società politicizzata come quella italiana, in un femminismo molto legato, sia pure conflittualmente, alla politica79, si fa sentire il richiamo del qui e ora. Il gruppo milanese è coeso, capace di amministrare la sua autorevolezza pubblica anche nel rapporto con la politica «tradizionale»; ha leader forti che sanno usare argomentazioni esemplarmente chiare, considera il richiamo alla pluralità una petizione di principio che finisce per fare del femminismo un insieme informe. Gli altri gruppi vanno in ordine sparso, non hanno un’ideologia unificante né un’immagine di potenza (e non vorrebbero averla), sono meno noti, meno abili nel guadagnare ascolto. Il risultato è una schermaglia di anni, con risentimenti e non detti. C’è di più. È ovvio che il simbolico materno non può fare a meno dell’amore per la madre concreta, pena la fatica di Sisifo di confidare nel materno diffidando della donna da cui si è nate. Invenzione politica e grande proposta di pacificazione interiore, il tema dell’amore per la madre può contraddire frontalmente il principio del partire da sé, il sé leso del presente, non il sé forte 149

che ci si augura per il futuro. Poche sanno cosa sia il «reciproco avvolgersi della bambina da parte della madre, e della madre da parte della bambina»80, in cui Irigaray vede la condizione dell’amore di sé. Troppe hanno fatto esperienza della madre crudele81. Non la cattiva madre condannata dal mondo perché inesperta o poco affidabile – la Jodie Foster confusionaria e tenerissima verso «il suo piccolo genio» – ma la madre cattiva che lesina l’amore e trova la sua gloria nel rispettare ogni dettaglio della perfetta educazione. Ci sono donne che per tutta la vita accumulano amori maschili, cercando di sanare vecchie ferite. Per scoprire la gratitudine, alle figlie può essere richiesto un talento speciale quanto il talento del materno, e forse più difficile. Il fatto è che la donna è sempre stata la madre-per-l’uomo, la madre di figlio maschio, da cui ricevere potere e prestigio. La figlia è il banco di prova della sua capacità di sorvegliare e formare. Certo, sono cambiate molte cose. A differenza che nei romanzi82 e nelle vite ottocentesche, il bisogno della figlia di allontanarsi non è più così assoluto. Ma l’amore è un’altra cosa. Che la madre non sia un modello, o lo sia in negativo in fondo è il meno – una ragazza può rendersi conto che se le imposizioni sono dure, è anche perché voler bene significa insegnare a reggere una realtà in cui alle donne si è fatta pagare cara l’autonomia. Conta invece vedere sminuito il proprio slancio verso la vita, e proprio in una fase in cui bellezza e apertura al mondo sono (o sembrano) a portata di mano. Agli occhi della madre, fra brava e cattiva ragazza c’è un territorio pericoloso abitato da impudenti/imprevidenti, agli occhi della figlia c’è un posto per sé.

I conti con i padri «Perché gli attacchi diretti vengono tenuti in sospeso finché non si sia trovato modo di assestarli tra due citazioni di Marx? Perché avvicinare gli uomini come fossero dei bambini a cui le proprie verità bisogna porgerle adottando il linguaggio dei loro libri di lettura? Perché questa serietà, questo accoramento? Per farli capire, per non perdere l’aggancio culturale». Così Carla Lonzi nel 197183. 150

Vero. Nel mondo politico/culturale in cui nasce il femminismo, rendere omaggio a Marx è un buon modo di guadagnare quell’attestato di serietà che a molte sembra necessario per bilanciare irriverenze e trasgressioni. Ma è anche se stesse che si vuole rassicurare. Dirsi marxiste può costare caro, come nella Germania anni settanta del terrorismo e delle leggi speciali, ma esserlo vuol dire sentirsi parte di una cultura egemone e di un grande patrimonio politico/affettivo84. La storia dei partiti comunisti è costellata da abbandoni che spezzano la vita, e da scelte di restare che la spezzano ugualmente. Per le militanti non è stato diverso. Del femminismo alcune donne della sinistra parlano inizialmente come di un fenomeno (al solito!) piccolo-borghese, destinato a scavarsi la fossa con le sue mani, a meno che non accetti di subordinarsi alla lotta di classe. Per le trockiste francesi, una organizzazione separata è utile per affrontare singoli problemi, ma senza l’ambizione di influire sulla linea politica. Poco di nuovo: esistono da decenni associazioni, come l’italiana Udi, la francese Ufc, le sezioni dei partiti comunisti, che all’interno della sinistra detta tradizionale tengono vivo il tema del lavoro, dell’istruzione, della maternità, ma da cui i partiti non si aspettano né accetterebbero idee strategiche. Tra le femministe ci si chiede invece come conciliare il lavoro su di sé e il lavoro sociale, l’analisi del sessismo, che nasce nella notte dei tempi, con quella del capitalismo. Alcuni gruppi optano per una via a esclusione dell’altra e ne nascono in quasi tutti i paesi varie correnti in antagonismo più o meno forte. Alcune autrici e alcune organizzazioni di donne provano a integrare marxismo e femminismo. Così Juliet Mitchell, Sheila Rowbotham, le tendenze «lotta di classe» interne ai femminismi. In Italia lo sforzo più sistematico è di Lotta femminista, dove sono confluite donne di organizzazioni extraparlamentari, soprattutto di Potere operaio, che rimproverano all’ortodossia marxista l’incapacità di capire come l’attività non pagata delle casalinghe entri nella divisione del lavoro e nello sfruttamento – di qui le campagne per il salario al lavoro domestico. Marx è un padre ingombrante, con cui è necessario prendersi qualche libertà. Una libertà autovigilata (le due citazioni di 151

cui parla Carla Lonzi) capace di attestare il grado opportuno di ortodossia e di non disperdere le conoscenze accumulate. Si fanno acrobazie. Ovunque i primi documenti sono così datati che a riportarne dei brani si ha l’impressione di fare un repêchage antiquario, e un cattivo servizio alle autrici. Linguaggio politichese, richiami legittimanti, attacchi al «revisionismo della vecchia sinistra», critica della famiglia come luogo del dominio e dello sfruttamento maschile, ma indotti dal capitale – detto in breve, «capitalismo come fase suprema del sessismo». Eppure qualche singolarità filtra, per esempio il modo in cui si negozia con il patrimonio marxista e con le organizzazioni di appartenenza. Un testo di Mariella Gramaglia, che attraversa Fourier, Mill e Marx, conferma l’immagine del Manifesto come il gruppo più acculturato e più aperto; eppure in un documento successivo il modello maoista è schiacciante. «Non esiste una questione femminile» come realtà separata e marginale, esordisce baldanzosamente un documento di Lotta continua del 1970, che presenta come già dispiegata la combattività delle donne proletarie, ma parla anche di commesse e impiegate – tre anni dopo, si dice esplicitamente che il movimento delle donne è di ceto medio, e che va bene così85. Si fa sentire l’aura spontaneista e trionfalista di Lotta continua, che non chiede credenziali sociopolitiche a chi lotta, ma che – ha detto qualcuno – incontra tre persone in fila e vede un corteo. Si potrebbe continuare, con le donne legate a Potere operaio, critiche verso le femministe «borghesi» che lotterebbero contro l’uomo, ma ancora più critiche verso i «puristi» che se ne scandalizzano. Perché non hanno avuto la stessa reazione quando nel ’68 si parlava di potere studentesco? E soprattutto – argomento cruciale per tutte – non hanno imparato niente dal movimento dei neri americani?86 Anche alcune femministe radicali, autonome da gruppi e partiti, esitano a buttarsi Marx alle spalle. In più hanno altri padri non meno pesanti, Freud, Lacan, la psicanalisi. Il rapporto è insieme più facile – non c’è la condivisione immediata nella politica – e più difficile: dando valore alla sessualità e all’inconscio, Freud ha rivoluzionato la soggettività moderna, ma – qui alcu152

ne danno il meglio di sé – lo ha fatto dal punto di vista di un patriarca vittoriano, trasformando le coordinate psichiche del suo mondo in assoluti al di sopra della storia. Il più nocivo: la donna, il suo corpo e la sua psiche sono complementari all’uomo, anzi la maturità femminile si misura sull’integrazione in questo destino, a cominciare dalla sessualità. L’orgasmo clitorideo è infantile, quello vaginale è il traguardo dell’adulta ben riuscita. Facile immaginare come questa fantasia ammantata di scientificità abbia seminato sensi di inadeguatezza. No, sostiene per prima, nel 1968, la giovane femminista americana Anne Koedt87, e contrappone al monumento narrativo della psicanalisi l’esperienza del corpo: il malfamato orgasmo infantile è il più congeniale alle donne, quello «adulto» è aleatorio per la maggior parte di loro88. Se fosse soltanto una questione di terminazioni nervose non ci sarebbe scandalo. Ma a uscirne insidiata è l’indispensabilità del pene nello scambio sessuale (e del Fallo nello scambio simbolico). Ora quel monumento viene vagliato e smontato, e così la tradizione filosofica occidentale con la sua pretesa che esista un unico soggetto universale, quello maschile. Lavoro prezioso. Dire che i soggetti sono due, uomo e donna, e che il primo non può rappresentare il secondo, equivale per il pensiero femminile a un «arrivano i nostri» della libertà. Il che rende accettabile persino la perentorietà oracolare di alcune, in specie di Irigaray. In Italia, le sole a non avere padri così invasivi sono le attiviste del Movimento di liberazione della donna, nato in sintonia con il partito radicale di Pannella e di Adele Faccio, libertarie, non separatiste, antimarxiste e antiborghesi, le più vicine al movimento per i diritti civili dei neri, le prime a mobilitarsi nella campagna per la depenalizzazione dell’aborto. È invece difficile capire l’esperienza e l’influenza delle donne credenti o di formazione religiosa, specie le tante cattoliche89. Cosa portano della loro spiritualità alla spiritualità che si sta formando con fatica e con molte controspinte? Inizialmente erano fuse a tal punto nei gruppi e nei collettivi da riuscire poco visibili?90 Oppure a lasciarle in ombra è la storiografia, che ha impiegato decenni a mettere a tema la specificità dei cattolici nei movimenti? 153

Va detto che non tutte le marxiste fanno parte di organizzazioni miste, non tutte le femministe radicali ne sono davvero separate, non tutte quelle legate al marxismo accettano l’idea del partito – le donne vicine al Manifesto fanno ostruzionismo. A voler seguire ogni filo del femminismo primi anni settanta, si arriverebbe a costruire una mappa così grande e dettagliata da risultare il duplicato della realtà: la mappa dell’impero. Il quadro va molto al di là della contrapposizione lotta di sesso/lotta di classe. A dividere donne da donne è il cuore della politica, il rapporto interno/esterno. In Italia e Francia le femministe radicali hanno scelto di lavorare sull’interiorità, con una concentrazione che può essere insieme grandiosa e spaventosa, come nel Diario di Carla Lonzi91. Per questo rigettano l’idea stessa di proselitismo; diffidano dei partiti e dei movimenti, con il loro attivismo e il loro bisogno di visibilità; ritengono prematuro pensare a mediazioni istituzionali. Le «politiche» non vogliono rinunciare a proiettarsi all’esterno, nelle lotte di donne per solito liquidate in due righe dalle analisi di classe, nel dialogo (cauto) su sessualità e famiglia con le più giovani, e anche con Donne Proletarie, a volte mogli di militanti operai. Fanno, cercano di convincere i compagni, tollerano, attaccano. Per chi sta nel femminismo e insieme nelle organizzazioni miste, nei due paesi si parlava all’epoca di doppia militanza, quasi si trattasse di due vie parallele senza raccordi. Era piuttosto un tentativo di meticciato fra comunismo e femminismo, fra interno e esterno, «una forma che criticava tutte le altre sperimentate finora. Dagli uomini», scriverà Franca Chiaromonte. E aggiungerà una riflessione chiave: forse l’ostilità verso le «doppie militanti» non viene solo dal rifiuto di una sintesi, ma dall’idea che la sintesi non spetta alle donne – e su questo punto concordano con i maschi dei gruppi92. Si arriva agli ultimatum. «Vous devez choisir, trancher», intimano le autrici dell’appello «alle sorelle» trockiste e maoiste93. Se le tensioni sono inevitabili, non lo sarebbe la sfiducia reciproca: alle politiche, le radicali sembrano disinteressate a tutto tranne che a se stesse, per le radicali le politiche sono collaborazioniste manovrate dai loro capi. 154

Eppure in questo parapiglia teorico/politico maturano verità ampiamente condivise. La prima: il maschile può continuare a dichiararsi universale, ma ha perso la capacità di mostrarsi naturalmente tale; gli uomini possono continuare a parlare a nome delle donne o dei gruppi esclusi, ma hanno perso il diritto a farlo con «innocenza». La seconda: la cultura dei senza potere non è semplicemente la versione, sprofondata, di quella delle classi egemoni. Può condividerne o subirne alcuni tratti, ma può anche manipolarli, combinarli in modo nuovo, con altri contenuti a volte presi dal passato e da lontano. La terza: per la libertà delle donne contano certo le condizioni lavorative e materiali, ma contano altrettanto e a volte di più la cultura, le vicende personali, le relazioni, il temperamento; il femminismo radicale ci è arrivato attraverso l’autoanalisi, il femminismo politico forzando l’economicismo a favore dell’esperienza. Sono tesi che la storiografia sta scoprendo in quegli anni, e che il femminismo diffonde al di là della sua area di irradiazione immediata. Oggi qualcuna si chiede se la mancata analisi delle differenze di classe e di cultura fra donne non abbia involontariamente contribuito a eludere problemi veri.

Etica, cura e obiettività Le emancipazioniste rivendicano il voto alle donne in nome del lavoro di cura svolto sul territorio per rendere meno nemica la città e più padroni di se stessi i cittadini. È una visione diversa dello Stato, in cui le istituzioni devono assumersi più responsabilità verso chi si trova in condizioni di bisogno. Anche le donne della resistenza lavoravano per un’altra concezione della cittadinanza, più inclusiva e «più sociale», per un’idea di democrazia partecipata. Negli ultimi decenni del ’900, l’invenzione politica più duratura si deve alle madri e nonne dei desaparecidos argentini e cileni, alle meno note madri cecene e russe, che hanno messo in piedi un comitato comune contro terrorismo e guerra, alle madri delle vittime di piazza Tien An Men, che sfidano il governo lavorando a stilare un censimento dei morti, dei feriti, degli invalidi. È una resistenza a partire dai ruoli familiari, in cui le madri si prendono cu155

ra di ciò che resta dei figli – la memoria, la discendenza, una forma di lotta/testimonianza che si prolunga con le manifestazioni contro le guerre delle Donne in nero, israeliane, poi italiane e di altri paesi. La Mater dolorosa è diventata un’oppositrice nonviolenta. Maternità, cura, differenza, etica sono parole che si cercano reciprocamente, quasi appartenessero allo stesso mondo. Ci sono molte ragioni per cui una parte del femminismo indica nella maternità il terreno della differenza e la possibile origine di una nuova etica, mentre un’altra componente si chiede se la cura, radicata com’è nella famiglia e nei rapporti privati, possa reggere nel faccia a faccia con le asprezze del mondo esterno. Ma – ha ragione Martha Nussbaum94 – la stessa famiglia è un luogo di conflitti fra uomini e donne, giovani e vecchi, percettori di reddito e persone non occupate, fra interessi e fra mentalità diverse. I problemi più complicati sono altri. Il primo: mettere a fondamento dell’etica la cura anziché la giustizia rischia di sigillare le donne nel vecchio ruolo salvifico/assistenziale, di renderle ostaggio di chi è curato – del suo bisogno infinito, della sua vulnerabilità da proteggere ininterrottamente. «È ‘giusta’ la cura?», si domanda una filosofa americana, e fa notare che si tratta, fuori dalla retorica sulla superiore moralità femminile, di un lavoro difficile, non retribuito, che nessun altro desidera fare – e che non ha né orari né mansionari. Bisogna allora «portare ‘limite’ nell’esperienza etica femminile», dove normalmente manca, introdurre la pratica della contrattazione dei compiti: alle donne non giova affatto essere elette a simbolo morale e per questo trovarsi esposte alla richiesta enorme di cura che circola nella convivenza umana95. Il secondo problema: la cura può convivere con l’imperativo dell’etica – l’imparzialità, la garanzia di essere trattati senza pregiudizio? Anche di questo hanno discusso a lungo e con finezza donne e uomini, tanto è diffuso il bisogno di un pensiero adeguato ai tempi, e tanto è forte la tentazione di cercarne le basi nelle pratiche di cura delle donne. Delle donne in esclusiva? E per il solo tramite del generare figli e dell’accudire la famiglia? Con la sua passione per le incongruenze e le analogie, la storia mette in scena alcune contraddi156

zioni, e proprio partendo dalla guerra, la più maschile delle esperienze, e dalla grande guerra, la più maschile delle guerre96. Che il soldato scopra in sé il piacere della distruzione, lo stupore complice di fronte a manifestazioni di potenza terribili è vero97. Ma sono molti i comportamenti che si ispirano invece al modello del guerriero compassionevole, capace di contenere la violenza, di non infierire sul nemico, di riconoscere il valore più alto non nell’uccidere, ma nel morire per gli altri. Non solo: di fronte alla morte di massa, nelle trincee dove si soffre e si rischia insieme, il soldato impara gesti e saperi all’apparenza piccoli: ascoltarsi, parlarsi, palesare gli stati d’animo che aiutano, nascondere quelli che possono ferire, badare al corpo dell’altro, toccarlo, medicarlo, tenerlo vicino. Le femministe francesi che al milite ignoto contrappongono la madre ignota non riconoscono il filo di continuità teso fra la figura del guerriero compassionevole e la figura della madre, fra la «virtù eroica» del combattimento e la cura, in cui Todorov identifica la prima delle virtù quotidiane98. Sono comportamenti complessi, in cui convivono necessità e scelta, conflitto e identificazione. Resta il fatto che quella guerra è forse l’unica occasione in cui giovani maschi hanno sperimentato fra pari un lavoro di cura simile a quello svolto dalle donne, o riservato a figure professionali come medici, infermieri, psicologi. Si può liquidare quell’esperienza definendo materno e femminile il comportamento dell’uomo sollecito, oppure vincolandola ai concetti di cameratismo e spirito di corpo, come hanno fatto i capi militari, oppure spostando nella categoria dell’eroismo la cura praticata in situazioni estreme e da soggetti imprevisti. Ma se la si guarda nella sua complicatezza, il vincolo esclusivo fra cura e famiglia può sfrangiarsi. Ancora più significativo è quel che la storia racconta sui comportamenti di fronte ai crimini collettivi – paradigma la Shoah. La scuola di Francoforte accusava la famiglia della società di massa di formare una «personalità autoritaria»99 aggressiva, rigida, propensa alla complicità con il nazismo e all’indifferenza al dolore altrui. La psicologia sociale si è messa in cerca della «personalità altruista», capace di solidarietà perché educata secondo saldi principi morali. Ma dividere il mondo fra autorita157

ri e liberali, fra «altruisti» e «non altruisti», non ha funzionato. In primo luogo, i salvatori degli ebrei, donne e uomini, non si assomigliano: alcuni hanno una forte religiosità, una fede politica, un ideale umanitario, altri niente affatto; c’è persino chi ha un passato di antisemitismo. Impossibile ricondurre a un tipo sociale e umano Giorgio Perlasca, commerciante, ex volontario franchista nella guerra di Spagna, il domenicano padre Girotti, ucciso a Dachau per aver ospitato nel suo monastero molti ebrei, la giovane Liuba Bandini Scerbanenco, figlia di commercianti e corista alla Scala, nessuna esperienza politica, che dal 1° dicembre 1943 alla primavera 1945 nasconde nella sua casa milanese Alberto e Marisa Campelung, Raoul Wallemberg, aristocratico svedese, Oskar Schindler, affarista amante del lusso, André Trocmé, pastore protestante e guida spirituale del villaggio di Le Chambon, dove molte famiglie ebree vivono nascoste per quattro anni. In secondo luogo, la stessa persona può comportarsi in modo diverso a seconda delle circostanze, perché le scelte raramente dipendono dall’adesione a principi morali e dalla idea di una comune umanità, categoria astratta al cui interno tutti sono uguali e ugualmente in diritto di essere tutelati. Nascono dall’incontro, per lo più faccia a faccia, con la vulnerabilità e il bisogno di protezione dei perseguitati, che spinge a «fare qualcosa» per qualcuno. Nascono dall’empatia, sentimento selettivo che nel suo indirizzarsi a una determinata persona o gruppo, e non ad altri, può apparire troppo soggettivo, addirittura «ingiusto». È il passaggio delicatissimo dai principi all’individuo come principio, che apre il problema della valutazione caso per caso, dell’adesione alla mutevolezza delle situazioni sotto forma di «mancanza di oggettività». Ed è il punto più controverso100. Nel diritto, l’oggettività assomiglia più a un esercizio di bilanciamento che a un dogma. La civiltà occidentale ha attraversato nel tempo tre concezioni della giustizia. La prima: la nobiltà di sangue ha una giurisdizione a sé. La seconda: la legge è uguale per tutti. La terza: il giudizio deve tenere conto della storia e della condizione di chi ha commesso un reato. L’idea del diritto mite è nata nell’ultima fase. 158

Amore

Tipi di amore Nei movimenti degli anni sessanta e in parte anche degli anni settanta, il tema dell’amore è stato così centrale che mi sembra di poterlo usare come polo di condensazione di sentimenti, pratiche politiche, esperienze molto diverse fra loro. Amore passione e amore avventura, amore per i propri simili e vicini e per i dissimili e lontani, per alcune figure leggendarie, da Guevara a Mao a Angela Davis, per chi soffriva, subiva un’ingiustizia, per chi, come usava dire allora, non aveva voce. Amore in concerto: il primo evento rock di mobilitazione umanitaria è organizzato nel ’71 da George Harrison per le popolazioni alluvionate del Bangladesh. Non solo: il più bel regalo che l’antiautoritarismo fa ai ragazzi della borghesia piccola, piccolissima, grande, è la possibilità di diventare amici di se stessi. Il dono mancato è invece il superamento dell’antropocentrismo secco, cieco di fronte alla prossimità fra l’umano e il resto del mondo senziente, natura, animali. «Vi siete mai chiesti che cos’avranno pensato le capre di Bikini? e i gatti nelle case bombardate? e i cani in zona in guerra? e i pesci allo scoppio dei siluri?» scriveva Calvino nel ’461. La risposta è «no», e aveva molte radici, a cominciare dalla lunga cecità delle ideologie e della dottrina cristiana. Che gli animali siano il simbolo più forte dell’innocenza e della vulnerabilità non bastava a farne una causa politica. L’amore era riservato al genere umano e disumano. Come sempre, gli slogan sono buoni indicatori. In «fate l’amore non la guerra» si specchia l’anima universalista, generosa, utopica dei movimenti, che si rivolge ai non (ancora) pacifi159

sti, ai ragazzi che rifiutano di combattere contro un paese cui non hanno niente da rimproverare, alla polizia che li persegue e li perseguita. «Mettete dei fiori nei vostri cannoni» può nascere solo dalla mente di chi sogna il mondo alla rovescia – natura innocente che vince sui manufatti distruttivi, nemici trasformati in amici. Di chi ha un ricordo anche vago dell’amore universale degli anarchici, di chi condivide (o usa) la filosofia hippie con la sua mitezza e inermità, con le sue coroncine di fiori e il fluttuare dei corpi che ignora l’ordine del corteo. Naturalmente il vero amore va ai giovani. Verso i poliziotti, chiamati poco graziosamente pigs da alcuni e poi da molti, c’è ironia, voglia di creare imbarazzo, c’è il tentativo di rendere più difficile una reazione violenta. Illusione, se si pensa alla fine della Primavera di Praga. Ma 23 anni dopo, a Mosca, durante il fallito golpe del Kgb, qualche ragazza cercherà di mettere fiori in mano ai militari affacciati alle torrette dei carri armati, e i cannoni non spareranno. Che dietro al crollo dei golpisti ci siano potenti ragioni politiche non diminuisce il peso simbolico di quei mazzolini. A inaugurare il legame fra amore e lotta allo stato di cose presente non sono però i movimenti contro la guerra e gli hippie. Non riesco a dire «Aspetta» a una persona che patisce un’ingiustizia. Magare voi ce la fate. Io no. E avendo deciso che non posso dirle di avere pazienza devo prendere le sue difese [...]. Sono grata ai sit-in se non altro perché per me hanno voluto dire trasformare una decisione in azione2. La questione è continuare a vivere nell’isolamento o pensare al plurale. Il movimento degli studenti non è una causa [...] è la collisione tra due persone distinte. È come dire ora vengo a sedermi accanto a te [...]. Solo l’amore è radicale3.

A parlare sono, nel 1960 e nel 1964, Sandra Cason e Jane Stembridge, ragazza del sud la prima, del nord la seconda, attiviste del movimento per i diritti civili dei neri, che ancora una volta fa da incubatrice agli altri, fino a trasformare il rifacimento di un gospel, We Shall Overcome, nell’inno arioso, lento e niente affatto marziale di quell’intera stagione – è il solo canto 160

in cui non si leva il pugno e non si battono le mani, perché le mani stringono quelle di chi sta a fianco. Poco dopo, Joan Baez scrive, su musica di Morricone, la popolarissima ballata per gli anarchici Sacco e Vanzetti: With me I have my love, my innocence The workers, and the poor [...] Rebellion, revolution don’t need dollars They need this instead Imagination, suffering, light and love And care for every human being.

Nel ritornello, «Here’s to you Nicola and Bart / Rest forever here in our hearts», il cuore è il tabernacolo della memoria. Non è ovviamente la prima volta che nei discorsi politici compare l’amore. La rivoluzione francese esaltava la fraternità, la tradizione anarchica è colma di tenerezza per i deboli, i reietti, il Lumpenproletariat dei vagabondi, delle prostitute, dei pezzenti, che Marx bollava come feccia della società. Nei nazionalismi si sventola l’amore per la patria, nella propaganda dei regimi totalitari la priorità è creare un vincolo emotivo fra i tiranni e il popolo. Ma l’amore dei diritti civili è altra cosa, non un valore aggiunto, un complemento: è politica, un metodo per dare vita a una riforma sociale e a un cambiamento collettivo. Il metodo dell’induista nonviolento Gandhi, fatto proprio dal cristiano battista Martin Luther King, che lo radica nella religiosità e nella tradizione americana di disobbedienza civile. A chi chiede «comportamenti realistici», King risponderà sempre che l’etica dell’«amate i vostri nemici» (l’etica dell’amore di Gesù, nelle sue parole), vale tanto nei conflitti fra individui, quanto negli scontri fra gruppi politici e fra nazioni. Anche se non tutto il movimento dei diritti civili è così radicale, sono tanti e tante a lavorare per il potenziamento delle reti di auto-aiuto al sud, per la creazione di scuole, case della libertà, biblioteche. Non lo vivono come assistenza, ma come atto di amore diretto alla «beloved community». Per questo, la 161

crisi del movimento, con il passaggio alla violenza, con il disfarsi del sogno «blacks and whites together», avrà aspetti drammatici. A crollare non è una linea politica, è un mondo. Il tema dell’amore non sparisce. Vive fra gli hippie, che alla religiosità occidentale sostituiscono la spiritualità orientale e new age, vive nelle manifestazioni contro la guerra in Vietnam e nelle campagne per la renitenza alla leva, dove è più romanticizzato e erotizzato, come avviene sempre di fronte al rischio di morte. A volte viene usato: lo slogan «le ragazze dicono sì a quelli che dicono no» non fa che capovolgere la vecchia immagine della donna che si concede in premio al soldato. Sono soprattutto alcuni settori del femminismo e il movimento gay a fare dell’amore una costante politica e una spinta all’azione. Basta pensare a certe pratiche, dal self-help alle case per le donne picchiate o abusate, alla stesura di Noi e il nostro corpo, un contromanuale su sessualità, maternità, salute, scritto da un collettivo di Boston e tradotto in tutto l’occidente4. La stessa idea di sorellanza, pur con la sua vena di ugualitarismo ideologico, riflette il bisogno di amore e di riscatto comune. Anche se il femminismo non ha il suo Martin Luther King, la sorellanza è politica. Nel mondo gay, accanto alle scenografie seducenti dei cortei, c’è la promessa di un’affettività diffusa; in tempi diversi da situazione a situazione, nascono reti di solidarietà, centri di consulenza giuridica, in seguito di sostegno ai malati di Aids, una delle imprese più ammirevoli nella storia dei movimenti e della medicina. Di nuovo, è politica.

L’Europa Con l’Europa si entra in un orizzonte in parte diverso. La parola amore risuona fra gli hippie, i beatnik, i capelloni italiani, che hanno però meno impatto sull’opinione pubblica che negli Usa. Circola nel ’68 e, sempre meno, negli anni settanta. Non che manchi l’amore per gli oppressi. Mancano la funzione di caposaldo politico, e, salvo che in piccole minoranze, il riconoscimento della nonviolenza come valore – dei tanti contenuti passati attraverso l’Atlantico, questi sono i meno seguiti. 162

È diverso anche il rapporto con le religioni. Negli Usa degli anni sessanta, dove la divisione fra potere secolare e spirituale è netta, la fede dei movimenti non ha niente a che fare con l’espansione dell’influenza politica delle Chiese, che d’altronde non godono di trattamenti speciali da parte delle istituzioni pubbliche. Non così in Europa, dove alcune sono legate strutturalmente agli Stati, come nel Regno Unito. In Italia il peso politico della gerarchia ecclesiastica, i suoi privilegi, l’uso partitico dei suoi simboli, sono troppo marcati perché i moltissimi cattolici dei movimenti possano riconoscersi nella Chiesa. Di qui il respiro ampio del dissenso – è don Milani, non il papa, a dire «I care». Quanto ai partiti comunisti americani e europei, il rigore politico viene molto prima dell’amore. Eppure c’erano esempi stupendi. Nell’immediato dopoguerra l’Udi aveva messo in piedi una rete vastissima di sostegno ai bambini del sud, ospitandone a centinaia in Emilia Romagna: vita in famiglia, buon cibo, tranquillità, per rimetterli in salute e aiutarli a superare i traumi. Che esistesse anche un obiettivo propagandistico non cambia di una virgola il valore dell’esperienza. Lavoro di cura, si direbbe oggi. All’epoca è stato invece catalogato in termini di assistenza, terreno secondario delegato alle donne e delegato alle donne perché secondario. Cecità dell’antiriformismo, che con i suoi dubbi storici sulle iniziative mirate alla riduzione dei guasti prima che all’eliminazione delle loro origini, mette ai margini quel che marginale non è affatto5. Il risultato di questa tendenza è una separazione fra amorevolezza e politica che filtra nei movimenti e che solo pochi avvertono come problema strategico. Molto più che negli Usa, all’idea dell’amore/cura/salvezza si contrappone, esplicitamente o meno, la critica dell’assistenza, assimilata al paternalismo, al maternalismo, quando non all’inganno padronale. Allo stesso modo delle «vecchie» sinistre, le nuove stentano a capire che in alcuni casi (oggi l’ambiente, l’individuazione del limite in ogni campo) gli interessi proprietari e proletari possono convergere. Come in alcune iniziative storiche di grandi industrie, colonie per bambini, residenze per anziani, spacci, assicurazioni, palazzine o villaggi operai. Alle direzioni fa comodo avere dipenden163

ti ben disposti (e in qualche caso migliorare le loro condizioni di vita è congeniale all’immagine dell’imprenditore buon padre di famiglia6). Gli operai vogliono case confortevoli e servizi utili, e ottenerli non li trasforma affatto in «servi del padrone». Alla Marzotto di Valdagno esisteva una tradizione ragguardevole di assistenza, il che non eviterà alla statua del fondatore di essere fatta a pezzi dagli operai. Nonostante tutto, nell’area delle nuove sinistre in senso lato vive una componente di cura, uno sforzo per rendere la vita meno aspra, che va al di là delle esigenze di proselitismo. In Francia e in Italia, nei primi anni settanta c’è chi mette in piedi asili – il gruppo riunito intorno alla rivista «L’erba voglio»7, gli extraparlamentari. Mercatini e ambulatori rossi – ancora gli extraparlamentari. Mense – quella dei bambini proletari di Napoli, creata da Lotta continua, è stata trasformata in asilo e esiste tuttora. Che in Italia molte femministe radicali considerino i consultori, le case protette, i centri di consulenza come iniziative assistenziali contrapposte al lavoro su di sé, è un altro segno della difficoltà a accettare una visione ampia del binomio amore/politica – come se in un consultorio passassero meno vita e riflessione che in una delle molte librerie delle donne fondate in quel periodo. Via via che si avanza negli anni settanta, via via che crescono il primato degli obiettivi sul movimento e quello dei militanti di professione sulla base, amore ridiventa una parola specializzata in relazioni sentimentali, oppure suona anomala, troppo segnata dalla soggettività. Oltre a stimolare e controllare, un buon «quadro» dirigente non deve farsi sovrastare dai casi singoli, non deve rompere le regole e la routine per un impulso. Con il che entra, lo voglia o no, a far parte del ceto politico, lo stesso esito che la nuova sinistra rimprovera al Pci; e rischia, come i quadri del Pci, di assomigliare alla caricatura del comunista che adora le masse e se ne infischia delle persone. Per fortuna al modello del militante votato alla causa generale si oppongono controspinte potenti: l’individualismo (borghese, giovanile, anarchicheggiante) che può seguire una sua gerarchia di rilevanze, l’empatia verso quanti soffrono per ingiustizie solo all’apparenza piccole. Chi non ha mai conosciu164

to una ragazzina che non aveva una stanza per sé, né un mobile, neanche un cassetto, solo una scatola in cui riporre le sue cose? Chi non ha mai pensato che valeva la pena fare la rivoluzione solo perché quella ragazzina avesse uno spazio suo? Questo genere di saggezza rimaneva in genere confinato nelle singole teste – troppo emotivo, sopra le righe e sotto la ragionevolezza. Ma è anche grazie a questo scarto dalla norma che Mariuccia Salvati ha potuto scrivere che sono due i lasciti riconducibili alla stagione dei movimenti: «l’amore (la solidarietà, la difesa del welfare, che si può tradurre anche in chiusura corporativa) e la rabbia (l’affermazione individualistica, il rifiuto di ogni autorità, ma anche la scoperta delle nuove ingiustizie della società moderna)». Spetta agli ex di quegli anni – conclude – il compito di aiutare «i nuovi Peter Pan [...] a distinguere fra mito e realtà»8.

I sud del mondo Nella geografia emotiva di questi anni, si distinguono due grandi flussi amorosi, da occidente a oriente, da nord a sud. Il primo guarda all’India, al Nepal, al Tibet – Vietnam e Cina fanno storia a sé, troppo cruciali politicamente per essere ricompresi in un insieme. Il secondo è diretto ai paesi più poveri e sfruttati. Il sud è calore, colore, mare e cielo, comunità contrapposta ai poteri burocratici, primato della natura anziché delle macchine; e sofferenza «vera». È l’alterità positiva, identificata nell’Africa, nell’America Latina – e nei sud interni a uno stesso continente o paese, a una stessa metropoli – di Torino si diceva che era la città più meridionale d’Italia, ma lo era solo in certi quartieri. L’oriente è il luogo mitico degli hippie, reso popolare dal viaggio in India dei Beatles, fatto proprio da molti (a volte ex) militanti politici. È spiritualità, mistero, iniziazione a un mondo di armonia, scintillio di templi e degli straccetti da due soldi comprati al mercato – e scoperta di cose buone da fumare, masticare, bere, aspirare. Nella modernità l’esotismo è una cifra diffusa, che aveva spinto pittori e scrittori otto-novecenteschi verso isole lontane, 165

sulle tracce dell’arte primitiva e di un rifugio dalla nascente società di massa. Ma ora basta consultare la più scarna delle cronologie per capire che dietro l’amore c’è in primo luogo lo stato delle cose. Il cuore batte per quello che si chiamava Terzo mondo, l’orizzonte delle rivoluzioni in atto contro gli ultimi poteri coloniali e le tirannidi autoctone. Solo in questa cornice scatta il cortocircuito per cui si amano il sud e l’oriente (più politicamente il primo, più esistenzialmente il secondo) come simboli e li si prende a simboli perché li si ama, fino a confondere il vero, l’idealizzato e il falso, fino a autoavvolgersi in un paradosso. I movimenti sono nati dal malessere dell’occidente, e finiscono per considerarlo meno reale del dolore provocato dalla privazione materiale. Hanno scoperto le divisioni di genere e di generazione interne al proprio mondo, e applicano ai sud una concezione organicistica della comunità, in cui sono visibili le tensioni esplicitamente politiche, non i conflitti fra donne e uomini, fra giovani e vecchi, fra singoli e poteri familiari, di clan, di etnia. Si nega così agli altri il diritto alla differenza, come fosse una sofisticatezza per soggetti privilegiati; o meglio, lo si nega alle loro componenti più deboli, le donne, i bambini, i giovani. Il relativismo culturale esisteva già, sotto forma di etnocentrismo alla rovescia. Allora non si pensava che amare in blocco potesse entrare in contraddizione con l’amore per le persone – a Gershom Scholen, che le rimproverava di non amare il popolo ebraico, Hannah Arendt aveva risposto: «non ho mai nella mia vita ‘amato’ alcun popolo, alcuna collettività [...]. Io amo ‘unicamente’ i miei amici, e la sola specie di amore che conosco e nella quale credo è l’amore per le persone»9. Non ci si chiedeva «chi è il mio prossimo», il titolo dell’ultimo libro di Adriano Sofri10, dove è posto il dilemma fra amare alcuni – per don Milani i suoi scolari – oppure il mondo intero, come avrebbero voluto i più sognatori, e fra loro Alexander Langer. «Si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio», aveva scritto don Milani alla studentessa napoletana Nadia Neri. Che – i casi della vita esistono – da grande diventerà una stu166

diosa di Hetty Hillesum, la ragazza olandese entrata in Lager con la speranza di essere un balsamo per tutte le ferite11.

Sensi di colpa, codismo E i sud interni, resi più noti e vicini dalla politica? Spesso sono la via attraverso cui torna il malessere che la nuova amicizia per se stessi aveva affievolito. Partire da sé vuol dire anche fare i conti con la coscienza di essere nati nella metà fortunata del mondo – di qui il senso di colpa, o all’opposto il rifiuto di autoflagellarsi per qualcosa che non si è voluto e che non si ha il potere di cambiare da un giorno all’altro. Dopo aver insegnato in una Freedom School, dove era normale dire alle persone di non vergognarsi di sapere poco, una attivista bianca dei diritti civili si trova a lavorare con compagni neri del sud: È tutta un’altra cosa riconoscere questa debolezza anche nei propri compagni di lavoro [...]. Tante volte ho dovuto riformulare completamente comunicati stampa o lettere scritti da uno di loro [...]. Io sono una del nord; sono bianca; sono donna; sono laureata; non mi sono «messa alla prova» in galera o rischiando l’incolumità. Ciascuna di queste cose rappresenta per loro un’accusa a mio carico. Da tempo ho smesso di vergognarmi di quello che non posso cambiare; faccio finta di non vedere oppure equivoco di proposito e palesemente gli impulsi di antagonismo che talvolta avverto in loro [...]12.

È un’offesa correggere gli errori, è paternalista non farlo? È realistico immaginare che esista la scelta giusta? Qualcuno prende atto che non ci sono soluzioni perfette, e si consola pensando che c’è solo un passo fra la delicatezza verso l’altro e il narcisismo di ritenersi così importanti per lui da doversi tormentare su una parola sbagliata. Spesso ci si fanno meno remore. Quando, a Torino all’inizio degli anni settanta, il militante L. spiega dal palco di un’assemblea che non vuol vedere Agnelli comandare sua moglie, scoppia un applauso; alla sua conclusione: «perché mia moglie la comando io», silenzio imbarazzato. L., oltre a venire dal sud, è un operaio. Rispetto all’amore per i 167

sud lontani, questo è più radicato nell’esperienza e decisamente più canonico, rivolto com’è alla classe generale (la «rude razza pagana» di Mario Tronti), che non va distratta da questioni di dettaglio tipo i rapporti familiari e le relazioni uomo/donna. A chi solleva il problema, si oppone la versione politica del proverbio «fra moglie e marito non mettere il dito»: sono contraddizioni in seno al popolo, da non forzare o invelenire. Risposta da manuale del piccolo marxista, in cui si mischiano la superficialità, la perdita del senso critico, la comodità di nascondersi dietro la classe operaia. In più, il codismo, come veniva definito un tempo l’adeguarsi alle arretratezze del popolo. Vere o no: forse L. non dava affatto ordini alla moglie, ma amava diffondere questa immagine di mascolinità padronale, forse ne era in parte prigioniero. C’è sempre il codismo negli inviti dei gruppi extraparlamentari italiani e francesi, soprattutto maoisti, a evitare abbigliamenti vistosi, troppo poveri o troppo ricchi, nella reverenza degli attivisti dell’Sncc verso le dinamiche familiari del sud – ma qui va messo in conto un altro elemento, l’amore delle ragazze per le black mamas, l’orgoglio di sentirsi accettate, addirittura presentate come «la mia figlia del nord». Che ci fosse ancora bisogno di famiglia, purché non la propria? Ipocrisia pura, invece, nell’atteggiamento sull’omosessualità della nuova sinistra quasi in blocco13. L’ossequio dei militanti al reale o presunto virilismo proletario nasconde la paura maschile di fronte a comportamenti in cui si sente una minaccia alla propria identità. Con l’eccezione parziale della Francia, le donne esitano a dichiarare il valore politico della buona alleanza donne/omosessuali così frequente nella loro quotidianità, a far pesare nelle organizzazioni i rapporti tra movimento delle donne e movimenti lesbici, tra gruppi gay maschili e femminili. Dentro Lotta continua, bisognerà aspettare il Congresso «finale» del 1976 per una rivincita sbeffeggiante: Sono Silvio, un frocio di Lotta Continua. Se avete dei problemi, magari mandatemi dei bigliettini [...]. Fra tutti verrà sorteggiata una serata premio o con Adriano Sofri o con la segreteria, a scelta, tanto 168

sia il nostro caro segretario generale che la segreteria sono di tutti i tipi e per tutti i gusti. Per ulteriori spiegazioni, comunque sono disponibile tutta la notte. A questo punto, se la natura viene imposta dai maschi come termine repressivo, è lotta dura contro natura, vero?14

Quando, a fine decennio, entreranno in Fiat nuovi operai, spesso ragazzi in pantaloni rosa e orecchini, che si divertono a fare i gay e a volte lo sono, molti si stupiranno: gli omosessuali si sono svelati in quella concentrazione maschile che è la fabbrica, e il cielo non è caduto in testa a nessuno.

Una vita da ricchi Cos’è allora l’amore dei movimenti? Un amore come altri, con i suoi limiti e opportunismi e arditezze. Peccato che si sia creduto unico, mentre lo era solo su un punto. Che punto, però: un lussuoso rimescolamento di persone classi generi ceti geografie, una comunanza forse mai realizzata prima con la stessa intensità e durata. Un imprinting per semiadulti e adulti. Racconta una ex militante: E poi mi è rimasta un’idea di fondo: che non si riesce a essere un po’ felici se si parte sempre da «io, io, io... e gli altri»: guarda, alle persone detenute, che difficilmente concepiscono l’idea che si possa fare qualcosa di «gratuito», l’unico pensiero che cerco di trasmettere è che, quando si entra nella logica di fare qualcosa anche per gli altri, si vive meglio, ci si appassiona, ci si diverte anche, si è meno schiavi delle proprie piccole insoddisfazioni. Ecco, per me Lotta Continua è stata una fucina di passioni, anche sbagliate, per carità, ma comunque io credo che senza passione non si trasmette nulla agli altri. E, nonostante tutto, anche il senso critico mi arriva da lì, da certe feroci battaglie culturali delle donne per dire basta alla violenza, da qualsiasi parte venisse15.

Quando ci si appoggia alla memoria bisogna mettere in conto una possibile idealizzazione del passato. Ma il ricorrere del termine «passione» contribuisce a descrivere un altro aspetto, il primato delle relazioni sulla pedagogia. Più che la mitizzazione del sud lontano, in questo scambio di priorità contano la fre169

quentazione dei sud vicini, la voglia di imparare da loro, l’empatia reciproca. Viene essenzialmente da qui un’eredità condivisa da parecchi ex, donne e uomini, insegnanti, operai, impiegati: la capacità di creare legami e linguaggi comuni negli ambienti più diversi, da una riunione scolastica a un’assemblea, da un campeggio a una discussione di partito. Senza teorizzarlo, si era creato in proprio quel che di solito viene insegnato alle ragazze dalle madri borghesi e non, il mestiere sociale, l’intelligenza delle situazioni. E viene sempre dalla comunanza il modo in cui l’affettività vive in tante memorie – come la cifra di un tempo in cui si è stati molto ricchi, più di quanto sia mai capitato in seguito.

Oppressi meritevoli e non In ancien régime, le istituzioni caritative distinguevano fra «poveri vergognosi», caduti in miseria in seguito alle trasformazioni economico/sociali, dunque meritevoli di aiuto, e poveri «devianti», accattoni, vagabondi, piccoli delinquenti, che venivano espulsi dalla società. Una distinzione simile rispunta nei movimenti, applicata agli oppressi e ai senza potere. Stavolta al polo negativo sta la borghesia minuta degli impiegati, delle commesse, delle segretarie, dei piccoli commercianti e artigiani, un insieme sociale che spesso si trova in bilico sull’orlo della proletarizzazione e fa di tutto per tenersene fuori, per conservare il decoro e la rispettabilità. Che ai movimenti non piaccia è ovvio, e non è una novità. Sempre caro ai governi e ai nazionalismi, il ceto medio, la «non classe» sospesa fra le due principali, è stato (caso unico nella storia) oggetto di disprezzo fin dalla sua comparsa e prima ancora che si fosse stabilizzato politicamente. In Le domeniche di un borghese di Parigi, Maupassant identifica il borghese con l’impiegato ministeriale languente e implorante in attesa dell’aumento, senza mai un soprassalto di indignazione o di protesta16. Per i socialisti il buon impiegato era quello che si trasformava in alleato della classe operaia. Per Virginia Woolf, che come molti scrittori e artisti riteneva esistesse una intesa spontanea fra intellettuali e proletari, fare visita a una famiglia 170

di ceto medio era una tortura estetica. L’antipatia è ricambiata con la provocazione del «parla come mangi», che pretende di sottomettere a una mitica naturalità anche l’argomento più delicato e complicato. Se si ribellasse, il piccolo-borghese entrerebbe nella schiera dei meritevoli; con la lotta lo diventano tutti, eccetto i notai, i grandi commercianti e i banchieri. Ma nel frattempo? Solo da pochi anni i partiti comunisti europei avevano cominciato a puntare l’attenzione sui ceti medi, prima ritenuti un serbatoio di voti moderati e il motore della maggioranza silenziosa. Irrecuperabili. Eppure, c’era qualche ragione per cui i movimenti avrebbero potuto interessarsene. Primo, una parte consistente dei militanti veniva dalla piccola borghesia, e voltandole le spalle non faceva che riprodurre un vecchio cliché – lo stesso Maupassant era un ex impiegato ministeriale – invece di usare la conoscenza diretta per costruire un discorso politico. Secondo, negli uffici la gerarchia era lontanissima dal tracollo subito in fabbrica, mentre con la crisi del ’73 molte famiglie avevano dovuto ridurre i consumi, rinunciare a progetti di miglioramento. Se la tesi della lunga marcia attraverso le istituzioni non avesse ceduto all’operaismo, sarebbe stato il momento di metterla alla prova. Terzo, e più importante, il femminismo stava dimostrando proprio in questi anni che nel ceto medio esistevano un’area e una capacità di dissenso. In nessun paese sarebbe stato concepibile un movimento di massa delle donne senza insegnanti, impiegate, studentesse, lavoratrici del terziario. Era lo stesso spaccato sociale in cui aveva trovato più ascolto il femminismo fra ’800 e ’900, quando per una donna essere di ceto medio era stata una chance, l’opportunità di studiare, lavorare, costruirsi un’autonomia economica e mentale. Rinfacciare a un movimento di non essere ecumenico è un controsenso. Ma qui si tratta, prima che di linea politica, di sensibilità. O della sua mancanza, che impedisce di capire come l’ostilità non poggi solo su motivazioni di classe. L’«impiegatuccio» – rotella minima dell’ingranaggio burocratico, esecutore di mansioni ripetitive, ma non manuali, preda della logica gerarchica – è l’antitesi della mascolinità apprezzata nei movimenti, ribelle, pa171

drona di se stessa. Il pensionato statale, che va al mercato subito prima della chiusura per comprare a poco prezzo i resti, è invisibile perché i militanti si identificano nella rivolta, non nella tristezza della povertà mascherata. I vecchi, i rassegnati, gli sconfitti senza combattere – è come se vivessero in un altro mondo.

Amore, odio «Dentro quelle riunioni la principale tensione era quella rispetto alla vendetta; e cioè su quanto e come bisognava far pagare il costo di quella morte. [...] Su questa cosa di Walter c’è ancora adesso un gruppo di compagni che si vede apposta, solo per capire chi è stato a ucciderlo... e non fanno nient’altro». Walter è Walter Rossi, il ragazzo romano ucciso da un gruppo fascista il 30 settembre 1977. A raccontare è un amico, militante del movimento romano, intervistato da Marco Lombardo Radice e Marino Sinibaldi l’anno dopo17. Il discorso continua: Invece quelli della lotta armata organizzata simboleggiano tutto quanto l’attacco al sistema capitalistico in un personaggio: per esempio Moro [...] o quell’altro come procuratore generale [...]. Qui c’è dunque l’esempio di due modi diversi di rapportarsi col problema, uno accetta e l’altro rifiuta di simboleggiare il nemico. [...] Rispetto a Walter, non mi interessa colpire un fascista in quanto tale, ma colpire il fascista che l’ha ucciso.

