2 agosto 1980, la strage di Bologna. Scienza e coscienza di un massacro 8869927202, 9788869927201

La verità processuale ha la pretesa di essere un’oggettiva ricostruzione di un fatto, ma solo la scienza può stabilire s

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2 agosto 1980, la strage di Bologna. Scienza e coscienza di un massacro
 8869927202, 9788869927201

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INCHIESTE a cura di Armando Palmegiani

Imma Giuliani

2 AGOSTO 1980 LA STRAGE DI BOLOGNA Scienza e coscienza di un massacro

ARMANDO EDITORE

ISBN: 978-88-6992-720-1 Tutti i diritti riservati – All rights reserved Copyright © 2020 Armando Armando s.r.l. Via Leon Pancaldo 26, Roma. www.armandoeditore.it [email protected] – 06/5894525

Sommario

Prefazione di Vincenzo Scotti Due Agosto Millenovecentottanta 2 agosto 1980, il complesso della stazione di Bologna In Nome del Popolo Italiano: le indagini del teorema dei cerchi concentrici In Nome del Popolo Italiano: il processo all’estrema destra ed il progetto eversivo In Nome del Popolo Italiano: Settembre 1992, il processo va rifatto Il processo di rinvio del 1993

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Analisi scientifiche delle risultanze processuali 56 2 agosto 1980: le testimonianze di chi c’era, la testimonianza di chi ha sentito, le testimonianze di chi ha pensato 56 Massimo Sparti: l’amico dei Fascisti 58 Un ricordo tragico, le testimonianze di Mirella Cuoghi 78 La testimonianza di Silvana Ancillotti, l’amica di Maria Fresu 84 La teoria della “secrezione paradossa” 90 Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi: la risposta della scienza nel caso Fresu 96 Maria Fresu: la risposta della genetica forense 101

Maria Fresu è scomparsa? L’ipotesi circa l’identità dello scalpo Il parere dell’antropologa forense Dott.ssa Chantal Milani Dove si trovavano la Sig.ra Fresu e la donna dello scalpo? Testimonianze dall’area mortale Il parere del dott. Fabrizio Mignacca sulla validità ed attendibilità delle testimonianze e dei testimoni

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Criminalistica: dinamica dell’esplosione L’ordigno La perizia esplosivistica di Coppe Gregori La quantità di esplosivo Anatomia di un’esplosione Un reperto scomparso Tracce, segni, ferite Le congetture documentate: geopolitica, accordi, disaccordi e tradimenti Lo scenario della pista libica Lo scenario dello sciacallo: L’OLP e il gruppo di Carlos Lo scenario del traffico d’armi: FPLP e BR Scenario conclusivo: non c’è nulla di concluso

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Documentazione citata

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Bibliografia

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Ringraziamenti

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Prefazione Vincenzo Scotti*

Non conoscevo Imma Giuliani quando per circostanze fortuite mi arrivò la richiesta di scrivere una breve prefazione ad una ricerca che la giovane studiosa aveva portato a termine e si accingeva a pubblicare. La ricerca riguardava la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Bologna, uno degli attacchi terroristici tra i più cinici messo in atto in Italia negli anni di piombo per far crescere il terrore tra la popolazione. Chiesi di avere una copia del libro prima di rispondere alla gentile domanda, consapevole che la Giuliani aveva avuto a che fare con una delle pagine più orribili del terrorismo gestita prima e dopo la strage con una diabolica abilità sia da parte di chi aveva ideato la strage che da chi non era l’ideatore della strage ma poi aveva giocato a rendere il clima sempre più torbido. Ero interessato a capire come una giovane ricercatrice indipendente aveva manovrato

* Vincenzo Scotti è un politico italiano. Ha avuto una lunga carriera ai vertici della Democrazia Cristiana e fu ministro in diversi governi tra il 1978 e il 1992. Nel 1984 è stato eletto sindaco di Napoli. Nel 1989 è capogruppo DC alla Camera. Nel 1991, da ministro dell’interno, con il decreto-legge n. 345/91, istituisce la Direzione Investigativa Antimafia. Nel periodo del suo dicastero – 1990-’92 – sono state promulgate le leggi importanti che hanno permesso alle forze dell’ordine e ai magistrati di agire contro l’organizzazione mafiosa. È fondatore e attuale Presidente dell’Università degli Studi - Link Campus University.

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tutto quello esplosivo e come lo aveva ordinato e presentato ai giovani che non erano nati nel 1980. In più occasioni avevo personalmente verificato la difficoltà di districarsi tra il perverso intreccio del terrorismo dei cosiddetti servizi deviati, delle stragi e di quella di Bologna in particolare. Difficoltà incontrate anche da importanti investigatori e giudici spinti a far luce sulle diverse ipotesi criminali. Non c’è incertezza sull’obbiettivo perverso dell’attacco e della sua dinamica ma restano margini di grandissima contraddizione sul come la strage sia stata pianificata e sui mandanti e i loro collegamenti. Consapevole di questo dato di fatto il risultato del lavoro della Giuliani è quanto mai apprezzabile. La nostra ricercatrice costruisce un racconto rigoroso e particolarmente coinvolgente per le giovani generazioni e colma un vuoto proprio per chi sente la necessità di capire perché e come si tentò di bloccare il consolidamento della democrazia italiana ma anche come la difesa di questa giovane democrazia sia riuscita alla fine a prevalere. C’è un messaggio della Giuliani che alla fine penetra nel lettore: la democrazia non è un dono, è una conquista che richiede una costanza nella sua difesa contro ogni subdolo tentativo di far breccia in una ignoranza della storia e dei sacrifici che sono stati necessari per debellare il nazifascismo degli anni quaranta ma anche il riemergere negli anni con la violenza stragista e anche oggi ritornare di tanto in tanto anche in questi anni di smarrimento delle coscienze e delle conoscenze. Il lavoro