Lo scarto fra i due modelli è reale, e, anche se il ragazzo non lo dice, si gioca nel rapporto con le vittime. Nel primo caso sono a loro volta ridotte a simboli della morte ingiusta, e i simboli vivono di vita riflessa e solo nella sfera pubblica; non si amano, si glorificano. Nel secondo restano persone, care e vicine, con le loro storie politiche e personali, con la loro individualità anche nella morte – il che impedisce di trasformare in simboli anche chi le ha uccise. I colpevoli non sono intercambiabili, ecco perché si cerca «quel» fascista, non «un» fascista. Circolava in quegli anni la forma mentale secondo cui all’amore per gli oppressi deve corrispondere altrettanto odio per gli op172

pressori. In una sorta di contabilità del dare e avere, quel che il mio amico e compagno ha sofferto deve essere ricambiato proporzionalmente. Il ragazzo la pensa così. Ma misurare l’odio sull’amore è una pulsione che tutti prima o poi sperimentano, e che ha una storia lunga. Nelle lotte popolari, i due sentimenti camminano insieme. Nei totalitarismi sono le massime armi emozionali della pedagogia di Stato per creare la tensione permanente necessaria ai regimi, le basi senza le quali la costruzione amico/nemico non reggerebbe. È sul binomio amore/odio che si fa leva quando si assimilano soggetti e gruppi a sanguisughe, maiali, avvoltoi, pidocchi, cani rabbiosi. Gruppi, appunto – gli ebrei nel Terzo Reich e in Italia, i kulaki in Unione Sovietica. L’odio si distribuisce per linee di appartenenza, i «nemici» non hanno bisogno di fare niente per attirarselo, basta che esistano. Allo stesso modo, l’amore del capo va a grandi realtà senza volto, le masse, la patria, il popolo, il partito, e l’amore dei senza volto va al simbolo che il capo rappresenta. In questo universo impersonale persino l’odio degli aguzzini può diventare un di più. Ammazzare, un lavoro come un altro. La vittima, un numero. Nella tradizione anarchica, l’odio torna invece agli individui, l’autorizzazione a colpire sta nel male che hanno inflitto in prima persona, la spinta è l’amore per quelli che l’hanno subito. La violenza arriva così a sembrare necessaria, sugli attentatori – reali, inventati a tavolino dalle polizie – si stende un’aura di innocenza perseguitata, una capacità di commuovere estranea al militante di partito e invece connaturata al calzolaio Sacco e al pescivendolo Vanzetti. È una distinzione sommaria, un frammento di ideologie ponderose e ambiziose. Nella realtà le pratiche si sono mischiate, i modelli attingevano l’uno all’altro. Per di più, nei movimenti non arrivano da una trasmissione diretta, piuttosto da un tasso emotivo così forte da far apparire naturale il vincolo amore/odio, che l’anticolonialismo di Fanon e di Sartre e gli appelli delle Pantere nere rafforzano. A passare non è tanto la versione comunista quanto quella anarchica, la più vicina alla mentalità (o a una mentalità) di allora. Perché non guarda al potere, non pretende di riforgiare l’umanità con la violenza, non giustifica il sangue in no173

me di un domani radioso – il rimando al futuro attecchisce poco fra i giovani. L’atto si consuma nel presente, contro responsabili individuati o che si crede di aver individuato. I ragazzi che si incontrano per scoprire l’assassino dell’amico assomigliano poco al militante duro, puro, disciplinato, e molto ai «congiurati» anarchici. Sparare a Umberto I per vendicare gli uccisi durante i moti del pane del 1898; fare di Luigi Calabresi il bersaglio di una campagna violentissima in nome di Pinelli; ferire uno psichiatra accusato di usare l’elettroshock per punire i ricoverati scomodi, sono azioni che non hanno niente in comune. Ma forse si incontrano nel meccanismo originario, la convinzione insidiosissima di dover risarcire un dolore e tener fede a un affetto. Ancora Hannah Arendt aveva risposto a Gershom Scholen, che esaltava il «tatto del cuore», l’Herzenstakt: «il ruolo del cuore in politica mi sembra del tutto contestabile»; si riferisce alle emozioni esibite e usate per dissimulare la verità dei fatti. Ma aggiunge che la pietà ha un ruolo importante nella genesi del carattere rivoluzionario – e non è un giudizio positivo18.

Dall’amore di sé al conformismo Il 18 dicembre 1971, una trentina di ragazze fra i 13 e i 17 anni, ospiti del Centre du Plessis-Robinson per minorenni incinte, si ribella alla disciplina insensatamente dura, vuole più libertà, un nuovo statuto giuridico, asili nido per poter allevare i bambini, un lavoro, una casa. Chiedono solidarietà. Le donne del Mlf si precipitano, mobilitano la stampa e i fotografi, fanno da cassa di risonanza alle domande delle ragazzine: perché se restano incinte sono cacciate da scuola e nascoste a casa o in una istituzione separata? Perché il ministero della Pubblica istruzione non dice niente, i genitori si fanno complici? Come mai le si considera troppo piccole per decidere se tenere il bambino, ma abbastanza grandi da essere giudicate colpevoli? L’opinione pubblica scopre la crudeltà della legge, la stampa passa dallo scandalo all’appoggio, la lotta diventa il simbolo dell’oppressione delle donne. In tre giorni, una delegazione è ricevuta al rettorato che accetta le rivendicazioni immediate, in due settimane è varata una nuova leg174

ge, in cui tutte le discriminazioni contro i figli naturali sono cancellate. Il caposaldo giuridico che fa del matrimonio l’unica fonte della filiazione legittima sparisce19. Come si fa a non innamorarsi delle ragazzine ribelli, delle proprie compagne e amiche, di se stesse? Che ci sia autocompiacimento è naturale, del resto nessun movimento potrebbe nascere senza l’amore di sé. Nel ’68 è un’esplosione di affettività collettiva. La descrizione migliore viene da Laura Derossi: «fra le persone non c’era nessun eros, perché l’eros riguardava la comunità», quasi una famiglia allargata, una tribù vacanziera in un campeggio senza istruttori. «Dentro le rotture non c’era solo il bisogno di libertà, ma anche quello di ricostruire e ricompattare strutture di sicurezza, attraverso i legami della comunità o della tribù»20. Diego Marconi racconta: Mi ricordo una sera in cui c’era il comitato di agitazione, coincideva con la cena e allora si doveva apparecchiare la tavola lì, in un’aula. Si è apparecchiata la tavola e qualcuno si è messo a cantare, e tutti si sono messi a cantare: «Nostra patria è il mondo intero», e intanto preparavano le cose, scodellavano la pasta ed era un momento molto bello21.

Infatti ci si muove in branco, si mangia negli stessi ristoranti a prezzo minimo, si parla lo stesso gergo, le ragazze si scambiano i vestiti, pochi e poco costosi. Nella versione movimentista del poverismo è legittimo spendere per una bella cena, molto meno per un abito. Del resto la diffusione rapidissima della divisa jeans/maglione taglia il problema all’origine. Con la loro ricerca di relazioni autentiche, le comuni sono il punto più alto di questo modo di vita, e insieme il più basso – spesso si spengono per stanchezza oppure deflagrano per gelosie, per questioni di soldi e di distribuzione del lavoro domestico, per divergenze sull’allevamento dei bambini, per bisogno di un minimo di privacy. Quando nascono in Italia e in Francia i gruppi extraparlamentari, la comunanza resta, ma si approfondisce la suddivisione per appartenenze politiche che già esisteva prima del ’68. Negli scontri interni alla nuova sinistra, la voluttà di sentirsi i mi175

gliori conta almeno quanto i contrasti di linea. Il che, in tempi diversi da paese a paese e da gruppo a gruppo, contribuisce a logorare il legame con la realtà. Si guarda il mondo e si vede l’organizzazione. Il terreno è pronto per quel che nel ’68 se ne stava in relativo letargo nel nido caldo dell’euforia: il culto del capo, il conformismo. Uno dei leader più amati e seguiti di quegli anni ha raccontato che a volte nelle cene di gruppo le sedie accanto alla sua restavano vuote, e toccava a lui chiamare qualcuno22. Dietro il balletto dei posti, doveva esserci una consapevolezza acuta di quanto siano delicati i rapporti amore/potere, potere formale/potere informale. E il timore che la prossimità affettuosa fosse vista come una manovra laterale per guadagnare influenza. Lo sguardo dei propri simili e affini era più costrittivo di quanto piacesse ammettere. Il conformismo nasce anche così. Prima si apprezza la buona ventura di fare le cose che piacciono insieme alle persone che piacciono, di capirsi all’istante, ci si crogiola nell’orgoglio della propria eterodossia contrapposta al conformismo del resto del mondo. Finché si scopre che la componente identitaria della politica è cresciuta a dismisura, che l’uniformità è diventata di casa, con nuovi obblighi e divieti, il suo gergo, i riti, la fissità dei ruoli, l’allontanamento dei «diversi». Come altri prima di loro, i giovani di quegli anni sperimentano due verità scomodissime. L’amore non previene il conformismo, e la consapevolezza del conformismo non cancella l’amore. Fare sberleffi è facilissimo, il problema è farli a chi si ama. I femminismi giocano la partita più difficile, perché, a differenza degli altri movimenti, colgono il problema della dipendenza. Una cosa è il piacere giocoso di rassomigliarsi e di fare le stesse cose, persino il lavoro ai ferri, nuovo per molte – vietato il sarcasmo: la vita delle donne, ha scritto Giuliana Tedeschi riferendosi alle prigioniere di Auschwitz, «è come una maglia i cui punti sono solidi se intrecciati l’uno all’altro; ma se il filo si recide, quel punto invisibile sfugge fra gli altri e si perde»23. Altra cosa è sentirsi sperdute in assenza della leader, come appaiono a Maria Schiavo24 le donne di Psychanalyse et politique senza 176

Antoinette Fouque. Oppure tacere per paura di essere giudicate dal collettivo, che ha regole non sempre decifrabili, e parole d’ordine che lo sono in senso letterale, indispensabili per essere ammesse. Oppure lasciare che nasca un gergo per iniziate, vecchio vizio europeo non abbastanza contrastato. Ancora oggi, almeno in Italia e negli scritti di storia delle donne, capita di incontrare prima o poi, nel posto appropriato o no, parole sgraziate che ripetono concetti noti, e che hanno lo scopo principale di attestare una appartenenza. Qualche donna leader ha pagato a caro prezzo questo clima. Poteva primeggiare per la semplice forza intellettuale, rimpicciolirsi precauzionalmente, spendersi per il gruppo: si trovava comunque accusata di soffocarlo. Raccontando nel Diario la sua traversata nel femminismo, Carla Lonzi si espone come nessun’altra, nel profondo, in superficie, nei fili e nei vuoti che corrono fra presente e passato. Nel frattempo una ex del suo gruppo si ornava in tv delle idee di lei.

«Puer aeternus» Alla facoltà di Sociologia di Trento, primavera 1968, gli studenti entrano in aula portando al collo catene sempre più grandi; il rettore Francesco Alberoni va al consorzio agrario a comprarne una da bue, gigantesca, e se la mette: «Ehi, direttore, ma cosa fai?». «Siccome sono il vostro rettore allora devo averla per forza più grande di voi»25. Stesso periodo: Pietro Nenni, a Torino per un incontro pubblico, trova la sala zeppa di giovani che soffiano verso il palco una marea di bolle di sapone – non a tutti piace ricordare di aver partecipato, e già allora non tutti approvavano certe aggressioni verbali e grafiche contro i docenti. Sempre a Torino, un giorno qualsiasi, un gruppetto di buon umore sale sui tetti, ci cammina, si siede a ridere e chiacchierare. Cose da bambini. Poi ci sono i girotondi, gli scherzi reciproci, le beffe alle autorità, l’irriverenza. Di nuovo, come fanno i bambini. È il puer aeternus, il fanciullo mitico/magico, che abita i singoli e i movimenti e che si è conservato un angoletto nella testa di molti ex – chi chia177

ma la marijuana «l’erba del nonno» allude a questa continuità fra i ragazzi di ieri e gli anziani di oggi. Forse nessuna epoca è stata più propizia al puer. Nella cultura del XX secolo la giovinezza è un valore che si ama, si odia, si invidia, si imita, si vende sul mercato degli oggetti e delle idee. Ovvio che sia un valore per chi giovane lo è davvero e per di più lotta contro l’autorità adulta. Come si fa a non lasciarsi catturare dalla società dello spettacolo, che fagocita ogni cosa e offre a chiunque un quarto d’ora di notorietà? I movimenti sembrano scegliere il teatrale, con i suoi artifici e la sua autonomia, in questo simili (solo un po’) agli artisti che usano la provocazione, la mascherata, l’osceno, il disgustoso per bucare il sistema di comunicazione. «Eravamo attori e avevamo un grande pubblico. Eravamo sulla scena e gli altri, anche della nostra stessa generazione, ci osservavano», racconta una ragazzina di allora, Eleonora Ortoleva26. Le assemblee, i sit-in, la pecora sul palco di Miss America, i cortei con la parata di bandiere e striscioni, il folklore dei servizi d’ordine sono scene di teatro politico in parte ricalcate sulla «vecchia» sinistra, in parte nuove, dettate dal puer. C’è il suo segno nella convinzione di avere davanti un tempo infinito, e nella fretta spasmodica di veder realizzati i propri sogni, nella sensazione di essere immortali e nel corteggiamento della morte. Si corre, ci si spende, ci si spreme come se mancare una scadenza fosse una catastrofe, e come se si attingesse a una sorgente di energia senza fondo. Ma l’aura del puer va al di là dei movimenti politici. Nascono in questi anni gli «angeli» dell’alpinismo estremo, che arrampicano in scarpe da tennis e attrezzatura minima. Sulla scia della Beat generation, molti provano di tutto, discipline orientali, religiosità new age, spiritualità sciamanica – e acidi, droghe di ogni tipo, cocktail di farmaci, alcol. Si cerca di ampliare la propria percezione del mondo, si finisce a strisciare in un vicolo. Quante morti per overdose nel mondo del rock soprattutto americano, da Presley a Janis Joplin, da Jimi Hendrix a Nico a Jim Morrison l’innamorato della letteratura beat e di Rimbaud27. Morti solitarie, fra sbocchi di vomito, sudori ghiacciati, spasmi, escrementi, ma romanticizza178

te nel culto giovanile. Parlando di Presley, Portelli suggerisce che a trasformare il corpo adolescenziale in una montagna di grasso abbia contribuito la fatica di reggere la tensione fra rabbia, violenza, anticonformismo e le regole dello star system28. Probabile, importante. Ma vale per chiunque la difficoltà di essere giovani in un mondo dove sono a portata di mano esperienze estreme che non si sanno padroneggiare. Perché, a dispetto delle illusioni di Cuori in Atlantide, non si è affatto impastati di materia stellare. È la faccia funerea del puer, speculare alla deriva narcisistica, allo scivolamento dalla vitalità al vitalismo all’obbligo di irradiare un’immagine di gioia – come se non ci fosse più spazio per la malinconia29. Oggi sembra poca cosa, paragonata al dogma della lietezza che si vede incombere su alcune manifestazioni del nuovo secolo – dei gay, dei pacifisti, in Italia delle famiglie coniugali contrapposte alle convivenze. Ma la rappresentazione della felicità era troppo insistita per non sospettare un legame con la legge dello spettacolo.

E chi non era giovane? Viene dal puer anche il cortocircuito giovinezza/integrità/politica attraverso cui si guarda al mondo, vedendone solo la parte con cui c’è affinità. Di qui certe profezie che scambiano realtà circoscritte per tendenze generali, certe sopravalutazioni del proprio raggio di influenza, come se la formula chiave del proselitismo – fa’ la mia stessa scelta – fosse applicabile ovunque o quasi. Non è così. Ci sono in quegli anni una precarietà, e una retorica della precarietà, che contribuiscono a allontanare chi già è più lontano perché ha famiglia, è vecchio, non ne può più di portarsi la vita in una borsa, ha bisogno di un minimo di ordine e di programmazione. Qui l’universalismo si rivela davvero striminzito, e lo diventa ancora di più se si pensa all’ottusità nei confronti del limite fisico. Nelle università occupate, nelle assemblee, nelle sedi di movimento non si vedono sedie a rotelle, bastoni bianchi, apparecchi acustici, ausilii ortopedici. Non ce n’è. Ci sono le stam179

pelle di chi è caduto in motocicletta – l’invalidità temporanea non fa paura. C’è una tenerezza protettiva per chi è rimasto menomato in uno scontro con la polizia, o per i rari anziani che si legano alle organizzazioni e condividono quel modo di vita – si può essere giovani ad honorem. Eppure, nonostante questo rapporto diretto con corpi fragili, manca il passaggio alla politica; come in una famiglia, ci si prende cura del proprio disabile, anziano, malato: ecco tutto. Paradossalmente, sono più accoglienti i giovanilisti per eccellenza, gli hippie, con i loro ritmi di vita lenti, la loro estraneità allo spirito belligerante, l’ecumenismo apatico/empatico. Se oggi si incontra un signore anziano con il codino, 90 volte su 100 è un hippie che continua a sentirsi tale a dispetto dell’età. Il solco fra «normalità» e handicap, fra giovani e vecchi, aumenterà con il passaggio a forme di lotta sempre più agonistiche. È la faccia peggiore del giovanilismo, in cui l’amore di sé si glorifica nell’esclusione degli altri – antico modello. Che il puer fosse razzista senza saperlo è stata una scoperta successiva. Certo, i temi dell’handicap e della vita anziana allora non erano in primo piano. Per di più dominavano le tesi emancipative, secondo cui la disabilità è un nemico contro cui battersi a beneficio dell’integrazione o di un’autosufficienza orgogliosa – il ragazzo di Stephen King che corre rabbioso sulle sue stampelle rifiutando ogni aiuto. Ma quando si è parlato di immaginazione al potere, ci si aspetta uno scatto di fantasia, uno sguardo a lunga gittata. E se ne trovano pochi indizi, anche se lo scarso interesse degli storici per il tema può averne ignorato qualcuno. In Italia, intorno alla metà degli anni settanta, l’handicap comincia a essere visto politicamente e Napoli diventa sede della prima protesta organizzata degli invalidi. Ma è soltanto un nuovo settore di intervento che si aggiunge agli altri. Anche se il narcisismo giovanilistico può ammettere al proprio fianco l’imperfezione, non concepisce di esserne modificato, esattamente come il mondo adulto. Anni fa, la rivista «diario» ha dedicato ai protagonisti della stagione dei movimenti un fascicolo in cui se ne raccontava brevemente la vita – iniziativa giudicata riprovevole da molti, quasi che altri soggetti politici non si fossero creati i loro dizionari 180

biografici. Titolo: La meglio gioventù30. Citazione del film di Marco Tullio Giordana, certo. Autoironia, sicuramente. Ma proprio nessun residuo del narcisismo di allora?

Eros Rivoluzione sessuale non voleva dire più sesso, voleva dire più libertà di scegliere come, quando, con chi farlo. Bisogna cominciare con questa ovvietà, perché nelle varie vulgate si parla, più che di libertà, di ragazzi all’arrembaggio, ragazze improvvisamente disponibili, amori a tre o più, girandola di partner – e delle scopate senza cerniera di Erica Jong e dei grezzi delicati Porci con le ali31. A seconda dei punti di vista, amori facili e felici, oppure débauche e prevaricazione. Ma quali punti di vista? Se sparisce il tema della libertà, sparisce ogni criterio sensatamente laico per capire quegli anni, e storie complicate, drammatiche, buffe, si disperdono nel caleidoscopio di corpi variamente assemblati cui viene ridotta l’esperienza. Qualcosa di utile si può comunque dire. Che la pillola, commercializzata nel 1960, segna una svolta epocale, ma non porta di per sé la libertà, come fanno notare da subito alcune femministe. Porta piuttosto una maggiore tranquillità, visto quel che è costato alle donne non poter padroneggiare il rapporto sessualità/procreazione; e crea insieme qualche ansia per i rischi connessi all’uso di ormoni. Ci si sposava di meno, ma alcuni lo facevano in chiesa per non dare un dispiacere ai genitori. Si facevano meno figli e più tardi, i rapporti sessuali erano più sciolti, la monogamia non era più un valore, né la verginità femminile e maschile. O quasi: in molti ambienti lo rimaneva, e la libertà era un miraggio. Sono indicatori importanti, che ovviamente non danno conto dei dubbi, delle fughe in avanti o all’indietro, della paura di sbagliare tutto. La famiglia di cui non si vuole più sentir parlare incarna un modello di eros – monogamico, impegnato, procreativo – molto più resistente di lei. Al polo opposto il libertinaggio, vecchio di due secoli, e il sesso predatorio/aggressivo, vecchio di millenni. In mezzo il vuoto, e proprio in questo vuoto si muovono molte persone giovani, convinte di poter costrui181

re rapporti interamente nuovi. Non il libero amore della rivoluzione di ottobre ai suoi esordi, che riduce al minimo l’ingerenza dello Stato a favore della responsabilità personale – e fallisce. Ma amori liberi dalla possessività, dalla gelosia, dalla routine. E non aridi o ginnici, come invece racconta questa improbabile Eleonora Ichx, nel diario del suo anno «vissuto da capellona»: È bene chiarire subito che il capellone concepisce solo l’amore «fisico». Ogni altra forma di amore, sia esso platonico od espresso in forma romantica, inteso cioè come spiritualità, per lui non ha senso; è, per dirla con le parole stesse di un capellone, «una stucchevole e barocca cornice a quella grande e piacevolissima sensazione che è l’amore fisico». [...] Niente corteggiamenti, approcci, paroline dolci e sdolcinate! Egli arriva subito al sodo, tanto che appare a chi lo osservi [...] perfino brutale. [...] si giustifica affermando che nel comportamento umano quello che conta è il lato istintivo, i sensi32.

C’era molto da disimparare e da imparare, essendo il nuovo più che mai mischiato al similnuovo e al vecchio. In una della sue canzoni più famose, il Presley del ’56, il teppista, chiede all’innamorata di non permettergli di abbandonare il suo mondo: «love me tender, love me sweet, never let me go». È uno spiraglio sull’oscillazione tra sfrenatezza e desiderio di pace, fra randagismo e domesticità. Detto con una canzone italiana degli anni sessanta: «non so più se mi manca di più / quella carezza della sera / o quella voglia di avventura». In Via del campo, Fabrizio De André affida la sua vocazione per l’amore universale alla puttana/bambina/graziosa, e al suo mondo: «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior». In Boccadirosa canta la donna di tutti, che «lo fa per passione», per «soddisfare le proprie voglie». De André è uno dei più innovativi fra i cantautori, un appassionato dell’anarchico Brassens, eppure Boccadirosa racconta l’eterno sogno maschile della puttana innamorata, che riecheggia quello ancora più maschile e letterario di Vittorini in Conversazione in Sicilia33: una grande madre che sfama, disseta, dà asilo al soldato e infine gli offre il proprio corpo. Alle spalle degli «uomini liberati» dell’Sds, del loro bisogno di pupe al passo coi tempi e senza pretese di devozione, svolaz182

za Don Giovanni. Più il topos del riposo del guerriero. Più lo stereotipo del rapporto principale/segretaria. Per le ragazze c’è il modello prestigioso di donna del capo, quello della brava compagna senza complicazioni, della guastafeste se dice no. E c’è l’innamorata, perché il principe azzurro vive ancora. Chi vorrebbe dire sì, ma rifiuta in odio al potere, assomiglia a un’eroina vittoriana, con la differenza che non rinuncia per difendere la propria virtù ma per dispetto. Qualcosa si impara e si disimpara. Nel movimento per i diritti civili, molti ragazzi neri, più liberi dal modello di bellezza levigata e filiforme delle classi medie, corteggiano le ragazze meno appariscenti, che ne sono lusingate. Ne nascono unioni felici e collaborative, come più tardi negli altri movimenti. Del resto, non tutte le donne vogliono devozione, alcune preferiscono rapporti da pari a pari, qualcuna pratica il vagabondaggio erotico, pietra tombale sul modello moderato e monogamo dell’emancipata. Può essere dongiovannismo femminile, bisogno di accumulare amore, teoria del «perché no?», caccia a ruoli scambiati. E illusione di vendicare altre donne e guadagnare più forza per tutte, come se la libertà fosse un assegno che si può girare a piacere. A volte è un desiderio irrefrenabile di non avere vincoli, oppure la letale «tirannia dell’anti-norma», che impone il massimo distacco dal «nemico» sul piano emotivo (se proprio non si può farne a meno su quello fisico)34. Sono modelli che ciascuno manipola a suo modo – le variazioni combinatorie non esistono solo in letteratura. Non poche femministe rompono i rapporti con i loro compagni, un gruppo lesbico francese accusa le eterosessuali di collaborazionismo. Nei movimenti omosessuali, le dispute riguardano esplicitamente i modelli di eros – una tranquilla monogamia oppure il sesso da bar, da giardinetti, da feste, e il modo di presentarsi – la giacca e cravatta dei professionisti, il glamour e i baci dello stile gay. Quando alcune femministe italiane parteciperanno agli incontri di Psychanalyse et politique, rimarranno sconcertate dall’erotismo aperto delle francesi35. A rendere ancora più complicata questa fase di turbolenza, l’ideologia secondo cui la libertà delle donne si misura sul loro 183

grado di disponibilità sessuale. Equivoco non nuovo. In quegli stessi anni settanta uno storico ottimista e progressista, Edward Shorter36, aveva notato che fra la metà del ’700 e la fine dell’800 era molto cresciuta la percentuale di illegittimità, e aveva attribuito il dato a una rivoluzione sessuale guidata dalle giovani operaie, ex contadinelle che abbandonavano la castità di un tempo per saltare di letto in letto e di gioia in gioia. Tutto grazie al lavoro di fabbrica: la libertà era effetto del salario, l’illegittimità era la sua dimostrazione. Peccato che la storia fosse diversa: emigrate in città, le ragazze non potevano più contare sulle reti della parentela, della comunità e della Chiesa, che in passato avevano garantito lo sbocco del corteggiamento nel matrimonio. E restavano sole con il bambino. Anziché un segno di autonomia, l’illegittimità era la conseguenza di matrimoni sperati e mancati; e le operaie non assomigliavano affatto agli esseri voluttuosi, allegri e edonisti descritti dal romanticismo storiografico. Tesi saggia e documentata37, se non che Shorter è troppo preso dal sogno di un’amante giovane, sensuale, poco impegnativa per capirlo.

Se sei libera veramente Nei movimenti circolava la formula: «Non vorrai dirmi di no, se sei davvero libera [e/o intelligente indipendente brava compagna]». Parole interessanti per la storia delle mentalità maschili. Perché soppiantavano il vecchio «non puoi dirmi di no se mi ami veramente», su cui si erano angosciate tante corrispondenti di Le Italiane si confessano38; e perché segnavano la rinuncia, autopunitiva per tutti, al gioco del corteggiamento e della seduzione. L’argomento non funzionava sempre, ma spesso sì, soprattutto se il maschio si era coperto di gloria in uno scontro con la polizia, aveva talento per l’oratoria da assemblea, un posto nella dirigenza, un ruolo di operaio d’avanguardia. Il potere non perde il suo fascino da un giorno all’altro. Il corollario era che fare l’amore non implicava affatto un impegno stabile: educate a tenere uniti sesso e amore, le ragazze venivano caldamente invitate a separarli. Con la crescita del femminismo, qualcuno so184

sterrà che ormai toccava alle donne, specie se autorevoli, prendere l’iniziativa per risparmiare ansie ai compagni in crisi. Non bisogna immaginare pressioni pesanti, o una strategia generalizzata. Se non c’era desiderio, si poteva tranquillamente rifiutare; si poteva rifiutare anche se si pensava che sesso e amore erano cose complicate e delicate – ma questo lo si diceva di rado. E neppure bisogna sopravvalutare il posto delle relazioni sessuali nella vita collettiva. Contrariamente a uno stereotipo infrangibile, nel ’68 il sesso non era una priorità, e negli anni settanta non tirava aria di libertinaggio. Resta il fatto che dire di no non era facile, in particolare per le più giovani, che magari sentivano di avere qualcosa da dimostrare a se stesse e agli altri; che a volte finivano per essere più realiste del re. Ricordo lo sbalordimento di un amico per il fatto che una ragazza, dopo aver passato la notte con lui, la mattina dopo l’aveva guardato come un perfetto estraneo. Cosa non si fa per proteggersi da possibili delusioni. In Amati amanti di Marisa Rusconi39, si incontra per frammenti uno spaccato di generazione che ha creduto nella libertà sessuale e affettiva e ha cercato di praticare una morale nuova, spesso pagandolo caro – salvo chi la usava per chiudere la bocca ai recalcitranti: «Ma sei ancora a questo punto?», dove il punto era volere un compagno, una compagna o una casa solo per sé, un padre o una madre presente per un bambino, un corteggiamento romantico. Quante ragazze si sono trovate a dover erogare dimostrazioni di «autonomia». Quante sciocchezze si sono compiute in nome della mitica verità da dire sempre e comunque. Per fortuna c’erano i discorsi fra donne, perché delle vicissitudini Sartrede Beauvoir, che avrebbero incoraggiato più persone a parlarne, si sapeva poco. Fra le critiche al sessantotto, questa è sensata, anche se dimentica fattori di medio periodo come la secolarizzazione e la minore dipendenza economica delle donne. E il biologo americano Alfred Kinsey, capofila della critica alla morale tradizionale. E «Playboy», che contribuisce a divulgare una idea di felicità come frutto della liberazione degli istinti40. Il fatto è che la «rivoluzione sessuale» si dipana in forme impreviste, sconnesse, spurie, che si lasciano irreggimentare solo in 185

parte nel conformismo di gruppo, e che ancora improntano la memoria. Come si intuisce da questo dialogo fra cinque amici di diverse provenienze politiche, con la regia di Alberto Papuzzi: M.N.: «I rapporti di coppia erano del tutto liberi come non sono più stati. Si viveva in una specie di famiglia allargata e capitava di avere simpatie per persone diverse da quelle con cui si conviveva senza che questo provocasse troppi traumi. Almeno questa era la percezione che ne avevamo allora». L.D.: «In realtà era un carnaio». M.N.: «No, ti confondi con dopo. Ti confondi con il ’72. Prima non c’è stato nessun carnaio». A.B: «C’era una finzione di libertà. Era proibito non essere liberi». L.D.: «Era proibito essere emotivi». M.N.: «No, questa mi pare una menzogna». E.O.: «Forse certe cose non le rifarei, ma non rinnego niente. È vero che si andava a letto di qua e di là perché vigeva per le ragazze una specie di doverismo, nel senso che bisognava mostrarsi libere. Però faceva parte della sperimentazione liberamente accettata». L.D.: «Pur avendo partecipato al carnaio, io mi sono difesa bene perché ero un po’ ‘bigotta’, ma ho passato serate sui pianti delle ragazze, perché la gelosia era proibita, perché non bisognava essere possessive, perché non era tollerato il malessere, perché bisognava essere all’altezza». A.B.: «C’era il rischio perenne che la libertà delle donne venisse misurata sulla disponibilità sessuale». M.N.: «Ma non c’era alcun ricatto!». E.O.: «Era l’ideologia che si va a letto con chi ti pare». A.B.: «Non proprio. Il più delle volte andavi a letto non con chi pareva a te, ma con chi pareva a lui». M.N.: «Non nego che le ragazze ci abbiano rimesso più di noi. Ma anche gli uomini hanno sofferto». A.B.: «Gli uomini del Sessantotto non hanno capito che ci voleva più coraggio da parte nostra a dire di no che di sì. Anche nel sistema di famiglia allargata ideologizzato dal Sessantotto l’uomo restava anche un nemico. Era ideologia che fossero venuti meno gli aspetti di antagonismo, se mai erano più difficili da riconoscere in quell’autentica esplosione di affettività collettiva». L.D.: «La libertà non è quella del sesso ma dei rapporti. Io ho vissuto tutto ciò come una violazione, perché la sessualità è un fatto se186

rio, delicato e problematico, fa male se la si gestisce così, dal di fuori. Per gli uomini, invece, quella è stata un’illuminazione epocale: che le signorine la dessero, voglio dire. Cresciuti in genere nel clima vittoriano del S. Giuseppe o del D’Azeglio, vedere improvvisamente le donne togliersi la cintura di castità è stato come vedere la madonna»41.

Quasi il silenzio Nel cicaleccio che oggi circonda la sessualità, i più silenziosi mi sembrano gli e le ex giovani dei movimenti anni sessanta e settanta, che hanno sperimentato esperienze di confine, che hanno vissuto quasi tutti almeno una storia bella e una orrenda, e che probabilmente non si riconoscono nelle immagini correnti. Si può tacere per molte ragioni. La convinzione, onorevole, che il sesso si fa ma non si racconta. Il pudore – può sembrare strano da parte di chi magari ha fatto all’amore sotto gli occhi di altri, ma non erano altri qualsiasi, erano la comunità/famiglia, in cui la privacy valeva per l’esterno, meno per l’interno. Clima difficile da comunicare, di qui la paura di non riuscire a trasmetterne un’idea credibile. Se, con l’eccezione importante di alcune donne, si è detto e scritto poco, è anche perché si sa di essersi catapultati nel nuovo senza capire che c’era bisogno di un modo per dare forma – nel duplice senso di improntare e contenere – alle relazioni e agli impulsi, di un galateo etico/estetico su come prendersi, lasciarsi, scusarsi, su come distinguere le verità necessarie da quelle inutilmente crudeli, su come darsi un campo di vincoli diverso al cui interno esercitare la libertà. Il successo vero sarebbe stato sostituire le norme – i contenuti, gli automatismi – con le forme, che alludono a metodi, dispositivi, atteggiamenti esistenziali, come l’empatia o la sospensione del giudizio. È vero, non era facile vivere il passaggio dalla morale anni cinquanta-primi anni sessanta al suo opposto, né mettere a fuoco certe sensazioni di disagio: quando si lotta per la fine dell’ipocrisia, cercare nuove forme è l’ultimo pensiero. Infatti non si è inventato granché. Spesso – questo è un punto decisivo – ci si è dimenticati di un tratto radicato nella soggettività moderna: che la sessualità è imprevedibile, che l’idea di confinare certe storie nella provvisorietà e 187

nella contingenza può essere un’illusione, un atto di superbia a volte scontato con il dolore, con sensi di colpa per gli amori sfuggiti di mano e per i loro effetti a catena. Questo è un pezzetto di storia. Ce ne sono altri. Molti hanno scoperto che il vuoto fra il polo buono del sesso per sempre e il polo cattivo della rapacità estemporanea era invece affollato: di intimità fugaci e amichevoli, più simpatia che Sturm und Drang, di storiette senza futuro che se ne stavano scavando uno nella memoria, di tiri mancini del puer, di amori nati piccoli e rimasti piccoli, in cui ciascuno ha avuto riguardo per le priorità sentimentali altrui, senza per questo ridursi a merce. Il meglio di quegli anni? È passato il principio secondo cui una concezione tenera e rispettosa del corpo e della sessualità non è monopolio della coppia, istituzionalizzata o meno, e della famiglia. Anzi, è proprio al loro esterno che ha più senso esigerla, quando nessuno dei due gode della protezione di un ruolo – moglie marito compagno compagna. E.O.: «Io dico che se adesso ci sono ragazze di vent’anni più forti e capaci di scegliere, questo accade anche perché noi abbiamo loro aperto la strada. Che cosa si sapeva della sessualità al femminile, prima che noi cominciassimo a interrogarci?». L.D.: «Non è vero. Questo è avvenuto con il femminismo, che ha avuto delle origini al di fuori del Sessantotto: altre donne sono state per noi un riferimento». M.N.: «D’accordo, però il femminismo non ci sarebbe stato senza la trasgressività sessantottina. Le donne che mi hanno fatto il culo nel ’73 e ’74 erano assolutamente libere». E.O.: «Il femminismo ha raccolto anche la nostra esperienza». M.N.: «La rivincita femminista si è fondata sulla liberazione sessuale sessantottina». E.O.: «Una stagione così effervescente nessuno di noi l’ha più ritrovata. Ciascuno di noi è più solo e non ci sono élites intellettuali capaci di interpretare quello che sta accadendo». A.C.: «La libertà di comportamento di tutti si è allargata ma i mondi possibili si sono ridotti». M.N: «La rivolta era bella e sacrosanta. Per quello che è avvenuto dopo, negli anni della sinistra extraparlamentare, noi abbiamo fatto l’autocritica e ci siamo detti: se avessimo vinto sarebbe stato peggio»42. 188

Dolore

La classifica del dolore Nel movimento degli studenti, imbevuto di rabbia e gioia, il dolore sembra un corpo estraneo. Rappresentato come soffocamento e solitudine, nei racconti appartiene al prima. Ora che si è scoperto il gusto dello stare insieme e della lotta, le parole cui dare un senso nuovo sono altre, uguaglianza, libertà, espressione di sé. Negli anni successivi, i movimenti risusciteranno il corpo guerriero (giovane, maschile) della resistenza, un corpo che può colpire e essere colpito, che può avere cicatrici ma non piaghe perenni, che non è fatto per custodire la memoria del dolore. Ma già nel ’68 le università occupate non sono la stessa cosa per tutti. Alla Sorbona si possono incontrare Blouson noir, piccoli delinquenti, ex militari, che diventano il nerbo dei servizi d’ordine, i «katanga». Meno fusi con gli altri, i marginali, i disperati, i senza lavoro, i beat di strada, che trovano nelle aule un posto per dormire e mangiare, senza per questo recedere dal loro rifiuto del mondo così com’è. Agli occhi degli studenti, quella passività inerme, troppo simile alle sacche di sofferenza sparse per la società, resta invisibile o appare irrimediabilmente diversa. Nel ricordo del prefetto di polizia Maurice Grimaud, che il 14 giugno presiede allo sgombero dell’Odéon e della Sorbona, dal primo si vedevano uscire, con il volto sgomento di chi viene strappato al sonno, [...] giovani dall’aspetto pietoso, certo non studenti ma piuttosto disoccupati, beatnik, qualche barbone, ragazze sbandate. Una di loro esce pian189

gendo tenendosi stretto il fagotto delle sue cose. Siccome ho proibito che si portino armi, i nostri «katanga» si confondono nell’anonimato di questa povera truppa in rotta. Non ho voluto fare eccezioni e prendere le loro generalità. E d’altra parte come riconoscerli, poveracci tra altri poveracci? Che vadano a farsi impiccare altrove1.

Alla Sorbona, invece, è la «classica uscita, con l’onore delle armi, della guarnigione che si arrende. Gli assediati ci tengono a essere espulsi simbolicamente dalla polizia e passano dignitosi in mezzo a una doppia fila di poliziotti con l’elmetto ma pacifici. Ecco, è finita»2. Anche mettendo in conto il desiderio di Grimaud che lo sgombero non sembri una vendetta, sono due modi opposti di vivere la sconfitta e di prefigurarne il ricordo. La graduatoria del dolore è la faccia speculare di quella dell’amore. Per le nuove sinistre, al centro sta la sofferenza dell’oppressione e dello sfruttamento, e via via, sempre più sfocate, le altre, e sono il male d’amore e di amicizie svanite, gli scontri nella famiglia, la salute precaria. Il dolore dei «ricchi e potenti» sta fuori. Insieme alla classifica dei soggetti, c’è quella delle cause, politiche o personali. Alle prime – la povertà, un licenziamento, un’umiliazione, una sconfitta – si può mettere rimedio con la lotta e con la solidarietà. Alle seconde no, e tantomeno allo smarrimento per il mancato o perduto rapporto con il sacro, la religione, la trascendenza, cui i movimenti presumono di dare una risposta terrena. Per fortuna, le pratiche sono più sensate dei principi. Dei dolori «privati», soprattutto amorosi, si parla eccome, tanto più se intralciano la militanza, e qualunque ex avrebbe molto da raccontare. Il rischio è cadere nell’aneddotica, ridurre una storia a sintomo di un clima, quando a renderle uniche sono piuttosto le anomalie rispetto alla norma del gruppo, della tribù, del micromondo. Ci vorrebbe una narrazione distesa e il talento di un romanziere, di un regista. Come si fa a mettere nelle nostre normali parole la Anna Karina di Alphaville o i ragazzi di Fragole e sangue? Non si fa, ma questo non è un alibi sufficiente. La verità è che i militanti hanno fatto l’esame al dolore e distribuito i 190

voti, e si può capire su quale spinta, se si pensa alle fotografie della bambina vietnamita bruciata dal napalm che corre a braccia spalancate, alle torture inflitte dalla polizia di Pinochet ai seguaci di Allende. Se non che, lo schema è truccato, non tutti gli oppressi hanno diritto al compianto (e neppure ai diritti democratici). Dopo Solzˇenicyn, dopo il ’56 ungherese e la Primavera di Praga, non si può non sapere quel che è successo e succede all’est. Eppure quell’enorme giacimento di sofferenza è il meno sentito dei mali del secolo. Qui la separazione tra mezzi e fini fatta propria dalla nuova sinistra funziona come un anestetico morale. Per quanto sia mostruosa, l’Urss è la controparte dell’odiato capitale, allo stesso modo in cui per i conservatori la mostruosa guerra del Vietnam è un argine al comunismo. Quanti si rendono conto che le menzogne sull’Ungheria si erigono sulla desolazione degli operai sconfitti?

Poi qualcuno muore L’immaginazione al potere si ferma spesso alle porte del dolore. È l’approdo al cosiddetto realismo, cioè alla politica di sempre, un piano inclinato su cui si gioca un aspetto cruciale del primato del collettivo sull’individuale: «realisticamente», non è forse più importante partecipare a una lotta che darsi il tempo di vivere un abbandono? Poi qualcuno muore, e le costruzioni simboliche vacillano. Non è tutta ideologica la graduatoria dei movimenti, in parte rispecchia l’aura che avvolge certe sofferenze e che travolge l’illusione di onnipotenza, sbattendo in faccia ai militanti il limite della condizione umana. E non è un’esclusiva dei giovani, è una costante sociale, diversa a seconda delle fasi, ma sempre deputata all’addomesticamento del dolore. Ora ci si accorge che non basta sciogliere i rapporti con il sacro per liberarsi dalle domande senza risposta sulla morte e sulla sopravvivenza, sul male di vivere, sul «che ci faccio qui?». Non sono domande «politiche». Anzi, sono domande che la 191

politica non ama, essendo sua ambizione decidere il senso della morte forse più ancora che della vita, dare forma al dolore attraverso il rito, momento alto e consolatorio, ma anche stilizzazione del lutto. È uno dei nuclei più ambigui delle esperienze comunitarie: sentimento individuale come forse nessun altro, il dolore deborda sempre dalla politica. Scandire «per i compagni morti non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto» vale a indicare i responsabili e insieme a alleviare il rimpianto grazie a un sostegno simbolico forte. Ma affidare alla vendetta quel di più di dolore è una dichiarazione di impotenza. Lo scrive Mariella Gramaglia. Sempre lei vede nella giovinezza come valore, nella esaltazione della creatività, nel linguaggio pieno di parole emozionate e emozionanti, un tentativo di rimuovere la morte3. Quando, nel 1973, Rossana Rossanda recensisce su «il manifesto» Sussurri e grida di Bergman, e osa parlare dell’uomo appeso fra vita e morte, del «residuo indistruttibile di individualità della sua sofferenza, del limite oscuro che incontra un’emancipazione politica», al giornale arrivano pacchi di lettere irate. La colpa di Rossanda è aver immaginato che il movimento operaio, non essendo una filosofia né una religione, debba riconoscere l’irriducibilità di quel limite. Per i lettori, al contrario, «censurare la morte, immaginarla riscattata dal socialismo» non è una fuga nell’ideologia, «è una filosofia della vita»4, così totalizzante da rendere insopportabile una perdita che avvenga al di fuori del rapporto con la politica. Ci sono guerrieri da prima linea che non riescono a entrare in un ospedale o a vegliare un ammalato. Hanno paura, e non solo loro. Quando con il disfarsi dei movimenti il rito militante perderà senso, tutti si troveranno come nudi al gelo di fronte ai funerali di fine anni settanta-primi anni ottanta: sparite le bandiere, i discorsi, i pugni chiusi, e al loro posto la solitudine in mezzo a tanti, e niente e nessuno che potesse contenere il dolore. Infatti sono nati presto nuovi riti, con canzoni, poesie, fiori, letture, in qualche caso con la riscoperta del tradizionale pasto in comune al rientro dal cimitero. La ricerca di una spiritualità senza religioni può essere un cammino lungo. 192

Dove ragione e cultura faticano A ritrarsi di fronte alla morte e alla sofferenza è l’intera società affluente, superba e sciocca come l’800, e ben più fragile. Ora che si sono logorate le ritualità tradizionali e le maschere del dolore5 deputate a renderlo comunicabile, ora che la tragedia classica è definitivamente ridotta a rappresentazione da guardare seduti in poltrona, domina il linguaggio di massa dello spettacolo – i racconti di vite drammatiche divulgati sulla stampa e in tv, il sentimentalismo astratto del culto al milite ignoto, lo squadernamento mediatico delle catastrofi naturali. Come oggi, quasi. E il dolore grezzo mostra la sua faccia indecente. Nella tendenza novecentesca a farne un problema di specialisti dell’anima, c’è il tentativo di lenirlo con tutti gli strumenti possibili, ma anche la voglia inconfessata di espellerlo dalla quotidianità. Di qui le sollecitazioni a «superare» una perdita, come fosse una malattia di stagione, a non «rivangarla», cioè a lasciarla al suo posto, sepolta. Se il compianto è più lungo e intenso di quanto suggeriscono le convenzioni, sembra una violenza contro il diritto degli altri a dimenticare. La narrazione deve fare i conti con questo orizzonte, come sa chiunque abbia perduto una persona cara, come sanno i parenti dei caduti, parola inventata per trasfigurare in chiave eroico/patriottica la morte dei combattenti. E i reduci di tutte le guerre, e gli ex deportati e deportate. Nessun filone narrativo ha probabilmente dato tanto spazio al dolore come il racconto, orale o scritto, della prigionia nei campi nazisti e sovietici. Al dolore e al corpo. Persone, in particolare uomini, che non avrebbero mai indugiato sulla fisicità, descrivono il corpo divorato dalla fame, battuto, torturato, irriconoscibile – e sovrano. «Nella vita», scrive Amery, «ci sono situazioni in cui il nostro corpo è tutto il nostro io e tutto il nostro destino. Ero il mio corpo e null’altro: nella fame, nel colpo che subii, nel colpo che diedi. Il mio corpo sfinito e incrostato di sporcizia, rappresentava la mia miseria. Il mio corpo, nel momento in cui si tendeva per sferrare il colpo, era la mia dignità fisica e metafisica»6. Nel Dolore, Marguerite Duras descrive la 193

trasformazione del marito ex deportato in un condotto mostruoso che inghiotte e espelle senza tregua7. La crescente legittimazione nel dopoguerra della parola sul corpo passa anche attraverso questa sua centralità nella letteratura del Lager. Ma ci sono voluti decenni perché il filone si affermasse, e non solo a causa di scelte politiche interne e internazionali. Per le vittime è difficile raccontarsi, per gli altri è difficile ascoltarle mentre rivivono l’impotenza di allora. Di qui il disagio di tanti giovani israeliani nel rapporto con i sopravvissuti, di qui l’accusa crudelissima rivolta agli ebrei dell’est di essere andati in Lager come pecore al macello. Dall’invadenza simbolica del carnefice ci si può difendere prestandogli l’aura dell’angelo sterminatore, come è tentato di fare Il sopravvissuto di Antonio Scurati8, l’unico risparmiato di una strage. Per il dolore non c’è schermo che non sia distorcente. Anche il talento moderno per l’introspezione è una risorsa a doppio taglio, più si va a fondo più si scopre che niente è come ci si aspettava. Elisabetta Rasy descrive lo stordimento che la prende nel vedere la trasformazione della madre ammalata: da quel momento mia madre non fu più mia madre, ma un individuo mutato e mutante, che io dovevo, contro la mia volontà e nell’assoluta indigenza di capacità adeguate, accompagnare in un paese di cui non sapevo nulla e che mi faceva infinitamente paura [...]. Ora tutta quella forza, di colpo, era sparita, e la vecchiaia non era più una maschera, era l’inaspettato messaggero della fine. Non provavo più dolore ma sgomento, e nel mio stupore spaventato diventavo immatura, incapace9.

Nel suo primo anno di vita dopo la morte improvvisa del marito, Joan Didion fa la scoperta più inattesa10. Lei, scrittrice e giornalista, donna in età, intellettuale e buona amica dell’intelletto, ha cominciato a pensare in modo diverso. Se in quella pacifica serata a due non avesse mai distolto lo sguardo da lui, sarebbe successo ugualmente? C’era qualcosa che avrebbe potuto fare o non fare per impedire quella fine? L’avranno rianimato abbastanza a lungo, era davvero già morto? E che errore aver regalato le sue scarpe, come farà a tornare da lei scalzo? 194

Didion è entrata nel pensiero magico, in cui ogni azione o omissione deve trovare posto nel sistema di causa/effetto. È il suo modo di far fronte alla fatalità, e il riconoscimento di qualcosa che assomiglia a un mistero, e che si può padroneggiare solo in piccola parte. Un’altra donna, Susan Sontag, è stata la prima e quasi la sola a cogliere il nucleo di insensibilità (e il «provincialismo che lascia senza fiato») implicito nelle tesi di Glucksmann, di Baudrillard, di altri, secondo cui la realtà, e le stesse guerre, sarebbero ormai nient’altro che spettacolo. Una tesi che equivale a universalizzare il modo di pensare di una piccola minoranza istruita che vive nei paesi più ricchi del mondo, dove l’informazione è stata trasformata in intrattenimento – quello stile di visione maturo che rappresenta una fondamentale acquisizione del «moderno» nonché uno dei requisiti essenziali allo smantellamento delle forme tradizionali di politica, basate sui partiti, che consentono un dibattito e un consenso reali. Tale idea presume che tutti siano spettatori. E implica, in modo perverso e poco serio, che al mondo non ci sia reale sofferenza [...]11.

Ecco messe all’angolo, da tre donne, le pretese di continuità dell’io come argine allo sperdimento, il culto superstizioso della ragione, l’etnocentrismo così innamorato di sé da dimenticare che le guerre sono uno spettacolo solo per chi ne sta fuori.

Donne e altri Se nei movimenti e nei partitini le donne non sono state gli angeli del ciclostile, è vero invece che molte sono state gli angeli del personale, le consigliere, le spalle su cui piangere, le sole autorizzate a contemplare la vulnerabilità maschile. Niente di nuovo, storicamente le donne hanno sempre avuto il ruolo di addette al dolore. Quando le femministe dei gruppi lasciano le organizzazioni, non restano vuote solo le sedi, è una trama di linguaggi condivisi che si disfa. Le compagne continuano a accogliere le sofferenze, ma soltanto delle loro simili: invece di fare 195

una graduatoria, hanno tracciato un confine, non così rigido, certo, ma pur sempre una linea di demarcazione. Nel loro territorio, le femministe cercano le parole per dire il dolore, come recita il titolo di un libro molto amato di Marie Cardinal12. Alcune imparano i gesti per toccarlo. C’è anche questo aspetto negli aborti con il metodo Karman che prima della legalizzazione si praticano in molti paesi nei consultori autogestiti – pena fisica e psichica distesa su un lettino, e così contagiosa per le operatrici che prima o poi tutte hanno bisogno di un avvicendamento. Solo le donne cercano di applicare ante litteram il criterio della riduzione del danno – il Karman è meno pericoloso, il consultorio è un luogo amico. E solo guardando fra le donne si vede, non troppo paradossalmente, come le eccezioni a quel principio colpiscano spesso i più vicini e dipendenti, i bambini, e per interposto bambino, la madre. Le comunità dei militanti non si sforzano in genere di adattare se stesse ai più piccoli, la società intorno non sa comportarsi da amica. Grosso modo fino a metà anni settanta, persino tra le femministe si tende a trascurare chi ha un bimbo piccolo, e ne nasceranno tensioni e spaccature13. Una donna può trovarsi stretta fra il modello della maternità oblativa, la voglia di essere libera, le accuse di egoismo, il bisogno di servizi che non ci sono – e compagni che vedono un figlio come un affare di donne, e compagne che lo vedono come un affare di quella certa donna. Si dice a volte che i bambini sono stati le prime vittime del clima dei movimenti. Vittime di cosa, precisamente? Dei pasti e del sonno a ore incerte, delle riunioni affumicate cui a volte li portano i genitori, dell’accudimento intermittente, della fretta. Vero, spesso i militanti sono cattivi genitori. Ma non genitori cattivi, avari di affetto, sia che privatizzino il figlio creando una nuova trinità, sia che lo crescano in una sorta di famiglia allargata. Non è l’amore che manca. Può mancare invece quel che soprattutto interessa ai bambini, la sicurezza che mamma e papà ci saranno sempre. Una delle donne intervistate da Marisa Rusconi, Barbara, madre giova196

nissima che nel ’68 ha scoperto «un amore collettivo che riuniva persone mai conosciute prima», racconta: «A un certo punto ho cominciato a andare alle manifestazioni, e ci sono stati momenti pericolosi. Lui [il suo compagno] non voleva, litigavamo furiosamente. Anche il bambino si metteva a gridare: ‘Ti prego mamma, non andare’»14. Qui c’è il dolore, unico nel suo genere, della coppia madre/figlio. Una militante della Ligue communiste révolutionnaire scrive nel 1977 una lettera A ma fille de dix ans, che cerca sempre di trattenerla a casa: «Tu hai bisogno di un amore, di una sicurezza più grandi di quelli che ti posso dare [...]. Cerca di capire: non sono io a privarti dell’amore, è questa società che lo ruba a tutte e due». E le spiega che sta lottando per un mondo «in cui la parola amore non sarà più una trappola meschina nella quale incastrare e sfogare il nostro egoismo ma una grande realtà»15. Con il che, la bambina è messa in lista d’attesa a tempo indeterminato. Quanto sia maligna l’ipoteca del futuro sulla quotidianità si vede soprattutto quando presenta il conto ai più piccoli.

Un movimento a valanga A partire dall’inizio degli anni settanta, in tutti i paesi occidentali esplode, letteralmente, la lotta per l’abolizione delle leggi proibizioniste in tema di aborto e contraccezione, la più ampia e difficile del movimento delle donne. È la svolta verso la dimensione di massa, l’allargamento della composizione sociale e generazionale, una nuova presenza pubblica – sit-in, girotondi, cortei fragorosi totalmente inermi. E di sole donne. La storia ha già visto manifestazioni tutte femminili, basta pensare alle operaie tessili e dell’abbigliamento, in Italia alle mondine. Ma queste sono le prime programmaticamente separate, le prime a rivendicare il potere della donna sul corpo fecondo. Per molte, quei cortei di decine di migliaia di loro simili risuscitano la baldanza delle bambine che sono state, prima dell’addestramento alla remissività soave della fanciulla per bene16. Quasi ovunque, ansia e sospetto dei politici, non solo fra i conservatori; dolore o rabbia maschili; riprovazione della Chie197

sa cattolica e di alcune Chiese protestanti; appoggio dei progressisti, grande spazio sui media. Ovunque, una strategia femminista su vari piani, con tappe comuni in numerosi paesi. Spesso si parte da un processo particolarmente scandaloso per la condizione dell’accusata – giovane età, gravidanza in seguito a stupro, problemi economici, di salute, di isolamento – e se ne fa un «caso» capace di scuotere l’opinione pubblica. Maestra la Francia, che con l’affaire Dreyfus ha guadagnato la primogenitura. Si creano associazioni per la difesa delle incriminate, come la parigina Choisir (Scegliere), promossa dall’avvocata Gisèle Halimi. Attrici, scrittrici, intellettuali si autodenunciano dichiarando di aver abortito – per la furia e lo scandalo delle destre, che in Francia le etichettano «les salopes», le sporcaccione. Autodenunce anche in Italia e nella Repubblica federale tedesca17. Il 5 febbraio ’73, «Le Nouvel Observateur» pubblica un testo intitolato Des médecins s’accusent, firmato da 331 medici che dichiarano di praticare aborti18. Quattro giorni dopo, esce un manifesto simile, sottoscritto da 206 personalità dell’Association nationale pour l’étude de l’avortement, che conta fra gli aderenti tre premi Nobel19. Poi alcuni gruppi mutuano dal ’68 e dalla nuova sinistra la pratica degli obiettivi, come si diceva allora – la messa in atto di comportamenti giusti e illegali di contro a situazioni e leggi ingiuste. In Italia nel ’73 viene fondato il Cisa (Centro italiano sterilizzazione e aborto), espressione dell’area radicale-femminista, che pratica interventi alla luce del sole, in centri privati e a prezzi politici. È la prima uscita dalla clandestinità. Nel 1975 nascono il Crac (Coordinamento romano aborto contraccezione), e in varie città i Centri per la salute della donna, composti per lo più da militanti di Avanguardia operaia, Lotta continua, Manifesto, e da vari collettivi femministi. Il Cisa punta sulla disobbedienza civile e sull’importanza di renderla visibile, i Centri danno spazio al self-help e all’autocoscienza prima e dopo l’intervento20. Il 10 aprile ’73 in Francia si costituisce il Mlac (Mouvement pour la liberté de l’avortement et de la contraception), struttura mista in cui convergono vari gruppi di intervento sociale, la sinistra estrema, sindacalisti, il partito socialista, medici, asso198

ciazioni familiari. Si eseguono aborti e parti, ci si occupa di vagliare le migliori cliniche in Inghilterra e Olanda, si organizzano i viaggi, si accompagnano le donne, le si informa sulla contraccezione, si promuovono manifestazioni. La domanda è enorme, tanto che nasceranno sedi in parecchie città21. In molti paesi, e fra questi l’Italia, il movimento cresce a valanga, ben oltre le aspettative delle stesse femministe. Per capire come mai, basta ricordare due scenari. Il primo descrive quel che è stato l’aborto fino alle normative che negli anni settanta lo depenalizzano o lo legalizzano. L’attesa delle mestruazioni, la ricerca affannosa di un medico, un’ostetrica, una praticona, una donna che l’abbia già fatto. I soldi che mancano, gli appartamenti-scannatoio senza nome sul campanello, il prezzo da saldare in anticipo, un tavolo da cucina come letto operatorio, metodi sempre pericolosi, a volte mortali, un male che non passa. Il gap di classe è duro – chi può va in cliniche private o all’estero, nei paesi non proibizionisti; e così quello di cultura – un ambiente più aperto non protegge dal dolore, ma consente maggiore informazione e tranquillità. Dietro la modernizzazione del costume, ci sono ancora molta ignoranza, solitudine, paura, sia per la propria vita sia per possibili conseguenze giudiziarie. Anche se gli Stati ritengono inopportuno perseguire sistematicamente l’aborto, niente garantisce a una donna di non essere l’eccezione. In Italia, dove lo speciale potere della Chiesa cattolica nella politica nazionale e la prudenza del partito comunista sul tema ostacolano le prospettive di riforma, vige ancora la legge fascista, e anche dopo l’abrogazione della norma che vieta la propaganda di qualsiasi contraccettivo, il ministero della Sanità continua ad applicare il regolamento che proibisce di registrare farmaci sotto la dicitura «anticoncezionali». Senza questi dati minimi, oggi sarebbe difficile capire il senso di slogan come «io sono mia», oppure «l’utero è mio e lo gestisco io», così simili al «potere studentesco» del ’68 nell’utopismo sovrano e nella capacità di rendere lo spessore della storia. Ma – secondo scenario – non è stato il fascismo a inventare la legislazione antiaborto e anticontraccezione. Si tratta di un 199

processo secolare attraverso il quale il potere religioso, poi, lungo l’800, quello medico, e infine politico, arrivano a imprigionare il corpo femminile in un sistema di obblighi e divieti. Sull’onda delle retoriche imperiali, dell’ansia per il declino delle popolazioni bianche e della pregiata natalità dei ceti medi, il tasso di fecondità diventa un problema nazionale. In Gran Bretagna la Madre è eletta a Supremo strumento della Natura per il Futuro, mentre le madri reali sono viste come brutte copie egoiste e disamorate, che fanno figli sempre meno numerosi, e sempre meno adatti a diventare buoni soldati per conquistare territori e buoni cittadini per popolarli22. Come mostra l’immaginario vittoriano, neppure i paesi protestanti sono immuni dal sogno della maternità sacrificale. Complice la nascente eugenetica, si parla molto di salute e purezza della razza, di nuovi controlli su riproduzione e allevamento. Nel cui nome gli asili nido e la fornitura di latte alle madri povere vengono bollati come espedienti da sopportare per ragioni di forza maggiore, ma da limitare nel tempo in modo che le donne non prendano l’abitudine a farsi sostituire. Ai doveri non corrispondono i diritti: la madre alleva figli che giuridicamente non le appartengono, perché i codici attribuiscono all’uomo il potere nella famiglia e l’esercizio della patria potestà23. La penalizzazione dell’aborto nasce in questo clima di interesse e sospetto verso il corpo gravido, e arriva a dichiarare madre e feto realtà separate e contrapposte. Le leggi e la loro applicazione potevano essere più o meno dure, le motivazioni variare dalla tutela della persona agli interessi della «razza», della nazione, di un’ideologia totalitaria. Sono distinzioni rilevanti sul piano giuridico e politico, e prima ancora per la vita delle donne. Una cosa è la maggiore ingerenza dello Stato nei paesi democratici, dove si accompagna all’ampliamento dei diritti legati alla cittadinanza, al suffragio femminile, spesso al potenziamento dell’informazione sugli anticoncezionali – e al libero confronto di opinioni. Tutt’altra cosa è il dominio sui corpi nella Germania nazista, nell’Urss di Stalin, nell’Italia fascista. Anche su questo terreno i totalitarismi non sono la verità nascosta delle democrazie. Resta il fatto che il con200

trollo sul corpo e la natalità da parte degli Stati e delle istituzioni medico-scientifiche è un aspetto della modernità24; e che le normative riducono la donna a ambiente di crescita del feto e a sua potenziale nemica. Fra la Mater dolorosa e Medea, versione procreativa dell’antinomia vergine/puttana, non c’è spazio per la paura, il dubbio, la sprovvedutezza, il sacrosanto rifiuto del sacrificio a tutti i costi, la voglia di autonomia, e altro ancora.

Diritto di aborto? Negli Stati Uniti l’aborto verrà liberalizzato come diritto civile, una impostazione seguita in altri paesi da alcuni settori del femminismo. In Italia il Movimento di liberazione della donna, vicino al partito radicale e pioniere della campagna, colloca la facoltà delle donne di decidere se essere madri nell’alveo dei diritti civili (insieme a lavoro e salute)25: che la legge criminalizzi una pratica secolare è la prova del limite posto alla autodeterminazione delle donne, dunque depenalizzare l’aborto equivale a reintegrarle nella piena cittadinanza. Nella raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare, iniziata nel 1971, si chiede di abolire il reato di aborto senza introdurre norme in positivo. L’espressione «diritto civile» però può essere fuorviante. Negli stessi Stati Uniti, dove il liberalismo esalta l’autodeterminazione dei cittadini e le lotte dei neri hanno fatto scuola, la prospettiva non è mai la semplice aggiunta di un diritto agli altri. Le attiviste «pro-choice», in lotta per la libera scelta delle donne, sostengono piuttosto che lo Stato debba fare un passo indietro, mettendo fine alla sua ingerenza in scelte intime e personali. Se si pensa al tentativo del ’68 e del femminismo di superare la dicotomia pubblico/privato, questa è una logica opposta, ma solo in parte: pubblico non equivale a statale, politico non equivale a legislativo, privato e personale non vogliono dire isolamento dalla dimensione sociale. Del resto, le differenze terminologiche – diritto, libertà, autodeterminazione – riflettono, insieme alle idee dei gruppi femministi, lo sforzo di modellare le strategie sui diversi sistemi giuridico/costituzionali. In quello americano, che riconosce al cit201

tadino il diritto di «giudicare la legge» impugnando una norma davanti alla Corte federale, la campagna trova in questo principio il suo fulcro. E arriva alla vittoria nel ’73, con il famoso giudizio sul caso Roe vs Wade: la Corte dichiara incostituzionale la legge del Texas e fa dell’aborto un diritto costituzionale, che tutti gli altri Stati devono introdurre abrogando le disposizioni precedenti. Non così in Francia e in Italia, dove solo il parlamento ha titolo per fare o modificare una legge. Specularmente, nelle formulazioni tecniche non preme solo un calcolo di opportunità politica, spesso si fa sentire tutto il peso di convinzioni e dubbi personali. Fra i proibizionisti, che si autodefiniscono «pro-life», attecchisce più facilmente l’idea che tutto sia semplice: l’embrione è un essere umano da salvaguardare, la vita comincia nell’istante del concepimento. In suo nome gruppi estremisti si organizzano per assaltare le cliniche dove si praticano aborti – il che non basta a cancellare il travaglio di altri, il conflitto interiore tra la fedeltà ai principi e la consapevolezza delle mediazioni necessarie per limitare la violenza dello scontro e i rischi per le donne. Fra le attiviste «pro-choice» sembra più diffusa la coscienza di muoversi su un terreno delicato come nessun altro. Qualcosa di simile vale per «il Legislatore». Dietro il termine astratto, non ci sono – non sempre – mestieranti senza cuore decisi a lasciare l’aborto nella clandestinità; ci sono individui che devono fare i conti con l’elettorato ma anche con se stessi. All’epoca, in tempo di demonizzazioni reciproche, era difficile vedere le controparti come persone con i loro conflitti e incertezze – di qui lo scetticismo che spinge a delegare il rapporto con le istituzioni alle più «politiche», legate ai partiti di sinistra e spesso protagoniste decisive. È una situazione confusa, tesissima, e non potrebbe essere diversamente. Intorno all’aborto si addensa il dilemma di definire cos’è vita, quando comincia, in che rapporto stia con la coscienza di sé. E nello stesso tempo si misura la più inamovibile delle ovvietà: chi ha il potere di dare la vita ha anche il potere di non darla – legge di natura e dell’antica magia popolare, in cui fare e disfare un incantesimo sono due facce dello stesso dono. 202

I legislatori si muovono con prudenza. Negli Usa la Corte non chiama in causa il diritto alla libera disponibilità del proprio corpo, perché si teme apra la strada ad altre questioni controverse, dalla condotta terapeutica nei casi di coma alla vendita di organi all’eutanasia (anche se bisogna distinguere l’aspetto di potenziale omicidio da quello di libera scelta personale). Ci si appoggia invece al concetto di privacy, sostituendo al principio della proprietà di se stessi quello della libertà, concepita sul modello della libertà religiosa. L’aborto viene così fatto rientrare nel campo delle libertà fondamentali in materia di matrimonio, procreazione, contraccezione, rapporti familiari, e nella facoltà inalienabile «di definire la propria concezione dell’esistenza, del senso della vita, dell’universo e dei misteri della vita umana»26. Lo Stato non rinuncia a pronunciarsi sulla salute della cittadina, e fissa termini entro cui l’intervento è possibile per semplice accordo fra la donna e un medico. Ma si guarda bene dall’affermare il diritto alla vita del concepito. Il termine «feto» non compare mai. Anche in Italia e Francia, la legge si fonda sulla tutela della salute della donna. Dove diverge rispetto agli Usa è nella definizione dell’aborto come male minore e nell’enunciazione del diritto alla vita «fin dal concepimento» – la tradizione cattolica si fa sentire. Ma, controsenso numero uno: è la prima volta che si introduce il feto nella sfera giuridica, e lo si fa con la stessa norma che ne regolamenta la distruzione. Controsenso numero due: si richiede un colloquio della donna con medici e psicologi, dunque un controllo, e contemporaneamente la decisione finale viene rimessa a lei – ma le minorenni devono chiedere il consenso parentale, con le conseguenze immaginabili. Per motivi diversi, le leggi sono fragili e esposte a fraintendimenti, a cominciare dall’espressione «tutela della vita» fino alla natura del colloquio medico. Particolarmente contrastato il concetto di diritto all’aborto. Per uno dei collettivi italiani più influenti, quello di via Cherubini che darà vita alla Libreria delle donne di Milano, quel concetto ridurrebbe l’aborto a una tappa fra le altre nell’allargamento graduale dei diritti civili e umani27. Per altre donne, legittimerebbe uno strapotere femminile 203

sul feto. Che sia il risultato di una strategia capace di (e costretta a) «usare» i sistemi costituzionali passa in secondo piano.

In Italia A essere messa in questione è la stessa idea di una legge. Il collettivo di via Cherubini discute, ma con il timore di esporla apertamente, la posizione delle «disinteressate al problema dell’aborto», «l’obiezione della donna muta», la donna che «non vuole essere descritta, illustrata, difesa da nessuno»28. Ad altri gruppi sembra assurdo sostenere una legge che pretenda di decidere sul corpo femminile, e che finirebbe per favorire l’irresponsabilità maschile; di fronte a una gravidanza inopportuna, un uomo potrebbe più facilmente caldeggiare l’aborto. Sempre più vicina al femminismo, l’Udi preme per una normativa che fissi alcune condizioni e procedure, salvando però la facoltà di decidere delle donne. Le femministe della nuova sinistra puntano alla depenalizzazione. Le tensioni sono inevitabili, perché ogni componente del movimento ha una sua politica. Per le donne dei gruppi extreparlamentari, e con più cautela per quelle dei partiti di sinistra e del sindacato, la lotta sull’aborto rappresenta un impegno personale e culturale, e insieme quell’opportunità di uscire «all’esterno» cara alla loro formazione; e uscita all’esterno vuol dire raccolte di firme, grandi manifestazioni, intervento nei quartieri a fianco delle donne. Stare dalla parte dei più deboli, o presunti tali, è stato il sogno migliore della nuova sinistra, per quanto a volte in veste di Zorro e con precipitose semplificazioni populiste – come quando ci si faceva forti della tranquillità con cui molte proletarie sembravano affrontare l’aborto. Le femministe radicali, renitenti al dogma delle scadenze politiche, degli appelli a sottoscrivere documenti e a scendere in piazza, concordano su una legge che garantisca condizioni sicure per la gravidanza e la sua interruzione; ma giudicano ambiguo organizzare manifestazioni «abortiste», e per di più in compagnia dei maschi, mimetizzando così il conflitto uomo/donna proprio sul piano del rapporto fra sessualità e concepimento29. 204

A qualcuna sembrano addirittura una negazione del dolore. Che le ragazze in corteo abbiano patito l’aborto, ma in quel momento preferiscano al ricordo la gioia della comunanza, viene in mente a poche. Anche perché spesso c’è sfiducia reciproca, e sulla sfiducia prospera il vecchio vizio di scambiarsi le peggiori etichette: «borghesi» sorde ai problemi delle proletarie, le femministe radicali; «gruppettare» eterodirette dai capi le donne della nuova sinistra, «vecchiette» (di 30-40 anni!) ossequienti al Pci le donne dell’Udi – il giovanilismo scemo non è solo maschile. In Francia, le divergenze sull’aborto sono il momento clou di una conflittualità che è probabilmente la più accesa nello scenario femminista internazionale.

L’aborto degli uomini L’impalcatura delle leggi proibizioniste crolla dovunque più rapidamente di quanto ci si aspettasse. Perché i tempi erano cambiati, certo, ma soprattutto perché fra le donne prevale una strategia saggia, visibilità e provocazione da un lato, realismo dall’altro, vale a dire ancoraggio all’esperienza concreta dell’aborto. È grazie a questo legame che il femminismo sostituisce alla contrapposizione aborto/non aborto quella fra aborto legale e aborto clandestino, che insiste sul destino dei figli non voluti30, mentre hanno poco seguito posizioni estreme, come quelle cui si ispira la proposta di legge ventilata da due deputati della sinistra extraparlamentare per l’aborto libero fino alla 22ªª settimana di gravidanza – aborto sempre o quasi, versione speculare di «aborto mai». Se non che, il realismo ha il suo punto cieco, ed è il quasi silenzio, a livello pubblico, sul modello di sessualità dominante come causa prima e ultima dell’aborto – una ovvietà scandalosa che è difficile portare in una campagna di opinione, e anche nei movimenti e nei loro dintorni. Il tema circola, oscillando fra lo slogan – «dito dito, orgasmo garantito» – e i linguaggi psicologici, fisiologici, filosofici. Altra cosa è dirlo con la semplicità della bella politica. Lo fa Carla Lonzi31 già nel 1971, quando respinge la proposta della raccolta di firme: «la domanda da por205

si», scrive, «non è se abortire o no, è: ‘per il piacere di chi sono rimasta incinta, per il piacere di chi sto abortendo?’»32. Fuori dal gergo e dalle perifrasi, è l’invito a non considerare la sessualità procreativa come l’unica «vera», a non sentirsi «sbagliate» se desiderio e piacere mancano. Posizione all’epoca niente affatto scontata. Le persone fanno sesso in tanti modi, si sa, se ne parla. A una condizione, però: non negare il primato fisico e simbolico del coito, la sua immagine di complementarità armoniosa fra donna e uomo. Una immagine/miraggio messa in dubbio da ricerche imponenti, dal Rapporto Kinsey al Rapporto Hite, ma così potente da dare a ogni altra pratica un ruolo secondario, complementare, preparatorio, e alle non molte che amano la penetrazione il diritto di rappresentanza delle molte che ne farebbero a meno senza rimpianti. Lungo gli anni settanta, altre e altri gruppi discuteranno quel modello e il suo radicamento millenario33. Ma fra i tanti maschi allora sinceramente favorevoli alla depenalizzazione, nessuno nomina una verità scomodissima: l’uomo ha imposto il suo piacere, e questo piacere «conduce alla procreazione, ed è sulla base della procreazione che la cultura maschile ha segnato il confine tra sessualità naturale e sessualità innaturale, proibita o accessoria e preliminare»34. Nessuno riconosce pubblicamente che alla campagna sull’aborto e sulla contraccezione ne andrebbe affiancata un’altra per prevenirlo da parte degli uomini: se non con la vasectomia, che risveglia il terrore della castrazione e dell’impotenza, con l’accettazione della gravidanza imprevista, con gli anticoncezionali o la verginità maschili, preferibilmente con la fantasia. Non ci pensa neanche Pasolini, che pure denuncia il continuum fra universo del coito, del parto, dell’aborto, e si fa paladino delle sessualità eterodosse; ma ai suoi occhi il corpo femminile è una risorsa naturale da regolare a fini demografici, e la legalizzazione dell’aborto equivale alla legalizzazione dell’omicidio35. Quante sofferenze evitabili con un po’ di consapevolezza. Il ragazzo spaventato in attesa che la sua compagna esca dallo scannatoio non si rende conto di aver fatto l’amore riproducendo un rito di virilità e di possesso che lo ha portato a rischiare 206

sul corpo di lei. Lei gli è grata perché dopo averla messa incinta non la lascia a abortire da sola. Tante donne, invece di palesare il proprio desiderio, tacciono – per rassegnazione, complicità, affetto, perché sanno che nella penetrazione l’uomo vive una sensazione di potenza che diventa potere di lei su di lui. Da allora molte cose sono cambiate, per esempio l’atteggiamento verso la paternità: con la maggior forza contrattuale femminile e la stessa maturazione maschile, spesso succede il contrario di quel che temevano alcune femministe; la donna rivendica il suo diritto esclusivo a decidere, l’uomo chiede di avere voce in capitolo. Ma ancora oggi si continua a parlare di aborto come fosse affare esclusivo delle donne, di anticoncezionali da prescrivere alle donne, di responsabilità delle donne «per non averci pensato prima». Certo, la vita cresce nell’utero, come si spiega ai bambini; il difficile è dire loro il modo in cui si è creata. Alcuni uomini si comportano come se non lo sapessero. Moltissimi non ritengono di doversi preoccupare per la diffusione minima degli anticoncezionali maschili, per la poca ricerca in materia, per l’analfabetismo sessuale di tante persone giovani. Che un savio controllo degli spermatozoi sia una delle soluzioni possibili non è questione all’ordine del giorno.

Dolore, indifferenza, eros Con qualche contraddizione rispetto alla presunta disinvoltura delle proletarie in materia di aborto, nelle campagne di opinione si martella sui costi fisici e psichici per la donna – un dato di realtà, e nello stesso tempo l’impegno a costruire una versione dell’aborto socialmente accettabile, e il tentativo di superare attraverso la certificazione del dolore l’ideologia del contrasto fra interesse della donna e interesse del concepito. L’aborto è presentato come una violenza plurima: controllo sul corpo femminile, intervento medico/chirurgico, rinuncia forzata a un figlio che in condizioni diverse forse si sarebbe voluto. Il registro della sofferenza è così dominante che negare di aver sofferto equivale pressappoco alla rottura di un patto tacito. 207

Come dovevano sentirsi «sbagliate» le donne per cui l’aborto era un’evenienza della vita, un male minore rispetto a una nascita troppo difficile da sostenere. Donne che dicevano di aver abortito senza grande sofferenza, di essersi sentite soprattutto liberate, che magari avevano usato l’aborto come mezzo di contraccezione, sia pure non programmato. Ma prima che il tema del dolore si imponesse, circolavano anche discorsi molto diversi. Nel ’71 esce un libro, La sfida femminile. Maternità e aborto, di Elvira Banotti36, una delle fondatrici di Rivolta femminile, che con la collaborazione di medici, intellettuali, universitari, mette insieme riflessioni storiche e socio-antropologiche e un buon numero di interviste a donne reduci da uno o molti aborti. Riletto oggi, fa pensare. Fra storie di disperazione, solitudine, massacro dei corpi, avidità di praticone e medici «cucchiai d’oro», compare una donna di 26 anni, costumista cinematografica a Roma, che dice: «Anzi una mia amica mi ha detto che lei era diventata più bella dopo l’aborto [...] io credo che ci fosse del vero. Secondo me questo abbellimento dipende dal fatto che ogni volta che tu riesci a realizzare la tua volontà, il fatto ti fa sentire così bene, così vittoriosa e potente, che, naturalmente, hai una sensazione di rilancio psico-fisico». Un’altra, trentenne, separata, tre figli, svedese a Roma da 10 anni: «dopo ero molto soddisfatta, mi sembrava una conquista. Avevo scoperto che in coscienza non succede nulla, che tutto ciò di cui si parla... traumi, angoscia ecc. sono solo sovrastrutture [...]. Io non ho avuto affatto crisi di coscienza. Scusami, non sorridere, ma era proprio così». Una trentaduenne laureata in giurisprudenza, Milano: «quando tu mi domandi se ho delle crisi psicologiche mi fai veramente ridere». Una commerciante, 35 anni, un figlio, romana: «Io a distanza di tempo sono sempre più contenta di averlo fatto [...] prima perché avrebbe cambiato il senso della mia vita [...] poi perché io non avrei mai creduto nella... non so come dire... forse la parola giusta è giustizia di avere figli»37, dove c’è una eco dell’ansia sul futuro del mondo. Per molte il feto è «niente», «quella cosa insignificante», «una cosa morta a priori dato che per me non esiste», l’aborto è come farsi togliere le tonsille, le adenoidi, l’appendicite, il 208

cancro. Se qualche problema morale affiora, è perché è stato «inculcato» dalla società e dalla religione. Colpiscono anche certe posizioni dell’autrice, che pure a volte sembra voler seminare qualche dubbio fra le sue intervistate. Per Elvira Banotti, Una volta superato il meccanismo di insicurezza, l’aborto assume il suo autentico significato: quello di un momento di coscienza intensa, ricco di aspetti erotici vivificanti. L’effetto di questa preziosa sensazione di libertà ce lo forniscono alcune protagoniste che hanno vissuto l’esperienza revisionando tutti i significati attribuitigli. La studentessa ventenne, incinta accidentalmente, ha la sensazione di aver subito «una [operazione di] plastica con la violenza»; la sensazione scompare con la riconquistata padronanza di sé attraverso l’aborto, vissuto come un gesto che dà il giusto riconoscimento alla propria volontà [...]. La sola angoscia nasce dal suo dipendere dagli altri, dalla commiserazione che si deve assicurare vivendo l’aborto alla macchia38.

Un’altra donna «respira un’aria di successo per aver controllato un mutamento ‘misterioso’», un’altra ha avuto «sensazioni formidabili come donna. Avevo una eccitazione fisica e un senso di affermazione incredibili»39. All’interno di Rivolta femminile, le idee di Banotti restano isolate, ma non si sa quanto la divergenza abbia pesato nel suo allontanamento dal gruppo. In questo libro si insegue un fantasma di libertà che sullo spossessamento subito dalle donne dice più di molti trattati. Che mostra come lo sforzo di svincolarsi dal destino sia per alcune così duro da precludere ogni alternativa fra subire o rifiutare in blocco. L’impotenza si rovescia in sogno di onnipotenza, spazzando via gli intralci, a cominciare dallo scacco e dal dolore, ripudiato con tanta pervicacia da far pensare a un nuovo tabù. O a uno vecchio. Con tutta la loro passione dell’autonomia e della modernità, alcune di queste ragazze finiscono per assomigliare stranamente allo stereotipo della eroica madre di famiglia, donna di roccia capace di sopportare tutto senza aprire bocca; oppure all’emancipata che trascende il corpo. Ma invece che dall’amore per i figli o dall’obiettivo del controllo razionale, la forza viene dalla sensazione di essere all’avanguardia nel 209

flusso di un grande cambiamento. Anzi, dal bisogno di crederlo, perché più le dichiarazioni sono categoriche, più sembrano il frutto di un neonato conformismo di nicchia: l’atteggiamento verso l’aborto è così carico di significato da improntare l’autoimmagine e il racconto di vita40. Come sembra più libera la scrittrice trentacinquenne che dice: Ho razionalizzato, [...] però ero in conflitto, no, no, non un fatto morale ma per una ripugnanza biologica in quanto avevo già fatto l’esperienza di tre maternità, il problema era per me cancellare dentro di me l’immagine reale di questo figlio e dell’uomo che amo [...] l’immagine di questo bambino che io rifiutavo perché lo mandavo via41.

Qui non c’è un grumo, un niente, c’è un bambino, a conferma che lo statuto del feto si misura innanzitutto su quel che sente la donna. Definire cos’è quel qualcosa o qualcuno vuol dire anche definire gli ambiti e i tempi in cui ha senso o non ha senso una legge.

Cos’è il feto? A dispetto delle sue molte voci, su questo punto il femminismo rimane quasi del tutto silenzioso. Con buone ragioni di ordine politico. Sono anni in cui la propaganda antidepenalizzazione definisce l’aborto un omicidio, mentre alcuni gruppi «pro-life» mostrano fotografie di minuscoli feti con braccia gambe testa, bambini in miniatura, e in Italia il Movimento per la vita42 offre assistenza alle madri e l’adozione pre-nascita dei figli da parte di famiglie «regolari». Dopo l’approvazione della legge 194 correrà voce che in alcuni ospedali si organizzino funerali per i feti abortiti. È una lotta a colpi al cuore – il che contribuisce a spiegare la diffusa paura di dire qualcosa di cui lo schieramento proibizionista possa servirsi. Ma la tattica politica è solo un aspetto. Per gran parte delle femministe, convinte che la soggettività sia un fatto di relazioni, la vita comincia quando si entra in contatto con il mondo e con gli altri. Il feto è materia vivente, ma 210

questa ovvietà non implica considerarlo una vita, non aiuta a andare a fondo nel rapporto con «qualcosa che sono io e non sono io». Rifiuto di applicare il concetto di diritto alla vita al feto, critica dell’ansia definitoria: in quegli anni si arriva fin qui, e si capisce perché. Nel pieno della campagna, è prioritario denunciare l’ambiguità dell’espressione «vita fetale»; il feto vive della madre e attraverso la madre, visto come entità a sé si può al massimo sostenere che esiste. Ma quello su cui si sorvola è che esiste come qualcosa (qualcuno) d’altro, diversamente l’organismo materno non dovrebbe rimodulare il proprio sistema immunitario per neutralizzare gli anticorpi che lo espellerebbero come entità estranea; se non c’è contrapposizione, c’è distinzione. È prioritario, di fronte a questa situazione unica in cui il corpo deve negoziare con se stesso prima ancora che con il feto, respingere l’ingerenza dello Stato e affidarsi alla coscienza femminile. Ma «coscienza» è la più ingannevole delle parole, carica di ambivalenze e vuoti. Sulla coppia madre/figlio, luogo delicatissimo dell’immaginario non solo femminile, pesano fantasmi di lunga durata. La madre ostile è un topos così numinoso che le fiabe la sdoppiano nella matrigna. Nella fantascienza e nella fantasy ricorre l’incubo del feto (e neonato) nemico o alieno, Rosemary’s baby, la creatura di Alien. La paura del bambino mostro non abbandona mai una donna, e neppure la paura di essere incapace di accogliere il figlio. Ne porta molti esempi un libro importante già citato del sociologo Luc Boltanski43, frutto, oltre che di una analisi vastissima delle teorie e ideologie su maternità e aborto, di una ricerca sulle idee e emozioni di donne che hanno abortito in ospedali o cliniche francesi. Trent’anni fa sarebbe stato un libro diverso, più povero e meno libero. In Italia non esiste purtroppo un’opera paragonabile per ampiezza e approfondimento. Non che ci fosse censura. In un dattiloscritto, datato Modena 13 maggio 1975, si descrive «un rifiuto anche visivo della gravidanza, quasi il terrore di osservarne la manifestazione fisica nel corpo»44. Ma, quanto meno nei discorsi e negli scrit211

ti pubblici, si tace sulla sensazione di essere invase da un estraneo, e sulla madre ostile in cui si teme di trasformarsi. Doppio paradosso per donne che predicavano il diritto ai loro tempi in potenziale collisione con i tempi dell’altro – e il feto è un altro; per donne che della madre nemica avevano fatto a volte esperienza diretta, e che anche per questo potevano essere restie alla maternità. È uno dei motivi per cui sarebbe importante mettere in circolazione qualunque materiale su questi temi prodotto negli incontri di autocoscienza, quelle «lunghe riflessioni sul senso di morte», come le chiama Mariella Gramaglia. Forse anche su cos’è il feto c’è di più di quel che si immagina.

Lutto senza riparo Fra le radici del silenzio, le più complesse erano quelle meno legate alla campagna politica. Che la minaccia al feto venissse dall’esterno era facile da accettare, che venisse dalla madre, no, né che le sue ambivalenze non si sciogliessero necessariamente nell’accettazione. Eletta a garanzia contro «l’aborto facile», la sofferenza non aiutava a vedere la realtà in tutte le sue facce, a cominciare dal carattere duplice della violenza, contro la donna e contro il feto – una considerazione che a distanza di 40 anni sembra ancora dare fastidio. Come sembrano più lineari (e antiche) certe questioni su cui si spendeva la nuova sinistra, partito o non partito, votare o non votare, se le si confronta con un’esperienza che non ha neppure una collocazione precisa, e anzi oscilla fra la categoria della violenza e quella del dolore. Forse si faticava a parlare perché ancora si sapeva troppo poco su interrogativi così densi, per una certa sfiducia nella capacità di reggerli. In più pesava (pesa) un dato di lunghissima durata: il feto (e l’aborto) hanno sempre avuto uno spazio minimo nei discorsi e ancora meno nelle immagini. Una presa di distanza collettiva che riguarda le società primitive, l’antichità, i miti, le fiabe, le arti figurative, la letteratura – almeno fino al romanzo naturalista, dove, dopo il varo delle leggi proibizioniste, se ne trovano esempi occasionali presentati in termini ipercritici. Nel diritto il feto è poco presente, nella filosofia, nelle religioni, nel212

la politica, nel mondo simbolico è praticamente assente; raramente compare nelle immagini di Maria incinta; né sembra sia mai stato oggetto di quei riti funerari che attestano l’appartenenza alla società45. La diffusione di massa dell’ecografia, che negli ultimi decenni ha quasi capovolto la situazione, era ancora lontana. Nei codici sociali non esisteva una «maschera» per dire il dolore dell’aborto volontario, né una tradizione di racconto cui appoggiarsi, come avviene con il parto. Anche per questo, molte cose letteralmente non si percepivano. A ripensarci oggi, viene il dubbio che un certo grado di ottusità fosse necessario per resistere a una propaganda proibizionista così insinuante da ferire credenti e non credenti. Se esistesse il reato di istigazione al senso di colpa, ce ne sarebbero vari esempi. Per certi aspetti, è stata una fortuna che molte si vivessero come figlie, puellae, angeli sterili, all’interno di movimenti in cui signoreggiava il mito del puer aeternus e l’adultità era rinviata a un futuro impreciso. Ma stavolta a sentirsi sole dovevano essere quelle che avevano sentore o consapevolezza del dilemma su cos’è il feto; che, pur lottando per la depenalizzazione, non avrebbero mai potuto abortire; le poche che praticavano gli interventi nei consultori, le forse molte che non rinunciavano a fare i conti con la parte di sé che restava impigliata nel corpo espulso. A distanza di decenni, una «disinvolta proletaria» ricordava il feto abortito nei minimi dettagli, quasi non fosse mai uscito dalla sua mente e dalla sua vita46. Agnostiche o religiose che fossimo, abbiamo avversato i riti del Movimento per la vita; ma non siamo andate al di là, troppo sensibili al rischio di una egemonia cattolica, programmaticamente sospettose verso un possibile ritorno del sacro. E inermi di fronte a un dolore che fuoriusciva dalla politica più di ogni altro. Forse qualche piccolo cerimoniale – non codificato, pudico, voluto dalla donna – avrebbe portato un po’ di consolazione. La vicinanza delle amiche prefigurava qualcosa di simile. Nessuna, o quasi, andava a abortire senza la compagnia di un’altra donna: dove non arrivava la teoria arrivava l’empatia. Ma chissà se qualcuna aveva capito il bisogno di riti e di forme, 213

o se la laicità era stata messa in scacco dal laicismo. Quando Alexander Langer aveva detto di provare compassione per le donne che abortivano, la risposta era stata: «è rispetto che vogliamo» – come se le due posizioni non potessero coesistere, e la compassione fosse un sentimento dubbio, troppo poco militante, troppo «cattolico».

Chi prende posizione Nel 1972, una ragazzina credente, Emma Fattorini, organizza con l’appoggio di padre Balducci un seminario sull’aborto e le donne cattoliche. Le partecipanti riconoscono che «si tratta di una soppressione della vita umana, ma pensano che [...] quella vita debba essere custodita dall’amore di una donna. Alla quale non si può imporre di generare contro la sua volontà»47. E si schierano per la depenalizzazione. È un’iniziativa di rottura, una posizione anomala, ma ha scarsa eco, forse per il modo occasionale in cui si comunicava, forse perché il movimento si autoproteggeva troppo. Negli Usa il problema è nominato da alcune femministe studiose di filosofia morale, in un dibattito che si sviluppa soprattutto nella prima metà del decennio. In un lavoro del 1971, Judith Jarvis Thomson prende sul serio gli argomenti dello schieramento «pro-life» sul feto/persona, ma spostando l’attenzione dalle sue caratteristiche alla relazione con la donna nel cui corpo si sviluppa. Una cosa, scrive, è attribuire al feto i diritti fondamentali, altra cosa è sancire il suo diritto specifico a beneficiare di tutto quel che gli è necessario per mantenersi in vita. Assimilando il corpo femminile a una casa, è come se un intruso entrasse esigendo di ottenere cibo e riparo malgrado la sua presenza crei disagio. In questo caso, scrive Thomson, l’ospitalità non è un obbligo morale, è una opzione che si è liberi o no di scegliere, persino quando un rifiuto porta alla morte dell’altro48. In Francia, alcuni gruppi di cattolici critici guardano proprio allo sviluppo dell’attaccamento materno come al valore-base per l’accesso alla qualità di persona. In seguito altri studiosi sosterranno che per dare al feto la qualità di bambino è necessaria la 214

sua «adozione» mentale e corporea da parte della gestante. Argomentazione forte e realistica. Sulla tesi dell’intruso, molti commenti e critiche, anche di femministe che giudicano quell’approccio troppo astratto per potergli associare l’esperienza delle donne. Non è detto. Anni dopo, Dacia Maraini scriverà delle tentazioni femminili di rivolta alla gravidanza usando proprio quel termine: «chi è questo intruso che vuole accampare diritti sul mio ventre? Chi è questo prepotente che pretende di vivere a spese delle mie energie, del mio sangue, del mio ossigeno?»49.

La cognizione del dolore Nei femminismi degli anni settanta – riunioni di autocoscienza, documenti, libri, convegni – c’è un punto che sembra non affacciarsi mai: la paura o l’inquietudine per l’eventualità che il feto possa risentire dell’aborto, soprattutto se la gravidanza è avanzata. Le leggi in cui l’interruzione è consentita fin oltre le 20 settimane (24 quella americana, caso per caso quella italiana, sempre per motivi terapeutici) inquietano non perché si tema di «far male» al feto, ma perché il suo corpo è ormai troppo simile al corpo di un neonato e ci si sente al limite dell’infanticidio. A nessuna deve mai essere venuto in mente di rivolgersi a un fisiologo o a un medico per avere informazioni sullo sviluppo del sistema sensoriale nel feto, sul momento in cui dolore e fastidio potrebbero essere avvertiti – e comunque non si sarebbero ottenute che risposte vaghe, o un vago stupore. In Italia neppure fra i proibizionisti ci si poneva il problema, a conferma che mobilitarsi per la vita non basta a immaginare i segreti della materia vivente. Nello stesso linguaggio medico non esisteva un termine per indicare il male che può patire il feto, la parola «sofferenza», suffering, si riferiva a una patologia, non a una sensazione. Anche oggi, quando si parla dei pericoli dell’amniocentesi si intende pericolo per la buona riuscita del «prodotto», non per le sue reazioni di fronte all’ago che penetra nel sacco amniotico. Il dolore del feto non rientra fra quelli «autorizzati» dai codici sociali, medici, linguistici, non dispone di una reto215

rica per descriverlo, lo si può al massimo spiare attraverso rilievi clinici. Fino agli anni ottanta non era autorizzato neanche quello dei prematuri e dei neonati; si pensava che non soffrissero. Certo, nominare il problema allora sarebbe stato duro, molte l’avrebbero giudicato un eccesso emotivo, un abuso concettuale, qualcosa di scottante che andava protetto dalle strumentalizzazioni – l’opportunità non coincide sempre con l’opportunismo. Ma avrebbe segnato una buona presa di distanza dal potere medico-scientifico, di cui si stava denunciando la simulazione di neutralità su altri terreni; e un passo in più sulla strada della cura. Se si dà credito al dolore delle donne, bisogna dar credito anche all’impegno (di molte, di alcune) a non duplicarlo nel feto, dunque a aumentare l’attenzione contraccettiva. Se si da fiducia a un medico, si può pensare che studierà tecniche dolci per provocare l’aborto, oppure per scongiurarlo, a cominciare dall’anestesia. Pensieri improbabili, all’epoca. Resta il fatto che la domanda «Farà male?» è la prima reazione di fronte a qualsiasi intervento medico-chirurgico, e che non è stata posta. Ci avrebbe fatto bene conoscere la storia di Ignaz Philipp Semmelweis, giovane chirurgo ungherese in servizio al reparto di maternità dell’ospedale di Vienna, che nel 1847 nota che a ammalarsi di febbre puerperale sono soprattutto le donne che sono state visitate dagli studenti. Un fatto cui nessuno aveva mai badato, tranne le partorienti, che supplicavano di essere assistite dalle levatrici. Collegando la malattia alla scarsa igiene degli studenti e sospettando l’esistenza di microorganismi invisibili, Semmelweiss impone loro di lavarsi le mani con un disinfettante prima di visitare le puerpere: in due anni, la mortalità nel reparto si riduce dal quasi 13% all’1,23%, e lo stesso accadrà alla clinica universitaria di ostetricia di Budapest. Manca il lieto fine. Accusato di diffamare la professione e di postulare un contagio non accertabile «scientificamente», bersaglio di ostracismi e dicerie, Semmelweis avrà un crollo nervoso e morirà ancora giovane in manicomio50. La sua, pagata a carissimo prezzo, è una storia di rispetto per l’esperienza delle madri e di coraggio nel lasciar fluire connessioni impreviste. Quella del femminismo e di tante donne no, non in questo ca216

so. Dietro il silenzio si nascondeva una mancanza di immaginazione che non era affatto un vuoto, era un pieno inconsapevole di vecchie forme mentali – il primato di quel che è compiuto e completo su quel che è parziale e liminale, la cecità verso il dolore non detto, non dicibile, non accertabile tecnicamente. Forse che la condizione aurorale, sospesa (o terminale) lo rende irrilevante? Non eravamo sole in questa difficoltà a cogliere la vicinanza fra l’umano e il non ancora o imperfettamente umano. Basta ricordare l’antropocentrismo dei movimenti, lo sconcerto di molti davanti a un’empatia o a un carico simbolico fuori norma – Nietzsche che crolla in ginocchio davanti a un cavallo preso a frustate dal vetturino, la cagna Bella di La Storia di Elsa Morante, emblema del dolore inerme contro la brutalità della storia. Ma davvero sul male del feto c’era soltanto silenzio? Il femminismo aveva portato l’aborto sulla scena pubblica come mai prima, aveva messo in questione molte idee e pratiche del generare. Fra le studiose e gli studiosi di filosofia morale, c’era già allora chi misurava sul feto il senso dei criteri per distinguere fra persona, non persona, essere umano: oltre alla coscienza stabile di sé, la capacità di provare piacere e dolore. Nel ’72, un autore americano «pro-choice», Michael Tooley, aveva insistito proprio sul secondo aspetto51. Erano spunti, ragionamenti ipotetici, ma a cercare qualcosa si sarebbe trovato. Solo che il feto sembrava bruciasse. E guardando al dopocampagna, si direbbe che ci fosse un gran bisogno di accantonare l’aborto.

Il beneficio del dubbio In Italia, il tema del dolore è affiorato con gli anni, ma è sempre rimasto un po’ sospetto. Eppure le sensibilità stavano cambiando, via via che si diffondeva un pensiero inclusivo, teso a rivendicare la dignità delle cose piccole, liminali, di natura incerta o sconosciuta, e a lottare per la loro tutela. Via via che la fisiologia e la psicobiologia prenatale e neonatale ampliavano le conoscenze sul sistema sensoriale del feto – il tatto e la mobilità che si sviluppano dalle prime settimane, la capacità a 4 mesi di rea217

gire favorevolmente a certa musica, la precocità del gusto – alcuni prematuri mostrano di riconoscere gli alimenti preferiti dalla madre durante la gravidanza. Sulla possibilità del dolore oggi si confrontano diverse opinioni, soprattutto in America e nel Regno Unito. Per alcuni e alcune, dove non c’è coscienza di sé non c’è percezione, e sarebbe così fin quando, intorno alla 24ª-26ª settimana, non si perfezionano le connessioni nervose fra la corteccia e il talamo. Secondo uno studio del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists di Londra, «è difficile definire o valutare la coscienza del feto, in particolare la coscienza del dolore», o almeno, di «ciò che noi percepiamo come dolore»52. Per altri, fra cui Vivette Glover, medico al Queen Charlotte’s and Chelsea Hospital e docente di psicobiologia perinatale all’Imperial College di Londra, «il 90% delle interruzioni avvengono prima della 13ª settimana, [quando] è assai improbabile che il feto sia in grado di sentire alcunché. Dopo la 26ª settimana è senz’altro probabile, ma tra la 17ª e la 26ª aumenta progressivamente la possibilità che cominci a sentire qualcosa [...]». Punto rilevante: a sollecitare il parere degli esperti era stato il ministero britannico della Salute nel 1995. Per moltissimi medici, dato che al momento è impossibile stabilire quando un feto nelle fasi iniziali avverta il dolore, e se lo senta allo stesso modo che dopo la nascita, l’anestesia risponde al principio per cui è meglio «to be safe than sorry»53. Ha più sicurezze Carlo Valerio Bellieni, specialista di terapia intensiva neonatale a Siena, impegnato nella ricerca sul dolore del feto e del neonato54: a suo parere, non solo il feto soffre, ma la sua percezione sembra essere più profonda che in un bambino, perché nella vita fetale mancano molte delle strategie che si impegnano dopo la nascita per non sentire il male. Glover riconosce invece che nominando il problema si può creare ansia alle donne e dare un’arma agli antiabortisti, ma spiega: «Pur essendo a favore della libera decisione della donna credo che non si debba fare confusione in questo campo. Bisognerebbe chiedersi se si sta operando nel modo più indolore [...]. Dovremmo accordare al feto il beneficio del dubbio»55. 218

È vero che ci si muove su un terreno minato. Mentre in vari paesi si discute su come rivedere la normativa, negli Usa un pubblico ministero ha incolpato di duplice omicidio l’assassino di una donna incinta, introducendo il concetto di «violenza contro le vittime non nate», in cui il feto è visto come persona separata dal corpo della madre. Ma l’urgenza etica rimane, e investe punti delicatissimi da toccare, compresi i limiti temporali dell’aborto. Come scrive fra le altre Claudia Mancina, bisognerà pur ridiscuterli alla luce delle tecniche che hanno moltiplicato le probabilità di sopravvivenza dei prematuri56. Eppure il tema del dolore stenta a trovare ascolto. Su un sito inglese di libera discussione è comparso un dialogo del 2003 che si potrebbe intitolare Sensibilità e solitudine. «So che sembrerà un po’ brutale ma ho l’assillo del tempo. Perché secondo lei un aborto è accettabile all’inizio della gravidanza e non negli stadi più avanzati?». «Nelle fasi iniziali di sviluppo manca una funzione cerebrale significativa. Nelle fasi più avanzate c’è, sufficiente a produrre sofferenza nei feti». «Sofferenza in che senso? Ha links o riferimenti in grado di provare che la funzione cerebrale sia indispensabile al dolore? E poi, perché l’incapacità di soffrire da parte del feto implica che l’aborto precoce può essere giustificato? Mi scuso di nuovo per il tono brutale ma sto cercando di decidere se abortire o meno e provo a capire come altre sono arrivate a questa decisione».

Forse un pensiero di donne sull’aborto non può esistere, se non come fattispecie della riduzione del danno, e anche così sconta grandi incertezze, corre grandi rischi. Eppure questo è forse il più specifico dei problemi che possono toccare a una donna – e un esempio aggrovigliatissimo delle questioni lasciate in eredità dal ’900, il secolo della biopolitica e nello stesso tempo delle maggiori lotte per i diritti connessi al corpo. In futuro sarà sempre più difficile distinguere non tanto fra persona e non persona, ma fra persona e persona (le manipolazioni genetiche e estetiche, il trapianto del volto e delle mani e così via), fra vivente e non ancora o non più vivente, fra umano e tecno219

logico, fra natura e tecnonatura. Anzi, articolare queste diversità sarà una delle questioni principali della età detta post-moderna. Sventagliata in una costellazione dove genere, generazione, classe, etnicità sono intersecate da variabili sempre nuove, la differenza, scrive Rosi Braidotti, è diventata una categoria nomade, una specie di arcipelago [...] che va dall’affermazione della differenza quasi in chiave metafisica, essenzialista, dura (posizione che io identifico con la scuola italiana, dove si continua a parlare delle donne come di una categoria unica, con le sue differenze ben precise), al postmoderno più fluido e meno essenzialista, o de-naturalizzato [...] fino ad arrivare alle differenze di specie: la specie umana, la specie animale e la specie cosiddetta vegetale57.

Chissà che non si scopra una differenza anche nel modo di soffrire del feto. Nessuna ha mai sostenuto che le sole domande da porre fossero quelle ragionevoli, rispettabili, a risposta garantita.

Stregate

I fatti Nel 1974, «Les Temps Modernes», la rivista di de Beauvoir, Sartre, Lanzmann, pubblica in un numero speciale intitolato Les femmes s’entêtent alcune testimonianze di donne, scritte «perché nessuna faccia più la loro stessa esperienza». L’esperienza è l’uccisione casalinga del proprio bambino Down. Le testimonianze sono siglate, e confrontandole sembrano versioni dello stesso evento, ma la rivista non specifica e nell’unico testo in cui le ho viste citate l’autore ne scrive come se si trattasse di più episodi1. L’infanticidio è deciso collettivamente dai genitori con le amiche e gli amici più stretti (ma qualcuno si oppone), eseguito con la partecipazione di tutti, studiato «tecnicamente e tatticamente» perché sia un delitto perfetto. Prima ci si informa un po’ dovunque, scoprendo che esistono esami capaci di rivelare le anomalie al terzo mese, che ci sono sempre più istituti per ospitare i bambini Down, che gli specialisti stanno studiando per trovare dei rimedi. Ma per il momento non esistono terapie. Un’amica pensa che basterà dare al neonato un po’ troppo anestetico e trovare un medico disposto a firmare il certificato di morte: «il bambino non soffrirebbe e noi non avremmo corso alcun rischio dal lato ‘giustizia’». Se non che tutti i medici rifiutano, e una testimonianza ne elenca i motivi per concludere: «alla fine siamo diventati specialisti nella psicologia dei medici». Gente infida che spiega che le persone Down sono in grado di lavorare – ma si tratta solo di piccole mansioni esecutive, niente di prestigioso. Gente che invita i genitori a tenere con sé il bambino per un po’, perché l’handicap diventa manifesto solo a tre anni, ma ha l’obiettivo nascosto di farli affezionare a lui. 221

Per scoprire metodi che non lascino tracce si cercano in biblioteca libri di medicina al capitolo «Infanticidio», e si sceglie il soffocamento. Un’altra amica aiuta a organizzare tutto. Una sera mettono il bambino a faccia in giù su un cuscino, lui gira la testa per respirare, allora lo avvolgono strettamente nelle sue coperte e se ne vanno tutti in un’altra stanza. All’alba non era ancora morto, respirava tranquillamente nel suo fagotto. La notte aveva strillato spesso ma non era mai l’ultimo pianto. Allora abbiamo aperto il fagotto nel quale dormiva e gli abbiamo messo sul viso un sacchetto di plastica; è stato necessario tenerlo ben stretto e controllare che tutto finisse come doveva. È morto soffocato quasi immediatamente2.

Visto che bisognava ucciderlo, «lo si è fatto insieme, eravamo tristi ma sicuri di essere nel giusto. Non abbiamo commesso un delitto, abbiamo fatto solamente una cosa necessaria»3. Pur avendo già deciso di eliminarlo, la madre ha tenuto con sé qualche giorno il neonato ormai di due mesi uscito dal reparto prematuri. Ma, scrive, non è stato doloroso, al contrario molto dolce: Sì, ti amavo, piccolo mio, quando ti guardavo dietro i vetri del reparto prematuri; poi quando ti abbiamo portato a casa, ti sono stata accanto giorno e notte sapendo in ogni momento che il solo atto d’amore che potevamo fare per te, per noi, per la vita, era darti la morte, e potevo vivere questo amore e questa determinazione quasi con serenità perché non ero sola, perché eravamo in tanti a volere la stessa cosa4.

Come abbiamo potuto farlo? si domanda F. La risposta non è quella che ci si aspetterebbe. Se è successo, la colpa ricade in esclusiva sui medici «irresponsabili e vigliacchi». Uno non ha voluto sentir parlare dell’amniocentesi, un altro ha rianimato il bambino anche se c’era il 99% di probabilità che fosse Down, tutti hanno detto no alla richiesta dei genitori di ammazzarlo: l’esperienza da cui si vuole proteggere le altre donne non è l’uccisione del figlio, è la necessità di farlo in prima persona. Infatti si chiede che «quelli che hanno la competenza tecnica e il potere 222

giuridico per farlo impediscano a dei neonati mongoloidi di vivere in piena coscienza, piuttosto che chi si trova a vivere con un bambino sia obbligato [corsivo mio] a ucciderlo, a lasciarlo in un istituto, a diventare genitori anormali di bambini anormali»5. Lo Stato è messo sotto accusa per mancata politica eugenetica. Ci sono anche troppi orizzonti in cui collocare queste storie, dalla Grecia antica a Roma all’abisso del Terzo Reich, dove i primi a essere uccisi con il gas sono stati i bambini «imperfetti» – omicidi impersonali in nome dell’ordine biopolitico6. Il figlicidio si inscrive invece nell’ordine biografico, evoca la Medea di Euripide che uccide per vendetta, oppure quei genitori troppo poveri che ancora in ancien régime mettono a dormire i neonati nel letto matrimoniale, in modo da far passare il loro soffocamento per una disgrazia e da poter dire a se stessi che è stato un caso. Anche in seguito non sono rari gli infanticidi per miseria, perché si hanno già troppi figli, perché il neonato non appare «normale», oppure è illegittimo – ancora nel secondo dopoguerra alcune legislazioni consideravano un’attenuante i cosiddetti motivi d’onore. Oggi in Cina e India, con la politica di contenimento delle nascite, sono aumentati enormemente gli aborti di femmine, o la loro uccisione immediata. A testimoniare il peso simbolico del figlicidio bastano le molte versioni della storia di Medea, con i loro diversi impianti narrativi: la regina barbara contro la legge della polis, la donna che rompe il patto sociale, la vittima tradita dall’uomo, la potenza femminile contro il potere maschile7. Anche fra le studiose femministe si guarda alle rappresentazioni del figlicidio, ai tentativi di creare una nuova figura di ribelle partendo da una madre assassina di un neonato deforme, senza fare per questo l’apologia dell’infanticidio8. La storia di «Les Temps Modernes» sta fra la Cina e il Terzo Reich. Della prima ha il rifiuto della creatura sbagliata. Del secondo la convinzione di essere nel giusto, di non fare niente altro che esercitare un diritto: per Hitler il diritto a un popolo superiore, per la madre a avere un figlio «normale». Che a sembrare intollerabile sia la condizione Down dice molto sulla società di allora e su queste donne. Donne cui preme costruire un 223

racconto a chiave e darsi un’immagine moralmente pregiata. Donne che alternando svenevolezze pseudopoetiche a descrizioni particolareggiate dell’omicidio dicono di aver agito per necessità, rispetto «per l’uomo autonomo che il bambino non sarebbe mai diventato», amore, ragioni politiche: mentre tante persone sane e forti sono uccise quotidianamente e ovunque, si mettono al mondo «dei mongoloidi che non avranno mai la possibilità di rivoltarsi, di lottare per vivere meglio, perché nascendo sono totalmente dipendenti da chi se ne prende cura e tali resteranno»9. L’importanza di non capire tutto, il titolo dell’ultimo libro di Grace Paley10 tradotto in Italia, tende a diventare per chi legge queste testimonianze la voglia di non capire niente. Per quanti riferimenti mitici, psicologici, sociologici si vogliano cercare, l’immagine del gruppo riunito per decidere sulla vita e sulla morte, delle donne curve con le mani protese sul lettino, continua a assomigliare al sabba.

I racconti Le testimonianze sono collocate in una sezione intitolata Désires-Délires, curata da donne del movimento che fra il ’73 e l’83 tengono su «Les Temps Modernes» anche la rubrica Le Sexisme ordinaire. Stanno fra una poesia bamboleggiante, una richiesta orgogliosa di tornare all’animalità, una critica bella e forte alla quasi-censura diffusa nel movimento sul desiderio di bambini e di gravidanza. Nella postfazione a Désires-Délires, l’infanticidio non viene neppure nominato, e così nella presentazione al numero, in cui Simone de Beauvoir si limita a augurarsi che la rivista semini turbamento. Eppure le protagoniste usano il linguaggio dei movimenti, ripetono in un modo che oggi sembra caricaturale alcune idee in circolazione. Sia pure con il tramite di altre donne, sono entrate in contatto con «Les Temps Modernes», un risultato non così facile. E «Les Temps Modernes» non avrebbe pubblicato la storia se l’avesse considerata pura patologia. Vicende estreme come queste non sono figlie del femmini224

smo e degli altri movimenti. Rimandano in parte a una mai morta concezione proprietaria della maternità. «Mio figlio, io l’ho fatto, io lo disfo» è un modo di dire e pensare che ha circolato a lungo non solo in Italia, e che in fondo è più franco del tradizionale «per il tuo bene». In parte rientrano nell’orizzonte delle culture e mentalità scientiste. Gli anni venti e trenta avevano ereditato le ansie di fine e inizio secolo sulla qualità e quantità della popolazione, su cui si erano incontrati con motivazioni diverse molti medici e scienziati sociali, uomini e donne, settori della destra e della sinistra. Avevano accolto la pretesa di migliorarla con forme di politica eugenetica positiva e negativa. Persino in alcuni paesi a ordinamento democratico si erano varate leggi per la sterilizzazione di soggetti classificati come malati di mente o criminali. È così negli Stati Uniti, in Svizzera e in Danimarca agli inizi del ’900. Nel 1934 il parlamento della democratica Svezia governata dai socialisti aveva votato a grandissima maggioranza una legge che prevedeva la sterilizzazione di «infermi mentali, idioti o affetti da altri disturbi della psiche». Nel dopoguerra, poi, l’antica enfasi sul bel matrimonio e sulla bella maternità aveva trovato un terreno fertile nella società dei consumi – culto del successo, della gioventù e della pienezza fisica, difficoltà a rimandare il soddisfacimento dei desideri, primato dell’individualità che scivola verso l’individualismo cieco, paura del dolore e della morte. La stessa minuziosità descrittiva rimanda «alla fissazione di voler trovare a tutti i costi la ‘risoluzione completa’»11 dei fatti, fissazione moderna o modernamente nevrotica. Ma un legame con il clima dei movimenti c’è, e rivela tristissimi incroci fra il rivoluzionarismo e il mondo contro cui pensa di lottare. Aiuta prendere sul serio le chiavi di lettura dei racconti. A cominciare dal richiamo alla politica, dove tutto è gerarchizzato: vite stroncate ingiustamente contro vite ingiustamente create; la possibilità di lottare come condizione per vivere; il collettivo come fonte di legittimazione superiore all’assunzione della responsabilità personale. Poi viene il primato del desiderio, che rende più difficile accettare lo scarto analizzato da Silvia Vegetti Finzi fra il bambi225

no dei sogni e lo sconosciuto che nasce12 – e qui l’ideologia dei movimenti si sposa con il narcisismo della modernità. Poi la retorica dell’amore. Per molte donne che abortiscono, scrive Boltanski, il feto esiste solo come parte di una immaginaria sequenza di concepimenti, garantita dall’idea di una fecondità senza fine13. Corpo/macchina, bambini seriali. Nelle madri infanticide forse agisce un meccanismo simile: l’imperfezione trasforma «il piccolo mongoloide» in un anello di quella catena, un essere facilmente rimpiazzabile, che si può persino amare senza il rischio di sentirne la mancanza. Il Figlio Vero, singolare, insostituibile, arriverà poi. Se la donna avesse saputo di non poter più concepire, chissà se avrebbe ugualmente soffocato il bambino. Nei discorsi sulla necessità, l’autodeterminazione – decidere del proprio corpo – si stravolge nel mito dell’autonomia, e il mito dell’autonomia nell’orrore della dipendenza, mentre sparisce il limite come argine all’ideologia secondo cui senza una gloriosa integrità non vale la pena stare al mondo. A differenza che in Viridiana e in Nazarin, dove mendicanti, storpi, nani, incarnano l’imperfezione di tutta la specie umana14, qui al bambino non è concesso alcun significato che lo tolga dalla solitudine. Quanto al rispetto per l’uomo non autonomo del futuro, forse si tratta principalmente di rispetto della divisione dei ruoli esplicita nella società, implicita nei movimenti. Il bambino non deve occupare più posto di quello che gli è assegnato. Sorrida dalla sua culla, mangi e dorma senza dare troppo disturbo, non esageri con il pianto, sia socievole con adulti sconosciuti. I piccoli danno fastidio, figurarsi se handicappati. Nel n. 1 di «Des femmes en mouvements» si esalta il meraviglioso potere di dare la vita a un figlio, il matriciel come metafora del femminile, ma dei bambini non si parla mai15. Forse la somiglianza e insieme la distorsione più radicale delle idee dei movimenti stanno nella convinzione di avere uno speciale diritto sul futuro, nella difficoltà così «moderna» a accettare che esiste pur sempre un destino su cui la volontà può dover cedere. Sta nel rifiuto prometeico/infantile di mediare con l’imprevisto della vita. Che, diceva John Lennon, è quel che ti 226

succede mentre stai progettando altro. L’infanticidio ripristina l’illusione di onnipotenza, rimedia al terrore della finitezza e della morte simboleggiata dall’insuccesso della maternità. Dov’è il dolore che forse la madre ha provato, quello che il bambino ha sicuramente sentito durante il soffocamento? Da nessuna parte. Eliminato l’elemento di disturbo, tutto può ricominciare come se niente fosse stato, come se il mancato controllo si riducesse a una défaillance momentanea. A riflettere su questo strapotere dell’ideologia, su questo picco di conformismo mascherato da trasgressività, l’immagine del sabba non svanisce. Solo che le donne non sono le streghe, sono le stregate.

Violenza

La crisi della nonviolenza «Nessuno è morto nel ’68», si è detto e scritto spesso, in particolare a proposito del maggio francese1. Non come apprezzamento, ma per accreditare l’immagine della rivoluzione introvabile, della prova generale del nulla – come se ancora oggi il peso di un evento si dovesse misurare sulla quantità di sangue versato. Non è neppure la verità: durante o in seguito agli scontri con la polizia fra maggio e giugno sono morti in cinque, un ragazzo a Parigi, un commissario a Lione, due operai di PeugeotSochaux, un liceale a Flins2. Certo, Parigi non è Città del Messico, dove la polizia massacra a colpi di mitragliatrice i partecipanti a una manifestazione autorizzata nella piazza delle Tre Culture. Non è la Cecoslovacchia, dove l’Urss schiaccia con i carri armati la resistenza popolare, che usa metodi nonviolenti e non li abbandona neppure davanti alla repressione. Ai loro esordi, praticamente tutti i movimenti degli anni sessanta e settanta adottano pratiche pacifiche – sit-in, manifestazioni all’insegna del gioco e della provocazione verbale, happening, resistenza passiva. Sono programmaticamente nonviolente le lotte per i diritti civili degli afroamericani: Sncc, la sigla della organizzazione più grande e attiva, vuol dire Student Non-violent Coordinating Committee. Sono nonviolenti i beat, gli hippie, gli studenti americani nella fase iniziale delle lotte, e così l’agitazione antimilitarista e le azioni di renitenza al servizio militare, che cominciano con i roghi di cartoline precetto e le marce dimostrative. È nonviolento il femminismo. In Italia lo sono i capelloni, i 228

giovani beat. E l’ala antiautoritaria del ’68. Nella ballata di Valle Giulia, che Paolo Pietrangeli dedica alla prima «battaglia» fra studenti e polizia, marzo 1968 a Roma, il verso «non siamo scappati più» fotografa a grandi linee una parte del movimento: non si sapeva resistere alle cariche, e neppure ci si pensava3, nei cortei abbondavano giacche e loden, mocassini e gonne a pieghe – e vestiti così non si sostiene neppure una scaramuccia. Da ora in poi, almeno in alcune città e nell’immaginario degli studenti, si comincia a mettere in conto un numero più o meno alto di fermi e arresti, di attacchi subiti e ricambiati. Ciò nonostante, si è ancora lontani dall’idea di attrezzarsi per l’uso della «forza», come si diceva allora, a conferma che non la si considera un dato costitutivo della politica e un terreno di organizzazione specialistica. Ma nel frattempo una parte del movimento dei neri era arrivata allo scontro aperto, sull’onda delle rivolte che a partire dal ’64 scoppiano nei ghetti delle grandi città del nord, Los Angeles, Detroit, e che riprendono nel ’65 in reazione all’omicidio misterioso di Malcolm X, fondatore del movimento dei Musulmani neri. È nato il Black Panther Party, che ormai prefigura la rivoluzione americana nelle modalità delle lotte di liberazione del Terzo mondo e indica nei neri la loro avanguardia. Nel movimento studentesco, nelle campagne per la renitenza alla leva4 si fanno strada metodi violenti; a fine anni sessanta si costituiscono il gruppo armato dei Weathermen e altre piccole organizzazioni simili. In Giappone, gli Zengakuren hanno fin dall’inizio una fisionomia militarista nettissima. In tempi relativamente brevi, la violenza ha guadagnato una legittimazione anche fra quelli che non la praticano. Mentre nei primi anni sessanta era l’eccezione, ora l’eccezione è la nonviolenza. Al cambiamento presiedono molti scenari. Negli Usa le disuguaglianze fra bianchi e neri persistono, e i successi sul terreno dei diritti civili le rendono ancora più insopportabili. In Europa, la chiusura degli accademici e dei governi propizia lo scivolamento verso la prospettiva dello scontro. Mentre crescono le tensioni sociali, in alcune fabbriche/simbolo come la Fiat Mirafiori in Italia scoppiano scioperi durissimi, organizzati fuori 229

dai canali dei sindacati. Le lotte di liberazione nazionale si intensificano, il Vietnam esalta e unisce. Nel biennio ’68-’69 si ha davvero l’impressione di trovarsi alla vigilia di un rivolgimento radicale, di cui la violenza (di polizie e eserciti, di gruppi fascisti, dei movimenti) è il sintomo e lo strumento. Si parla di rivoluzione «come se dovesse avvenire il giorno dopo, si guardavano i trentini normali come fossero dei pazzi: ‘questi continuano a comprare l’automobile, a arredare la casa, e non sanno che domani scoppia la rivoluzione’» racconta una studentessa, e aggiunge: «Poi quando tornavo a casa mi rendevo conto che il mondo era rimasto come prima, erano bagni di concretezza terribili»5. Ma allo slogan di Mao «L’imperialismo è una tigre di carta» molti credono fermamente. Le tigri locali reagiscono, facendo della repressione un catalizzatore. Nell’estate del ’68, quando una grande manifestazione dell’Sds cerca di arrivare alla convenzione del partito democratico a Chicago per mettere sotto accusa un politico sostenitore dell’impegno in Vietnam, le telecamere di tutto il mondo testimoniano la ferocia delle cariche, le teste rotte, il sangue, e insieme l’ampiezza dell’opposizione alla guerra e al monopolio dei partiti nella vita politica. In Europa, il movimento degli studenti è affrontato innanzitutto in termini di ordine pubblico. Manganellate, lacrimogeni e caroselli di jeep diventano un complemento delle manifestazioni, e si può arrivare alle armi da fuoco. A Berlino durante una manifestazione contro la visita dello scià di Persia del giugno ’67, era stato ucciso lo studente Benno Ohnesorg. In Italia, dopo che a fine ’68 erano stati uccisi due braccianti a Avola, si spara nel ’69 a Battipaglia contro gli operai che si ribellano alla chiusura di alcune fabbriche: altre vittime. Si spara in Versilia sugli studenti riuniti per disturbare il capodanno alla Bussola e un ragazzo, Soriano Ceccanti, rimane paralizzato. Dopo che è stato portato via con una pallottola nella schiena, ancora i manifestanti gridavano: «‘Non scappate, sono colpi a salve’. ‘Per essere a salve’, rispose un ragazzo, ‘fanno dei bei buchi’, e mostrò un lembo di abito passato da parte a parte»6. Il meccanismo lotta/repressione/allargamento dello scontro diventa quasi una costante, e favorisce il passaggio dalla violen230

za verbale a quella materiale. Le denunce, spesso per infrazioni minime o abitualmente non perseguite, sono tante da far apparire l’illegalità una via obbligata se si vuole fare politica e una forma necessaria di autodifesa – in parte lo è. Non che il primo ’68 sia stato un’età dell’oro, tradita da un’involuzione successiva. I riferimenti teorici prevedevano la violenza, i simboli più amati erano uomini e popoli in guerra. Certi attacchi verbali nascondevano sotto l’aspetto giocoso una ferocia grezza. Del sarcasmo – la violenza fatta linguaggio – si pensava che fosse il modo più intelligente di imporsi. Ma il livello dello scontro polizia-studenti era in genere contenuto, come se per accordo tacito si puntasse a limitare i danni. Uno dei meriti maggiori dell’antiautoritarismo è anzi aver mostrato che oltre ai cortei, ai picchetti, alle occupazioni di fabbriche, sono possibili tante forme di lotta – dal sedersi per terra e restarci, all’applauso canzonatorio dedicato alla polizia che dovrà portare fuori i dimostranti uno per uno. Instaurare una continuità fra ’68 e terrorismo è un’operazione storiograficamente debole e ideologicamente fortissima: serve poco a capire quegli anni, è perfetta per rappresentarli come un’escalation del terrore, in cui tutto era già scritto fin dalle prime occupazioni universitarie. Mentre nel «giornalino» di palazzo Campana, 8 marzo 1968, si leggeva: Sia chiaro che non idealizziamo lo scontro in quanto tale, che, soprattutto, non lo vediamo come mezzo di formazione e selezione di eventuali futuri quadri […]. Non puntiamo a un inasprimento della lotta, assunta come fine, ma piuttosto a un suo allargamento. Non ci interessa lo scontro con la polizia in quanto tale7.

Per questo lo scivolamento verso la violenza appare una mutazione ancora più netta di quella che porta dal movimentismo all’oganizzazione pseudopartitica.

Lotta, festa, e la seduzione della violenza Scuole chiuse, impossibile impostare una lettera, mandare un telegramma, trovare un giornale, sigarette, zucchero, incassare 231

un assegno, prendere un bus, il metrò, un treno per uscire dalla città, girare in macchina, guardare la tv o ascoltare la radio pubblica, sentire un bollettino meteorologico, passare la notte in certi quartieri dove i gas lacrimogeni hanno invaso gli appartamenti fino al quinto piano. Questa è la Parigi del maggio ’68 nel ricordo della scrittrice canadese Mavis Gallant8. Considerando tutta la Francia, nove milioni di persone hanno smesso di lavorare – impiegati del settore pubblico e privato, commesse dei grandi magazzini, operai delle fabbriche e dei cantieri navali, addetti alla comunicazione. È il più grande sciopero generale della storia francese, e l’unica situazione «insurrezionale» in un paese sviluppato dopo la seconda guerra mondiale. Le barricate, in genere militarmente irrilevanti, sono solo un pezzo della storia del maggio, il più emozionante, il più simbolico. Ha scritto Daniel Cohn-Bendit: Eravamo felici perché avevamo la consapevolezza della nostra forza. Era questo sentimento di forza e di unità a creare l’atmosfera di festa e delle barricate. Niente di più naturale in quei momenti di sfogo collettivo, quando tutto sembrava possibile, che la nuova semplicità dei rapporti tra i manifestanti, soprattutto tra ragazzi e ragazze. Tutto era ora semplice, facile. Le barricate non erano più soltanto un mezzo di autodifesa, divenivano simboli di una certa libertà. È per questo che la notte tra il 10 e l’11 maggio resterà impressa nella memoria di chi «c’era»9.

A dispetto delle interpretazioni che separano momento politico e momento esistenziale, sulle barricate la festa è la lotta, e la lotta è la festa, vissute da un corpo collettivo sui generis, estemporaneo, dai confini fluidi, misto. Come è misto il maggio – studenti, intellettuali, disoccupati, freak, barboni, piccoli delinquenti, professori di liceo. Alla violenza si mischia l’ironia sulla violenza. Lo slogan «Le pouvoir est au bout du fusil» [il potere è sulla punta del fucile] si rovescia in: «Est-ce que le fusil est au bout du pouvoir?» [c’è il fucile sulla punta del potere?]. Le scritte bellicose come «Tuez-les», uccideteli [i Csr, i reparti della Compagnie républicaine de sécurité impiegati negli scontri] si affiancano a «Mettez un Csr dans votre moteur» [mettete un Csr nel vostro mo232

tore], «Csr qui visitez en civil [in riferimento agli infiltrati della polizia] faites très attention à la marche en sortant», fate attenzione allo scalino quando uscite. Alcuni Blouson noir del servizio d’ordine all’Odéon vanno in piazza con i costumi da romani antichi che hanno trovato in teatro. Più avanti, in Italia, in calce alla scritta murale «Coi fascisti non si parla, si spara», un genio sconosciuto aggiungerà «Firmato: Buffalo Bill». Ma all’ironia si intreccia la fascinazione per la violenza (e per l’esotico). Si favoleggia di un «Paul l’anar», detto Angelo della morte, «con un viso da guerriero calmucco o da poeta terrorista mongolo della fine dell’800», di un Rocky, di uno sconosciuto che pesa 160 chili, di due emigrati ungheresi, di un ex legionario, di un ebreo combattente della guerra dei sei giorni10. Anche se alcuni leader cercano di evitare che la situazione precipiti, una figura di spicco come Pierre Goldman critica la mancanza di una violenza «seria, vera, come sarebbe stato aprire il fuoco sulla polizia, per vendicare gli studenti, per difendere la Sorbona»; ma quando lo aveva proposto – dirà – era stato guardato come un mitomane. La storia di Goldman, tragica, non esemplare, conferma che fra le spinte all’impegno estremo ha un posto speciale l’esempio di genitori eroici11. Figlio di ebrei polacchi combattenti antifascisti in Francia, dopo il maggio Goldman raggiunge un gruppo di guerriglia in Venezuela, torna a Parigi per proporre senza successo la lotta armata, passa a azioni di banditismo, è condannato all’ergastolo, e rilasciato nel ’76 finisce misteriosamente assassinato a Parigi nel 1979. Poco prima aveva scritto di aver capito che la legge non lo poteva punire: «Ero piuttosto io a punirmi di non essere stato mio padre, partigiano, di non essere stato Marcel Rayman, di non aver lottato accanto al Che […] di non aver dato la caccia a Bormann per ucciderlo». Si può intuire perché diventi un simbolo agli occhi di molti. Nel ’75 «Les Temps Modernes» gli dedica un’intera sezione12. Alla sua morte Serge July lo ricorda romanticamente su «Libération» come il più puro fra tutti. Di sicuro, è il più tormentato dall’idea della morte13. Ma non è il solo. Quando nell’ottobre ’68 si arriva alla scissione del gruppo maoista Ujcml, Benny Lévy sosterrà che la linea di divisione passa fra chi ha paura della morte e chi no14. 233

Ritorno al passato L’eco del maggio è enorme. Solidarietà, ammirazione, emulazione, invidia. Si favoleggia, si teorizza. Nessun altro evento ha un peso paragonabile sul rapporto fra politica e violenza. Per moltissimi è un segnale. Mario Capanna, leader del movimento studentesco della Statale di Milano, esorta a diventare un movimento rivoluzionario, perché i fatti francesi, «al di là degli sbocchi concreti, mostrano che la rivoluzione in Europa è possibile». Trent’anni dopo, un ex militante italiano dirà a Isabelle Sommier di avere una certa animosità verso il maggio, cui imputa di aver riportato «il ’68 mondiale a una logica insurrezionale completamente falsa, alla rivoluzione con la R maiuscola»15. Che la Francia sia la bussola del mondo è vero, ma non punta in una direzione sola. Gli accordi di rue de Grenelle, che a colpi di aumenti salariali e di migliori condizioni di lavoro rompono il fronte delle fabbriche, mostrano quanto l’incontro studenti/operai sia vulnerabile. Il potere si è ripreso dal trauma, ha unito brutalità, minacce e concessioni, ha mobilitato una base di massa moderata – e si è garantito l’appoggio delle forze armate. Il filo delle lotte non si è spezzato del tutto – dopo il maggio ci sono ancora scioperi, agitazioni nelle campagne, le occupazioni nei licei. Ma il movimento ha perso16. Eppure molti militanti scambiano la sconfitta per una battuta di arresto, e la fanno risalire alla mancanza del partito rivoluzionario, una interpretazione che fa del ’68 studentesco e operaio l’ennesima messa in scena di un copione sempre uguale: masse combattive, ma senza una guida adeguata – l’avanguardia marxiana e leninista. Per altri, è stata debole l’avanguardia interna al proletariato, emanazione della lotta, che avrebbe dovuto dirigere i proletari «verso la distruzione dello Stato borghese, verso il socialismo». «Ce n’era abbastanza», scrive Guido Crainz, «per stritolare le riflessioni sulle nuove forme della trasformazione individuale e collettiva o le molteplici analisi del potere diffuso nella società contemporanea»17, che erano state un dato comune a tutti i movimenti. 234

Fascismo/antifascismo Antifascismo in assenza di fascismo, è stata l’accusa mossa ai movimenti che si autoassegnavano la missione di contrastare la deriva autoritaria delle società europee. Tema forte in Italia, che del fascismo è la primogenitrice, in Germania, che ne è stata la l’incarnazione estrema, in Francia, dove il collaborazionismo ha toccato il vertice dello Stato. E forte anche negli Stati Uniti, che pure non l’hanno conosciuto18. Ma davvero si tratta solo di una tattica o di un abbaglio? In quegli anni il Mediterraneo è per due lati sotto dominio fascista o parafascista. In Germania esistono gruppi di giovani neonazisti, e uno di loro nell’aprile ’68 ha sparato a Rudi Dutschke, riducendolo in fin di vita e distruggendogli gli ultimi anni. In Italia tornano a essere usate disposizioni dei codici e dei regolamenti fascisti. In Francia fino alla vigilia del maggio è stato prefetto di Parigi Maurice Papon, alto funzionario di Vichy responsabile della deportazione di migliaia di ebrei, che sarà processato per questo crimine solo negli anni novanta. Non si tratta di casi isolati o di smagliature nel tessuto democratico. All’indomani della guerra gli Stati hanno scelto di non creare troppi vuoti e fratture nell’amministrazione pubblica, con il risultato che alcuni (ex e non ex) fascisti sono ora prefetti, magistrati, dirigenti dei servizi segreti, accademici – all’anomalo Alberoni, rettore a Trento, la scelta nel ’70 di opporsi allo sgombero dell’università costerà le dimissioni forzate. Ex fascisti anche nella polizia e nelle forze armate, soprattutto ai gradi più alti. Il prezzo di questa continuità si è già fatto sentire. In Italia nel luglio ’60, in Francia durante la guerra di Algeria. Il 17 ottobre 1961, la prima manifestazione del decennio organizzata dal Fronte di liberazione nazionale era finita con centinaia di feriti e una quantità di corpi che affioravano dalla Senna. Il numero dei morti non si saprà mai. Si sa invece il ruolo di Papon, che alla vigilia ha detto ai suoi di ritenersi coperti qualunque cosa facciano, e per liquidare eventuali dubbi ha aggiunto che gli algerini portano sempre armi19. Le stesse parole usate per descrivere le cariche contro gli studenti – ratonnade, matraquer20 235

– vengono dal vocabolario coloniale. A Mavis Gallant i pestaggi del ’68 ricordano scene viste al tempo della guerra d’Algeria. Per i più giovani, sono la scoperta che il fascismo esiste, che esistono i fascisti e alcuni portano la divisa. Non è sempre così, naturalmente. Nel ’68 si incontrano dovunque poliziotti «umanisti», come il prefetto Grimaud, persone con cui si parla spesso, tra familiarità, gioco dei ruoli, esigenza di concordare i percorsi dei cortei. Ma l’abitudine alla violenza e l’odio per studenti e intellettuali sono quasi la norma. A Parigi, un funzionario vede un gruppo di Csr massacrare di botte un tizio che non ha affatto l’aria dello studente, ordina di smettere, si sente rispondere: «Ma aveva dei libri, capo!»21. Viene in mente Fahrenheit 451. Intanto gruppi fascisti e neofascisti intensificano le incursioni nelle università, e spesso restano impuniti. A Roma già durante le elezioni universitarie del 1966 avevano provocato la morte dello studente Paolo Rossi, e da allora nelle assemblee tenute in molte città le espressioni tradizionali dell’antifascismo avevano cominciato a intrecciarsi alla rabbia degli studenti22. Sempre a Roma, il 16 marzo ’68, a guidare un attacco all’università sono due leader dell’Msi, Giorgio Almirante e Giulio Caradonna. Dalla fine degli anni sessanta la «guerra» con i fascisti – l’antifascismo militante, nel linguaggio dei movimenti – diventa una costante del paesaggio urbano. Violentissima da tutte e due le parti, porta con sé una scia di vittime. Raccontando la morte di uno studente all’università di Roma, Francesca Socrate23 descrive un sentimento che la concentrazione sulle battaglie fra «guerrieri» ha lasciato in ombra, la paura di tutti gli altri. Il 27 febbraio 1969, durante una manifestazione contro la visita di Nixon, la polizia carica duramente, mentre si moltiplicano i focolai di violenza nella città universitaria, e i fascisti cercano per due volte di dare fuoco al portone di Magistero. Situazione caotica, in cui nessuno capisce dove sono i punti caldi – fatte le proporzioni, è lo spaesamento di Fabrizio del Dongo a Waterloo, trasferito in un campus metropolitano. Un gruppetto di ragazzi e ragazze cerca rifugio dentro la facoltà, si chiude in una stanzetta che guarda sul cortile del Mu236

seo delle cere, si barrica alla meglio. È buio, non si sente e non si distingue niente. Uno dei ragazzi, Domenico Congedo, prova a scalare la facciata per raggiungere il piano superiore da dove si può vedere cosa sta succedendo, si aggrappa a un davanzale, il davanzale si stacca, lui precipita. È come se in un solo episodio si condensasse uno spaccato dell’Italia: si può morire perché i fascisti si muovono a loro piacere, la polizia lascia fare, il governo tollera salvo rammaricarsi a tragedia avvenuta. E perché in una struttura dove ogni giorno passano migliaia di giovani non si fa manutenzione, e una traversina di marmo ha ceduto.

De Gaulle = Hitler? L’antifascismo è un fattore potente di legittimazione e autolegittimazione, un luogo simbolico di incontro con intellettuali e ceto medio progressista. Nasce da elementi di realtà, però subordinati a un doppio salto ideologico che i movimenti non hanno inventato, ma che contribuiscono a divulgare. Da un lato, il fascismo è trasformato in una categoria dello spirito, in un contenitore indefinitamente dilatabile dove far rientrare politici, poliziotti, magistrati, maggioranza silenziosa, la Chiesa detta ufficiale, i padroni – e la famiglia, la scuola, la cultura. Un’accozzaglia di soggetti accomunati solo dal giudizio che se ne dà. Risultato, il fascismo perde la sua fisionomia – contesto, origini, meccanismi istituzionali, cultura – per diventare un accidente della storia e insieme una sua costante sotterranea sempre pronta a riemergere. Un virus – e chi usa questa parola dimentica che le metafore organiche sono tipiche del linguaggio di destra. Slogan come «Ps, SS» e «Crs, SS» (già usato dagli operai francesi negli anni quaranta) e l’orribile «Uccidere un fascista non è reato» devono molto a questa ideologia: il virus è contagioso, i suoi portatori vanno fermati a qualunque costo. L’ironia è che i giovani maschi in lotta fra loro finiscono per assomigliarsi. L’altro passo è lo svilimento delle differenze tra fascismi e democrazie. Come se lesioni ai diritti e comportamenti delinquenziali fossero la stessa cosa del terrore, dell’azzeramento delle libertà conquistate in due secoli di lotte, la stessa cosa dell’ordi237

ne gerarchico che vuole gli uomini al lavoro o in guerra, le donne fuori dalla politica ma integrate nello Stato, gli avversari e gli indesiderabili per qualsiasi motivo in carcere – gli ebrei in nessun posto. Forse senza saperlo, si è tornati al settarismo nel cui nome persino alla vigilia dell’avvento di Hitler i comunisti tedeschi vedevano negli Stati «borghesi» un supporto del fascismo o addirittura una sua variante – e i socialdemocratici consideravano i comunisti una minaccia alla classe operaia. «Chi ha insegnato ai giovani», dirà autocriticamente Amendola nel ’76, «che Democrazia cristiana e fascismo sono la stessa cosa?»24. Ridurre la democrazia a un guscio vuoto o a fumo negli occhi è un insulto a chi lotta per conquistarla, è il ricco che spiega al povero che i soldi non danno la felicità. Ed è un non senso storico cui se ne appoggiano altri. Si dice fascisti in riferimento all’Italia, alla Francia, alla Germania federale agli Stati Uniti, dove Mary Daly paragona con totale disinvoltura gli «esperimenti scientifici», veri e propri scempi dei corpi, condotti dai medici nazisti nei Lager, alle pur discutibili pratiche dei ginecologi americani, come l’uso intensivo di ormoni, le sterilizzazioni e le isterectomie «preventive» del cancro all’utero25. Non si dice fascisti per la Germania Est, l’Urss, i paesi satelliti. Mentre scagliano contro i partiti comunisti l’accusa di aver tradito la classe operaia, i movimenti rendono omaggio al cortocircuito che quegli stessi partiti hanno costruito nel dopoguerra: la Repubblica democratica tedesca non può essere fascista perché è comunista, e il comunismo ha contribuito a distruggere Hitler. Storia, addio. È una visione così distorta che per capire come si legittimi all’interno della nuova sinistra bisogna mettere in conto il suo antiamericanismo a oltranza. Certo, la realtà degli anni settanta è più complessa di questo quadro. L’insistenza sul fascismo fa parte di una campagna di agitazione, e molti hanno un’idea più sensata della storia del ’900 e di cos’è il loro paese. Se considerassero davvero fascisti lo Stato e la società, i militanti non si stupirebbero che le istituzioni e la stampa mentano, o che alla Bussola la polizia spari pallottole vere. Resta il fatto che per cento analisi delle società capitalistiche, ce n’è una sui fascismi storici. E che per le parole degli antifa238

scisti/anticomunisti democratici, spesso ex partigiani e reduci dai Lager nazisti, non c’è ascolto. Niente, proprio niente di nuovo. Nella Francia del dopoguerra l’ex deportato David Rousset era stato immediatamente isolato per aver chiesto ai compagni di prigionia di promuovere la denuncia del Gulag.

Nuovi partigiani? L’amore per la resistenza nasce in questo clima. In Italia, dove molti ex partigiani si sono resi conto di aver lottato tanto e raggiunto poco, domina il topos nazionale della rivoluzione tradita, già applicato al Risorgimento e al biennio rosso. In tutta Europa, nella resistenza si trova quel che si cerca, la figura luminosa del partigiano in armi, nomi storici per le nuove organizzazioni, l’immagine di una violenza legittima, di una guerra civile e di classe. Non si trova quello che non si cerca: le lotte delle donne, le molte pratiche di resistenza civile26 che offrirebbero un modello diverso di conflittualità, i reticoli di opposizione nei Lager, il rifiuto da parte di 700.000 militari italiani internati in Germania di arruolarsi nell’esercito di Salò, che viene definito resistenza passiva. Passivo un no opposto ai nazisti dall’interno di un campo di prigionia? In fondo, ai movimenti va benissimo la divisione dei ruoli che assegna alle sinistre, in particolare ai comunisti, l’organizzazione e la violenza, ai cattolici la spontaneità e la pietas. Va benissimo che la narrazione della resistenza come nuova epopea nazionale si fondi sulla rimozione del femminile, del religioso e dell’inerme, sulla consacrazione del sangue versato e sulla sua attribuzione politica. Il Pcf si autodefinisce partito dei fucilati, e gli studenti, così critici su tutto, non trovano niente da dire. Finiranno anzi per cadere nella stessa deformazione. Nel ’78 Guido Viale scriverà: L’irrevocabilità della morte ripropone continuamente la tentazione di riappropriarsi dei caduti della rivoluzione, di trasformare l’organizzazione in un mausoleo […]. Cambiano i nomi dei compagni ammazzati, ma le parole che li ricordano sono sempre quelle. 239

L’indifferenza verso i loro nomi diventa incapacità di capire ciò per cui sono vissuti. E nessuna delle formazioni della nuova sinistra rivoluzionaria – come di quella vecchia – ne andrà in qualche misura esente27.

Il mito della fine dell’innocenza L’Italia ha una storia estrema. In nessun altro paese il neofascismo è così forte, la destra eversiva così votata alla politica delle stragi. In nessun altro paese, c’è stato un legame così aggrovigliato fra gruppi neofascisti, polizia, servizi segreti, ambienti politici e militari, delinquenza organizzata. Tanto che, secondo alcuni storici, i crimini degli anni settanta fanno parte di un unico disegno condotto da uno Stato parallelo, insieme interno e esterno allo Stato legale28. Per altri, si tratta invece di episodi riconducibili a più attori e a diversi obiettivi, con molte contraddizioni e casualità. Punto di inizio di quella che sarà definita «strategia della tensione», è il 12 dicembre 1969, nel pieno dell’autunno caldo, quando scoppia una bomba alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano – 16 morti, molte decine di feriti. La paura del golpe dilagante nella nuova e vecchia sinistra sfuma in tempi contenuti. Dura a lungo la sensazione che le istituzioni non sappiano o non vogliano scoprire i colpevoli, che la legalità possa essere pura facciata, e che a volte non ci si preoccupi neppure di salvare le apparenze – pur di stroncare il comunismo, e per comunismo si intende qualunque tipo di opposizione, dal Pci alla sinistra extraparlamentare agli operai ai gruppi terroristici che presto entreranno in scena. Si intende il male. Solo all’anarchia è riconosciuta un’identità, e a che prezzo. Del ballerino anarchico Pietro Valpreda, subito arrestato senza ombra di prova come responsabile della strage, si fa il mostro da servire in prima pagina. Del ferroviere Giuseppe Pinelli, che muore precipitando dalla finestra di una stanza della questura milanese, si fa il complice, oppure l’ultimo rappresentante della vecchia anarchia – era un uomo immerso nel suo tempo più di tanti maîtres-à-penser, che aveva aiutato i ragazzi 240

di «Mondo Beat» a stampare la loro rivista, e doveva avergli insegnato cosa sono pacifismo e nonviolenza – il libro di De Martino e Grispigni I Capelloni. Mondo Beat, 1966-1967 è dedicato alla sua memoria. Questi sono anni in cui una parte ampia e non necessariamente accecata dell’opinione pubblica pensa che nelle istituzioni ci sia di tutto, compresi ex o aspiranti golpisti, e ha ragione. Anni in cui si può tenere una persona 77 ore sotto interrogatorio, senza quasi farla dormire e mangiare, manipolandola a colpi di menzogne; e di fronte alla sua caduta in presenza di cinque poliziotti, si può dichiarare che si è suicidato per il trauma di aver scoperto la colpevolezza di Valpreda, poi riconosciuto totalmente estraneo e assolto. Negli anni settanta, le stragi continuano, altre bombe verranno fatte esplodere a casaccio tra folle di innocenti, come alla questura di Milano nel 1973, a piazza della Loggia a Brescia nel maggio ’74 durante una manifestazione sindacale, sul treno Italicus nello stesso anno – e, dopo una fase di latenza, alla stazione di Bologna nel 1980, con 80 vittime. Nella memoria di moltissimi militanti, piazza Fontana segna la fine dell’innocenza, della bella politica29. È una verità parziale. Sono reali il trauma, la sensazione improvvisa di una vulnerabilità cui bisogna rimediare. Reali il dolore, la voglia di vendetta, lo sgomento per la costruzione a freddo del «mostro» anarchico e per il tentativo di azzerare lo spartiacque fra il modello di violenza stragista della destra e quello di violenza selettiva della sinistra. Quando, nella ballata che porta il suo nome, Pinelli dice: «un compagno non può averlo fatto», rivendica precisamente quello spartiacque. È meno vero lo stato di grazia originario, una costruzione in cui il desiderio di preservare la propria autoimmagine e l’idealizzazione nostalgica sono tenuti insieme da qualche vuoto di memoria. Di una stretta organizzativa – la forma partito – si parlava già a fine ’68, le gerarchie interne si erano stabilizzate, i militanti meno irreggimentabili messi sotto osservazione. Era iniziata quella rilettura del passato che si accompagna a ogni discorso-esercizio-prospettiva di potere, poco importa quanto 241

piccolo. A Torino, palazzo Campana, fine ’67-inizio ’68, si scherzava sui professori che ripetevano di aver fatto la resistenza e sugli allievi che la studiavano – ironia affettuosa, e insieme sintomo di distacco. Tempo pochi mesi, tutto cambia. Il passaggio alla resistenza leggendaria, tradita, di classe, avviene ben prima della strage. In una intervista su piazza Fontana, Adriano Sofri riconosce la sua portata periodizzante, ma aggiunge una riflessione su un «versante minore e meno esplorato» – l’idea che gli innocenti abbiano il diritto di scagliare la prima pietra e la nostra convinzione di esserlo, mentre anche prima del 12 dicembre «ci riempivamo la bocca di discorsi bellicosi, e forse la nostra pietra l’avevamo già lanciata». L’innocenza in nome della quale ci si sentiva legittimati a reagire, «non ci ha evitato la tragedia di trasformarsi in lanciatori di pietre»30.

Una violenza «naturale» Isabelle Sommier ha notato che nel fiume di documenti prodotti negli anni settanta non ne esistono di esplicitamente dedicati ai modi di legittimazione della violenza, come se non se ne sentisse il bisogno. Ci sono differenze teoriche e pratiche a seconda delle fasi, delle organizzazioni, degli individui – era diverso trovarsi in un gruppo guidato da Cohn-Bendit o da Goldman –, dei paesi – in Italia e in Francia dominano una concezione conflittuale della politica e una certa diffidenza verso le istituzioni. Nel 1959, solo il 28% degli italiani pensava di poter partecipare a decisioni politiche su scala nazionale contro le scelte dei governi, negli Usa ne erano convinti il 78% dei cittadini, nel Regno Unito il 62%31. Il passaggio alla violenza o al terrorismo ha il suo terreno elettivo nella chiusura politica (Giappone, Italia) e nei governi di unità nazionale (Germania, ancora l’Italia), che fanno apparire impraticabile una alternativa attraverso i meccanismi istituzionali32. Ma a tutti o quasi, la violenza sembra una scelta naturale. Anche per questo, l’elaborazione è povera. Nel ’67-’68, fino a maggio, in Europa ci si accontenta per lo più di distinguere tra of242

fesa e difesa, tra exploit individuali e azioni tendenzialmente di massa – era una semplificazione, ma anche la realtà era più semplice. Mentre ci si avvicina agli anni settanta, alcuni gruppi – i mao-spontaneisti di Vive la révolution, Lotta continua, Avanguardia operaia, Manifesto – insistono su quella distinzione, ma esaltando lo scontro di massa come passaggio legittimo e necessario perché l’antagonismo fra le classi si esprima in tutta la sua forza. Per altri gruppi maoisti, la violenza delle «avanguardie» avrebbe la funzione di esempio e stimolo per le lotte popolari – è, trasposta all’occidente, la teoria fochista delle guerriglie in America Latina, molte scintille che dovrebbero innescare la grande rivolta. Guerra no, guerriglia sì, è il secondo caposaldo dei movimenti. Il primo è l’identificazione del soggetto rivoluzionario nella classe operaia. Il terzo, l’interesse di alcune organizzazioni per altri soggetti – che qualcuno definiva «sostitutivi», mentre non lo erano affatto – i detenuti, i disoccupati, i soldati, e i ribelli, gli esclusi. Nonostante qualche dissenso isolato, qualche ammonimento sulle conseguenze politiche di una scelta violenta, tutti parlano di lotta armata, e i gruppi della cosiddetta nuova sinistra si danno strutture più o meno «coperte», almeno in teoria. In Francia perché dopo il maggio si immagina un futuro immediato di guerra civile33; in Italia perché l’intensità delle lotte operaie fa apparire credibile l’idea dello «scontro generale»; negli Stati Uniti perché la crisi dell’Sds lascia campo libero a una schiera di aspiranti rivoluzionari professionali e di disperati. Oltre che poveri, i discorsi sulla violenza sono abbastanza vaghi da aprire grandi spazi di discrezionalità. È opinabile, per esempio, dove passi il confine tra risposte modulate sulla gravità del momento o deliberatamente fuori misura, fra l’esigenza di autoproteggersi e la bellicosità come valore, fra avversari diversamente responsabili e pericolosi. Sono opinabili i criteri di distinzione fra la violenza di base e quella di commando. In Francia gli attacchi di militanti maoisti a piccoli capi di fabbrica vengono attribuiti a gruppi operai, e i trockisti fanno notare pubblicamente il carattere sostitutivo dell’iniziativa di massa che questa pratica ha assunto34. 243

Dal ’68 ai gruppi Che il rapporto con la violenza proceda per salti, e cambi da situazione a situazione è un’ovvietà riconosciuta da tutti. Sul ’68 a Torino Viale scrive: «il movimento studentesco non l’ha inventata (la violenza), né scoperta. La riceve. E non si interrogherà mai a fondo sulle sue ragioni e sui suoi principi»35. Salvo quest’ultimo elemento, è l’identica interpretazione presente nel movimento operaio almeno a partire dal 25 aprile 1945, spiega De Luna, facendo notare la contraddizione fra il distacco degli studenti dalla cosiddetta vecchia sinistra e la continuità con l’immagine di violenza necessaria e difensiva della resistenza. E aggiunge due elementi per argomentare quella tesi: non c’erano forze politiche organizzate che potessero far confluire nel movimento una teoria della violenza; ci si basava su esempi concreti, non su una scelta teorica36. Vero. Però c’è qualcos’altro che un ragazzo (e non solo lui) riceve, o meglio ha in sé, l’associazione fra maschile e violenza, così antica e pervasiva che le forme in cui si incarna non sembrano costruzioni simboliche, ma espressioni di un dato di natura – ecco perché diventa facile non interrogarsi. In questo senso la violenza non ha bisogno di propagandisti, cammina in relativa autonomia. Il che non cancella il peso della cronaca – la repressione, lo scivolamento verso la bellicosità; della storia – le teorie, gli eventi; del dato biografico decisivo: questa generazione non ha vissuto guerre. Spesso è ritenuto decisivo il ritorno dopo il maggio alla ortodossia marxista. Decisivo, non esclusivo, e, secondo alcune interpretazioni, immaginario. Scrivendo nel ’69, Hannah Arendt precisava che nel pensiero di Marx non compare affatto l’ideologia della violenza come motore principale della storia e della maturazione individuale e della classe: a formare l’uomo è il lavoro37. Né viene da Marx l’ideologia secondo cui il vero cittadino e il vero uomo ha il diritto/dovere di portare le armi. È il prototipo consegnato alla modernità dalla rivoluzione francese e dalle sue leve di massa, paradigma maschile e guerriero del rapporto fra lo Stato e l’individuo38. Un prototipo che si è riverbe244

rato in una costellazione di idee e figure non sempre coerenti fra loro e non sempre riducibili a una posizione politica: dall’appoggio comunista alle guerre di liberazione all’immagine del ribelle quarantottesco, dall’ardito dannunziano al combattente di Spagna, dal proletario armato al leninista avanguardia della classe. Sono modelli, certo, semplificazioni, che hanno però due punti di forza. Il primo: valgono per lo studente, e a dispetto delle differenze, per il poliziotto, per il fascista, per la maggioranza silenziosa. Se si dicesse al militante di un servizio d’ordine che fra i suoi antenati ci sono Jünger e Mazzini, ne sarebbe offeso, come un agente se si sentisse paragonato al funzionario leninista. Eppure è così. Il secondo: non c’è bisogno di conoscere quei modelli per esserne influenzati. Gridare slogan inneggianti a Stalin o a Pol Pot è una barbarie sorretta dal legame spesso inconsapevole con le genealogie della violenza. Poi esistono specificità nazionali e locali. Negli Stati Uniti, lo spirito da pistola più veloce del west con cui i militanti affrontano la polizia durante le registrazioni per il voto, affonda le sue radici nel mito della frontiera e del pioniere armato di fucile. In Europa tutti gli Stati, eccetto la Germania, alla fine della guerra hanno preso a simbolo della rinascita nazionale la figura del giovane maschio combattente. L’impazienza che in Italia domina l’intera area dei movimenti (e il terrorismo) non nasce solo dalla giovinezza – la Weatherman Temptation39; viene da lontano, dal tema nazionale delle rivoluzioni tradite, dall’attesa del giorno in cui «ai padroni gliela faremo pagare», come dice una canzone del movimento, Il vestito di Rossini. È in genere meno ricordato il ruolo della fede religiosa. Mentre la teologia della liberazione si schiera a fianco della lotta contro le dittature sudamericane, in Italia nel dicembre 1968 si tiene il XXIII Convegno universitario cattolico, titolo: La violenza dei cristiani. Giulio Girardi stigmatizza il dominio dei popoli ricchi, che rende «sempre più incalcolabili le distanze e più disperata la situazione dei poveri». E Juan Arias: «il razzismo, lo sfruttamento e la distruzione dei deboli, l’indifferenza di fronte alla miseria sono incompatibili col Vangelo e esigeranno sempre un atteggiamento di violenza da parte del Cristiano»40. La spe245

ranza nell’aldilà si è trasformata nella tensione verso una società nuova – l’aldilà immanente – e i molti credenti che confluiscono nel marxismo ne esaltano gli aspetti messianici. Già nella teoria pacifista dei primi anni sessanta si poteva cogliere una visione del mondo come teatro di uno scontro tra forze del bene e forze del male41. Una storia disperata mostra come la lotta sia interna a ciascuno. Un militante di Prima linea, Marco DonatCattin, muore travolto da un’auto mentre cerca di soccorrere le vittime di un incidente. È la stessa persona che aveva sparato a freddo contro bersagli umani.

Movimenti e terrorismo La sensibilità manichea così familiare alla nuova sinistra rende più complicato affrontare la presenza delle organizzazioni terroristiche, specie nella loro fase «movimentista». In Italia nell’area armata si scontrano grosso modo due modelli: uno – l’esempio è Prima linea – che cerca di mantenere un legame con i movimenti scegliendo obiettivi collegati o collegabili alle lotte, e per questo evita finché possibile la clandestinità. L’altro, le Brigate rosse, che della clandestinità fa una regola assoluta: dopo prime azioni che guardano alle fabbriche come il sequestro incruento di dirigenti, l’obiettivo diventa colpire il «cuore dello Stato» attraverso i suoi simboli, con omicidi spettacolarizzati da cui ci si aspetta che mobilitino la classe operaia. In Italia parecchi terroristi vengono, oltre che dal Pci e dall’attivismo cattolico, dai gruppi, e inizialmente le azioni non sono radicalmente diverse. A volte nel passaggio all’illegalità c’è molto di casuale: basta ricevere una telefonata con la richiesta di nascondere un compagno che ha ferito un fascista, racconta un dirigente di Avanguardia operaia, e ci si trova dentro42. Dalle organizzazioni armate si esita a prendere recisamente le distanze perché si pensa che in alcune fabbriche siano viste con qualche simpatia, ed è vero. Servirebbe una politica autoprotettiva, capace di bloccare iniziative decise per tacitare frange impazienti, di non cedere alla competizione con le sigle armate in materia di reclutamento, 246

alla gara di visibilità fra gruppi extraparlamentari – più coraggio, e più precocemente. Che non sempre sia andata così non azzera lo scarto fra la violenza terroristica e quella della nuova sinistra. Una cosa è l’aggressione verbale, con i suoi precipizi di brutalità che riducono gli individui a simboli, altra cosa è il passaggio all’atto che li cancella. Una cosa è battersi con la polizia a colpi di molotov e di manici di picconi, tendere agguati a capi, quadri di fabbrica, esponenti della destra estrema, ma tenendo ferme la priorità del «lavoro di massa», l’eccezionalità del ricorso alle armi e la tesi foucaultiana del potere disseminato nei gangli della società. Altra cosa è autoproclamarsi avanguardia armata del proletariato, vedere nell’atto esemplare l’unica strategia, plasmare se stessi e l’organizzazione esclusivamente in funzione della violenza – inizialmente è proprio sulla scelta della clandestinità totale che si appuntano le critiche dei gruppi extraparlamentari, con l’accusa ai terroristi di essere noti alla polizia e sconosciuti ai proletari. Un legame esiste. La campagna di Lotta continua contro Calabresi non è la causa del suo omicidio, ma ne è uno dei contesti. Anche i militanti uccidono, come a Primavalle, dove nel ’73 due figli della famiglia Mattei, legata all’Msi, muoiono bruciati in un attentato alla loro casa, o a Torino nel ’77, quando da un corteo si lanciano bottiglie molotov in un bar che si dice sia frequentato da fascisti, dopo aver fatto uscire i clienti, e nessuno si accorge che all’interno è rimasto il ragazzo Roberto Crescenzo. Non volevano uccidere, è vero; eppure l’assenza di volontà omicida assomiglia a quello dell’ubriaco che si mette al volante senza pensare che può fare una strage. Ma fra terrorismo e movimenti c’è anche un salto. Qualcuno ritiene anzi che la nuova sinistra abbia fatto in parte argine al terrorismo, offrendo con la sua stessa presenza uno sbocco diverso e esercitando un certo controllo sui militanti. Infatti in Italia alcune formazioni armate nascono o si affermano in coincidenza con la crisi dei gruppi extraparlamentari. Il confine non era impermeabile, ma reggeva. Oggi molti militanti riconoscono quel legame, diretto o indiretto, totale o parziale, identificandolo nelle scelte soggettive, e riconoscono il salto, collocandolo sul piano della conce247

zione politica43. Con ragione. Per Donatella Della Porta, quel che distingue una organizzazione terrorista da un’organizzazione politica è l’isolamento progressivo dalla realtà esterna, l’identificazione acritica con il gruppo, l’immersione nella violenza fino a un punto di non ritorno44 – la logica dell’istituzione totale. Definire anni di piombo i settanta, in particolare il 1977, la stagione dello «strano movimento di strani studenti»45, che «nessuno sa bene da dove vengano e nessuno sa dove vadano»46, dà conto del sangue versato – da Giorgiana Masi, uccisa dalla polizia a Roma nel maggio 1977, all’agente Antonio Custra, ucciso poco dopo a Milano da un gruppo di autonomi, a Carlo Casalegno ferito a morte dalle Br nel novembre di quell’anno. Dà conto del dolore, dello svuotamento della politica. Ma quella definizione ignora altre facce del movimento del ’77 e quel che rappresentano: sangue risparmiato – le radio libere, l’ala creativa dell’autonomia, il valore dato al gioco47, le imprese degli indiani metropolitani, le comunità che si ricreano dopo il disfacimento di quella sessantottina48, sono lavoro per la vita. Il che non rende la distruttività e l’eroina meglio sopportabili, ma racconta una storia più vera. Detto questo, il discorso non si chiude. Per gli extraparlamentari essersi distinti dal terrorismo è un blasone minimo, che non cancella né la violenza agita in prima persona, né l’incapacità di contrastare altri aspetti di imbarbarimento della politica, affiorati ben prima. Da quegli anni e dalla responsabilità di cercare una misura onesta per raccontarli, è difficile chiamarsi fuori. Pentitismo lacrimoso, secondo alcuni; narcisismo del criticarsi da soli, a scanso di critiche altrui, scrive Marcello Veneziani49. E allora? Quando si è gridato tante volte «vous êtes tous concernés», «I care», «non crediate di non essere complici», il vizio rimane.

Come creare la politica [Nei primi cortei interni] la paura era ancora tanta, e i cortei dovevano riuscire per forza, per evitare che quelli che avevano iniziato fossero individuati e licenziati. Si partiva, si andava verso quelle squadre che eravamo sicuri che avrebbero scioperato, battendo ritmicamente sulle 248

lastre che usavamo come tamburi, e così il corteo si annunciava [...] e quando incontravamo un caporeparto gli si metteva tutti intorno come gli indiani, a battere e a ballarci intorno finché questo non si ubriacava e finiva dentro il corteo [...] man mano che li facevi i cortei diventavano sempre più grossi, la gente ci trovava non tanto un mezzo per ottenere più soldi e ferie, quanto la libertà. Si sentivano nuovamente uomini [...] perché avevano rotto le catene dopo tanto tempo. Questo era anche l’effetto che faceva a me: non mi sono mai sentito tanto uomo come nell’autunno caldo50.

E per chi aspettava il corteo, già un chilometro prima la gente incominciava a scappare. Scappavano i capi. A un bel momento vedo entrare Luciano Parlanti, Roby, Antonio il Prete, Zappalà, tutti questi qui [...] ci siamo messi a piangere. Lì abbiamo capito... forse è incominciata la nostra era, forse possiamo riscattarci, adesso sì. Abbiamo fatto bene a venire qui al nord [...]. Ci siamo abbracciati, e quello poteva veramente significare di tutto. Poteva voler dire «abbiamo vinto», «ci siamo finalmente tirati fuori dalla merda», «abbiamo riscattato il nostro onore, il nostro orgoglio». Pensavi a tuo padre, alla vita che aveva fatto51.

Sono racconti dei cortei a Mirafiori del 1969. Racconti in cui tutti i compiti che i movimenti hanno assegnato alla violenza sono presenti. Si rinasce, si mette simbolicamente a morte l’oppressione, si esercita una moralità come scelta per la giustizia di contro all’arbitrio del regime di fabbrica. Come sulle barricate di maggio, si vive la bella politica, lotta e festa. Si crea un intreccio nuovo per raccontare la propria storia, un intreccio in cui è decisivo aver sperimentato la forza congiunta di cuori, menti, corpi. Si costruisce una comunità. In questi anni in fabbrica passa molta vita – politica, amori, amicizie, commerci, partite a carte, e nei reparti verniciatura la confezione di oggettini di lacca colorata da regalare alle ragazze. Solo ricordando questo clima, si può capire la tragedia vissuta dagli operai con il terrorismo, quando si rendono conto che attaccare apertamente un capo può avere come conseguenza la sua aggressione, e il proprio arresto come brigatista o fiancheg249

giatore. Quando capiscono che gli slogan minacciosi dell’autunno caldo sono diventati impronunciabili dopo che le Brigate rosse li hanno realizzati alla lettera. Solo 62 operai Fiat passano alla lotta armata, ma «l’ombra della clandestinità di alcuni finì per rendere ognuno clandestino a ogni altro»52.

Come disfare la politica Se c’è un elemento capace di far apparire accettabile, addirittura necessario, il deficit di democrazia interna delle nuove sinistre è appunto l’esercizio della violenza, con quel tanto di opaco e misterioso che comporta. Quando si ha una struttura sul filo dell’illegalità, come la Gauche prolétarienne e le organizzazioni extraparlamentari italiane, o clandestina, come alcuni gruppi americani post-’68, deperiscono i meccanismi di confronto e controllo. Si introduce un filtro delle informazioni, creando una gamma di verità da dire o non dire a seconda del ruolo dei militanti o dei legami di amicizia, si istituisce una pratica della menzogna uguale a quella della politica di sempre. Si sprofonda nella dicotomia amico/nemico. I Weathermen usano il linguaggio dell’odio, e sì che il loro nome era rubato a Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan: «you don’t need a weatherman to know which way the wind blows». Dando la notizia dell’omicidio di un bambino figlio di un minatore, il giornale della Gauche prolétarienne «La cause du peuple» scrive del responsabile designato, il notaio del villaggio: «Bisogna farlo soffrire a poco a poco! Ce lo diano, lo faremo a pezzetti con il rasoio. Bisogna tagliargli i coglioni!». Alcuni militanti inorridiranno a questo linguaggio53. In Italia, dopo che nel 1975 il ragazzo Sergio Ramelli del Fronte della gioventù è stato ucciso a sprangate, si grida «Tutti i fascisti come Ramelli, con una riga rossa fra i capelli»54. Dalla classifica dell’amore e del dolore si è arrivati alla classifica delle vite – il che contribuisce a spiegare la non generale, ma non rara, omertà con i responsabili di crimini di cui pure si ha orrore. A proposito della guerra di Spagna, Simone Weil aveva scritto: «un abisso separava gli uomini armati dalla popolazione disarmata, un abisso in tutto simile a quello che separa i poveri dai 250

ricchi. Questo si sentiva nell’atteggiamento sempre un po’ umile, sottomesso, timoroso degli uni e nella sicurezza, nella disinvoltura, nella condiscendenza degli altri»55.Vale, fatte le proporzioni, anche per le armi improprie e per la simulazione di guerra degli anni settanta. I servizi d’ordine possono essere sia centri di raccolta di ragazzi interessati più allo scontro che alla politica, sia ottimi canali per accedere a ruoli di leadership altrimenti inattingibili, mentre la maggioranza dei/delle militanti rimane schiacciata alla base. Cambia la fisionomia delle organizzazioni, possono cambiare le persone, e qui molto dipende dal posto che gli strumenti della violenza occupano nella loro testa. Per gli operai, palanchini, scope, pezzi di latta, spranghe sono arnesi di lavoro riconvertiti, che di per sé non aggiungono molto all’identità, e che poi torneranno all’uso consueto – come avveniva per le falci, i rastrelli e i battigrano con cui i contadini andavano all’assalto dei municipi56. Le drag queens che partecipano al tumulto del 28 giugno 1969 allo Stonewall Inn attaccano con borse strapiene di cosmetici, cinture, tacchi a spillo, gli strumenti del loro teatro quotidiano. Per un militante, invece, spranghe e bastoni non si associano che alla violenza, e anche per questo diventano facilmente un vanto, il simbolo di uno status speciale, un modo di essere. Se hai un manico di piccone fra le mani non solo finisci per usarlo, ma finisci per ragionare come uno che ha un manico di piccone fra le mani. Fortunatamente negli scontri c’è un sano elemento di ritualizzazione che può salvare la vita. «A un certo punto, era diventato un gioco che si riproduceva, un gioco militare. Mi ricordo che a Milano facevamo un corteo alla settimana». «Se c’era una forte componente di violenza [negli scontri con la polizia], spesso c’era anche un elemento direi ludico. Nel ’77 la cosa comincia a essere differente, perché non fa più parte del gioco»57. Anche durante il maggio, c’è stata una certa autolimitazione58. Se no, una battaglia fra giovani maschi variamente armati sarebbe finita in un massacro. Ma la trasformazione resta. Il modello del militante specializzato in violenza assomiglia un po’ a quello del soldato, che deve affrontare i nodi tagliandoli invece di provare a scioglierli, 251

che considera ovvio lo scarto fra mezzi e fini, e naturale il passaggio a un’offensiva più dura; un po’ a quello dell’impiegato statale, che bada a seguire l’iter burocratico senza interrogarsi sui programmi – e qui si celebra il funerale del sessantotto, con la sua indifferenza per i risultati e la sua voglia di essere eterno.

Poteva andare diversamente A meno di non voler applicare retrospettivamente lo slogan sessantottino «Siate realisti, chiedete l’impossibile», ha poco senso imputare ai movimenti di aver abbandonato la nonviolenza iniziale, o di non averla neppure presa in considerazione. Ha senso invece mostrare che le cose non dovevano necessariamente andare come sono andate. Anche nei primi anni settanta c’erano soggetti che continuavano a agire e a pensare il conflitto fuori dal modello della violenza: oltre agli hippie e ai fricchettoni dell’Sds, i fautori della marcia attraverso le istituzioni, che non implicava di per sé metodi distruttivi né il misconoscimento dei diritti democratici – fra i leader europei, Rudi Dutschke è il primo e il più deciso nella condanna dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia. C’era il femminismo. C’erano sfumature e divergenze interne al mondo dei militanti. Dissensi espliciti, anche: nel maggio ’75, dopo una manifestazione in cui si è gridato lo slogan su Ramelli, Paolo Hutter e Nino Vento appendono nella sede milanese di Lotta continua un tazebao firmato contro la barbarie di quel linguaggio59. Persino fra gli slogan più bellicosi passava qualche differenza, come nel caso di «Vietnam vince perché spara» e di «Agnelli l’Indocina ce l’hai in officina»: massima astratta l’uno, che scavalca il qui e ora e vincola il riscatto alle armi; voce dell’orgoglio di classe l’altro, che usa il Vietnam per dare un nome al sovvertimento attuato in prima persona e senza armi. In Francia e in Italia, preti operai e comunità di base testimoniavano la vitalità del mondo cattolico, che, sia pure non sempre, praticava la nonviolenza. Nei licei francesi circolava Le déserteur di Boris Vian e Harold Berg, una canzone del ’54 che iniziava: 252

Monsieur le Président Je vous fais une lettre Que vous lirez peut-être Si vous avez le temps Je viens de recevoir Mes papiers militaires Pour partir à la guerre […] Je ne veux pas la faire Je ne suis pas sur terre Pour tuer des pauvres gens60.

E finiva: «Si vous me poursuivez / Prévenez vos gendarmes / Que je n’aurai pas d’armes / Et qu’ils pourront tirer»61. La versione iniziale degli ultimi due versi era «Que je tiendrai une arme / Et que je sais tirer»62, e Vian aveva accettato di modificarla per lasciare intatta la sua impronta pacifista. C’era la ribellione giovanile. I militanti italiani che (non tutti) la guardavano con una certa sufficienza, avrebbero avuto qualcosa da imparare, specie da «Mondo Beat». «Siamo accusati di pacifismo generico», scriveva nel ’67 la rivista, «perché siamo contro l’aggressione americana in Vietnam, ma siamo anche contro l’aggressione sovietica in Ungheria, l’aggressione cinese in Tibet [...] il nostro atteggiamento riguarda e interessa ogni aggressione, da qualsiasi parte provenga, perché la priorità dell’ideologia sulla vita degli uomini mena dritto a Auschwitz, e alla Siberia, al Vietnam e a Budapest»63. Questo invito all’onestà intellettuale resta inascoltato, e resta inascoltato l’invito di Carla Lonzi a stringere un’alleanza donne/giovani contro il patriarcato, che rappresentava l’indicazione più fondata storicamente, più praticabile, più efficace nel superare le dicotomie maschile/femminile, giovane/vecchio. «La donna che rifiuta la famiglia, il giovane che non vuole fare la guerra» smentiscono tutti e due il diritto di vita e di morte del padre/patriarca. E potrebbero annullarlo, purché il giovane abbandoni «la cultura della presa del potere che è monopolio non solo della cultura borghese ma anche di quella rivoluzionaria e socialista»64. Come argomenta splendidamente Maria Luisa Boccia, il mancato 253

distacco è una delle ragioni che portano al fallimento dei tentativi di porre un limite, se non di eliminare, l’uso della violenza65. In molti paesi c’era una presenza circoscritta ma attiva della nonviolenza organizzata – in Italia, sull’onda dell’umanesimo cattolico francese era nata nel ’58 la rivista «Quaderni di spiritualità», la futura «Testimonianze», che si fa portavoce del dialogo fra culture e dei temi sociali; nel 1961 si era tenuta la prima marcia della pace Perugia-Assisi, piccoli gruppi digiunavano per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, padre Balducci e don Milani difendevano la posizione degli obiettori da alcuni duri attacchi di cappellani militari. Sarebbe bastato guardarsi intorno per incontrare teorie e pratiche altre da quelle del marxismo ortodosso o critico, per scoprire le opere di Gandhi, King, Thoreau, Capitini. Sarebbe bastata un’attenzione più libera al passato. C’erano pezzi di mondo in cui la nonviolenza aveva condotto a una vittoria. L’India, che era impossibile ignorare, la meno nota Danimarca, dove migliaia di persone, in genere senza alcuna esperienza di clandestinità, si erano mobilitate nel 1943 per traghettare in Svezia i loro concittadini ebrei, facendo di più e meglio di qualsiasi organizzazione armata. La banalità del male, il libro sul processo Eichmann in cui Hannah Arendt racconta questa storia, era uscito nei primi anni sessanta66. C’erano le lotte per i diritti civili: si diceva che a portare le donne nere fuori dalle cucine dei bianchi era stato Hitler, ma per farle sedere nella parte «bianca» di un autobus ci era voluto Martin Luther King. Purtroppo intorno non si guarda, o meglio lo si fa con gli occhi della tradizione combattentista maschile e di un presente selettivo, che mostra lotte operaie inaspettatamente forti in Francia e Italia. Che esalta le guerriglie urbane e i movimenti di liberazione anticolonialisti, fino a cancellare Gandhi. Che sottovaluta il dissenso all’est. Che, peggio ancora, scambia la nonviolenza con l’assenza di conflitti, quando è una politica per gestirli in modo evoluto. Vent’anni dopo i regimi comunisti crollano, con l’eccezione della Romania, in seguito a manifestazioni popolari largamente spontanee e disarmate, con un numero contenutissimo di vitti254

me, meno di quelle provocate nelle repubbliche baltiche nel gennaio ’91 dalle truppe mandate da Gorbacˇëv contro i manifestanti indipendentisti. Eppure in occidente si insiste soprattutto sulle origini economiche della crisi, sul caos istituzionale dell’Urss gorbacioviana, come se gli intellettuali del dissenso nonviolento, che hanno mantenuta viva agli occhi della popolazione la possibilità di un’alternativa, fossero un elemento di contorno. E poi, che rivoluzione è una in cui i berlinesi abbattono il muro pacificamente e Rostropovicˇ suona davanti alle sue macerie? Altri 10 anni dopo, l’intervento della Nato in Kosovo. Quanti sanno che i kosovari avevano praticato a lungo la resistenza civile, e che tutto il mondo li aveva ignorati? Perché si mobilitasse, c’era voluto il passaggio alla lotta armata. Sarebbe assurdo dirottare ogni responsabilità sulla tradizione comunista e rivoluzionaria, sugli intellettuali, sul partigiano che dichiarava pubblicamente di aver consegnato dopo la liberazione soltanto i «ferrivecchi». I movimenti scelgono determinati maestri e compagni di strada, determinate genealogie e modelli perché ne riconoscono la somiglianza con se stessi. E perché c’è il Vietnam. Per i giovani europei la lotta di popolo contro l’imperialismo, per i giovani americani come Susan Sontag una tensione continua «dentro la mia testa, sotto la mia pelle, alla bocca del mio stomaco»67, «una malattia»68.

Uomini contro donne Incontrando il binomio donne/violenza, si pensa immediatamente agli attacchi verbali e fisici, agli stupri, mutilazioni, assassini. Storie di ogni tempo e luogo, agite da estranei o dai più vicini, per strada, in casa, al lavoro. E aggressioni esplicitamente politiche: negli Stati Uniti contro infermiere e ginecologhe delle cliniche dove si praticano aborti. A Roma nel ’77 contro un gruppo di donne che trasmette da una radio libera. Nel ’79 a Parigi contro la Librairie des femmes, firma: una croce celtica. Fin dai suoi esordi il femminismo (una sua parte) ha promosso denunce, elaborato discorsi, creato rifugi per le vittime. Sulla violenza sessuale ha messo in piedi negli anni settanta e ottanta 255

campagne seconde solo a quella per la depenalizzazione dell’aborto, organizzato grandi manifestazioni per «riprendersi la notte», prodotto libri e una mole di riflessioni. La più importante: lo stupro, faccia speculare del legame fra violenza «privata» contro le donne e violenza guerresca, non nasce dal desiderio sessuale, ma dalla volontà maschile di affermare il proprio potere. Per le Féministes révolutionnaires è un modo per rimettere le donne al loro posto nell’ordine patriarcale. Per Psychanalyse et politique è in continuità con «tutto il resto», la drague, lo sguardo degli uomini, l’avvilimento del corpo, la pornografia. Sul nesso fra stupro e ordine politico e simbolico c’è un accordo praticamente generale, come sul suo rapporto con l’asimmetria nel campo delle relazioni private. Non è un caso se in molte legislazioni si sancisce prima la parità uomo/donna in politica, e solo dopo nella famiglia. Si deve lottare anche nei movimenti, contro l’ideologia (di uomini e di donne) secondo cui uno stupro è meno grave se compiuto da un soggetto socialmente debole o di un’altra cultura. Solo le Femmes en lutte sostengono che la responsabilità è «della borghesia, con la sua pubblicità, l’industria pornografica, la miseria sessuale imposta alle masse». Ma giornali come «Libération» e «Rouge» criticano il ricorso delle donne violentate alla giustizia, accusandole di schierarsi dalla parte della repressione. «Viol de gauche, viol de droite, même combat», risponde uno striscione del Mouvement de libération des femmes69. Nell’insieme, il femminismo è decisivo per smuovere i quadri mentali e far passare leggi più rispettose di chi è vittima e più sensate nelle ipotesi di reato – in Italia lo stupro era perseguito come offesa alla morale, oggi lo è come delitto contro la persona. L’ideologia che fa risalire la violenza a comportamenti femminili, modi di parlare, di fare, di vestirsi, di essere, resiste ancora, ma ha perso legittimità, grazie anche al cinema, che ha saputo tradurre le teorie in racconto. Spicca Sotto accusa, dove Jodie Foster, prototipo della cattiva (imprudente e impudente) ragazza, denuncia lo stupratore e ne ottiene la condanna, a dispetto dei pregiudizi contro di lei. Infine, e certo non per ultimo, i discorsi delle donne hanno contribuito alla formazione di gruppi maschili70 dove si riflette 256

sulla violenza senza fare del colpevole l’altro da sé. Se non è vero che ogni uomo è potenzialmente uno stupratore, esistono responsabilità per indifferenza, tolleranza, cecità. Allo stesso modo, se è non vero che tutti gli uomini sono violenti, esistono «i compagni che menano»71, come scrive una ragazza al giornale «Lotta continua», trasformato negli ultimi anni settanta in una tribuna per il non detto di tante e tanti. A «Viol de gauche, viol de droite, même combat», si potrebbe aggiungere «Botte di destra, botte di sinistra, stessa lotta». Quando le donne dei gruppi extraparlamentari italiani decidono di riunirsi o di manifestare separatamente, ci sono militanti che passano alle provocazioni o all’aggressione fisica. Come nel ’72 a un convegno romano organizzato dai collettivi di Lotta femminista, negli «episodi di intolleranza» durante un’assemblea sull’aborto promossa dalle donne legate al Manifesto nel ’7372. Come il 6 dicembre 1975, durante un corteo di sole donne sull’aborto, dove si arriva allo scontro diretto con i militanti del servizio d’ordine di Lotta continua di Cinecittà73 decisi a sfilare anche loro. È sempre un doppio trauma: ci si deve difendere da persone con cui si è condiviso tanto, si vede cadere in pezzi il tabù secondo cui non si colpisce una donna, che, pur contraddetto infinite volte, ha ancora presa, e che spesso si è accompagnato con un impegno alla protezione. Il 9 febbraio ’71, Richard Deshayes, dirigente del Front de libération de la jeunesse di Vive la révolution, viene gravemente ferito e perde un occhio perché in uno scontro si è fermato a aiutare una ragazza a alzarsi da terra. I nostri – dicono le militanti della Gauche prolétarienne – ci avrebbero camminato sopra, e poi l’avrebbero rimproverata per non essere rimasta in piedi74. È un buon criterio per valutare le differenze fra un’organizzazione e l’altra.

Femminismo e violenza femminile Di fronte alla somma di sopraffazioni patite, ancora oggi si ha quasi paura di nominare la violenza delle donne, specialmente negli aspetti su cui c’è stata meno elaborazione. Della distrut257

tività psicologica e simbolica nei collettivi, si sono cercate da subito le radici. Già nel ’71 Jo Freeman, una delle prime a rifletterci, indicava nel culto dell’informalità un ostacolo a relazioni libere, e proponeva in alternativa vari meccanismi, dalla rotazione dei compiti al lot system: cosa c’è di meno violento che assegnare un incarico tirando a sorte? Dappertutto si è lavorato sui conflitti interni ai gruppi di donne, sull’aggressività contro le leader, sulla vena autoritaria di alcune, sui modi in cui si riproducevano alcune dicotomie correnti in politica – alto/basso, base/vertice, consenso/dissenso –, e se ne scompaginavano altre, come quelle forte/debole, resistenza/durezza. Forse nessuno conosce più di una donna l’abisso che può esistere fra la corazza in cui si protegge a rischio di soffocare, e l’elasticità che a volte trasforma un attacco in una vincita a due. Talento grandioso, indipendente dal bagaglio culturale, e raro, a giudicare dalla storia di quegli anni. In un seminario di psicanalisi organizzato a Vincennes da Luce Irigaray e da alcune donne di Psychanalyse et politique, si arriva alla più classica delle contrapposizioni, con le partecipanti che accusano Irigaray di aver preso per sé tutta la sostanza del movimento e di essersi «fatta un nome sulla pelle delle sue analizzate»75. Nasce (anche) dall’esperienza la teoria femminista del conflitto come momento vitale delle relazioni, in cui lo scontro per quanto duro non punta a distruggere l’altro – è il contrario della guerra, che si chiude con una sconfitta e una vittoria, anzi, con due sconfitte76, e un insegnamento della nonviolenza, a volte assimilato per conoscenza diretta, a volte nato in parallelo. Meno libertà quando si parla delle esperienze in cui le donne sono sì vittime, ma non solo e non le sole, come nell’aborto, delle situazioni in cui sono state parte attiva, in proprio o come spalla di altri – non lanciatrici di pietre, ma portatrici di bottiglie molotov, sassi, bastoni77. Nel femminismo italiano e francese, i discorsi sulla legittimità della violenza politica sono anche più rari che nei gruppi «misti». Per una ragione opposta. Ai militanti sembra naturale usarla, il femminismo radicale se ne sente estraneo. Non la pratica, rifiuta di essere immischiato in un modo di sentire e di fa258

re da cui si è separato pubblicamente. Mentre le femministe dei gruppi extraparlamentari producono piuttosto, in tempi diversi, documenti che cercano di delegittimare alcune pratiche violente. Neppure nella letteratura della guerra e della resistenza il tema è centrale, anche se abbiamo alcuni racconti di Marguerite Duras, squarci nella memoria di partigiane e deportate, il grande romanzo di Alba de Céspedes Nessuno torna indietro, dove la protagonista uccide il marito suo compagno di lotta, perché con il ritorno alla normalità lui si dedica completamente alla politica, mentre lei, che si aspettava di continuare il suo impegno, se ne trova via via allontanata. Omicidio politico, di una politica che allora non sembrava tale. La fatica di guardare a fondo nella violenza dipende solo in parte dallo stereotipo che vincola il femminile alla pace e alla vita78. Conta il ruolo di secondo piano delle donne nel suo uso e nel suo racconto: nella divisione dei ruoli narrativi agli uomini toccano l’avventura, la guerra, la politica, alle donne l’intreccio amoroso e la maternità. Mi pare conti soprattutto il paradigma dell’oppressione, in cui la violenza femminile si presenta più facilmente come reazione difensiva o rivolta giustificata. Eppure negli anni settanta c’è una violenza materiale di donne, c’è tolleranza per quella altrui, c’è una responsabilità che va al di là di se stesse. Beninteso, non come effetto automatico di un’appartenenza, ma nel senso in cui la intende Jean Amery79, come somma di azioni e omissioni individuali che hanno contribuito a fare un evento o un clima – è una concezione che media fra la categoria di responsabilità storica e quella di responsabilità personale, non sul piano giuridico, ovviamente, ma su quello esistenziale sì. Con il suo lungo sessantotto e il movimento di massa delle donne, l’Italia è stata impropriamente definita la patria del femminismo più forte e più violento80. È invece il paese in cui ci sarebbe più da dire sulla distruttività che si è fermata davanti all’uccisione. In Francia e Stati Uniti il ciclo della conflittualità è più breve, in Germania l’orizzonte è dominato dal terrorismo della Raf – e Margarethe von Trotta dedica a due sorelle, una terrorista, l’altra vicina al femminismo, uno dei suoi film più no259

ti. Ma anche in Italia, a partire dal bel libro di Ida Faré e Franca Spirito81, si è discusso e pubblicato quasi esclusivamente sulle terroriste, che spesso hanno potuto scrivere la propria storia in prima persona, o l’hanno raccontata sui media e a studiosi e studiose. A volte in modo storicamente opaco e psicologicamente piuttosto chiaro: nell’intervista di una reduce del terrorismo, le vittime rimangono talmente ai margini che non servono neppure per fare una cronologia: «Io ho un ricordo di quei tre anni con le Br come di un tunnel nero. Dal ’78 all’80 non so più bene cosa sia capitato – mi ricordo benissimo del mio tipo di partecipazione agli attentati, per carità – [...] mi si confondono le cose... non ho neanche voglia di andarle a cercare»82. Poi sono arrivate alcune storiche e storici giovani83, interessati ai gruppi extraparlamentari e alle donne – in genere le seconde e terze file della violenza, oppure anime belle che rifiutavano di partecipare, ma non si alzavano in assemblea per dire agli altri di fare lo stesso. O si sono alzate piuttosto tardi. Sono storie che passano in gran parte attraverso la memoria.

Se non avessimo avuto le donne Ha raccontato Erri De Luca, responsabile del servizio d’ordine di Lotta continua: «Io ho conosciuto donne in mezzo a quegli scontri che erano più coraggiose degli uomini. Avevano una freddezza nella mischia che impediva a noialtri di ritirarci. E penso che se non avessimo avuto le donne non avremmo resistito così a lungo, non era un’attività di competenza esclusivamente maschile»84. Vero: la figura femminile è stata (è?) una delle leve più potenti per sollecitare la combattività degli uomini, perché è sull’archetipo della donna bottino del vincitore che si sono fondate sia la rivalità con l’altro sia la maschera barbarica che gli si imprime. Anche nella simulazione di guerra degli anni settanta, scappare sotto gli occhi delle compagne sarebbe sembrato doppiamente vergognoso, avere la meglio una doppia gloria. In quanti racconti di guerra e di violenza compare una ragazza che incita i suoi a attaccare. Visto da una donna: 260

Quando c’erano scontri in piazza io mi sentivo in dovere di starci fino all’ultimo, con una paura fottuta, però bisognava stare lì... C’era questa pratica orribile di dare le molotov alle donne perché si supponeva che difficilmente sarebbero state perquisite. Io credo di averlo fatto due o tre volte ma con una sofferenza, un rifiuto... Questa struttura della violenza del corteo è una cosa su cui ovviamente tutti eravamo coinvolti, perché c’era una differenziazione logistica dei compiti. Posso capire che uno mi dice: «Mettiti le bombe molotov nel tascapane». Accetto quel livello di violenza. Non quello legato all’azione dimostrativa, all’azione di «commando» [...]: soprattutto era il problema dei gruppi di fascisti, oppure contro la polizia. L’idea del servizio d’ordine, cioè l’istituzionalizzazione di un’idea di violenza, non la condividevo assolutamente85.

Le due narratrici parlano di Lotta continua, su cui oggi disponiamo di varie ricerche. Ma non è una situazione unica, e non è unico il progetto, fra il ’72 e il ’73, di addestrare le militanti al confronto fisico con un corso di arti marziali. Se nel dopoguerra le donne sono state il simbolo più visibile della nuova politica di massa, così potrebbero diventarlo ora per quanto riguarda il breve tentativo di «despecializzare» la violenza attuato in quegli anni. Successo minimo, accettato senza troppo rammarico. La rivoluzione fa conto sul corpo maschile. Quello femminile, che ha una struttura più gracile, che sanguina, porta il figlio, partorisce, è difficilmente militarizzabile. Gli si riconosce valore se diventa massa d’urto nella fusione rivoltosa con corpi simili. Non nel faccia a faccia, tanto meno nella decisione e progettazione della violenza. Vecchio copione. È per le donne che piazza Fontana implica una svolta. Più cresce lo spazio della violenza, deperisce la politica, si pietrifica la divisione dei ruoli, più la parola femminile perde peso, anche la parola di quelle cui si riconosce autorevolezza su altri piani. Ho sentito che si dividevano gli uomini, esperti di certe cose, e le donne. E mi ricordo che mi sono incazzata terribilmente perché ho sentito proprio che è come se si dicesse: «Il livello dello scontro è cresciuto, tu non puoi capire». C’era una riunione e sentivi sulla pelle che 261

venivi emarginata. Si tratta di scrivere il volantino: Daniela la notte a scrivere il volantino. Si tratta invece di fare la riunione perché si deve parlare più approfonditamente di una roba grave che sta succedendo e la riunione è di soli «quelli là»... D’impatto scoprivo che si strutturava l’organizzazione in termini maschili86. Io sono convinto, sono state anche coinvolte le donne in azioni di..., soprattutto nella fase di «antifascismo militante» [...]. Ma sicuramente Lotta continua per un lungo periodo ha avuto una scelta di «difesa attiva» e un’impostazione tipicamente maschile. [...] tendeva a negare alcuni valori che sicuramente sono più al femminile87.

Tendeva anche a soffocare i dubbi maschili: vent’anni dopo, un dirigente del servizio d’ordine raccontava di aver immaginato la rivoluzione come uno scenario buio e stagnante, occhi sbarrati che spiavano dalle inferriate di qualche cantina, come se si fosse identificato, invece che con i rivoluzionari, con i braccati. Dirlo allora sarebbe stato indecoroso. L’assurdo è che il legame fra militarizzazione e indebolimento delle donne non era nuovo né resterà irripetuto, e in situazioni tragiche. Nella resistenza il passaggio dalle prime bande all’organizzazione militare vera e propria restringe gli spazi per le partigiane, nell’Intifada il rovesciamento del ’90, con l’avvitarsi dello scontro nella spirale strage-repressione-nuova strage, toglie respiro alle iniziative delle donne88.

Non è così facile diventare un terrorista Indebolimento non vuol dire impotenza. All’epoca le donne tacevano meno di quanto si ritiene oggi. Nel condividere molto e nel parlare di (quasi) tutto, entrava anche la violenza, in primo luogo nei dialoghi informali e nei rapporti d’amore. «Non è così facile diventare un terrorista se la tua ragazza non vuole saperne», ha detto il premio Pulitzer Lawrence Wright di recente dopo un soggiorno in Arabia Saudita89. Non è neppure così facile restare antifemminista. Nel movimento per i diritti civili alcune possono contare su mariti solidali. Spesso l’amore è una spinta a rompere 262

solidarietà maschili ormai pesanti. Ma in altri casi può essere un passaporto per la violenza femminile: di Patricia Hearst, una ereditiera americana militante del gruppuscolo armato Esercito di liberazione simbionese, si è fatto il prototipo della donna innamorata e arruolata, o all’opposto della commediante che finge di esserlo stata per strappare una pena più lieve. In Italia, i dissensi pubblici sulla violenza fanno scoppiare animosità proporzionali alla coesione di un tempo, o al suo ricordo mitico. Peccato che anche su questo punto a essere documentate siano quasi soltanto le vicende di Lotta continua. A Torino, epicentro dello scontro, la grande maggioranza delle donne (più i «maschi riformisti») e i servizi d’ordine (con moltissimi operai) si costituiscono in schieramenti contrapposti, accelerando una crisi politica già in atto. Mentre le assemblee e i rapporti personali scontano tensioni insopportabili, il dissenso viene formalizzato in due documenti alternativi sulla violenza. Quello delle donne è un esercizio di equilibrismo che dovrebbe legittimare argomenti già avanzati e respinti. Tra una formula d’epoca e l’altra, sbucano la critica della disciplina come valore in sé, la denuncia della separatezza dei servizi d’ordine, la necessità di «una presa di coscienza collettiva e individuale che affronti le contraddizioni dentro la classe, il partito, dentro ciascuno di noi». Ma la coabitazione forzata fra concezioni diverse produce mostri, come quando si auspica «la costruzione e l’uso autonomo della forza delle donne, l’individuazione degli obiettivi e dei nemici da colpire [...] l’imposizione ai medici di praticare aborti, la persecuzione personale di quanti si dimostrano nemici ostinati»90. Non serve a niente. A Torino è sparito letteralmente ogni spazio di dialogo. Nell’autunno del ’76, l’organizzazione si autoscioglie di fatto, come Vive la révolution nel ’71, la Gauche prolétarienne e Potere operaio nel ’73, e vari altri gruppi della molto ex nuova sinistra. Nel caso di Lotta continua anche la fine è all’insegna della violenza, minacciata dal servizio d’ordine e da militanti operai contro le donne, agita dalle donne nella forma del processo popolare ai dirigenti. 263

Quale autonomia C’erano «i soliti ragazzotti che giravano coi manganelli, le lamette e quelle cose lì. E noi avevamo organizzato dei gruppi armati di bastone [...] c’era quindi anche la volontà di esprimere una violenza femminista, che non era però il discorso della lotta armata o di una violenza di tipo maschile. Era invece il tirare fuori la nostra aggressività di donne». I «soliti ragazzotti» sono i fascisti milanesi, molto visibili e aggressivi, le donne quelle del Coordinamento femminista di via dell’Orso, creato nel ’76 e impegnato sia nell’autocoscienza sia nell’attività di quartiere. Il primo dissenso/dissidio fra donne nasce proprio sul significato del passaggio all’atto. A via dell’Orso si pensa che anche comportamenti apertamente aggressivi siano legittimi: per svincolarsi dallo stereotipo della donna «tutta passività e dolcezza» e lasciar affiorare una parte repressa di sé; perché si è in una fase di ricerca della propria identità; perché va riconosciuto il diritto a scelte diverse. E per difendersi. In questi anni fare politica è diventato sempre più difficile anche per le donne «in quanto tali», perché è alle donne «in quanto tali» che sono diretti gli attacchi di polizia e neofascisti, le moltissime denunce e arresti – nel ’75, con l’appoggio del Pci, era stata varata una legislazione d’emergenza, che restringeva gravemente le garanzie democratiche. Per la parte più nota del femminismo milanese, la violenza è un cedimento al bisogno di contrapposizione con il maschile e con le sue istituzioni, una duplicazione del suo spirito e dei suoi metodi. A gennaio del ’76, il collettivo di via Cherubini aveva giudicato troppo reattiva l’entrata in Duomo di alcune donne di via dell’Orso in segno di protesta per l’atteggiamento della Chiesa sull’aborto91. Nel ’77 a Bologna, fra le giovani femministe dell’Autonomia circola l’idea di creare Ronde o Pantere rosa per reagire in prima persona agli attacchi della polizia; alcune femministe storiche rispondono con la tesi dell’estraneità come «scelta politica di separazione di un pensiero femminile differente da quello maschile», e rivendicano l’isteria come forma propria di violenza delle donne. Ma, secondo una protagonista, le femministe re264

stano schiacciate dalla convergenza «tra un’ala dura del movimento delle donne e un’ala dura di autonomi, tra un movimento delle donne molto più largo, politicizzato e il movimento degli studenti come movimento di opinione. Sparito lo spazio per la differenza [...] la sensazione fu che eravamo state usate come capri espiatori»92. Il punto è che spesso i piani sono sfalsati. Da una parte l’urgenza di fare – la priorità dell’obiettivo, si potrebbe dire, che significa varie cose e diverse fra loro: continuare a esistere politicamente, creare cultura, occupare le case, svuotare un supermercato, con tutto quel che ne deriva in termini di violenza. Dall’altra parte, l’orizzonte della teoria, sconfinato, spesso atemporale, come quando si enuncia il «rifiuto del sangue della croce, del sangue delle Rivoluzioni, il cui prezzo è costantemente la morte», e si descrive la violenza «di tutta la fase anteriore, come del resto la violenza terroristica, come il frutto di una società in cui gli esseri che riproducono la vita sono sottomessi e sfruttati in e per questa loro capacità dai gruppi dell’altro sesso»93. Da un’altra parte ancora, la consapevolezza di un cambiamento che deve far ridiscutere la politica e il rapporto individuale/collettivo. Se si chiudono gli spazi, se i movimenti rischiano di sparire o di integrarsi per sfinimento nello stato di cose presente, «la lotta per le libertà un tempo chiamate sprezzantemente ‘democratico-borghesi’ diventa eversiva», e in parallelo il singolo dissenso, l’opinione individuale diventano politica, «o almeno premessa individuale per ricominciare a fare opposizione politica». Così Anna Rossi-Doria. E Manuela Fraire, a proposito della discussione nei movimenti misti: «In mezzo alle accuse di codismo e insurrezionalismo non è passato nulla che già non sapevamo della violenza e del suo rapporto con la rivoluzione», mentre le donne, che «non si sono sentite meno colpite degli studenti dal decreto Cossiga o dalle squadre rosse del Pci, semplicemente anche in questo caso hanno sentito la necessità di ridefinire il loro modo di analizzare la realtà». Bianca Beccalli vede nel movimento del ’77 l’ultima occasione per fare delle città uno spazio in cui esprimere bisogni e richieste riconducibili alla contrattazione politica. Sono parole di donne vicine ai movimenti, 265

che intervengono sulle riviste «maschili» più significative, «quaderni piacentini», «Ombre rosse», «aut aut», «Inchiesta»94. Ma dall’esterno si impone un secondo terreno. Da quando il movimento delle donne si è affermato come il soggetto più vivo di questi anni, il terrorismo cerca di reclutare al suo interno tendendo agguati a vigilatrici carcerarie, medici, ostetriche, e facendo correre la voce che le esecutrici siano donne95. È uno snodo orribile. Colpendo figure come queste, si chiama in causa direttamente il movimento – come avviene per i gruppi che lavorano sulla malattia mentale quando gli attentati si rivolgono contro gli psichiatri, e per gli operai con gli agguati ai capi. Il risultato è che altri temi rischiano di essere soffocati, mentre si apre il problema, anziché del non detto, del non dicibile e dell’allusione. A Torino, ’77-’78, quando un ginecologo citato in un volantino viene ferito, moltissime donne sono stravolte dall’abuso che è stato fatto delle loro parole, ma una ribatte: «Finché lo Stato borghese non dimostra la mia colpevolezza io sono innocente». Nello stesso periodo viene aggredita un’ostetrica e si contano due irruzioni in consultori familiari, per portare via le schede delle utenti (che servirebbero a «schedare le proletarie») e le spirali (che verrebbero utilizzate più di una volta per risparmiare)96. Poi il rapimento di Aldo Moro si abbatte su quel che resta del movimento. A fare paura allo Stato, scrivono le donne della Libreria di Milano, non dovrebbe essere il terrorismo, «che agisce in senso conservatore sulle emozioni e sui comportamenti che tengono in piedi l’ordine istituzionale, ma ciò che lavora effettivamente fuori e contro questo ordine», le lotte delle donne, dei giovani, il rifiuto del lavoro. E in sintonia con chi ha visto nella lotta armata la duplicazione della macchina statale97, aggiungono: «Il terrorismo non è che lo specchio del potere stesso [...]. Per le donne che hanno cominciato la loro lotta di liberazione, l’effetto di questa enfasi del potere e delle sue dinamiche interne non è trascurabile. Si riattiva la frattura storica fra sentimenti e ragion di Stato, storia personale e vicenda pubblica»98. In questa posizione si riconoscerà gran parte del femminismo. Ma nel frattempo si approfondisce la contrapposizione con i maschi, in un 266

momento in cui sarebbe essenziale il dialogo. Qualcuna riflette ancora sul modello rappresentato dalle terroriste. «Impressionavano non poco queste donne giovani, determinate, che uscivano spesso dalla media borghesia, e che avevano scelto di prendere le armi, guardando sdegnosamente al femminismo, come a cose di donnette o di borghesi annoiate». Donne che esprimono «una serietà disperatamente astratta. Un rifiuto totale di accettare di essere determinate dal corso del mondo». Che addirittura avrebbero una somiglianza con le partigiane, «umbratili, sacrificali sotto l’atteggiamento coraggioso»99. Nell’insieme il movimento si ritrae in nome della propria differenza100, con una posizione assimilabile a quella che la Libreria di Milano esprimerà a proposito del disvalore sociale attribuito all’essere donna: «Tra donne e uomini non c’è patto sociale, gli uomini non hanno mai voluto che ci fosse [...] in questo senso l’irresponsabilità femminile è giusta»101. Si arriverà comunque a scontri e spaccature, sebbene alcuni settori del movimento del ’77, con la loro valorizzazione dell’individualità e la critica di ogni politica, siano più vicini al femminismo che non i gruppi della nuova sinistra. Ma a questo punto il discorso sembra bloccarsi. Crisi, passaggio a una fase diversa, difficoltà a prendere posizione sulla violenza terroristica – è la linea «Né con lo Stato né con le Bierre», che non ha un segno maschile o femminile, solo quello dell’espropriazione e dell’autoespropriazione. Dal 26 al 24 marzo 1978, in pieno sequestro Moro, si tiene a Roma un convegno internazionale sulla violenza che analizza esclusivamente quella contro le donne e delle donne. Per Anna Maria Mori è la riconferma amara «di una storica divisione dei ruoli. Il potere gestisce il ‘pubblico’ e la donna si occupa del ‘privato’». Per Rossana Rossanda è una pausa «non di indifferenza. C’è l’inarticolatezza dei bambini e delle persone molto anziane e non disposte a dare alle domande sul senso della vita troppo facili risposte. Il movimento femminista non è nato giovane; sa secoli di cose, e ne è spesso atterrato». Per Mariella Gramaglia è un no ai tanti appelli al senso dello Stato102. Ma è anche una strana rinuncia, perché Moro rivendica da pri267

gioniero quello che aveva teorizzato da libero al Congresso Dc del ’76: la ragione di Stato non deve vincere sulla ragione dell’uomo, bisogna rifiutarsi di sacrificare «la persona a una mostruosa divinità che non merita sacrifici» – sono quasi le stesse parole del femminismo. Succede precisamente l’opposto, e in un paese governato da 30 anni da un partito che dichiara di richiamarsi all’etica cristiana. Più statolatrico, più stigmatizzabile di così!103

La Lip, Lotta continua, un bambino Il sessantotto e la nuova sinistra sono fra i pochi movimenti i cui protagonisti – almeno alcuni di quelli che parlano e scrivono più spesso – non si dispiacciono di aver perso, e non si fanno un punto d’onore di essere rimasti uguali. La riflessione comincia presto104, a volte parte dalla violenza, a volte no, non la evita quasi mai. È complicata, contrastata, difficile da rievocare in pochi cenni. Per fortuna, ha creato interesse fra i ricercatori e più ancora fra le ricercatrici. I lavori di Isabelle Sommier, Kristin Ross, Paul Berman, Hamon e Rotman, sono parte di un filone per ora limitato ma prezioso, che cerca di capire dove sono approdati molti ex della stagione dei movimenti. All’utopia dell’applicazione universale dei diritti umani, che avrebbe sostituito quella della rivoluzione. A un lavoro di cura retrospettiva per il dolore che la cattiva politica ha seminato in nome di un futuro sempre più improbabile e sempre meno auspicato. All’attesa di un nuovo ciclo di lotte. Chissà dove. Su questo piano ognuno conta per sé. Ci sono fatti che sono valsi per tutti, come trovarsi sotto gli occhi le fotografie dei boat people in fuga dal nuovo Vietnam. Ma a volte sono le storie «locali» le più capaci di raccontare lo scarto fra il mondo sognato e quello reale, e la scoperta che il secondo può essere meglio. In Francia a dare il colpo di grazia al gauchisme e più forza alla revisione è, nel 1973, lo sciopero alla Lip, fabbrica di orologi di Besançon con manodopera prevalentemente femminile, un forte sindacato di radici cattoliche che si affianca alla Cgt, una conduzione della lotta ampiamente pacifica. Tutto comincia all’annun268

cio che si vogliono ridurre la produzione e l’organico. Direzione rigida, negoziato difficile, risposta attiva. Operaie e operai si organizzano in una scuola messa a disposizione dal Comune e ricominciano a produrre, vendono direttamente gli orologi, hanno successo, si guadagnano il salario e simpatie un po’ dappertutto. Accolgono chiunque vada a portare solidarietà, a qualunque parte politica appartenga, discutono, poi fanno a modo loro e del loro sindacato. E diventano un simbolo, controvoglia. La vertenza dura mesi, si conclude con una vittoria parziale, non con un trionfo. Non è stata una lotta legalitaria: gli operai hanno sequestrato gli amministratori provvisori, si sono battuti con la polizia, si sono impadroniti di stock di orologi. Ma hanno praticato un proprio modello di conflittualità, senza mai cercare lo scontro (alcuni dei sindacalisti sono nonviolenti), hanno voluto il dialogo, dato valore alle donne, all’«umanismo cristiano», divulgato con abilità le proprie ragioni: soggetti, idee e metodi praticamente ignorati dalla nuova sinistra. Il che non ha impedito loro di «rubare» qualcosa al maggio: il clima di festa e di fraternità, la crescita comune, la democrazia di base, che però, diversamente dagli studenti, hanno saputo preparare105. Le scoperte che portano vari ex militanti alla difesa dei diritti umani sono almeno due: quella del Gulag, quella della Lip. Perché alla Lip si arriva, con un uso minimo della forza e molta cura per la mediazione, agli obiettivi di crescita collettiva, coesione, riscatto personale, che i movimenti si aspettavano dall’esercizio della forza. In Italia, la violenza è tornata periodicamente al centro dei discorsi. Per un appiattimento temporale che fa risalire il terrorismo addirittura al sessantotto – una vulgata, dunque anche più dannosa. Per il rimergere di agguati omicidi, per l’attenzione mediatica. E per un evento, l’incriminazione, nel 1988, di quattro ex di Lotta continua per l’omicidio nel 1972 di Luigi Calabresi, commissario di polizia a Milano, uno dei partecipanti all’interrogatorio di Pinelli. Un’altra storia locale, stavolta pessima, costruita esclusivamente sulle parole a dir poco contraddittorie di un «pentito»106, che riporta in primo piano Lotta continua e il suo ruolo di allora, molto meno il clima diffuso nel 269

paese dopo la strage di piazza Fontana e l’emersione delle connivenze tra esponenti dello Stato e neofascismo. È una gabbia per la libertà di pensiero, ma non la blocca sempre. Sulla spinta del caso giudiziario, si discute su cosa è stato quel periodo per i tanti che non sono passati all’atto, per i lanciatori di pietre, i ragazzi cui si è parlato di rivoluzione senza preoccuparsi di quel che una parola così carica di significato avrebbe smosso nella loro testa. Dopo essere stato cruciale nella storia degli anni settanta, il rapporto individuale/collettivo torna a esserlo come banco di prova dei discorsi sulla responsabilità. Vuol dire ripensare il nesso violenza verbale/violenza materiale, dare un nome alle miserie di allora – fascinazione per la forza, maschilità agonistica, facilità al linciaggio morale – e parlarne sui media, non su una rivista accademica. Lo farà, con altri, Adriano Sofri107, scontando un rischio continuo di slittamento dalla responsabilità di gruppo alla responsabilità per il gruppo. Atteggiamento troppo generoso e insieme troppo orgoglioso, a metà fra la logica del capro espiatorio e quella del deus ex machina, come in fondo Sofri è stato? Piuttosto, un tentativo di guardare al passato senza scacciare l’etica, e distinguendo le responsabilità. Non è stato per caso o perché non gli era stato chiesto che alcuni e molte hanno rifiutato di partecipare a uno scontro o a un pestaggio; le donne hanno avuto il beneficio del genere sessuale, simile, fatte le proporzioni, al beneficio dell’età per i tedeschi nati dopo il ’45. Secondo altri, «siamo tutti corresponsabili di quel che è accaduto», nessuno ci obbligava, nessuno ci ha «mandato». Così Erri De Luca, che con un salto logico arriva a concludere: «ognuno di noi avrebbe potuto uccidere Calabresi»108. Sentenza che starebbe in piedi a tre condizioni: la colpevolezza di Lotta continua, un contesto così forte da schiacciare le differenze fra le persone e da motivare in toto i comportamenti, o, in alternativa, un assembramento davvero inusuale di personalità «terroristiche» dentro uno spaccato di generazione e in alcune città – i «volonterosi carnefici di Sofri»109. Ma su un punto De Luca ha ragione: si poteva essere estranei, innocenti no. Vale per la violenza degli anni settanta come 270

per le sue interpretazioni di oggi. Riconoscere che la sconfitta è stata, anche, la via d’uscita da una situazione insostenibile, dà alla distruttività agita e subita il peggior marchio possibile, aver sofferto e fatto soffrire per niente – qualcosa che può rendere ancora più pesante il bilancio della propria vita. Anche per questo, penso, alcuni si sono costruiti una controeredità – l’impedimento quasi fisico a separare la violenza dalla sofferenza che provoca, un desiderio «estremista» di dialogo. Sono insegnamenti della nonviolenza. Per il femminismo, almeno per quello italiano, le cose sono andate diversamente. Scrive Lea Melandri: Ma se è calata sul primo femminismo una dimenticanza così tenace è perché la scrittura e la memoria del singolo [...] hanno incontrato da subito le spinte opposte di una «generalizzazione» che subordinava a criteri di «universalità» e «appartenenza» la materia concreta di cui è fatta ogni vita110.

E Maria Luisa Boccia: Abbiamo desiderato, amato, detestato, subito e agito attraversando ambivalenze e ricchezza di uno scambio tra individuale e collettivo che ha costituito la cifra peculiare di un vissuto denso di politica. È difficile, per non dire impossibile, tradurre questa densità in un bilancio trasparente e lineare; molto più semplice è congedarsi, come si addice al tempo della giovinezza111.

Nel congedo c’è stato poco posto per un’analisi della violenza di quegli anni e delle occasioni perse, della storia fatta con i se. Se il femminismo nelle sue varie espressioni non solo avesse proposto un lavoro politico diverso, ma si fosse immischiato di più e più visibilmente nella politica «maschile». Se avesse fatto azioni di testimonianza, dato valore al filone riformista della propria genealogia. Se, invece di rifiutare di schierarsi fra lo Stato e le Br, avesse cercato rapporti con l’area della nonviolenza e della trattativa per salvare Moro. Se avesse preso seccamente posizione contro la distruttività della parte politica cui era più 271

vicino, i gruppi extraparlamentari (come alcune hanno fatto). Se le militanti di quei gruppi se ne fossero staccate prima, invece di adeguarsi alla tradizione femminile di fedeltà all’organizzazione... Alcune condizioni c’erano, disseminate, intermittenti – la critica al patriarcato e alla sua matrice violenta, il rifiuto del sacro duo marxismo/psicanalisi, una certa capacità di rapporto con le istituzioni, il valore dato al corpo: la prima mossa della cattiva politica è sottomettere il corpo individuale al corpo collettivo – nazionale, sociale, politico. Sulle ragioni di questa storia mancata, alcune hanno detto e scritto in seguito. Ben poco, invece, sull’aborto, innanzitutto per la sensazione che fosse aperta solo la strada del peggioramento – come rischia di succedere oggi. Ma l’impressione è anche che, una volta varata la legge 194, una volta battuto il referendum abrogativo dell’81, abbia vinto il desiderio di non tornare a pensarci. Anche storia e memoria sono diventate selettive. Nei lavori sugli anni settanta, La sfida femminile di Elvira Banotti112 viene sempre citato in bibliografia, ma si evita per lo più di descrivere la posizione dell’autrice e di varie sue intervistate: che l’aborto può essere un’esperienza di libertà e di pienezza; che se qualcuna lo vive come un trauma, è soltanto perché da secoli si insegna alle donne che è un peccato e un crimine. Ostracismo, censura, un gesto di riguardo per donne che forse non la pensano più come allora, rifiuto di sentirsi responsabile per altre, sarebbe difficile dire. Di sicuro è una revisione del passato che espunge qualcosa di impresentabile, di pesantemente datato. Non è un atteggiamento solo italiano. In Francia, dopo la pubblicazione su «Les Temps Modernes» delle testimonianze sull’uccisione collettiva di un neonato Down113, la rivista sembra dimenticarsene. Non una parola sui fascicoli successivi, né in un libro che esce l’anno dopo con la raccolta dei materiali apparsi fino allora, e che ripubblica le testimonianze senza una riga in più114. Non una parola in testi seri e documentati che pure citano altri articoli di quel numero115. Silenzio persino quando, nell’85, Marguerite Duras commenta su «Libération» un caso di sospetto infanticidio, e per la giovane madre parla di «monstruosité de l’innocence»116. 272

Eppure quello lanciato da «Les Temps Modernes» era un macigno, che chiamava in causa, insieme alla maternità, la medicina, il delitto di «eutanasia», la genetica. E l’etica. Forse è questo uno degli aspetti di cui si è avuto paura. L’etica implica la relazione, e la relazione non ha bisogno di due soggetti pieni, ma di uno solo, indipendentemente dal tipo di soggettività che si riconosce all’altro. L’etica implica responsabilità personale, empatia, cura dovuta a ogni vivente. L’etica si fonda sulla religione, secondo i credenti – tesi che può dividere. Ma c’era bisogno di una fede per dire no all’uccisione di quel bambino? È vero che l’infanticidio è il delitto politico delle donne, che alle spalle della madre cui il bambino cade per disgrazia nell’acqua bollente117 ci sono un mondo e un ordine creati su di lei, non per lei. Ma quel figlicidio di gruppo, con tutte le sue ambizioni psicoculturali, non assomiglia davvero a un delitto politico. È un atto di guerra dei grandi/sani/uniti contro l’imperfetto/piccolo/solo. E riecheggia le argomentazioni più ostili alla depenalizzazione dell’aborto, che, a dispetto dei cambiamenti di cui è punteggiato il ciclo della gravidanza, negano ogni soluzione di continuità fra embrione, feto, neonato. Le infanticide fanno lo stesso capovolgendo i termini: l’incompletezza, la «provvisorietà» dell’embrione e del feto vengono proiettati sul neonato «anomalo». Naturale la tentazione di dimenticarle. Però è un’altra storia mancata, e che storia importante per mostrare dove arriva l’asservimento alle ideologie. Che i vuoti sparsi nella memoria dei movimenti si aprano su tanti terreni, e così diversi, è un segno della voglia di trasformare il mondo e della paura di non riuscirci. Solo dopo si è scoperto che anche conservare era vitale. Ma da quando il cambiamento è diventato qualcosa da temere e da combattere, aver vissuto quel desiderio sembra un dono. Allora, se il verdetto sulla stagione dei movimenti è crudo, si può rispondere rubando le parole del telegramma con cui Emiliana Giua, madre di Lisa Foa, annunciava ai figli la condanna del marito Michele a 15 anni per attività antifascista: «Condanna grave – state sereni»118.

Note

Introduzione G. Dreyfus-Armand, R. Frank, M.-F. Lévy, M. Zancarini-Fournel (a cura di), Les années 68. Le temps de la contestation, Éditions Complexe, Paris 2000, che guarda al tempo lungo dei decenni sessanta e settanta, e ai nuovi spazi di circolazione delle idee. 2 Vedi E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: la condizione sociale dei malati di mente e di altri internati, Einaudi, Torino 1968 (ed. or., Asylums. Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates, Aldine, Chicago 1961). 3 M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, il Mulino, Bologna 2003 (I ed. 1998), p. XXI; per una sintesi delle interpretazioni storiografiche, vedi l’Introduzione all’edizione 2003. 4 E. Morin, Culture adolescente et révolte étudiante, in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», III, 1969, pp. 766-768, ora in Id. (con la collaborazione di I. Nahoum), L’esprit du temps 2. Nécrose, Grasset, Paris 1975, e Id., La comune studentesca, in E. Morin, J.-M. Coudray [in realtà C. Castoriadis], C. Lefort, La Comune di Parigi del maggio ’68, il Saggiatore, Milano 1968 (ed. or., Mai 1968: la Brèche. Premières réflexions sur les événements, Fayard, Paris 1968). 5 Uno dei migliori esempi di questo taglio è P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988. 6 A. Marwick, The Sixties. Cultural Revolution in Britain, France, Italy, and the United States, c. 1958-c. 1974, Oxford University Press, Oxford-New York 1998. 7 K. Ross, Mai 68 et ses vies ultérieures, Éditions Complexe, Paris 2005, al cap. «Autres fenêtres, mêmes visages»; ho usato qui la traduzione francese dell’originale May ’68 and Its Afterlives, Chicago University Press, Chicago 2002. In chiusura una ricca bibliografia. 8 Vedi 1969, «Parolechiave», 18, 1998. 9 Marwick, The Sixties cit. 10 I testi sulla passione della politica nel Pci e nel sindacato sono molti. Mi limito a segnalare il recente e molto bello Quando torni. Una vita operaia, di Alberto Papuzzi (Donzelli, Roma 2007), dove la militanza si intreccia con 1

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l’amore e la quotidianità, e l’importante raccolta La memoria della politica, a cura di F. Lussana e L. Motti (Ediesse, Roma 2007). 11 Fra i testi più significativi, ricordo G. Fasanella, S. Rossa, Guido Rossa, mio padre, Bur Futuropassato, Milano 2006. A scuotere il quieto vivere politico-editoriale è stato però M. Calabresi, Spingendo la notte più in là, Rizzoli, Milano 2007. 12 Così E. Betta, E. Capussotti nel benvenuto saggio «Il buono, il brutto, il cattivo»: l’epica dei movimenti tra storia e memoria, in «Genesis», III/1, 2004. 13 Vedi R. Siebert, Don’t Forget. Fragments of a Negative Tradition, in Memory and Totalitarianism, a cura di L. Passerini, «International Yearbook of Oral History and Life Stories», vol. I, Oxford University Press, OxfordNew York 1992. 14 Sulle filiazioni, L. Derossi, Riflessioni sulle «origini». Il femminismo e il ’68, in «Mezzosecolo», 11, Annali 1994-1996 (in realtà 1997). 15 L. Melandri, Lo strabismo della memoria, La Tartaruga, Milano 1991. 16 D. Parker, Una bella bionda e Lolita, in Il mio mondo è qui, Bompiani, Milano 1971 (I ed. it. 1941; ed. or., Here Lies. The Collected Stories of Dorothy Parker, Viking Press, New York 1939). 17 A. Portelli, Biografia di una città, Einaudi, Torino 1985. 18 E. Franceschini, Avevo vent’anni. Storia di un collettivo studentesco. 1977-2007, Feltrinelli, Milano 2007. Il collettivo è quello di Giurisprudenza dell’Università di Bologna. 19 R. Tumminelli, L’altra parte, in P. Staccioli (a cura di), Fragole e sangue, Edizioni Clandestine, Marina di Massa 2007, pp. 91 sgg. 20 La sede era un seminario sulla memoria organizzato dalla Fondazione Langer il 30 marzo 2007. 21 Tamar Pitch (L’embrione e il corpo femminile, al sito www.costituzionalismo.it, fascicolo 2, 2005) fa notare che, dietro l’attuale potenza simbolica della figura della vittima, è all’opera, sia pure non in modo esplicito, una modalità di pensare il sociale in termini paralleli a quelli dell’amico-nemico, ossia nei termini di offensore-vittima. 22 A. Marino, Il fantasma della felicità, in «DWF», 1, 1996, p. 15. 23 P. Zumaglino, Femminismi a Torino, con contributi di A. Miglietti e A. Piccirillo, introduzione di I. Damilano, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 173-174. È uno dei libri più laici e aperti su questo tema, e così i racconti personali presenti al suo interno. 24 A. Rich, Nato di donna, Garzanti, Milano 1977 (ed. or., Of Woman Born, Bantam Books, New York 1977). 25 J.B. Elshtain, Donne e guerra, il Mulino, Bologna 1991 (ed. or., Women and War, Basic Books, New York 1987). 26 G. Chakravorty Spivak, In Other Words. Essays in Cultural Politics, Routledge, London-New York 1988, pp. 135-136. 27 I. Sommier, La violence politique et son deuil. L’après 68 en France et en Italie, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 1998. 28 A volte ipernarcisistica: J. Wiener, The Weatherman Temptation, in

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«Dissent», Spring 2007, cita l’ex Weatherman Bill Ayers, che all’indomani delle Torri gemelle lamenta che l’evento abbia oscurato l’uscita del suo libro Fugitive Days (Beacon Press, Boston 2001). 29 Ross, Mai 68 cit., al cap. «Autres fenêtres, mêmes visages». 30 A. De Carlo, Due di due, Mondadori, Milano 1989. 31 Intervento di Rosi Braidotti in Forum: Sapere, sesso, politica, dibattito con Rosi Braidotti, Donna Haraway, Juliet Mitchell, Joan Scott, promosso da «Reset», in «Caffè Europa», 114, 28 dicembre 2000, parte seconda, consultato sul sito (www.caffeeuropa.it). 32 D. Haraway, ivi, parte prima. 33 È una delle tesi presenti in M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001. 34 P. Berman, Sessantotto. La generazione delle due utopie, Einaudi, Torino 2006 (ed. or., A Tale of Two Utopias. The Political Journey of the Generation of 1968, Norton and Company, New York 1997). 35 Vedi M. Zancarini-Fournel, «La Prise de parole»: Michel de Certeau, 1968, l’événement et l’écriture de l’histoire, in C. Delacroix, F. Dosse, P. Garcia, M. Trebitsch (a cura di), Michel de Certeau. Les chemins d’histoire, Éditions Complexe, Bruxelles-Paris 2002, pp. 78-86, dove l’autrice sottolinea che nel pensiero di de Certeau «rivoluzione culturale» non significa solo una evoluzione del costume, ma soprattutto la rimessa in causa dell’ordine sociale e discorsivo esistente. 36 R. Aron, La révolution introuvable, Fayard, Paris 1968, p. 36.

Radici. I Vedi in A. Ribero, Una questione di libertà. Il femminismo degli anni anni Settanta, Rosenberg & Sellier, Torino 1999, pp. 103-110. Il Demau, come Rivolta femminile, è citato abbastanza correttamente in A. Marwick, The Sixties. Cultural Revolution in Britain, France, Italy, and the United States, c. 1958-c. 1974, Oxford University Press, Oxford-New York 1998, al cap. «Women’s Turn». 2 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967. 3 G. De Luna, Genova 1960: l’antifascismo dei giovani come diritto alla disobbedienza, in P. Ghione, M. Grispigni (a cura di), Giovani prima della rivolta, manifestolibri, Roma 1998. 4 Su piazza Statuto, D. Lanzardo, La rivolta di Piazza Statuto: Torino, luglio 1962, Feltrinelli, Milano 1969, e, per gli anni successivi, P. Ghione, L’emergere della conflittualità giovanile: da piazza Statuto a Paolo Rossi, in Ghione, Grispigni, Giovani prima della rivolta cit. 5 «La Zanzara», 3, febbraio 1966, p. 6; l’articolo si può leggere sul sito del Liceo Parini (www.liceoparini.it). 6 La storia della «Zanzara» è raccontata in G. Crainz, Il paese mancato. 1

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Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 1996, pp. 205 sgg. Il libro offre un ricchissimo quadro complessivo della società italiana. 7 Unef (Union Nationale des Étudiants de France) Strasbourg, De la misère en milieu étudiant: considérée sous ses aspects économique, politique, psychologique, sexuel et notamment intellectuel et de quelques moyens pour y remédier, Strasbourg 1966 (trad. it., Della miseria nell’ambiente studentesco: considerata nei suoi aspetti economico, politico, psicologico, sessuale e specialmente intellettuale e di alcuni mezzi per porvi rimedio, Nautilus, Torino 1995). 8 G. Fofi, James Dean, in I. Bignardi (a cura di), I divi, Laterza, RomaBari 1986, p. 172. 9 Sono parole di Uwe Timm, in L’amico e lo straniero, Mondadori, Milano 2007, p. 91 (ed. or., Der Freund und der Fremde, Kiepenheuer & Witsch, Köln 2005). Il libro è un bellissimo racconto della vita breve dello studente tedesco Benno Ohnesorg, ucciso dalla polizia il 2 giugno 1967 durante una manifestazione contro la visita dello scià di Persia in Germania. 10 S. Piccone Stella, La prima generazione. Ragazze e ragazzi nel miracolo economico italiano, Franco Angeli, Milano 1993. 11 Pubblicato in traduzione italiana, con la prefazione di Fernanda Pivano, da Mondadori nel 1959. 12 Anche se in seguito passeranno alla xenofobia e a volte al neonazismo, gli Skinheads saranno alla base del fenomeno punk, nato nel pieno della crisi economica degli anni settanta. 13 Si veda P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988, e N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, SugarCo, Milano 1988. 14 E. Morin, Culture adolescente et révolte étudiante, in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 3, 24, 1969, pp. 765-776. 15 Balestrini, Moroni, L’orda d’oro cit., pp. 38-39. 16 Rubo l’espressione a A. Portelli, Elvis Presley è una tigre di carta (ma sempre una tigre), in D. Carpitella, G. Castaldo, G. Pintor, A. Portelli, M.L. Straniero, La musica in Italia, Savelli, Roma 1978; nonostante gli anni, il libro è ancora utilissimo. Portelli riprenderà il tema in L’orsacchiotto e la tigre di carta, in «Quaderni storici», 1, 1985. 17 A. Marwick, The Sixties cit., pp. 13 sgg. 18 Citato in A. Portelli, Elvis Presley è una tigre di carta cit., p. 52. 19 «Sexibitionist Elvis Presley had come at last in person to a visibly palpitating, adolescent female Los Angeles to give all the little girls’ libido the jolt of their lives. [...] They screamed their lungs out without letup as Elvis shook, bumped, and did the grinds from the one side of the stage to another until he was a quivering heap on the floor 35 minutes later. With anyone else the police would have closed the show 10 minutes after it started. But not Elvis, our new national teen-age hero», in Marwick, The Sixties cit., pp. 49-50. 20 Marwick, ivi, pp. 12-13 sgg., insiste sul rapporto fra controculture e

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culture giovanili da un lato, mainstream culture dall’altro, e sulla voglia di cambiamento presente fra gli adulti. 21 I persuasori occulti è il titolo di un famoso libro di Vance Packard (ed. or., The Hidden Persuaders, Pocket Books, New York 1958), tradotto tempestivamente da Einaudi nello stesso anno della pubblicazione. 22 G. Marcus, Mystery Train. Images of America in Rock and Roll Music, E.P. Dutton, New York 1975, citato in Portelli, Elvis Presley è una tigre di carta cit., p. 53. 23 Portelli, Elvis Presley è una tigre di carta cit., pp. 64 sgg. 24 «Oggi», 27 agosto 1959, citato in Piccone Stella, La prima generazione cit., p. 16. 25 Per tutte le citazioni vedi ivi, pp. 25 sgg., 160-161, 173. 26 Citato in S. Mayer (a cura di), Lettere dei capelloni italiani, Longanesi, Milano 1968, pp. 14-15. 27 Pajetta, Barbato e Forcella sono citati in G. Crainz, Il paese mancato cit., pp. 193-194 e 199. 28 E. Croce, Lo snobismo liberale, Adelphi, Milano 1990, pp. 12-13. 29 V. Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996, p. 265. 30 A. Arbasino, Fratelli d’Italia, Adelphi, Milano 1993, pp. 384 e 85. 31 Nel dibattito sul tempo libero che accende la sinistra in questi anni, la cultura di massa è considerata solo uno strumento per traviare e istupidire le masse. Sui generi popolari (cinema, melodramma, feuilleton, rosa) e sul modello americano, cfr. D. Ellwood, G.P. Brunetta (a cura di), I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca, Giunti, Firenze 1995. 32 Cfr. U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964. 33 Per fortuna nel ’68 la storia diventa un caso politico e si chiude con un compromesso che risparmia a Braibanti il carcere. 34 Così in Marwick, The Sixties cit., dove le notizie sono sommarie e spesso imprecise. 35 J.-P. Sartre, Prefazione a P. Nizan, Aden Arabia, Mondadori, Milano 1961 (ed. or., P. Nizan, Aden Arabie, nuova edizione presentata da J.-P. Sartre, Maspero, Paris 1960). 36 «Mondo Beat», n. 0, ottobre 1966, citato in G. De Martino, M. Grispigni, I capelloni. Mondo Beat, 1966-1967. Storia, immagini, documenti, Castelvecchi, Roma 1997, p. 75. 37 F. Pivano, Beat Hippie Yippie, Bompiani, Milano 1990 (I ed. 1977), p. 194. 38 M. Grispigni, S’avanza uno strano lettore. La stampa giovanile prima del ’68, in Ghione, Grispigni (a cura di), Giovani prima della rivolta cit. 39 «‘Mettete dei fiori nei vostri cannoni’ / era scritto in un cartello / sulla schiena di ragazzi / che senza conoscersi / di città diverse / socialmente differenti / in giro per le strade della loro città / cantavano la loro proposta [...]»: a parlare sono poi i giovani «socialmente differenti» – dall’operaio milanese («Me ciami Brambilla e fu l’uperari») allo studente borghese – protagonisti della manifestazione. La canzone è firmata Albula e G.B. Martelli, 1967. 40 P. Echaurren, C. Salaris, Controcultura in Italia. 1966-1977, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 198-199.

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41 Per un’analisi complessiva, G. Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano 1992. 42 «S» (rivista dei Situazionisti italiani), II, dicembre 1967, citata in Echaurren, Salaris, Controcultura in Italia cit., pp. 73 sgg. 43 De Martino, Grispigni, I capelloni cit., p. 71. 44 A. Valcarenghi, Discorso sulla pace generica, in «Mondo Beat», 1 (3), 1967, citato in De Martino, Grispigni, I capelloni cit., p. 19. 45 Marwick, The Sixties cit., pp. 544-545. 46 Sulle caratteristiche nazionali, vedi Marwick, The Sixties cit., al cap. «National and Other Identities». 47 W. Tobagi, La gioventù dei bigini, in «La Zanzara», 7, giugno 1965, citato in Crainz, Il paese mancato cit., p. 198. 48 Rivolta a 45 giri, in «Noi donne», 27 marzo 1965, citato in Crainz, Il paese mancato cit., p. 192. 49 A. Coppola, M. Marchetti, Una città fischia il miracolo, in «Vie Nuove», 3 dicembre 1960, citato in Crainz, Il paese mancato cit., p. 41. 50 E. Morin, Culture adolescente et révolte étudiante cit., p. 200. 51 Eco, Bocca, Ottieri sono citati in Crainz, Il paese mancato cit., rispettivamente alle pp. 195, 199-200, 37, 193; l’articolo di Bocca su La fabbrica nevrotica è citato a p. 324. 52 Del sincretismo sessantottino parla più volte Ortoleva, Saggio sui movimenti cit. 53 Balestrini, Moroni, L’orda d’oro cit., p. 59. 54 G. Viale, Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione, Mazzotta, Milano 1978, p. 19. Sul beat di strada, vedi il bel saggio di R. De Angelis, Il beat italiano, in Ghione, Grispigni, Giovani prima della rivolta cit., pp. 73-85. 55 Echaurren, Salaris, Controcultura in Italia cit., ai capp. «Arte contro» e «Viaggio nei settanta». 56 A. Ginsberg, Urlo (Howl), in Id., Jukebox all’idrogeno, a cura di Fernanda Pivano, Guanda, Parma 2006, pp. 102-132 (I ed. Mondadori, Milano 1965; ed. or., 1956); nella fondamentale introduzione di Pivano, la storia di Howl e una analisi del Beat. 57 Nei vulcani del Messico si erano suicidati alcuni poeti. A Chicago altri avevano bruciato le loro poesie. 58 Vedi Timm, L’amico e lo straniero cit., e E. Berselli, Adulti con riserva, Mondadori, Milano 2007.

Radici. II 1 S. de Beauvoir, Il secondo sesso, il Saggiatore, Milano 1961 (ed. or., Le deuxième sexe, Gallimard, Paris 1949). 2 G. Bonacchi, I vestiti d’aria dell’imperatore. Per una critica femminista dell’ideologia italiana, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, II, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.

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3 Secondo Luisa Passerini, citata in E. Guerra, Femminismo/femminismi: appunti per una storia da scrivere, in «Genesis», III, 1, 2004, p. 100, il movimento pecca di antistoricismo, mentre Emma Baeri parla, per gli anni successivi, di «storiofilia diffusa», cfr. E. Baeri, Presentazione a A. Ribero, Una questione di libertà. Il femminismo degli anni anni Settanta, Rosenberg & Sellier, Torino 1999; l’importante libro di Ribero è il primo e finora l’unico lavoro di sintesi, centrato soprattutto sul femminismo radicale. 4 Vedi M. Schneir (a cura di), The Vintage Book of Historical Feminism, Vintage Books, London 1996 (I ed. 1972). 5 Vedi A.M. Bruzzone, R. Farina, La resistenza taciuta, La Pietra, Milano 1976 (ora Bollati Boringhieri, Torino 2003), B. Guidetti Serra, Compagne, Einaudi, Torino 1977 e M. Alloisio, G. Beltrami, Volontarie della libertà, Mazzotta, Milano 1981. Il testo di Bruzzone e Farina è considerato, insieme alla Signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe, di L. Muraro (Feltrinelli, Milano 1976) l’atto di nascita della storia delle donne in Italia. 6 C. Veauvy, L. Pisano, Paroles oubliées. Les femmes et la construction de l’État-nation en France et en Italie. 1789-1860, Armand Colin-Masson, Paris 1997, ai capp. I e III. I capp. II e IV sono dedicati all’Italia dal triennio rivoluzionario al Risorgimento. 7 D. Dahlerup, Three Waves of Feminism in Denmark, in G. Griffin, R. Braidotti (a cura di), Thinking Differently. A Reader in European Women’s Studies, Zed Books, London-New York 2002, p. 347. 8 G. Kaplan, Contemporary Western Feminism, New York University Press, New York 1992, pp. 107-108. 9 B. Friedan, La mistica della femminilità, Edizioni di Comunità, Milano 1964 (ed. or., The Feminine Mystique, Norton and Company, New York 1963). 10 Per una riflessione storica e terminologica, vedi Guerra, Femminismo/femminismi cit. 11 M. Gramaglia, 1968. Il venir dopo e l’andar oltre, in «Problemi del socialismo», 4, 1976, citato in Lessico politico delle donne, vol. 4-5: Sociologia della famiglia - Sull’emancipazione femminile, coordinamento di M. Fraire, Gulliver, Milano 1979, p. 48. 12 S. Mayer (a cura di), Lettere dei capelloni italiani, Longanesi, Milano 1968, p. 154. 13 Dialogo con una ribelle, in «Abc», 5 marzo 1967, citato in A. Tonelli, Comizi d’amore. Politica e sentimenti dal ’68 ai Papa boys, Carocci, Roma 2007, p. 36. Quello di Anna Tonelli è il primo libro che nel mettere a tema l’amore nei movimenti non dimentica il filone underground, che è invece trattato, con poca attenzione alle donne, in testi specifici. 14 Y. Ergas, La costituzione del soggetto femminile: il femminismo negli anni ’60/’70, in G. Duby, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente, vol. V: Il Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 587. 15 Per una prima ricognizione su queste esperienze, cfr. Le donne al centro. Politica e cultura dei Centri delle donne negli anni ’80, Utopia, Roma 1988.

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16 Vedine la ricostruzione, per Torino, da dove parte l’esperienza, in N. Giorda (a cura di), Fare la differenza? L’esperienza dell’intercategoriale donne di Torino. 1975-1986, Angolo Manzoni, Torino 2007, dove in bibliografia sono riportati i primi testi pubblicati in merito. 17 Cfr. i documenti riportati in M. Michetti, M. Repetto, L. Viviani, Udi: laboratorio di politica delle donne, Cooperativa Libera Stampa, Roma 1985; per una ricostruzione cfr. anche «Volevamo cambiare il mondo». Memorie e storie dell’Udi in Emilia Romagna, Carocci, Roma 2002. 18 L’espressione è coniata in A.R. Calabrò, L. Grasso (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Ricerca e documentazione nell’area lombarda, Franco Angeli, Milano 1985. 19 Lo rileva per la Francia F. Ducrocq, Femminismo in Francia: quelle vere siamo noi, in «Orsaminore», 3-4, 1982. 20 Così R. Lumley, Dal ’68 agli anni di piombo. Studenti e operai nella crisi italiana, Giunti, Firenze 1998, p. 308 (ed. or., States of Emergency. Cultures of Revolt in Italy from 1968 to 1978, Verso, London-New York 1990). 21 A. Kuliscioff, Suffragio universale a scartamento ridotto, in «Critica sociale», 16 aprile 1910, citato in A. Rossi-Doria, La maternità, un nodo politico, in Percorsi del femminismo e storia delle donne, supplemento a «DWF», 22, 1983. 22 Care compagne cari compagni. Lettere a Lotta Continua, Cooperativa Giornalisti Lotta Continua, Roma 1978, pp. 164-165. 23 Ivi, p. 332. 24 Vedi M. Hirsch, The Mother/Daughter Plot, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1989, pp. 47-97. 25 Su questi temi è imprescindibile S. Piccone Stella, La prima generazione. Ragazze e ragazzi nel miracolo economico italiano, Franco Angeli, Milano 1993. Sulle donne nell’Italia del ’900 cfr. M. De Giorgio, Le italiane dall’Unità a oggi. Modelli culturali e comportamenti sociali, Laterza, RomaBari 1992. 26 A. Signorelli, Dai taccuini di ricerca sulle contadine meridionali. Stereotipi culturali e volti rimossi, in «memoria», 6, 1982. 27 N. Revelli, L’anello forte. La donna: storie di vita contadina, Einaudi, Torino 1998. 28 Questa convinzione e la disillusione che ne segue sono il tema di L. Lilli, Prigioniere del grande harem. Le italiane si confessano, di Gabriella Parca, in «memoria», 6, 1982. 29 G. Parca, Le Italiane si confessano, Parenti, Firenze 1959. 30 J. Travers, Dieci donne anticonformiste, Laterza, Bari 1968. 31 Piccone Stella, La prima generazione cit. 32 P. De Tassis, Corpi recuperati per il proprio sguardo. Cinema e immaginario negli anni ’50, in «memoria», 6, 1982. 33 Onore alle sociologhe, cui dobbiamo i primi testi «femministi», per esempio, C. Saraceno, Dalla parte della donna, De Donato, Bari 1971, e L. Balbo, Stato di famiglia, Etaslibri, Milano 1976. 34 C. Cederna, Il flirt in Italia, citato in Piccone Stella, La prima genera-

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zione cit., p. 24. Cfr. anche R. Balbi, La stampa femminile e la donna, in «Nord e Sud», 33, luglio 1962; Ead., Politique jamais, in «Nord e Sud», 40, aprile 1963; Ead., Una stampa senza avventure, in «Nord e Sud», 42, giugnoluglio 1963. 35 S. Piccone Stella, Voci dai «Quaderni rossi», in Piccone Stella, La prima generazione cit. 36 L. Derossi, Riflessioni sulle «origini». Il femminismo e il ’68, in «Mezzosecolo», 11, Annali 1994-1996 (in realtà 1997), pp. 396 sgg. 37 Cfr. S. Firestone, La dialettica dei sessi. Autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica, Guaraldi, Bologna 1971, pp. 40-41 (ed. or., The Dialectic of Sex. The Case for Feminist Revolution, Morrow, New York 1970). 38 S. Evans, Personal Politics. The Roots of Women’s Liberation in the Civil Rights Movement and the New Left, Vintage Books, New York 1980 (ed. or., Random House, New York 1979). 39 Su Janis Joplin, cfr. D. Dalton, Piece of My Heart. A Portrait of Janis Joplin, St. Martin’s Press, New York 1985, dove si dà il giusto spazio al suo femminismo e al culto nato dopo la sua morte per overdose nel 1970. 40 F. Sagan, Bonjour tristesse, Éditions Julliard, Paris 1954 (trad. it., Bonjour tristesse, Longanesi, Milano 1954).

Politiche 1 A. Marwick, The Sixties: Cultural Revolution in Britain, France, Italy, and the United States, c. 1958-c. 1974, Oxford University Press, Oxford-New York 1998. 2 Così nella cronaca a oggi più ampia del movimento francese H. Hamon, P. Rotman, Génération, vol. 1: Les années de rêve, Seuil, Paris 1987; vol. 2: Les années de poudre, Seuil, Paris 1988. 3 Narrazione di Marco Revelli, in L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Giunti, Firenze 1988, pp. 117-118. 4 Anna Maria Merlo intervista Ágnes Heller sul ’68, in «il manifesto», 12 febbraio 1999. 5 Vedi H. Arendt, Politica e menzogna, SugarCo, Milano 1985, pp. 179181. 6 Port Huron Statement, Introduzione, citato in M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia d’Italia, vol. III, t. 2, Einaudi, Torino 1998, p. 390. 7 G. Anders, Appendice a Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961 (ed. or., Der Mann auf der Brücke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki, Beck, München 1959). È significativo che si tratti di un testo improvvisato dall’autore dopo un dibattito sui problemi morali dell’età atomica organizzato da un gruppo di studenti dell’Università di Berlino Ovest. 8 Arendt, Politica e menzogna cit., pp. 179-181. 9 J. Rubin, Non fidarti di nessuno che abbia più di 34 anni, in A. Cavalli,

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A. Martinelli (a cura di), Gli studenti americani dopo Berkeley, Einaudi, Torino 1969, pp. 95-96. 10 Anders, Appendice a Essere o non essere cit. 11 Narrazione di Luigi Bobbio, in Passerini, Autoritratto di gruppo cit., pp. 133-134. 12 Cfr. Anna Maria Merlo intervista Ágnes Heller, in «il manifesto» cit.; il libro al quale si fa riferimento è A. Heller, Sociologia della vita quotidiana, Editori Riuniti, Roma 1975 (ed. or. 1970). 13 Narrazione di Guido Viale, in Passerini, Autoritratto di gruppo cit., pp. 132-133. 14 P. Berman, Sessantotto. La generazione delle due utopie, Einaudi, Torino 2006, pp. 30-31 (ed. or., A Tale of Two Utopias. The Political Journey of the Generation of 1968, Norton and Company, New York 1997). 15 G. Arrighi, T.H. Hopkins, I. Wallerstein, Antisystemic movements, manifestolibri, Roma 1992 (ed. or., Antisystemic Movements, Verso, London-New York 1989), dove il sessantotto all’ovest è visto come evento simbolo dell’ingresso di nuovi movimenti anticapitalistici in un mondo unificato dall’economia di mercato, e il sessantotto all’est come anticipazione del 1989. 16 Berman, Sessantotto cit., l’espressione è ricorrente nel cap. I: «Storia morale della generazione del Baby Boom». 17 È la tesi, fra gli altri, di M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, Il Mulino, Bologna 1998. 18 S. King, Cuori in Atlantide, in Cuori in Atlantide, Sperling & Kupfer, Milano 2000, p. 281 (ed. or., Hearts in Atlantis, Scribner, New York 1999). 19 La leva obbligatoria era stata introdotta eccezionalmente proprio in funzione della guerra in Vietnam. 20 P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 48. 21 F. Levi, A. Rolli (a cura di), Il mondo di Marcello, operaio per scelta nella Torino del ’68, Silvio Zamorani, Torino 2006, pp. 112-113. 22 D. Cohn-Bendit, A. Michnik, Il cielo in fiamme, in «Micromega», 4, 1987. 23 Berman, Sessantotto cit., pp. 16-18. 24 Ivi, p. 20; l’espressione è di Régis Debray. 25 Narrazione di Laura Derossi, in Passerini, Autoritratto di gruppo cit., p. 126. 26 King, Cuori in Atlantide cit., p. 455. 27 Narrazione di Peppino Ortoleva, in Passerini, Autoritratto di gruppo cit., p. 109. 28 R. Rossanda, Le donne: il ’68 e dopo, in Cinque lezioni sul sessantotto, Dossier n. 1 di «Rossoscuola», Torino 1987, p. 52. 29 Passerini, Autoritratto di gruppo cit., p. 103. 30 Berman, Sessantotto cit., pp. 34 e 37. 31 Hamon, Rotman, Génération, vol. 1: Les années de rêve cit., p. 335. 32 «Si je pensais avoir un comportement opportuniste, les fantasmes con-

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stants de suicide qui me hantent depuis un mois se seraient probablement matérialisés. Si je vis, ce n’est que parce que je crois avoir été, et être, un militant qui peut être utile [...]. L’Equanil que j’ai pris pour pouvoir dormir fait son effet [...]. Etant sûr de ne pas être ‘opportuniste à 100%’, confiant dans notre avenir commun, espérant que le mot fraternellement retrouvera son sens, salutations d’un camarade», in Hamon, Rotman, Génération, vol. I: Les années de rêve cit., pp. 335-336 e 339-343. 33 «Sono un revisionista, che cataclisma / La rivoluzione, è tutta una balla / Da quando sono all’Uec / Il mio senso di classe s’è smussato / Il mio ideale piccolo-borghese / Mi serve da fede», ivi, p. 120. 34 E. Morin (con I. Nahoum), L’esprit du temps 2. Nécrose, Grasset, Paris 1975, pp. 170-171. 35 Joreen [J. Freeman], The Tyranny of Structurelessness, in A. Koedt, E. Levine, A. Rapone, Radical Feminism, Quadrangle, New York 1973, che raccoglie anche alcuni articoli apparsi nei tre numeri di «Notes», giornale di scritti del movimento. Quello di Joreen era comparso in Notes from the Second Year, 1970. 36 Sulla costruzione dei diversi modelli del maschile, è utile R.W. Connell, Masculinities, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995 (trad. it., Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale, Feltrinelli, Milano 1996), specie ai capitoli «Men’s Bodies» e «Masculinity Politics», sulla crisi dell’egemonia maschile nel ’900 e sulle strategie di reazione. 37 Narrazione di Luigi Bobbio, in Passerini, Autoritratto di gruppo cit., p. 134. 38 F. Lussana, Le donne e la modernizzazione. Il neofemminismo degli anni settanta, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, t. 2, Einaudi, Torino 1997, p. 494. 39 Il tema del resto non sembra importante alla maggior parte degli storici, mentre è molto presente nei racconti orali. 40 S. Weil, La prima radice, SE, Milano 1990, pp. 33-34 (I ed. Edizioni di Comunità, Milano 1954; ed. or., L’enracinement, Gallimard, Paris 1949). 41 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1946, p. 146. 42 L. Annunziata, 1977. L’ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino 2007. 43 In generale lo stato della scuola italiana è scadente. La riforma del 1962 che ha introdotto la scuola media unica ha innovato poco nei programmi, nei metodi, nel rapporto docenti/studenti, e così la parziale liberalizzazione degli accessi alle facoltà scientifiche introdotta nel 1961. Anzi le due misure hanno contribuito a far nascere una università di massa (500.000 gli iscritti nel ’67-’68, contro i 268.000 del ’60-’61) senza che esistano né le strutture materiali necessarie, né una nuova mentalità dei professori. 44 M. Revelli, Il ’68 a Torino. Gli esordi: la comunità studentesca di Palazzo Campana, in A. Agosti, L. Passerini, N. Tranfaglia (a cura di), La cultura e i luoghi del ’68, Franco Angeli, Milano 1991, pp. 213-214. 45 G. Viale, Contro l’Università, in «quaderni piacentini», 33, 1968.

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46 Narrazione di Maria Teresa Fenoglio, in Passerini, Autoritratto di gruppo cit., p. 93. 47 Il Fuori si scioglie nell’84, dopo aver creato nell’80 la Fondazione Sandro Penna per la ricerca sull’omosessualità. 48 G. Bocca, La rabbia non ha salario, in «Il Giorno», 1° giugno 1968, citato in G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 1996, p. 349. 49 In questi anni esistono ancora le «gabbie salariali» che stabiliscono salari differenziati da una regione all’altra. 50 Vedi p. 89. 51 Intervento di Pino Ferraris al Convegno dei quadri del Movimento studentesco, Venezia settembre 1968, citato in G. Viale, Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione, Mazzotta, Milano 1978, pp. 74-75. L’importanza dello spazio fisico sarà poi sottolineata in quasi tutte le analisi sul sessantotto. 52 N. Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli, Milano 1971. 53 M. Revelli, Lavorare in Fiat. Da Valletta ad Agnelli a Romiti. Operai Sindacati Robot, Garzanti, Milano 1989. 54 Citazioni di Peppino (Lc) e Guido (Lc) in I. Sommier, La violence politique et son deuil. L’après 68 en France et en Italie, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 1998, p. 44. 55 Sono i gruppi dei Pid (Proletari in divisa), dove lavorano insieme militanti della varie organizzazioni extraparlamentari. 56 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi. Società e politica. 1943-1988, Einaudi, Torino 1989, dedica nel secondo volume un’ampia parte ai movimenti. 57 V. Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996, p. 308. 58 È la tesi di B. Bongiovanni, Società di massa, mondo giovanile e crisi dei valori. La contestazione del 1968, in La storia, diretta da N. Tranfaglia e M. Firpo, vol. VII, Utet, Torino 1988.

Politiche del femminismo S. Evans, Personal Politics. The Roots of Women’s Liberation in the Civil Rights Movement and the New Left, Vintage Books, New York 1980, pp. 76-77 (ed. or., Random House, New York 1979). 2 Vedi J. Newfield, Prophetic Minority, New American Library, New York 1966, p. 15. 3 Citato in Evans, Personal Politics cit., pp. 107 sgg. 4 M. Fraire, Il nostro movimento e il loro, in «quaderni piacentini», 64, 1977, p. 47. 5 Poco più di 20 anni prima lo hanno sperimentato le resistenze europee, che hanno cercato di mediare questa esigenza con quella opposta di non dare un’immagine di promiscuità. 6 P. Berman, Sessantotto. La generazione delle due utopie, Einaudi, Torino 2006 (ed. or., A Tale of Two Utopias. The Political Journey of the Gene1

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ration of 1968, Norton and Company, New York 1997), dove al cap. I («Storia morale della generazione del Baby Boom») c’è una casistica di questi vezzi e vizi. 7 Evans, Personal Politics cit., p. 77. 8 Le Chiese non sempre contrastano la segregazione, ma sono spesso decisive nel diffondere la carica etica fra i giovani. 9 «[...] to think radically about the personal worth and abilities of people whose role in society had gone unchallenged before, […] have begun trying to apply those lessons to their own relations with men. Each of us probably has her own story of the various results […], the lack of community for discussion: nobody is writing, or organizing or talking publicly about women, in any way that reflects the problems that various women in the movement come across», in Evans, Personal Politics cit., pp. 85-99. 10 S. Evans, Decade of Discovery in US, in B.G. Smith (a cura di), Global Feminisms since 1945, Routledge, London-New York 2000, p. 159. 11 S. Ruddick, A Work of One’s Own, e M. Young, Contradictions, in S. Ruddick, P. Daniels (a cura di), Working It Out: 23 Women Writers, Artists, Scientists and Scholars Talk about Their Lives and Works, Pantheon Books, New York 1977, pp. 129 e 223-223. 12 «We must be strong, we must militant, we must be dangerous. We must realize that Bitch is Beautiful and that we have nothing to lose. Nothing whatsoever», in Joreen [J. Freeman], The Bitch Manifesto, già in Notes from the Second Year, 1970, ora in A. Koedt, E. Levine, A. Rapone, Radical Feminism, Quadrangle, New York 1973, pp. 50-59. 13 A.M. Bruzzone, R. Farina, La resistenza taciuta, La Pietra, Milano 1976 (ora Bollati Boringhieri, Torino 2003) e L. Muraro, La signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe, Feltrinelli, Milano 1976. 14 Il tema dei saperi femminili scacciati dalla nuova scienza è affrontato, fra le prime, da B. Ehrenreich, D. English, Witches, Midwives and Nurses. A History of Women Healers, Feminist Press, New York 1973, e ripreso dalla teologa M. Daly in Gyn/Ecology. The Metaethics of Radical Feminism, The Women’s Press, London 1979, pp. 178-222. 15 S. Firestone, La dialettica dei sessi. Autoritarismo maschile e società tardo-capitalistica, Guaraldi, Bologna 1971 (ed. or., The Dialectic of Sex. The Case for Feminist Revolution, Morrow, New York 1970). 16 I.M. Young, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996, al cap. V: «Graduatoria dei corpi e la politica dell’identità» (ed. or., Justice and the Politics of Difference, Princeton University Press, Princeton 1990). 17 Acronimo di Women’s International Terrorist Conspiracy from Hell. Redstockings fa il verso a Bas bleu (in Francia) e Bluestockings (in Inghilterra), come erano chiamate le intellettuali europee del ’700. 18 A. Rich, Nato di donna, Garzanti, Milano 1977 (ed. or., Of Woman Born, Bantam Books, New York 1977); J. Kristeva, Eretica dell’amore, La Rosa, Torino 1979; L. Muraro, Maglia o uncinetto, Feltrinelli, Milano 1981; L. Melandri, L’infamia originaria. Facciamola finita col cuore e la politica, manifestolibri, Roma 1997.

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19 Unef (Union Nationale des Étudiants de France) Strasbourg, Della miseria nell’ambiente studentesco: considerata nei suoi aspetti economico, politico, psicologico, sessuale e specialmente intellettuale e di alcuni mezzi per porvi rimedio, Nautilus, Torino 1995 (ed. or., De la misère en milieu étudiant: considérée sous ses aspects économique, politique, psychologique, sexuel et notamment intellectuel et de quelques moyens pour y remédier, Strasbourg 1966. 20 F. Picq, Libération des femmes. Les années-mouvement, Seuil, Paris 1993, rispettivamente alle pp. 21-23 e 19. 21 Vedi R.W. Connell, Masculinities, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995, pp. 103-112 (trad. it., Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale, Feltrinelli, Milano 1996). 22 N. Milletti, Analoghe sconcezze. Tribadi, saffiste, invertite e omosessuali: categorie e sistemi sesso/genere nella rivista di antropologia criminale fondata da Cesare Lombroso (1880-1949), in «DWF», 4, 1994. 23 A. Jivani, It’s not Unusual. Gay and Lesbian History in Britain, in Smith, Global Feminisms cit., pp. 164 sgg. 24 M. Wittig, Il corpo lesbico, Edizioni delle donne, Milano 1976 (ed. or., Le Corps lesbien, Les Éditions de Minuit, Paris 1973). 25 A. De Perini, Sorelle, amiche, amanti, in «Quaderni dell’Associazione Livia Laverani Donini», 6, III, 1990, pp. 76 sgg. 26 Picq, Libération des femmes cit., pp. 108 e 189. 27 Ivi, p. 103. 28 M.B. Duberman, Stonewall, Dutton, New York 1993. 29 J. D’Emilio, La storia gay: un nuovo settore di ricerca, in «Rivista di storia contemporanea», 1, 1991. 30 Berman, Sessantotto cit., al cap. «Il risveglio gay». 31 Jivani, It’s not Unusual cit., in Smith, Global Feminisms cit., p. 176. 32 Evans, Personal Politics cit., pp. 213-214. 33 «The flood broke loose gradually and then more swiftly. We talked about our families, our mothers, our fathers, our siblings; we talked about our men; we talked about school; we talked about ‘the movement’ (which meant new left men). For hours we talked and unburdened our souls and left feeling high and planning to meet again the following weeks», in Evans, Personal Politics cit., p. 205. 34 Narrazione di Floriana Bossi, in A. Ribero, Una questione di libertà. Il femminismo degli anni anni Settanta, Rosenberg & Sellier, Torino 1999, p. 177. 35 «The whole movement is the most exhilarating of my life. The last eight months have been a personal revolution. Nonetheless, I recognize there is dynamite in this, and I was scared shitless», in Evans, Personal Politics cit., p. 207. 36 Cfr. O. Weininger, Sesso e carattere, Feltrinelli, Milano 1978 (I ed. it., Bocca, Torino 1912; ed. or., Geschlecht und Character, Braumüller, WienLeipzig 1903). 37 R. Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea, La Tartaruga, Milano 1994, p. 197.

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38 Vedi, oltre a V. Seidler, Riscoprire la mascolinità. Sessualità ragione linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1992 (ed. or., Rediscovering Masculinity. Reason, Language and Sexuality, Routledge, London-New York 1989), Connell, Masculinities cit., pp. 120-143. 39 Intervento di C. Quaglino in L’eredità del femminismo per una lettura del presente, «Il paese delle donne», 37/38, supplemento, ottobre 2002, p. 51. 40 Vedi la riflessione di L. Melandri, Una visceralità indicibile, Franco Angeli, Milano 2000. 41 L’episodio mi è stato raccontato dalla partigiana Lucia Testori. 42 C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, in Ead., Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1974, pp. 20-21 (I ed. 1970). 43 C. Mancina, Oltre il femminismo. Le donne nella società pluralista, il Mulino, Bologna 2002. 44 Ricordo in particolare G. Providenti (a cura di), La nonviolenza delle donne, numero speciale di «Quaderni Satyagraha», Libreria Editrice Fiorentina-Centro Gandhi Edizioni, Firenze-Pisa 2006, e fra i siti, «La nonviolenza è in cammino» (http://lists.peacelink.it/nonviolenza) che alla discussione dedica regolarmente i numeri «Nonviolenza. Femminile plurale». 45 I. Whelehan, Modern Feminist Thought. From the Second Wave to «Post-Feminism», Edinburgh University Press, Edinburgh 1995, p. 19. 46 bell hooks, in «Feminist Review», 23, 1986, citato in Whelehan, Modern Feminist Thought cit., p. 119. L’opera più nota di bell hooks è Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano 1998 (ed. or., Yearning. Race, Gender, and Cultural Politics, South End Press, Boston 1990). 47 L. Kandel, Feminism and Anti-Semitism, in G. Griffin, R. Braidotti (a cura di), Thinking Differently. A Reader in European Women’s Studies, Zed Books, London-New York 2002, pp. 184-185. 48 «Although their victims – mental patients and Jews – were of both sexes, all were cast into the victim role modeled on that of the victims of patriarchal gynocide, which is the root and paradigm for genocide», in Daly, Gyn/Ecology cit., p. 298. 49 A. Marwick, The Sixties: Cultural Revolution in Britain, France, Italy, and the United States, c. 1958-c. 1974, Oxford University Press, Oxford-New York 1998, al cap. «Women’s Turn». 50 «La nature d’un mouvement est contradictoire de celle d’une organisation. Que les mouvements fleurissent et la révolution sera. Que les organisations fleurissent et la révolution crevera». 51 B. Frabotta (a cura di), Femminismo e lotta di classe in Italia, Savelli, Roma 1976, p. 49. 52 Fra le conquiste dell’Intercategoriale, la lista unica di collocamento, più attenzione alla salute delle lavoratrici, vari cicli delle 150 ore su temi «femminili». 53 Evans, Personal Politics cit., pp. 222-224.

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54 «[...] un pouvoir légal, patriarcal, sadique, pédérastique, de représentation, de chef, de nom, de viol, de répression, de haine, d’avarice, d’avoir, de savoir, d’ordre, d’individualisme, d’idées abstraites. C’est un (im)pouvoir matriciel d’engendrements, de dépenses, de chaos, de différences, de libertés collectives, d’ouverture, de corps (pluriel), de re-connaissances, de levées de censures, de jouissances, d’en dehors de la loi, un pouvoir-agir-penser-faire par/pour toutes, tous», in Picq, Libération des femmes cit., p. 128. 55 F. Ducrocq, Femminismo in Francia: quelle vere siamo noi, in «Orsaminore», 3-4, 1982. 56 R. Char, Feuillets d’Hypnos, Gallimard, Paris 1946, citato in H. Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1983 (I ed. 1965), p. 325 (ed. or., On Revolution, Viking Press, New York 1963). 57 R. Luxemburg, Un po’ di compassione, Adelphi, Milano 2007, pp. 2021; il brano è in una lettera del 1917 a Sophie (Sonja) Liebknecht, pubblicata nel 1920 da Kraus sulla sua rivista «Die Fackel». 58 E. Fattorini, Il colpo di grazia sessuale, in A. Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991. 59 C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1987 (ed. or., In a Different Voice. Psychological Theory and Women’s Development, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1982), considerato da molte un pilastro del pensiero della differenza, che parte dalla critica di uno studio in cui si concludeva che le femmine hanno un livello di sviluppo morale mediamente più basso dei maschi. 60 A. Rossi-Doria, Maternità e cittadinanza femminile, in «Passato e presente», 34, 1995. 61 G. Providenti, L. Menapace, Un dialogo fra generazioni diverse, in Providenti (a cura di), La nonviolenza delle donne cit., p. 16. 62 Sebbene la tesi si precisi nel femminismo fra il decennio settanta e ottanta, l’interesse per il materno circola da molto prima. 63 E. Bernhard, Mitobiografia, Bompiani, Milano 1977, p. 170. Secondo Francesco Parenti [La duttilità transculturale della simbologia materna e le sue componenti immutabili, in T. Giani Gallino (a cura di), Le Grandi Madri, Feltrinelli, Milano 1989], la nostalgia della Grande Madre sarebbe ancora oggi un tratto distintivo della cultura italiana. Che si veda in questa forma mentis una virtù o una tara, ecco accreditata in blocco alla Madre una propensione al particolare sulla cui verosimiglianza non c’è accordo, e sulle cui radici si sono accumulate le ipotesi. 64 Sulle forme e la diffusione del culto mariano vedi, G. Zarri, L. Scaraffia (a cura di), Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Laterza, RomaBari 1994, e E. Fattorini, Maria, in A. Moltedo (a cura di), Ruah. Il femminile di Dio, Stampa Alternativa, Roma 1997. 65 Rossi-Doria, Maternità e cittadinanza femminile cit. 66 Così un articolo del febbraio 1991 su «Révolutions de Paris», citato in G. Bonacchi, A. Groppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 7.

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67 C. Saraceno, La dipendenza costruita e l’interdipendenza negata, in Bonacchi, Groppi, Il dilemma della cittadinanza cit. 68 Copio un titolo di Lea Melandri, L’infamia originaria cit. 69 J. Butler, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Firenze 2004 (ed. or., Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London-New York 1990). 70 Catherine [Deudon], De quelques idéntifications. Article en femmage à une lesbienne barbue rencontrée à la Lesbian Food Conspiracy de New York, in Les femmes s’entêtent, poi Gallimard, Paris 1975, pp. 456 sgg. (numero speciale di «Les Temps Modernes», 333-334, avril-mai 1974). 71 M. Nadotti, Sesso e genere, il Saggiatore/Flammarion, Milano 1996, sul carattere aleatorio dei criteri con cui si assegnano le persone a un sesso o all’altro; su Prince, vedi pp. 94-95. 72 Picq, Libération des femmes cit., p. 120. 73 «Les Temps Modernes», 333-334, avril-mai 1974, p. 2041. 74 L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991. 75 Da questo rapporto, che vede in primo piano la responsabile femminile del Pci, Livia Turco, uscirà una Carta delle donne con il titolo Dalle donne la forza delle donne, che riecheggia la politica della differenza sessuale della Libreria delle donne di Milano e del Centro Virginia Woolf di Roma. 76 Vedi il rapporto fra questa discussione e il lavoro delle storiche in P. Di Cori, Culture del femminismo. Il caso della storia delle donne, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, t. 2, Einaudi, Torino 1997, pp. 820 sgg. 77 A. Rossi-Doria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Viella, Roma 2007, pp. 302-304. 78 Lo registra A. Scattigno, La figura materna fra emancipazionismo e femminismo, in M. D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Laterza, RomaBari 1997, p. 297. È il primo e uno dei pochi testi storici che si esprimono sul tema della madre simbolica. 79 La tesi è di F. Lussana, Le donne e la modernizzazione. Il neofemminismo degli anni settanta, in Storia dell’Italia repubblicana cit., pp. 471-565. 80 L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1985, p. 58. Si tratta di una raccolta di lezioni tenute nel 1982 (ed. or., Ethique de la différence sexuelle, Les Éditions de Minuit, Paris 1984). 81 L’espressione è di C. Klapish-Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Laterza, Roma-Bari 1988 (rist. 1995). 82 M. Hirsch, The Mother/Daughter Plot, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1989. 83 C. Lonzi, La presenza dell’uomo nel femminismo, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1978. 84 Sul legame personale, affettivo e educativo, fra padre e figlia vedi L. Derossi, Padre e figlia e il ritorno della madre. Storie di vita e narrativa femminile, in L. Accati, M. Cattaruzza, M. Verzar-Bass (a cura di), Padre e figlia, Rosenberg & Sellier, Torino 1994. 85 Vedi il Bollettino citato in P. Zumaglino, Femminismi a Torino, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 223-229.

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86 Frabotta (a cura di), Femminismo cit. Le citazioni si trovano alle pp. 177 sgg., 193 sgg., 227 sgg., 187 sgg. 87 A. Koedt, The Myth of the Vaginal Orgasm, in Notes from the First Year, New York Radical Women, June 1968, poi in A. Koedt, E. Levine, A. Rapone, Radical Feminism, Quadrangle, New York 1973. Il testo è ripreso in molti libri collettivi. 88 Riprenderà l’argomento Carla Lonzi in un libro decisivo, La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1971. 89 Esistono studi come quello di P. Gaiotti De Biase, Cattoliche e cattolici di fronte all’aborto e il mutamento degli equilibri della Repubblica, in «Genesis», III/1, 2004, e, per il ’68, di G. Verucci, Il 1968, il mondo cattolico italiano e la Chiesa, in «Passato e Presente», 20-21, 1989. 90 In un articolo, Cristiane donne tra le donne, in «Orsaminore», 3-4, 1982, Rita Pierro e Anna Maria Marlia ricordano che per il loro collettivo, nato nel 1976, non esisteva una specificità cristiana nel femminismo e che la loro è una testimonianza di fede a partire dalla realtà quotidiana. Di recente è uscito un libro importante, La Parola e le pratiche. Donne prostestanti e femminismi, Claudiana, Torino 2007 (le autrici, che compaiono sulla quarta di copertina, sono S. Baral, I. Pontet, G. Ribet, T. Rochat, F. Spano, F. Tourn, G. Tron). 91 C. Lonzi, Taci, anzi parla: diario di una femminista, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1978. 92 F. Chiaromonte, Un «politico» senza le parole degli altri, in «Orsaminore», 2, 1981. 93 Picq, Libération des femmes cit., p. 115. 94 M. Nussbaum, Sex and Social Justice, Oxford University Press, New York 1999, pp. 63-67, dove rimprovera al liberalismo di avere una visione armonistica della famiglia. 95 Mi valgo qui della bella analisi di Franco Restaino del dibattito degli anni novanta sul rapporto tra filosofie femministe e scuole filosofiche: Femminismo e filosofia: contro, fuori o dentro?, in «Rivista di storia della filosofia», 3, 2001. Vedi anche A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe, Paravia Scriptorium, Torino 1999. 96 Vedi E. Galli Della Loggia, Una guerra «femminile»?, in Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali cit. 97 Cfr. l’analisi di J.G. Gray, The Warriors: Reflection on Men in Battle, Harper & Row, New York 1970. 98 Per la distinzione tra virtù «eroiche» e «quotidiane», si veda T. Todorov, Di fronte all’estremo, Garzanti, Milano 1992 (ed. or., Face à l’extrême, Seuil, Paris, 1991). 99 T. Adorno, E. Frenkel-Brunswick, D. Levinson, R.N. Sanford, La personalità autoritaria, Edizioni di Comunità, Milano 1973 (ed. or., The Authoritarian Personality, Harper, New York 1950). 100 Vedi Mancina, Oltre il femminismo cit., al cap. V.

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Amore 1 Citato in M. Porro, Violenze del secolo ultravioletto, in «il manifesto», 3 agosto 2003. Le capre di Bikini è il titolo del libro di Gian Carlo Ferretti (Editori Riuniti, Roma 1989) su Calvino saggista e giornalista. 2 «I cannot say to a person who suffers injustice, ‘Wait’. Perhaps you can. I can’t. And having decided that I cannot urge caution I must stand with him [...]. I am thankful for the sit-ins if for no other reasons [that] they provided me with an opportunity for making a decision into an action», in S. Evans, Personal Politics. The Roots of Women’s Liberation in the Civil Rights Movement and the New Left, Vintage Books, New York 1980, p. 107 (ed. or., Random House, New York 1979). 3 «It is the question of [...] whether I shall go on living in isolation or whether there shall be a we. The student movement is not a cause [...] it is a collision between this one person and that one person. It is a I’m going to sit beside you [...]. Love alone is radical», in H. Zinn, Sncc: The New Abolitionists, Beacon Press, Boston 1964, p. 7. 4 The Boston Women’s Health Book Collective, Our Bodies, Ourselves, Simon & Schuster, New York 1970 (trad. it., Noi e il nostro corpo, a cura di A. Miglietti, Feltrinelli, Milano 1974). 5 Vedi il racconto e le osservazioni in F. Lussana, Le donne e la modernizzazione. Il neofemminismo degli anni settanta, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, t. 2, Einaudi, Torino 1997, pp. 471-565. 6 F. Levi, L’idea del buon padre, Rosenberg & Sellier, Torino 1984. 7 Sulla rivista, vedi l’antologia a cura di L. Melandri, Il desiderio dissidente, Baldini & Castoldi, Milano 1998. 8 M. Salvati, Gioventù, amore e rabbia. La storia dell’Italia repubblicana e la stagione dei movimenti, in «Parolechiave», 18, 1998, pp. 62-64. 9 H. Arendt, G. Scholen, Due lettere sulla banalità del male, nottetempo, Roma 2007, pp. 24-25. 10 A. Sofri, Chi è il mio prossimo, Sellerio, Palermo 2007, pp. 219-222. 11 Si veda N. Neri, Un’estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager, Bruno Mondadori, Milano 1999. 12 «It’s quite another thing to even acknowledge such weakness in one’s fellow workers [...]. Several times I’ve had to completely re-do press statements or letters written by one of them [...]. I’m a northerner; I’m white; I’m a woman; I’m a college graduate; I’ve not ‘proven’ myself in jail or in physical danger. Every one of these things is a strike against me as far as they are concerned. I’ve refused to be ashamed of what I cannot change; I either overlook or purposely and pointedly misinterpret their occasional thrusts of antagonism [...]», in Evans, Personal Politics cit., p. 90. 13 Cfr., fra gli altri, R.W. Connell, Masculinities, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995 (trad. it., Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale, Feltrinelli, Milano 1996), specie al cap. «Live Fast and Die Young».

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14 Intervento di Silvio, in Il 2° Congresso di Lotta Continua, Cooperativa Giornalisti Lotta Continua, Roma 1976, pp. 130-131. 15 Intervista di Ornella Favero con padre Oliviero Bruno, il cappellano del Carcere di Poggioreale, Napoli, vedi al sito www.solidarity-mission.eu 16 G. de Maupassant, Les dimanches d’un bourgeois de Paris (1880; trad. it., Le domeniche di un borghese di Parigi, Marsilio, Venezia 1993). 17 L. Manconi (a cura di), La violenza e la politica, in «Quaderni di Ombre rosse», 2, Savelli, Roma 1979, pp. 120-138. 18 Arendt, Scholen, Due lettere cit., pp. 27-28. 19 F. Picq, Libération des femmes. Les années-mouvement, Seuil, Paris 1993, pp. 84-86. 20 Laura Derossi, in A. Papuzzi, ’68: l’eros ai tempi della rivoluzione, in «La Stampa», 7 febbraio 1998. 21 Narrazione di Diego Marconi, in L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Giunti, Firenze 1988, p. 101. 22 È un ricordo personale, suffragato da altri. Non ho potuto ascoltare il protagonista. 23 G. Tedeschi, C’è un punto della terra... Una donna nel Lager di Birkenau, La Giuntina, Firenze 1988, p. 98. 24 M. Schiavo, Movimento a più voci. Il femminismo degli anni Settanta attraverso il racconto di una protagonista, Fondazione Badaracco-Franco Angeli, Milano 2002, pp. 78 sgg. 25 C. Vecchio, Vietato obbedire, Bur Futuropassato, Milano 2005, p. 123. 26 La citazione è in Passerini, Autoritratto di gruppo cit., p. 135. 27 Cfr. G. Alvi, Uomini del Novecento, Adelphi, Milano 1995. 28 A. Portelli, Elvis Presley è una tigre di carta (ma sempre una tigre), in D. Carpitella, G. Castaldo, G. Pintor, A. Portelli, M.L. Straniero, La musica in Italia, Savelli, Roma 1978, p. 68. 29 Vecchio, Vietato obbedire cit., p. 9. 30 La meglio gioventù. Accadde in Italia 1965-1975, supplemento a «diario», 3 dicembre 2003. 31 E. Jong, Paura di volare, Bompiani, Milano 1975 (ed. or., Fear of Flying, Holt, Rinehart and Winston, New York 1973), M. Lombardo Radice, L. Ravera, Porci con le ali, Savelli, Roma 1976, infinite volte ristampato. 32 E. Ichx, Ho vissuto un anno coi capelloni, Edizioni Meb, Torino 1967, p. 21, citato in A. Tonelli, Comizi d’amore. Politica e sentimenti dal ’68 ai Papa boys, Carocci, Roma 2007, p. 39. 33 E. Vittorini, Conversazione in Sicilia (Nome e lagrime), Bompiani, Milano 1941, a partire dal 1966 ristampato da Einaudi, Torino. 34 Mes petites sœurs du MLF j’en ai marre de me faire chier la peau avec vous!!!, in «Le torchon brûle», 6, s.d., citato in J.-P. Le Goff, Mai 68. L’héritage impossible, La Découverte, Paris 2002 (I ed. 1998), p. 315. 35 M. Schiavo, Movimento a più voci cit., pp. 66 sgg. 36 E. Shorter, Famiglia e civiltà, Rizzoli, Milano 1978 (ed. or., The Making of the Modern Family, Basic Books, New York 1975). 37 J. Scott, L. Tilly, Lavoro femminile e famiglia nell’Europa del XIX se-

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colo, in C.E. Rosenberg (a cura di), La famiglia nella storia. Comportamenti sociali e ideali domestici, Einaudi, Torino 1979 (ed. or., The Family in History, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1975). 38 G. Parca, Le Italiane si confessano, Parenti, Firenze 1959. 39 M. Rusconi, Amati amanti. Idillio e sopraffazione. La coppia narrata a due voci, Feltrinelli, Milano 1981. 40 Lo fa notare, all’interno di un discorso molto critico, L. Scaraffia, L’intellighenzia del sesso, in «Ideazione», luglio-agosto 2005; sullo stesso numero, vedi E. Roccella, Alla ricerca del Nirvana sessuale. 41 Papuzzi, ’68: l’eros ai tempi della rivoluzione cit. Gli amici sono Anna Bravo, Alberto Collo, Laura Derossi, Massimo Negarville, Eleonora Ortoleva. 42 Ibid.

Dolore 1 «Le visage effaré de gens arrachés au sommeil, [...] des jeunes, d’aspect pitoyable, pas des étudiants, mais plutôt des sans-travail, des beatniks, quelques clochards, des jeunes filles paumées. L’une d’elles sort en pleurant et en serrant contre elle son baluchon. Comme j’ai interdit que l’on apporte des armes, nos ‘Katangais’ se fondent dans l’anonymat de cette pauvre troupe en déroute. Je n’ai pas voulu faire d’exceptions, et les interpeller. D’ailleurs, comment les reconnaître, pauvres types parmi d’autres pauvres types? Qu’ils aillent se faire pendre ailleurs», in M. Grimaud, En mai, fais ce qu’il te plaît, Stock, Paris 1977, in J.-P. Le Goff, Mai 68. L’héritage impossible, La Découverte, Paris 2002 (I ed. 1998), p. 116. 2 «C’est la sortie classique, dans l’honneur, de la garnison qui se rend. Les assiégés tiennent a être expulsés symboliquement par la police et passent dignement entre une double haie de policiers casqués mais pacifiques. Voila, c’est fini», ibid. 3 M. Gramaglia, Affinità e conflitto con la nuova sinistra, in «memoria», 19-20 (numero oro: Il movimento femminista negli anni ’70), 1987, p. 28. 4 Ivi, p. 27. 5 Sulle diverse maschere, in particolare del mondo classico, vedi S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano, Feltrinelli 1986. 6 J. Amery, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 148 (ed. or., Jenseits von Schuld und Sühne, Szczesny, München 1966). 7 M. Duras, Il dolore, Feltrinelli, Milano 1985 (ed. or., La Douleur, Gallimard, Paris 1985). 8 A. Scurati, Il sopravvissuto, Bompiani, Milano 2005. 9 E. Rasy, L’estranea, Rizzoli, Milano 2007, p. 66. 10 J. Didion, L’anno del pensiero magico, il Saggiatore, Milano 2006 (ed. or., The Year of Magical Thinking, Knopf, New York 2005). 11 S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, p. 96

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(ed. or., Regarding the Pain of Others, Farrar, Straus and Giroux, New York 2003). 12 M. Cardinal, Le parole per dirlo, Bompiani, Milano 1976 (ed. or., Les Mots pour le dire, Grasset, Paris 1975). 13 Cfr. F. Picq, Libération des femmes. Les années-mouvement, Seuil, Paris 1993. 14 M. Rusconi, Amati amanti. Idillio e sopraffazione. La coppia narrata a due voci, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 125-127. 15 «Tu as besoin de plus d’amour, de plus de sécurité que je ne peux t’en donner [...]. Il faut que tu comprennes bien: ce n’est pas moi qui te prive d’amour, c’est cette société qui nous le vole à toutes deux [...] où le mot amour ne sera plus un piège étriqué dans lequel nous coincer et développer notre égoïsme, mais une réalité large», citato in Le Goff, Mai 68 cit., pp. 334335. 16 È la tesi di E. Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano 1973. 17 G. Kaplan, Contemporary Western European Feminism, New York University Press, New York 1992, pp. 113 sgg. 18 Picq, Libération des femmes cit., p. 154. 19 J.-Y. Le Naour, C. Valenti, Histoire de l’avortement. XIXe-XXe siècle, Seuil, Paris 2003, pp. 223-244. 20 Sul self-help, vedi la sezione Il corpo, la salute, in «memoria», 19-20 (numero oro: Il movimento femminista negli anni ’70), 1987, e L. Percovich, La coscienza nel corpo. Donne, salute e medicina negli anni Settanta, Fondazione Badaracco-Franco Angeli, Milano 2005, ricco di documenti di allora. 21 Picq, Libération des femmes cit., pp. 155-159. 22 Y. Knibiehler, Corpi e cuori, in G. Fraisse, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente, vol. IV: L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 330 sgg. 23 Ma a partire dalla seconda metà dell’800, in Francia sono sempre di più i magistrati che rinunciano a imporre il diritto di custodia paterno dopo che le madri l’hanno violato trattenendo o portando via i figli. Già in ancien régime ci sono esempi di una particolare considerazione dei magistrati per lo spazio dell’accudimento e della cura, quindi per l’asse madre/figli, contro le eccessive invadenze del lignaggio; cfr. rispettivamente A.-M. Sohn, Chrysalides. Femmes dans la vie privée (XIXe-XXe siècles), Publ. de la Sorbonne, Paris 1996, pp. 220 sgg., e G. Calvi, «Senza speranza di succedere». Madri, figli e Stato nella Toscana moderna (XVI-XVIII secc.), in G. Fiume (a cura di), Madri. Storia di un ruolo sociale, Marsilio, Venezia 1995. 24 Cfr. B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 1994 (ed. or., Der Frauenleib als öffentlicher Ort, Luchterhand Literaturverlag, Hamburg u.A. 1991), N.M. Filippini, Il cittadino non nato e il corpo della madre, in M. D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Laterza, Roma-Bari 1997, e il Forum La cittadinanza del feto, a cura di G. Fiume e E.Vezzosi, in «Genesis», II, 1, 2003. 25 Per il dibattito sull’aborto in Italia, vedi A. Ribero, Una questione di li-

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bertà. Il femminismo degli anni anni Settanta, Rosenberg & Sellier, Torino 1999, pp. 271-286; A. Calabrò, L. Grasso (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso, Franco Angeli, Milano 1985; Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, pp. 61-77; uno sguardo d’insieme in G. Galeotti, Storia dell’aborto, il Mulino, Bologna 2003. 26 Il tema è rissunto in L. Boltanski, La condition fœtale. Une sociologie de l’engendrement et de l’avortement, Gallimard, Paris 2004, pp. 234-235 (trad. it., La condizione fetale. Una sociologia della generazione e dell’aborto, Feltrinelli, Milano 2007). 27 Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso, documento del Collettivo milanese di via Cherubini del 18 gennaio 1975, in «Sottosopra», febbraio 1975. Tutta la serie di «Sottosopra» è utilissima per conoscere il dibattito; vedi in L. Paolozzi, A. Leiss, Un paese Sottosopra. 1973-1996: una voce del femminismo italiano, Pratiche, Milano 1999. Vedi anche A. Rossi-Doria, La maternità, un nodo politico, in Percorsi del femminismo e storia delle donne, Atti del Convegno di Modena, 1982, in «DWF», supplemento al n. 22, 1983. 28 Libreria delle donne di Milano, Non credere cit., p. 74. 29 Noi sull’aborto cit. 30 In occasione dei referendum del 1981, la propaganda accentua il tono cauto e il registro di comunicazione nazional-popolare. Il Coordinamento giornaliste del Piemonte e della Valle d’Aosta produce un fotoromanzo, Storia di A., dove la protagonista è un condensato dei problemi in cui può incorrere il tipo di donna che nella regione ha fatto maggiore ricorso all’aborto, dal denaro contato, al ricordo orrendo di un intervento subito in clandestinità, a malanni fisici che sconsigliano l’uso della pillola. L’aborto, si fa dire a un’amica della protagonista, è «sempre un dolore», ma è «un dolore anche non farlo», perché vuol dire rinunciare al lavoro, ai piccoli agi conquistati, a un po’ di tempo per sé. Dagli anni dello slogan «l’utero è mio e lo gestisco io» a Storia di A., una parte del femminismo ha differenziato i linguaggi – e forse ha sottovalutato la disponibilità femminile a accettare motivazioni meno «virtuose». 31 Sul suo pensiero vedi M.L. Boccia, L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga, Milano 1990. 32 La citazione è da C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1974, p. 69 (I ed. 1970). 33 Vedi fra gli altri documenti il «Sottosopra» Sessualità contraccezione maternità aborto (1975), dove una ragazza milanese dice: «siccome è da non so quante migliaia di anni che noi donne abortiamo, credo che si possa dire, senza scandalizzare nessuno, che ci prendiamo il tempo e la calma di pensarci noi, cioè non è che in tre mesi si possa risolvere». L’aborto è un esempio sensato del contrasto fra i tempi che (alcune) donne sentono necessari e la fretta di altre, quelle della nuova sinistra, di arrivare a un risultato (la priorità dell’obiettivo). Il «Sottosopra» è ora in Percovich, La coscienza nel corpo cit., pp. 71-81.

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Lonzi, Sputiamo su Hegel cit., p. 117. P.P. Pasolini, Sono contro l’aborto, in «Corriere della Sera, 19 gennaio

1975. 36 E. Banotti, La sfida femminile. Maternità e aborto, De Donato, Bari 1971. È la prima raccolta di racconti personali sul problema dell’aborto. 37 Le citazioni sono ivi, pp. 45, 61, 88. 38 Ivi, p. 28. 39 Ivi, pp. 33 e 35. 40 Impronta l’autoimmagine non solo l’aborto subito, ma anche la scelta della militanza «pro-life» o «pro-choice», come mostrano i racconti di attiviste di entrambi gli schieramenti, vedi F. Ginsburg, Dissonance and Harmony: The Symbolic Function of Abortion in Activists’ Life Stories, in The Personal Narratives Group, Interpreting Women’s Lives, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 1989, pp. 59-84. 41 Banotti, La sfida femminile cit., pp. 68-69. 42 Sul Movimento per la vita, che in questi anni monopolizza la campagna contro la depenalizzazione, cfr. P. Gaiotti De Biase, Cattoliche e cattolici di fronte all’aborto e il mutamento degli equilibri della Repubblica, in «Genesis», III/1, 2004. 43 Boltanski, La condition fœtale cit. 44 Citato in L. Passerini, Per una memoria storica delle donne, in Centro di Documentazione delle Donne, Il movimento delle donne in Emilia-Romagna. Alcune vicende tra storia e memoria (1970-1980), Analisi, Bologna 1990, p. 31. 45 Boltanski, La condition fœtale cit., pp. 34 sgg. 46 Mi permetto di rimandare a A. Bravo, A.M. Bruzzone, In guerra senza armi, Laterza, Roma-Bari 2000, al cap. III: «Madri». 47 Cfr. E. Fattorini, Il grande ossimoro del femminile, in «Il Foglio», 17 gennaio 2008. 48 J.J. Thomson, A Defence of Abortion, in «Philosophy and Public Affairs», vol. 1, 1, 1971, citato in Boltanski, La condition fœtale cit., pp. 248250, 258-259. Sul dibattito, vedi ivi, al cap. IV: «La justification de l’avortement». 49 D. Maraini, Un clandestino a bordo: le donne, la maternità negata, il corpo sognato, Rizzoli, Milano 1996, pp. 14-15. 50 Vedi L.-F. Céline, Il dottor Semmelweis, Adelphi, Milano 1993 (si tratta della tesi di laurea in medicina di Céline discussa nel 1924 e pubblicata in Mea culpa: suivi de la vie et l’oeuvre de Semmelweis, Denoël et Steele, Paris 1937) e S.B. Nuland, Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignác Semmelweis, Codice Edizioni, Torino 2004 (ed. or., The Doctors’ Plague. Childbed Fever and the Strange Story of Ignác Semmelweis, Norton and Company, New York 2003). 51 M. Tooley, Abortion and Infanticide, in «Philosophy and Public Affairs», vol. 2, 1, 1972, citato in Boltanski, La condition fœtale cit., pp. 241244 e 255-256. 52 Così, fra gli altri, Gillian Penney, dell’Aberdeen Maternity Hospital.

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53 Così Peter Hepper del Foetal Behaviour Research Centre presso la Queen’s University di Belfast. 54 C.V. Bellieni è autore di L’alba dell’io: dolore, memoria, desiderio, sogno del feto, SEF, Firenze 2004. 55 Ricavo queste informazioni dai siti delle istituzioni citate sopra. 56 C. Mancina, Oltre il femminismo. Le donne nella società pluralista, il Mulino, Bologna 2002. 57 Le differenti differenze, intervista a Rosi Braidotti in «Una città», 120, aprile 2004.

Stregate 1 J.-P. Le Goff, Mai 68. L’héritage impossible, La Découverte, Paris 2002 (I ed. 1998), pp. 332-334. 2 «A l’aube il n’était toujours pas mort, il respirait tranquillement dans son paquet. Souvent dans la nuit, il se mettait à crier, mais ce n’étais jamais les derniers cris. Alors on a ouvert son paquet, il dormait et on a appliqué sur son visage un plastique; il a fallu le tenir étroitement serré et tout regarder pour que tout s’achève. Il a étouffé alors presque tout de suite», testimonianza di F., in «Les Temps Modernes», 333-334, avril-mai 1974, pp. 2036-2037. 3 «On l’a fait ensemble, on était malheureux mais sûrs qu’on avait raison. On n’a pas commis un crime, on a seulement fait une chose nécessaire», testimonianza di E., ivi, p. 2034. 4 «Oui, j’étais attachée à toi mon enfant quand je te regardais derrière les vitres du centre des prématurés; puis quand tu as été avec nous, je n’étais bien qu’à côté de toi, le jour, la nuit, et j’ai su à tout moment que le seul acte d’amour que nous pouvions faire pour toi, pour nous, pour la vie, c’était ta mort et je pouvais vivre cet amour et cette détermination presque avec sérénité parce que je n’étais pas seule, parce que nous étions nombreux à vouloir la même chose», testimonianza di C., ivi, pp. 2029-2030. 5 «[...] ceux qui ont la compétence technique et le pouvoir juridique empêchent de vivre en pleine conscience des bébés mongoliens qui viennent de naître, au lieu que ceux qui voulaient vivre avec un enfant soient obligés de le tuer, de le laisser dans des instituts, de devenir des parents anormaux vivant avec des enfants anormaux», testimonianza di F., ivi, p. 2037. 6 Vedi la tesi dell’antinatalismo nazista in G. Bock, Il nazionalsocialismo, in G. Duby, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente, vol. V: Il Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992 e la interpretazione più duttile di C. Koonz, Donne del Terzo Reich, Giunti, Firenze 1996 (ed. or., Mothers in the Fatherland. Women, the Family and Nazi Politics, St. Martin’s Press, New York 1987). Nel «Codice di Norimberga», che accompagna la sentenza di condanna al processo del ’46-’47 contro i medici nazisti responsabili delle «sperimentazioni scientifiche» su deportati e deportate, si fissano i criteri etico-giuridici per qualsiasi tipo di intervento: consenso volontario del sogget-

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to e sua capacità legale di fornirlo, assenza di ogni forma di costrizione o inganno, informazione su natura, fini, metodi, rischi, effetti degli esperimenti. È in primo luogo attraverso il rapporto con il potere medico che il corpo entra come soggetto e parte lesa nel dibattito sul nazismo, cfr. A. Santosuosso, Corpo e libertà. Una storia tra diritto e scienza, Raffaello Cortina, Milano 2001. 7 Per una ricognizione delle varie letture, A. Beltrametti, Eros e maternità. Quel che resta del conflitto tragico di Medea, in «Quaderni di Collalbo», 3, 1997. 8 Utile lo sguardo micrologico su singoli eventi o testi: cfr. per esempio E. Stewart, Infanticide et émancipation féminine dans «Alan’s Wife» d’Elizabeth Robins et de Florence Bell, in «Cycnos», 23/2, novembre 2006, al sito della rivista on line (http://revel.unice.fr/cycnos). 9 «[...] des enfants mongoliens qui n’auront jamais la possibilité de se révolter, de lutter pour mieux vivre, parce ce qu’ils sont totalement dépendants en naissant de gens qui les prennent en charge et ils le resteront», testimonianza di F., in «Les Temps Modernes», 333-334, avril-mai 1974, p. 2033. 10 G. Paley, L’importanza di non capire tutto, Einaudi, Torino 2007 (ed. or., Just as I Thought, Farrar, Straus and Giroux, New York 1998). 11 Cfr. A. Miller, Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 120-121 (ed. or., Das Drama des begabten Kindes und die Suche nach dem wahren Selbst, Suhrkamp, Frankfurt a.M 1979). 12 S. Vegetti Finzi, Il bambino della notte, Mondadori, Milano 1990. 13 L. Boltanski, La condition fœtale. Une sociologie de l’engendrement et de l’avortement, Gallimard, Paris 2004, pp. 70-74 (trad. it., La condizione fetale. Una sociologia della generazione e dell’aborto, Feltrinelli, Milano 2007). 14 G. Fofi, I «diversi». Per un cinema impietoso, in Id., Pasqua di maggio. Un diario pessimista, Marietti, Genova 1988, pp. 205-207. 15 F. Picq, Libération des femmes. Les années-mouvement, Seuil, Paris 1993, p. 262.

Violenza 1 Fra gli altri, R. Aron, La révolution introuvable, Fayard, Paris 1968, e P. Nora, citato in K. Ross, May ’68 and Its Afterlives, Chicago University Press, Chicago 2002. Uso qui, come in tutto il volume, la traduzione francese, Mai 68 et ses vies ultérieures, Éditions Complexe, Paris 2005, pp. 197. 2 J.-P. Le Goff, Mai 68. L’héritage impossible, La Découverte, Paris 2002 (I ed. 1998), p. 110. Altri autori parlano di sette o più morti. 3 Anche su questo aspetto gli orientamenti erano molto diversi da città a città; a Torino, per esempio, per qualche mese la polizia mantiene la mano leggera.

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4 Negli Usa, il servizio militare è eccezionalmente reso obbligatorio proprio in funzione dell’escalation in Vietnam. 5 Racconto di una studentessa, in A. Ricci, I giovani non sono piante. Da Trento 1968 a Bologna 1977, SugarCo, Milano 1978, p. 204. 6 A. Sofri, La corsa nei sacchi, in «Micromega», 1, 1988, p. 182. 7 Il testo è citato in G. De Luna, Aspetti del movimento del ’68 a Torino, in A. Agosti, L. Passerini, N. Tranfaglia (a cura di), La cultura e i luoghi del ’68, Franco Angeli, Milano 1990, p. 195. 8 M. Gallant, Chronique de Mai 68, Rivage, Paris 1998, citato in Ross, Mai 68 cit., pp. 10-11. 9 «Nous étions tous heureux, car nous avions conscience de notre force. C’est ce sentiment de force et d’unité qui créa l’atmosphère de fête et de barricades. Rien de plus naturel dans ces moments de défoulement collectif, où tout semblait possible, que la nouvelle simplicité des rapports entre manifestants, surtout entre garçons et filles. Tout devenait simple, facile. Les barricades n’étaient plus seulement un moyen d’autodéfense, elles devenaient symboles d’une certaine liberté. C’est pour cela que cette nuit de 10 à 11 mai restera inoubliable pour ceux qui ‘y’ étaient», in D. Cohn-Bendit, Le Grand Bazar, Belfond, Paris 1975, p. 67. 10 Le Goff, Mai 68 cit., pp. 93-95. 11 P. Berman, Sessantotto. La generazione delle due utopie, Einaudi, Torino 2006 (ed. or., A Tale of Two Utopias. The Political Journey of the Generation of 1968, Norton and Company, New York 1997), pp. 19-20. 12 «Les Temps Modernes», 353, décembre 1975. 13 Lo fa notare Le Goff in Mai 68 cit., p. 228. 14 H. Hamon, P. Rotman, Génération, vol. I: Les années de rêve, Seuil, Paris 1988, p. 589. 15 Come la citazione di Mario Capanna, anche questa si trova in I. Sommier, La violence politique et son deuil. L’après 68 en France et en Italie, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 1998, p. 38. 16 Cfr. B. Bongiovanni, Attraverso le interpretazioni del maggio francese, in Agosti, Passerini, Tranfaglia (a cura di), La cultura cit. 17 G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 1996, p. 297. 18 Vari esempi in Berman, Sessantotto cit., al cap. I: «Storia morale della generazione del Baby Boom». 19 Ross, Mai 68 cit., pp. 46-50. 20 Il primo termine indicava originariamente le spedizioni punitive contro i magrebini, il secondo equivale all’italiano «manganellare». 21 N. Daum, Des révolutionnaires dans un village parisien, Londres-Paris 1988, p. 211, citato in Ross, Mai 68 cit., p. 37. 22 Crainz, Il paese mancato cit., pp. 213-214. 23 F. Socrate, Una morte dimenticata e la fine del sessantotto, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1, 2007. 24 «L’Unità», 11 maggio 1974, citato in Sommier, La violence politique et son deuil cit., p. 176.

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25 M. Daly, Gyn/Ecology. The Metaethics of Radical Feminism, The Women’s Press, London 1979, al cap. «Conclusion and Afterword to Chapter Seven. Nazi Medicine and American Gynecology: A Torture Cross-Cultural Comparison». 26 Il termine «resistenza civile» entra in uso negli anni novanta grazie a Jacques Sémelin, storico nonviolento autore di Senz’armi di fronte a Hitler. La Resistenza civile in Europa (1939-1943), Sonda, Torino 1993 (ed. or., Sans armes face à Hitler, Payot, Paris 1989). 27 G. Viale, Il sessantotto: tra rivoluzione e restaurazione, Mazzotta, Milano 1978, p. 81. 28 Vedi N. Tranfaglia, Un capitolo del «doppio Stato». La stagione delle stragi e dei terrorismi, 1969-1984, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, t. 2, Einaudi, Torino 1997. 29 G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, Feltrinelli, Milano 1993. Vedi, fra gli altri testi, l’intervista di Luigi Manconi in A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, Mondadori, Milano 1997, pp. 91 sgg. 30 R. Delera, Tutto partì da piazza Fontana. Poi lanciammo la prima pietra, intervista a Adriano Sofri, in «Corriere della Sera», 2 aprile 2004. 31 Sommier, La violence politique et son deuil cit., pp. 53 e 145 sgg. 32 Vedi D. Della Porta, Le cause del terrorismo nella società contemporanea: riflessioni sulla letteratura, in D. Della Porta, G. Pasquino (a cura di), Terrorismo e violenza politica, il Mulino, Bologna 1983, pp. 46-47. 33 Vedi, fra gli altri, A. Geismar, S. July, E. Morane, Vers la guerre civile, Éditions et publication prèmieres, Paris 1969, pp. 16-17. 34 Narrazione di Alain, della Jcr, in Sommier, La violence politique et son deuil cit., p. 187. 35 Viale, Il sessantotto cit., p. 42. 36 De Luna, Aspetti del movimento del ’68 cit., pp. 195-196. 37 H. Arendt, Du mensonge à la violence, Calmann-Lévy, Paris 2006, pp. 114-116 (I ed. 1972; ed. or., Crises of the Republic. Lying in Politics, Civil Disobedience on Violence, Thoughts on Politics, and Revolution, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1972). 38 Della riflessione femminile sul rapporto fra cittadinanza e diritto/dovere di portare le armi, un esempio importante è J.B. Elshtain, Donne e guerra, il Mulino, Bologna 1991 (ed. or., Women and War, Basic Books, New York 1987), soprattutto la Parte I: «La virtù civica armata». Vedi anche G. Bonacchi, A. Groppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Laterza, Roma-Bari 1993, in particolare V. Fiorino, Essere cittadine francesi: una riflessione sui principi dell’89. 39 J. Wiener, The Weatherman Temptation, in «Dissent», Spring 2007. 40 Crainz, Il paese mancato cit., p. 269. 41 Lo fa notare Berman a proposito del movimento americano, compresa la sua ala nonviolenta, in Sessantotto cit., p. 50. 42 Narrazione di Attilio, in Sommier, La violence politique et son deuil cit., p. 208.

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43 Narrazione di Giovanni, in Sommier, La violence politique et son deuil cit., p. 194. 44 Vedi D. Della Porta, Gli incentivi alla militanza nelle organizzazioni clandestine di sinistra, in R. Catanzaro (a cura di), Ideologie, movimenti, terrorismo, il Mulino, Bologna 1990, p. 110. 45 L’espressione è il titolo di un libro di G. Lerner, L. Manconi, M. Sinibaldi (Feltrinelli, Milano 1978). 46 A. Asor Rosa, Le due società, Einaudi, Torino 1977, p. 59. 47 F. Berardi [Bifo], Dell’innocenza. Interpretazione del Settantasette, Agalev, Bologna 1989. 48 Il tema della comunità, che è rimasto schiacciato dalla fissazione mediatica su violenza/eroina/sbando, rivive nelle tranches di vita di E. Franceschini, Avevo vent’anni. Storia di un collettivo studentesco. 1977-2007, Feltrinelli, Milano 2007. 49 M. Veneziani, Rovesciare il sessantotto, Mondadori, Milano 2008, p. 14. 50 Narrazione di Luciano Parlanti, in G. Polo, I tamburi di Mirafiori, Cric, Torino 1989, pp. 63-64. 51 Narrazione di Rino Brunetti detto Zorro, in M. Revelli, Lavorare in Fiat, Garzanti, Milano 1989, p. 48. 52 Ivi, p. 72. 53 Sommier, La violence politique et son deuil cit., p. 120. 54 A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978: storia di Lotta Continua, Mondadori, Milano 1997, pp. 282-283. 55 S. Weil, Lettera a Georges Bernanos [1938?], Presentazione di R. Esposito, in «Micromega», 3, 1989, pp. 72-76. 56 Il giudizio è di Carlo Calleri, dirigente Fiat, in G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat 1919-1979, il Mulino, Bologna 1998, citato in Crainz, Il paese mancato cit., p. 349. 57 Le citazioni sono di Luigi, di Lotta continua, e di Pino, di Autonomia operaia, in Sommier, La violence politique et son deuil cit., p. 80. 58 Le Goff, Mai 68 cit. 59 Racconto di Paolo Hutter, in Cazzullo, I ragazzi cit., pp. 282-283. All’epoca nessuno gli dà retta, dice Hutter, ma avrà «soddisfazioni postume» dai suoi compagni negli anni successivi. 60 «Signor presidente / le scrivo una lettera / che forse lei leggerà / se ne avrà il tempo / ho appena ricevuto / la cartolina precetto / per andare in guerra / […] / non ci voglio andare / non sono sulla terra / per uccidere della povera gente». 61 «Se mi incriminerà / avverta i suoi gendarmi / che sarò disarmato / e che potranno sparare». 62 «Che avrò un’arma / e che so sparare». 63 Metodologia provocatoria dell’Onda verde, in «Mondo Beat», 1, 1967, citato in G. De Martino, M. Grispigni, I capelloni. Mondo Beat, 1966-1967. Storia, immagini, documenti, Castelvecchi, Roma 1997, p. 89.

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64 C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1974 (I ed. 1970), pp. 28 sgg. 65 M.L. Boccia, Il patriarca, la donna, il giovane. La stagione dei movimenti nella crisi italiana, in F. Lussana, G. Marramao (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. Culture, nuovi soggetti, identità, II, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 258-263. 66 H. Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964 (ed. or., Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, Viking Press, New York 1963). 67 S. Sontag, Viaggio a Hanoi, Bompiani, Milano 1969 (ed. or., Trip to Hanoi, Farrar, Straus and Giroux, New York 1968) citato in P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 37. 68 S. King, Cuori in Atlantide, Sperling & Kupfer, Milano 2000, p. 340 (ed. or., Hearts in Atlantis, Scribner, New York 1999). 69 «Stupro di sinistra, stupro di destra, stessa lotta». Le diverse tesi politiche sono illustrate in F. Picq, Libération des femmes. Les années-mouvement, Seuil, Paris 1993, pp. 238-241. 70 Vedi R.W. Connell, Masculinities, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995, al cap. V (trad. it., Maschilità. Identità e trasformazioni del maschio occidentale, Feltrinelli, Milano 1996). 71 Care compagne cari compagni. Lettere a Lotta Continua, Cooperativa Giornalisti Lotta Continua, Roma 1978, pp. 164-165. 72 Vedi A. Ribero, Una questione di libertà. Il femminismo degli anni Settanta, Rosenberg & Sellier, Torino 1999, pp. 131-133. 73 Più di 20 anni dopo Aldo Cazzullo raccoglierà versioni diverse, e ancora vivaci, cfr. I ragazzi cit., p. 265. 74 Picq, Libération des femmes cit., p. 94. 75 Ivi, p. 215. 76 Vedi E. Peyretti, Dov’è la vittoria?, Il Segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005. 77 Sui femminismi anni settanta la ricerca è ancora parziale in molti paesi. Molti i motivi: la minore applicabilità alla storia contemporanea delle categorie antropologiche (su questo, vedi il saggio di G. Pomata, La storia delle donne: una questione di confine, in Il mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca, 2, La Nuova Italia, Firenze 1983), il primato nel movimento di un’oralità difficile da riprodurre sulla pagina, il complicato rapporto storia/biografia, lo stato della documentazione. Ma anche la difficoltà di fare i conti con la violenza può aver pesato. Per l’Italia esistono comunque testi importanti di storia e di storia del pensiero femminista. Senza alcuna pretesa di completezza, ricordo, oltre a quelli già citati, A. Crispino (a cura di), Esperienza storica femminile nell’età moderna e contemporanea, Parte II, Unione Donne Italiane, Circolo La Goccia, Roma 1988; P. Zumaglino, Femminismi a Torino, Franco Angeli, Milano 1996; E. Baeri, S. Fichera (a cura di), Inventari della memoria. L’esperienza del coordinamento per l’Autodeterminazione della donna a Catania (1980-1985), Fondazione Badaracco-Franco An-

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geli, Milano 2001; E. Baeri, A. Buttafuoco (a cura di), Riguardarsi, Protagon, Siena 1997; A. Scattigno, T. Bertilotti (a cura di), Il femminismo degli anni settanta, Viella, Roma 2005; I. Dominijanni (a cura di), Motivi della libertà, Franco Angeli, Milano 2001; L. Lilli, C. Valentini (a cura di), Care compagne. Il femminismo nel Pci e nelle organizzazioni di massa, Editori Riuniti, Roma 1979. Una messa a punto non solo teorica in Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, LaTartaruga, Milano 1987, e P. Bono, S. Kemp (a cura di), Italian Feminist Thought, Blackwell, Oxford 1991. Vedi poi la collana «Letture d’archivio» diretta da L. Melandri, Fondazione Badaracco-Franco Angeli. È molto utile A. Ribero, F. Vigliani (a cura di), 100 Titoli. Guida ragionata al femminismo degli anni settanta, Luciana Tufani, Ferrara 1998. Vedi anche le raccolte di documenti: L. Menapace (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna: saggi e documenti, Bertani, Verona 1972; R. Spagnoletti (a cura di), I movimenti femministi in Italia, Savelli, Roma 1977. Mi permetto di rimandare a G. Fiume e A. Bravo, Presentazione, in Anni Settanta, «Genesis», III/1, 2004, dove è stata riunita anche una breve bibliografia sull’Italia repubblicana. Documentazione e dibattiti in molti siti, segnalo: www.universitadelledonne.it, www.libreriadelledonne.it, www. donnealtri.it. 78 Notava già nell’84 Alessandra Bocchetti che a questo stereotipo è legata la tendenza a aspettarsi dalle donne, in quanto tali, particolari assunzioni di responsabilità in tema di pace (Discorso sulla guerra e sulle donne, Centro culturale Virginia Woolf, Roma, ora in A. Bocchetti, Cosa vuole una donna, La Tartaruga, Milano 1995), mentre Lea Melandri parlava del compito assegnato alle donne di custodi degli «eventi dell’esperienza umana che la storia ha escluso da sé: la nascita e la morte» (L’illusione dell’innocenza, in «il manifesto», 26 febbraio 1991). Su donne, violenza, nonviolenza, una messa a punto di tutto rilievo in G. Providenti (a cura di), La nonviolenza delle donne, numero speciale di «Quaderni Satyagraha», Libreria Editrice Fiorentina-Centro Gandhi Edizioni, Firenze-Pisa 2006, specie i saggi della curatrice, di V. Andò, E. Donini, M. Lanfranco, L. Muraro. 79 J. Amery, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987 (ed. or., Jenseits von Schuld und Sühne, Szczesny, München 1966). 80 Vedi G. Kaplan, Contemporary Western European Feminism, New York University Press, New York 1992, pp. 251-252, dove si nota la sovrapposizione fra violenza attuata da donne e violenza del femminismo. 81 I. Faré, F. Spirito, Mara e le altre. Le donne e la lotta armata: storie interviste riflessioni, Feltrinelli, Milano 1979. 82 L. Passerini, Storie di donne e femministe, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, p. 86. Secondo l’autrice, «la memoria pratica spontaneamente l’evitazione di alcuni suoi luoghi». «C’è una sorta di indifferenza, nel tono di queste testimonianze, che riguarda se stesse prima che gli altri, come se le esperienze fatte o le prospettive davanti a sé non giustificassero altro che una specie di ottundimento alle proprie vere esigenze, di rassegnazione ad accettare il meccanismo di subire e ritorcere», ivi, p. 67. 83 Ricordo, oltre al classico e già citato I ragazzi che volevano fare la rivo-

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luzione, di Aldo Cazzullo, S. Voli, Quando il privato diventa politico: Lotta continua 1968-1976, Edizioni Associate, Roma 2006; E. Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni settanta. Lotta continua, Edizioni Associate, Roma 2002; vari articoli di queste e altre autrici, e E. Betta, E. Capussotti, «Il buono, il brutto, il cattivo»: l’epica dei movimenti tra storia e memoria, in «Genesis», III/1, 2004. Esisteva già la ricostruzione di L. Bobbio, Storia di Lotta continua, Feltrinelli, Milano 1978. Su Potere operaio, vedi A. Grandi, La generazione degli anni perduti, Einaudi, Torino 2003, con vari racconti di protagonisti e articoli di esponenti del gruppo, e sul Manifesto il partecipe A. Garzia, Da Natta a Natta: storia del Manifesto e del Pdup, Dedalo, Bari 1985. Non c’è una ricostruzione specificamente storiografica neppure su Avanguardia operaia né sull’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), dal 1972 Partito comunista (marxista-leninista) italiano, meglio conosciuto con il nome del suo organo ufficiale «Servire il Popolo». 84 Testimonianza di Erri De Luca, in S. Voli, Quando il privato diventa politico cit., p. 109. 85 Narrazioni di Ingrid Austerlitz e Donatella Barazzetti, ivi, pp. 112-113. 86 Narrazione di Daniela Monaci, ivi, p. 70. 87 Narrazione di Giuliano Mochi, ivi, p. 110. 88 Cfr. E. Donini, Che cosa resta, in «Inchiesta», 91-92, gennaio-giugno 1991. 89 La citazione è in E. Galli Della Loggia, Maschi d’Arabia, in «Corriere della Sera», 6 novembre 2007. 90 Il documento Contributo di alcune compagne sulla violenza, firmato con i nomi propri, mi è stato dato da Margherita D’Amico. 91 Le posizioni dei due collettivi sono riportate in A. Calabrò, L. Grasso (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Ricerca e documentazione nell’area lombarda, Centro di studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia, Milano 1985 (nuova ed., Franco Angeli, Milano 2004), pp. 123 sgg. 92 Su Bologna, le interviste e i documenti citati sono in E. Guerra, Soggettività individuale e storie di gruppi: una ricostruzione attraverso la memoria, in Il movimento delle donne in Emilia-Romagna, Analisi, Bologna 1990, pp. 95-103. Sul rapporto con i movimenti, vedi anche M. Fraire, Il nostro movimento e il loro, in «quaderni piacentini», 64, 1977; A. Rossi-Doria, Conservazione e rottura nel movimento delle donne, in «Ombre rosse», 25, 1981; Y. Ergas, Femminismo e giovani, in «Inchiesta», 54, 1981; e Passerini, Storie di donne e di femministe cit. 93 M. Schiavo, Movimento a più voci: il femminismo degli anni Settanta attraverso il racconto di una protagonista, Fondazione Badaracco-Franco Angeli, Milano 2002, pp. 182-183. Le posizioni citate riflettono il pensiero della libreria di Torino, il secondo brano è datato 1978. 94 Le citazioni di M. Fraire (Tra politica della ragione e ragione della politica, in «aut aut», 161, 1977) e di B. Beccalli (Protesta giovanile e opposizione, in «quaderni piacentini», 64, 1977) sono tutte e due in Calabrò,

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Grasso (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso cit., pp. 62-70. 95 Vedi V. Franzinetti, Il senso dell’autogestione, in «memoria», 19-20 (numero oro: Il movimento femminista negli anni ’70), 1987, pp. 184-185. 96 Manoscritto inedito di V. Franzinetti. 97 Vedi L. Manconi, Eroismo degli individui e eroismo delle masse, in «Ombre rosse», 15-16, 1976, pp. 45 sgg. 98 Calabrò, Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso cit., p. 67. 99 Schiavo, Movimento a più voci cit., pp. 179-182. 100 Calabrò, Grasso (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso cit., p. 67. 101 Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, pp. 156-159. 102 A.M. Mori, Il silenzio delle donne e il caso Moro, Lerici, Cosenza 1978, pp. 12, 41, 54. 103 Sulla cosiddetta linea della fermezza, vedi L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, Palermo 1978 e A. Sofri, L’ombra di Moro, Sellerio, Palermo 1991. 104 Mi limito a ricordare, fra le altre, le riflessioni già citate di Rossi-Doria, Fraire, Manconi, Bobbio, Viale, Sinibaldi, Farè e Spirito, uscite nella seconda metà degli anni settanta e, in L. Manconi (a cura di), La violenza e la politica, «Quaderni di Ombre rosse», 2, Savelli, Roma 1979, il dialogo Donne, violenza e identità, fra L. Boccarossa, G. Ciuffrida, M. Di Leo, G. Frabotta, L. Lugli, A. Rossi-Doria. In seguito usciranno i testi già citati di Gramaglia, Donini, Tranfaglia, e le narrazioni raccolte in Cazzullo, I ragazzi cit. e in Sommier, La violence politique et son deuil cit. In Francia escono, fra gli altri, J.-P. Le Dantec, Les dangers du soleil, Presses d’aujourd’hui, Paris 1978, Cohn-Bendit, Le Gran Bazar cit., A. Glucksmann, La cuisinière et le mangeur d’hommes, Seuil, Paris 1975, durissimo attacco al comunismo. Sulla «desacralizzazione» del pensiero egemone nei movimenti, cfr. P. Ory, L’entre-deux-mai, Seuil, Paris 1983. 105 Una sintesi della lotta alla Lip in Le Goff, Mai 68 cit., pp. 239-247. 106 Vedi C. Ginzburg, Il giudice e lo storico, Feltrinelli, Milano 2006, e A. Cazzullo, Il caso Sofri, Mondadori, Milano 2004. 107 Cfr. A. Sofri, Memoria, Sellerio, Palermo 1990, e molti altri suoi testi e articoli. 108 Su questo e altri aspetti della violenza, vedi, fra gli altri scritti, E. De Luca, A. Bolaffi, Dopo il Sessantotto niente?, in «Micromega», 1, 1996, pp. 49-67; E. De Luca, O. Bompressi, Vivere con il terremoto (il titolo della parte di De Luca è Eravamo tutti assassini potenziali), in «Micromega», 2, 1996, pp. 227-235. 109 Mi permetto di parodiare il titolo italiano del libro di D.J. Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano 1997 (ed. or., Hitler’s Willing Executioners. Ordinary Germans and the Holocaust, Knopf, New York 1996).

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110 L. Melandri, L’infamia originaria. Facciamola finita col cuore e la politica, manifestolibri, Roma 1977, Prefazione all’edizione del 1997, p. 8. 111 Boccia, Il patriarca, la donna, il giovane cit., p. 253. 112 E. Banotti, La sfida femminile: maternità e aborto, De Donato, Bari 1971. 113 Vedi il cap. «Stregate» in questo volume. 114 Les femmes s’entêtent, Gallimard, Paris 1975. 115 Per esempio Picq, Libération des femmes cit. 116 Su «Libération», 17 luglio 1985. 117 Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti cit., p. 174. 118 A. Sofri, Lisa Foa, in E. Roccella, L. Scaraffia (a cura di), Italiane, Dipartimento per le pari opportunità, Roma 2004, vol. III, p. 113.

Ringraziamenti

Alla fine di un libro, è bello ricordare che è stato anche un lavoro collettivo e che ha incontrato persone di grande generosità. Grazie a Franco Carrer, Fabio Levi e Franca Manuele per aver riletto il testo nelle sue varie fasi, con una finezza e una pazienza che sono molto al di là dell’appoggio contemplato dall’amicizia. A Graziella Bonansea e a Lucia Motti per i suggerimenti importanti su alcuni capitoli, a Guido Crainz, Margherita D’Amico, Vicky Franzinetti, Giovanna Mollica, Francesca Socrate, Michelle Zancarini-Fournel, Stefania Voli per gli interventi di pronto soccorso. A Rita Moglia, Mara Ruta, Luca Toselli, per il loro aiuto prezioso. A Ivana Rapelli per aver lottato con me contro l’ansia e il disordine. Alle mie amiche e amici perché ci sono. A quanti e quante hanno scritto e raccontato la stagione dei movimenti. Avrei voluto poter citare tutte e tutti perché dalle loro parole ho sempre tratto qualcosa, spesso molto. In chiusura (ma in principio), grazie all’Editore, per aver avuto l’idea di questo libro e per la fiducia che mi ha sempre trasmesso.

Indice dei nomi

Balbo, Laura, 282. Balducci, Ernesto, 28, 214, 254. Balestrini, Nanni, 34, 41, 104, 278, 280, 286. Bandini Scerbanenco, Liuba, 158. Banotti, Elvira, 208-209, 272, 298, 308. Baral, Sabina, 292. Barazzetti, Donatella, 306. Barbato, Andrea, 39, 279. Bardot, Brigitte, 65. Basaglia, Franco, 5, 101. Baudrillard, Jean, 195. Beauvoir, Simone de, 5, 27, 43, 52, 56, 144, 185, 221, 224, 280. Beccalli, Bianca, 265, 306. Bellieni, Carlo Valerio, 218, 299. Bellocchio, Marco, 47. Beltrametti, Anna, 300. Beltrami, Giuliana, 281. Berardi, Franco (Bifo), 303. Berg, Harold, 252. Bergman, Ingmar, 192. Berman, Paul, 24, 78, 81, 90, 142, 268, 277, 284, 286, 288, 301-302. Bernhard Ernst, 146, 290. Bernstein, Eduard, 109. Berselli, Edmondo, 49, 280. Berta, Giuseppe, 303. Bertilotti, Teresa, 305. Betta, Emmanuel, 276, 306. Bignardi, Irene, 278. Boatti, Giorgio, 302. Bobbio, Luigi, 284-285, 306-307. Bobbio, Norberto, 43.

Accati, Luisa, 291. Adorno, Theodor W., 99, 292. Agnelli, Gianni (Giovanni), 167, 252, 286. Agosti, Aldo, 285, 301. Alberoni, Francesco, 177, 235. Alighieri, Dante, 38. Allara, Mario, 72-73. Allende, Salvador, 191. Alloisio, Mirella, 281. Almirante, Giorgio, 236. Altafini, José, 46. Alvi, Geminello, 294. Amendola, Giorgio, 238. Amery, Jean, 193, 259, 295, 305. Anders, Günther, 74, 283-284. Andò, Valeria, 305. Anka, Paul, 37. Annunziata, Lucia, 99, 285. Antonicelli, Franco, 43. Antonioni, Michelangelo, 27, 47. Arbasino, Alberto, 40, 43, 279. Arendt, Hannah, 10, 24, 27, 74, 87, 121, 144, 166, 174, 244, 254, 283, 290, 293-294, 302, 304. Arias, Juan, 245. Aron, Raymond, 25, 277, 300. Arrighi, Giovanni, 80, 284. Asor Rosa, Alberto, 303. Austerlitz, Ingrid, 306. Ayers, Bill, 277. Baeri, Emma, 281, 304-305. Baez, Joan, 43, 161. Balbi, Rosellina, 67, 283.

311

Bocca, Giorgio, 46, 102, 280, 286. Boccarossa, Liliana, 307. Bocchetti, Alessandra, 305. Boccia, Maria Luisa, 253, 271, 297, 304, 308. Bock, Gisela, 299. Bolaffi, Angelo, 307. Boltanski, Luc, 211, 226, 297-298, 300. Bompressi, Ovidio, 307. Bonacchi, Gabriella, 53, 280, 290291, 302. Bongiovanni, Bruno, 286, 301. Bono, Paola, 305. Borgna, Gianni, 280. Bormann, Martin, 233. Bosé (Borlani), Lucia, 65. Bossi, Floriana, 288. Braibanti, Aldo, 41, 126, 279. Braidotti, Rosi, 220, 277, 281, 288289, 299. Brando, Marlon, 32. Brassens, Georges, 43, 182. Bravo, Anna, 290, 292, 295, 298, 305. Brecht, Bertolt (Eugen Berthold Friedrich), 44. Brel, Jacques, 43. Brétecher, Claire, 126. Brunetta, Gian Piero, 279. Bruno, Oliviero, 294. Bruzzone, Anna Maria, 281, 287, 298. Burroughs, William, 32. Burton, Peter, 127, 128. Butler, Judith, 148, 291. Buttafuoco, Annarita, 60, 305.

Capanna, Mario, 234, 301. Capitini, Aldo, 254. Capussotti, Enrica, 276, 306. Caradonna, Giulio, 236. Cardinal, Marie, 196, 296. Carmichael, Stokely, 118. Carpitella, Diego, 278, 294. Carra, Pat, 126. Casalegno, Andrea, 10. Casalegno, Carlo, 43, 248. Caselli, Caterina, 70. Cason, Sandra, 160. Castaldo, Gino, 278, 294. Castro, Fidel, 42. Cattaruzza, Marina, 291. Cavalli, Alessandro, 283. Cavarero, Adriana, 146, 292. Cazzullo, Aldo, 302-304, 306-307. Ceccanti, Soriano, 230. Cederna, Camilla, 43, 67, 282. Céline, Louis-Ferdinand, 298. Certeau, Michel de, 277. Céspedes, Alba de, 259. Char, René, 144, 290. Chiaromonte, Franca, 154, 292. Ciuffrida, Giuseppina, 307. Cohn-Bendit, Daniel, 22, 86, 93, 232, 242, 284, 301, 307. Collo, Alberto, 295. Congedo, Domenico, 237. Connell, Robert William (Raewyn), 285, 288-289, 293, 304. Conti, Laura, 43. Coppola, A., 280. Corbucci, Sergio, 44. Corso, Gregory, 32. Coudray, Jean-Marc (Cornelius Castoriadis), 275. Crainz, Guido, 234, 277, 279-280, 286, 301-303. Crescenzo, Roberto, 247. Crispino, Anna Maria, 304. Croce, Elena, 39, 279. Custra, Antonio, 248.

Calabresi, Luigi, 174, 247, 269-270. Calabresi, Mario, 276. Calabrò, Anna Rita, 282, 297, 306307. Calleri, Carlo, 303. Calvi, Giulia, 296. Calvino, Italo, 98, 159, 285, 293. Campelung, Alberto e Marisa, 158.

Dahlerup, Drude, 281.

312

Dalton, David, 283. Daly, Mary, 139, 238, 287, 289, 302. D’Amelia, Marina, 120, 291, 296. D’Amico, Margherita, 306. Damilano, Ines, 276. Daniels, Pamela, 287. Daum, Nicolas, 301. Davis, Angela, 159. Dean, James, 32, 38. De André, Fabrizio, 43, 182. De Angelis, Roberto, 280. De Bernardi, Alberto, 5, 275, 284. Debray, Régis, 284. De Carlo, Andrea, 277. De Giorgio, Michela, 282. Delacroix, Christian, 277. Del Buono, Oreste, 39. Delera, Roberto, 302. Della Porta, Donatella, 248, 302303. De Luca, Erri, 260, 270, 306-307. De Luna, Giovanni, 244, 277, 301302. De Martino, Gianni, 241, 279-280, 303. D’Emilio, John, 288. De Perini, Alessandra, 128, 288. Derossi, Laura, 69, 175, 276, 283284, 291, 294-295. Deshayes, Richard, 257. De Tassis, Piera, 282. Deudon, Catherine, 291. Dewey, John, 79. Di Cori, Paola, 291. Didion, Joan, 194-195, 295. Di Leo, Mimma, 307. Di Prima, Diane, 32. Dobbins, Peggy, 125. Dominijanni, Ida, 305. Donat-Cattin, Marco, 246. Donini, Elisabetta, 305-307. Dosse, François, 277. Dreyfus-Armand, Geneviève, 275. Duberman, Martin B., 288. Duby, Georges, 281, 299. Ducrocq, Françoise, 143, 282, 290.

Duden, Barbara, 296. Duras, Marguerite, 193, 259, 272, 295. Dutschke, Rudi (Alfred Willi Rudi), 48, 76, 235, 252. Dylan, Bob (Robert Allen Zimmerman), 43, 250. Echaurren, Pablo, 279-280. Eco, Umberto, 39, 43, 46, 279-280. Ehrenreich, Barbara, 287. Eichmann, Adolf, 254. Einstein, Albert, 53. Eleonora Ichx, 182, 294. Ellekappa (Laura Pellegrini), 126. Ellwood, David, 279. Elshtain, Jean Bethke, 18, 276, 302. English, Deirdre, 287. Ergas, Yasmine, 281, 306. Esposito, Roberto, 303. Euripide, 223. Evans, Sara, 70, 142, 283, 286-289, 293. Faccio, Adele, 153. Fanon, Frantz, 43, 173. Faré, Ida, 260, 305, 307. Farina, Rachele, 281, 287. Fasanella, Giovanni, 276. Fattorini, Emma, 214, 290, 298. Favero, Ornella, 294. Fellini, Federico, 27. Fenoglio, Maria Teresa, 101, 286. Ferlinghetti, Lawrence, 32. Ferraris, Pino, 286. Ferré, Léo, 43. Ferretti, Gian Carlo, 293. Fichera, Sara, 304. Filippini, Nadia Maria, 296. Firestone, Shulamith, 69, 121, 123, 283, 287. Firpo, Massimo, 286. Fischer, Joschka (Joseph Martin), 24. Fiume, Giovanna, 296, 305. Flores, Marcello, 5, 275, 284.

313

Fo, Dario, 43. Foa, Lisa, 273. Foa, Michele, 273. Foa, Vittorio, 40, 107, 279, 286. Fofi, Goffredo, 31, 278, 300. Forcella, Enzo, 39, 279. Ford, John, 44. Fossati, Franca, 122. Foster, Jodie (Alicia Christian), 150, 256. Fouque, Antoinette, 146, 177. Fourier, Charles (François Marie Charles), 152. Frabotta, Biancamaria, 289, 292, 307. Fraire, Manuela, 265, 281, 286, 306-307. Fraisse, Geneviève, 296. Franceschini, Enrico, 15, 276, 303. Frank, Robert, 275. Franzinetti, Vicky, 307. Freeman, Jo (Joreen), 94-95, 122, 142-143, 258, 285, 287. Frenkel-Brunswick, Else, 292. Freud, Sigmund, 152. Friedan, Betty (Betty Naomi Goldstein), 27, 54-55, 281.

Ginsberg, Allen, 32, 42-43, 48-49, 129, 280. Ginsborg, Paul, 286. Ginsburg, Faye, 298. Ginzburg, Carlo, 307. Giorda, Nicoletta, 282. Giordana, Marco Tullio, 181. Girard, Réné, 133. Girardi, Giulio, 245. Girotti, Giuseppe, 158. Giua, Emiliana, 273. Giussani, Luigi, 29. Glover, Vivette, 218. Glucksmann, André, 195, 307. Goffman, Erving, 27, 275. Goldhagen, Daniel Jonah, 307. Goldman, Emma, 53, 242. Goldman, Pierre, 233. Gorbacˇëv, Michail S., 255. Gouges, Olympe de, 53, 56, 60, 62. Gramaglia, Mariella, 57, 152, 192, 212, 267, 281, 295, 307. Grandi, Aldo, 306. Grasso, Laura, 282, 297, 306-307. Gray, J.Glenn, 292. Griffin, Gabriele, 281, 289. Grimaud, Maurice, 189, 190, 236, 295. Grispigni, Marco, 241, 277, 279, 280, 303. Groppi, Angela, 290-291, 302. Grumbach, Tiennot, 92. Guccini, Francesco, 42-43. Guerra, Elda, 281, 306. Guevara, Ernesto («Che»), 109, 159, 233. Guidetti Serra, Bianca, 281.

Gaber (Gaberscik), Giorgio, 88. Gaiotti De Biase, Paola, 292, 298. Galante Garrone, Alessandro, 43. Galeotti, Giulia, 297. Gallant, Mavis, 236, 301. Galli Della Loggia, Ernesto, 292, 306. Gandhi, Mohandas Karamchand, 138, 161, 254, 289. Gandini, Giovanni, 39. Garcia, Patrick, 277. Garibaldi, Giuseppe, 38. Garzia, Aldo, 306. Geismar, Alain, 302. Ghione, Paola, 277, 279-280. Giani Gallino, Tilde, 290. Gianini Belotti, Elena, 296. Gilligan, Carol, 145, 290.

Haley, Bill (William John Clifton Haley), 32. Halimi, Gisèle, 198. Halliday, Johnny (Jean-Philippe Smet), 43. Hamon, Hervé, 268, 283-285, 301. Haraway, Donna, 23, 277. Hardy, Françoise, 70.

314

Harrison, George, 159. Havel, Václav, 80. Hayden, Casey, 118. Hayden, Tom, 112. Hearst, Patricia, 263. Heller, Ágnes, 77, 283-284. Hendrix, Jimi (Johnny Allen), 45, 49, 178. Hepper, Peter, 299. Hillesum, Hetty, 167. Himmler, Heinrich, 126. Hirsch, Marianne, 282, 291. Hite, Shere, 206. Hitler, Adolf, 9, 223, 238, 254. Holiday, Billie (Eleanora Fagan), 117. hooks, bell, 138, 289. Hopkins, Terence H., 284. Horkheimer, Max, 99. Hutter, Paolo, 252, 303.

Koedt, Anne, 153, 285, 287, 292. Kollontaj, Aleksandra, 53. Koonz, Claudia, 299. Kouchner, Bernard, 24. Kraus, Karl, 290. Kristeva, Julia, 146, 287. Kuliscioff, Anna, 60, 282. Lacan, Jacques, 152. Lanfranco, Monica, 305. Langer, Alexander, 24, 166, 214. Langer, Sabina, 16. Lanzardo, Dario, 277. Lanzmann, Claude, 221. Lattuada, Alberto, 65. Le Dantec, Jean-Pierre, 307. Lefort, Claude, 275. Le Goff, Jean-Pierre, 294-296, 299301, 303, 307. Leiss, Alberto, 297. Le Naour, Jean-Yves, 296. Lenin (Vladimir Il’ic Ul’janov), 109, 144. Lennon, John, 226. Lerner, Gad, 303. Levi, Fabio, 284, 293. Levi, Primo, 9. Levine, Ellen, 285, 287, 292. Levinson, Daniel J., 292. Lévy, Benny, 233. Lévy, Marie-Françoise, 275. Liebknecht, Sophie (Sonja), 290. Lilli, Laura, 282, 305. Linhart, Robert, 92. Lombardo Radice, Marco, 172, 294. Lombroso, Cesare, 127. Lonzi, Carla, 11, 69, 96, 121, 136, 149-150, 152, 154, 177, 205, 253, 289, 291-292, 297-298, 304. Lugli, Laura, 307. Lumley, Robert, 282. Lussana, Fiamma, 276, 280, 285, 291, 293, 304. Luxemburg, Rosa, 109, 144, 290.

Irigaray, Luce, 136, 145-146, 150, 153, 258, 291. Jivani, Alkarim, 288. Johnson, Lyndon Baines, 82. Jong, Erica, 181, 294. Joplin, Janis, 49, 70, 178, 283. July, Serge, 233, 302. Jünger, Ernst, 245. Kandel, Liliane, 289. Kaplan, Gisela, 281, 296, 305. Karina, Anna (Hanna Karin Blarke Bayer), 190. Kemp, Sandra, 305. Kennedy, John Fitzgerald, 83. Kerouac, Jack (Jean-Louis), 32-33, 42, 48, 80. King, Martin Luther, 11, 161-162, 254. King, Mary, 118. King, Stephen, 82, 180, 284, 304. Kinsey, Alfred, 185, 206. Klapish-Zuber, Christiane, 291. Knibiehler, Yvonne, 296.

315

Malcolm X (Malcolm Little), 229. Mancina, Claudia, 136, 219, 289, 292, 299. Manconi, Luigi, 294, 302, 303, 307. Mansfield, Katherine, 144. Mao Tse-Tung, 80, 159, 230, 243. Maraini, Dacia, 215, 298. Marchetti, M., 280. Marconi, Diego, 175, 294. Marcus, Greil, 279. Marcuse, Herbert, 10, 27, 43. Marino, Annalisa, 276. Marlia, Anna Maria, 292. Marramao, Giacomo, 280, 304. Martelli, Giordano Bruno, 279. Martinelli, Alberto, 284. Martinelli, Elsa, 65. Marwick, Arthur, 8, 35-36, 71, 275, 277-280, 283, 289. Marx, Groucho (Julius Henry Marks), 125. Marx, Karl, 27, 43, 76, 150-152, 161, 244. Marzotto, industriali a Valdagno, 102, 164. Maselli, Citto (Francesco), 43. Masi, Giorgiana, 248. Mattei, famiglia, 247. Maupassant, Guy de, 170-171, 294. Mayer, Sandro, 279, 281. Mazzini, Giuseppe, 245. Meitner, Lise, 53-54. Melandri, Lea, 12, 271, 276, 287, 289, 291, 293, 305, 308. Menapace, Lidia, 146, 290, 305. Mercury, Freddie (Farrokh Bulsara), 127. Merlo, Anna Maria, 283-284. Michetti, Maria, 282. Michnik, Adam, 85. Miglietti, Angela, 18, 276, 293. Milani, Lorenzo, 28, 163, 166, 254. Mill, John Stuart, 152. Miller, Alice, 300. Milletti, Nerina, 288. Mina (Mina Anna Mazzini), 38, 67.

Mitchell, Juliet, 151, 277. Mitterrand, François, 125. Mochi, Giuliano, 306. Moguy, Léonide, 65. Moltedo, Adriana, 290. Monaci, Daniela, 306. Monroe, Marilyn (Norma Jeane Mortenson), 65. Morane, Erlyne, 302. Morante, Elsa, 38, 43, 217. Moravia (Pincherle), Alberto, 43. Morgan, Robin, 142. Mori, Anna Maria, 267, 307. Morin, Edgar, 6, 34, 46, 87, 275, 278, 280, 285. Moro, Aldo, 172, 266-267, 271. Moroni, Primo, 34, 41, 278, 280. Morricone, Ennio, 161. Morrison, Jim (James Douglas), 178. Motti, Lucia, 276. Mozzoni, Anna Maria, 62. Muraro, Luisa, 146, 148, 281, 287, 291, 305. Nadotti, Maria, 291. Nahoum, Irène, 275, 285. Natoli, Salvatore, 295. Negarville, Massimo, 295. Nenni, Pietro, 177. Neri, Nadia, 166, 293. Nero (Sparanero), Franco, 44. Newfield, Jack, 286. Nico (Christa Päffgen), 178. Nixon, Richard, 81-82, 236. Nizan, Paul, 42, 279. Noebel, David A., 35-36. Nuland, Sherwin B., 298. Nussbaum, Martha, 156, 292. Ohnesorg, Benno, 230, 278. Ortoleva, Eleonora, 178, 295. Ortoleva, Peppino, 34, 84, 88, 275, 278, 280, 284, 304. Ory, Pascal, 307. Ottieri, Ottiero, 47, 280.

316

Packard, Vance, 279. Pajetta, Giancarlo, 39, 279. Paley, Grace, 224, 300. Pannella, Marco, 153. Paolozzi, Letizia, 297. Papon, Maurice, 235. Papuzzi, Alberto, 186, 275, 294295. Parca, Gabriella, 282, 295. Parenti, Francesco, 290. Parker, Dorothy, 13, 276. Parlanti, Luciano, 249, 303. Pasolini, Pier Paolo, 27, 63, 126, 206, 298. Pasquino, Gianfranco, 302. Passerini, Luisa, 276, 281, 283-286, 294, 298, 301, 305, 306. Pavone, Rita, 38. Penney, Gillian, 298. Percovich, Luciana, 296, 297. Perkins Gilman, Charlotte, 53. Perkins, Carl, 37. Perlasca, Giorgio, 158. Perrot, Michelle, 281, 296, 299. Petricola, Elena, 306. Peyretti, Enrico, 304. Pezzana, Angelo, 101. Piccirillo, Agnese, 276. Piccone Stella, Simonetta, 65, 69, 278-279, 282-283. Picq, Françoise, 288, 290-292, 294, 296, 300, 304, 308. Pierangeli, Anna Maria, 65. Pierro, Rita, 292. Pietrangeli, Paolo, 229. Pinelli, Giuseppe, 174, 240-241, 269. Pinochet, Augusto, 191. Pintor, Giaime, 278, 294. Pio XII (Eugenio Pacelli), 145. Pisano, Laura, 281. Pitch, Tamar, 276. Pivano, Fernanda, 39, 41, 278-280. Placido, Beniamino, 39. Pol Pot, 245. Pomata, Gianna, 304.

Pontet, Ines, 292. Porro, Mario, 293. Portelli, Alessandro, 37, 179, 276, 278-279, 294. Pravo, Patty (Nicoletta Strambelli), 70. Presley, Elvis, 11, 32, 35-38, 178179, 182, 278. Prince (Prince Rogers Nelson), 148, 291. Providenti, Giovanna, 289-290, 305. Quaglino, Carla, 289. Rame, Franca, 43. Ramelli, Sergio, 250, 252. Rapone, Anita, 285, 287, 292. Rasy, Elisabetta, 194, 295. Ravera, Lidia, 294. Rayman, Marcel, 233. Repetto, Margherita, 282. Restaino, Franco, 292. Revelli, Marco, 72, 104, 277, 282283, 285-286, 303. Ribero, Aida, 277, 281, 288, 296, 304-305. Ribet, Giovanna, 292. Ricci, Aldo, 301. Rich, Adrienne, 18, 276, 287. Rimbaud, Arthur, 178. Rocard, Michel, 125. Roccella, Eugenia, 295, 308. Rochat, Toti, 292. Roe, Jane (Norma Leah McCorvey), 202. Rolli, Alice, 284. Rosenberg, Charles E., 295. Rosi, Francesco, 43. Ross, Kristin, 268, 275, 277, 300301. Rossa, Sabina, 276. Rossanda, Rossana, 89, 103, 192, 267, 284. Rossi, Paolo, 236, 277. Rossi, Walter, 172.

317

Rossi-Doria, Anna, 60, 265, 282, 290-291, 297, 306-307. Rostagno, Mauro, 93. Rostropovicˇ, Mstislav L., 255. Rotman, Patrick, 268, 283, 284, 285, 301. Rousset, David, 239. Rowbotham, Sheila, 151. Rubin, Jerry, 3, 45, 74, 283. Ruddick, Sarah, 120, 287. Rusconi, Marisa, 185, 196, 295-296.

Sofri, Adriano, 166, 168, 242, 270, 293, 301-302, 307-308. Sohn, Anne-Marie, 296. Solanas, Valerie, 131. Solzˇenicyn, Aleksander I., 191. Sommier, Isabelle, 19-20, 234, 242, 268, 276, 286, 301-303, 307. Sontag, Susan, 193, 195, 255, 295, 304, 310. Sottsass, Ettore, 41. Spaak, Catherine, 65. Spagnoletti, Rosalba, 305. Spano, Francesca, 292. Spirito, Franca, 260, 305, 307. Spivak, Gayatri Chakravorty, 19, 276. Staccioli, Paola, 276. Stalin (Iosif V. Dzˇugasˇvili), 200, 245. Steinem, Gloria, 140. Stembridge, Jane, 160. Stewart, Eleanor, 127, 300. Stewart, Rod (Roderick David), 127. Strada, Gino, 25. Straniero, Michele Luciano, 278, 294.

Sacco, Nicola, 161, 173. Sagan, Françoise, 70, 283. Salaris, Claudia, 279-280. Salvati, Mariuccia, 165, 293. Sand, George (Amandine-AuroreLucile Dupin), 53. Sanford, R. Nevitt, 292. Santosuosso, Amedeo, 300. Saraceno, Chiara, 282, 291. Sarkozy, Nicolas, 3. Sartre, Jean-Paul, 5, 10, 42-43, 89, 173, 185, 221, 279. Sassard, Jacqueline, 65. Savio, Mario, 45. Scaraffia, Lucetta, 290, 295, 308. Scattigno, Anna, 291, 305. Schiavo, Maria, 44, 176, 294, 306307. Schindler, Oskar, 158. Schneir, Miriam, 281. Scholen, Gershom, 166, 174, 293294. Sciascia, Leonardo, 307. Scott, Joan, 277, 294. Scurati, Antonio, 194, 295. Sémelin, Jacques, 302. Semmelweis, Ignaz Philipp, 216. Shorter, Edward, 184, 294. Siebert, Renate, 276. Signorelli, Amalia, 282. Simon, Paul, 127. Sinibaldi, Marino, 172, 303, 307. Smith, Bonnie G., 287, 288. Socrate, Francesca, 236, 301.

Tambroni, Fernando, 28. Tedeschi, Giuliana, 176, 294. Testori, Lucia, 289. Thomson, Judith Jarvis, 214, 298. Thoreau, Henry David, 254. Tilly, Louise, 294. Timm, Uwe, 49, 278, 280. Tobagi, Walter, 45, 280. Todorov, Tzvetan, 157, 292. Tonelli, Anna, 281, 294. Tooley, Michael, 217, 298. Tourn, Federica, 292. Tranfaglia, Nicola, 285-286, 301302, 307. Travers, Julienne, 64, 282. Trebitsch, Michel, 277. Trockij (Lev D. Bronsˇtejn), 109. Trocmé, André, 158.

318

Tron, Graziella, 292. Tronti, Mario, 168. Trotta, Margarethe von, 259. Tumminelli, Roberto, 276. Turco, Livia, 291. Umberto I di Savoia, 174. Valcarenghi, Andrea, 44, 280. Valenti, Catherine, 296. Valentini, Chiara, 305. Valeri, Franca, 126. Valpreda, Pietro, 240-241. Vanzetti, Bartolomeo, 161, 173. Vartan, Sylvie, 43. Veauvy, Christiane, 281. Vecchio, Concetto, 294. Vegetti Finzi, Silvia, 225, 300. Veneziani, Marcello, 248, 303. Vento, Nino, 252. Verucci, Guido, 292. Verzar-Bass, Monika, 291. Vezzosi, Elisabetta, 296. Viale, Guido, 48, 72-73, 109, 239, 244, 280, 284-286, 302, 307. Vian, Boris, 252. Vigliani, Fernanda, 305. Vitale, Marcello, 85. Vittorini, Elio, 182, 294. Viviani, Luciana, 282. Voli, Stefania, 306.

Wade, Henry, 202. Wallemberg, Raoul, 158. Wallerstein, Immanuel, 284. Warhol, Andy (Andrew Warhola), 120, 127, 131. Weil, Simone, 27, 96, 250, 285, 303. Weininger, Otto, 288. Weisstein, Naomi, 142. West, Mae (Mary Jane), 124. Whelehan, Imelda, 138, 289. Whitman, Walt, 79. Wiener, Jon, 276, 302. Wittig, Monique, 128, 288. Wojty¢a, Karol (Giovanni Paolo II), 34. Wollstonecraft, Mary, 56, 62. Wood, Natalie (Natalija N. Zacharenko), 32. Woolf, Virginia, 18, 56, 144, 170. Wright, Lawrence, 262. Young, Iris Marion, 287. Young, Marilyn, 120. Zancarini-Fournel, Michelle, 275, 277. Zarri, Gabriella, 290. Zetkin, Clara, 53. Zinn, Howard, 293. Zumaglino, Piera, 276, 291, 304.

Indice del volume

Introduzione

3

Dopo 40 anni, p. 3 - Immagini e contesti, p. 6 - Autopresentazione, p. 8 - I temi, p. 10 - Memoria generazionale, p. 13 - Memorie del femminismo, p. 16 - Violenza e lutto, p. 19 - Vincere, p. 21 - Perdere, p. 24

Radici. I

26

Nati ieri, p. 26 - La scuola di massa, p. 29 - Culture contro, cultura di massa, p. 31 - Elvis è una tigre di carta?, p. 35 Visto dall’Italia, p. 37 - Due modelli per essere giovani, p. 41 - La «Zanzara», i rockettari, gli adulti, p. 45 - Capelloni e sessantotto, p. 47

Radici. II

51

Un comodo campo di concentramento, p. 54 - Femminismi e movimenti, p. 56 - Il figliastro, p. 59 - In Italia: generazioni, generi, modernità, p. 62 - Solitudine, p. 65 Un’emancipazione ferita, p. 68

Politiche

71

«Vattene via» , p. 72 - Partire da sé, p. 73 - Il popolo si servirà da solo, p. 75 - Più i comportamenti che le ideologie, p. 78 - Gli studenti americani, p. 81 - Tutti insieme, tutti uguali?, p. 85 - Assemblee, p. 89 - Siete vivi o morti?, p. 91 - Amici compagni leader, p. 94 - In Italia, p. 98 - Il lungo ’68, p. 101 - Cambiamenti, p. 105 - Mutazioni, p. 108

Politiche del femminismo

111

Una femminilizzazione della politica?, p. 111 - Come rendere (quasi) invisibile una donna, p. 114 - Nel movimento per i diritti civili, p. 116 - Strade per il femminismo, p. 119 - L’arcano, l’estremo, l’antico, il futuribile, p. 122 - I movimenti omosessuali, p. 126 - Autocoscienza, p. 131 Uguaglianza e differenza, p. 135 - Differenze, p. 138 - Né potere né organizzazione?, p. 140 - I conti con le madri, p.

321

144 - E con la madre, p. 148 - I conti con i padri, p. 150 Etica, cura e obiettività, p. 155

Amore

159

Tipi di amore, p. 159 - L’Europa, p. 162 - I sud del mondo, p. 165 - Sensi di colpa, codismo, p. 167 - Una vita da ricchi, p. 169 - Oppressi meritevoli e non, p. 170 - Amore, odio, p. 172 - Dall’amore di sé al conformismo, p. 174 «Puer aeternus», p. 177 - E chi non era giovane?, p. 179 Eros, p. 181 - Se sei libera veramente, p. 184 - Quasi il silenzio, p. 187

Dolore

189

La classifica del dolore, p. 189 - Poi qualcuno muore, p. 191 - Dove ragione e cultura faticano, p. 193 - Donne e altri, p. 195 - Un movimento a valanga, p. 197 - Diritto di aborto?, p. 201 - In Italia, p. 204 - L’aborto degli uomini, p. 205 - Dolore, indifferenza, eros, p. 207 - Cos’è il feto?, p. 210 - Lutto senza riparo, p. 212 - Chi prende posizione, p. 214 - La cognizione del dolore, p. 215 - Il beneficio del dubbio, p. 217

Stregate

221

I fatti, p. 221 - I racconti, p. 224

Violenza

228

La crisi della nonviolenza, p. 228 - Lotta, festa, e la seduzione della violenza, p. 231 - Ritorno al passato, p. 234 Fascismo/antifascismo, p. 235 - De Gaulle = Hitler?, p. 237 - Nuovi partigiani?, p. 239 - Il mito della fine dell’innocenza, p. 240 - Una violenza «naturale», p. 242 - Dal ’68 ai gruppi, p. 244 - Movimenti e terrorismo, p. 246 - Come creare la politica, p. 248 - Come disfare la politica, p. 250 - Poteva andare diversamente, p. 252 - Uomini contro donne, p. 255 - Femminismo e violenza femminile, p. 257 - Se non avessimo avuto le donne, p. 260 - Non è così facile diventare un terrorista, p. 262 - Quale autonomia, p. 264 - La Lip, Lotta continua, un bambino, p. 268

Note

275

Ringraziamenti

309

Indice dei nomi

311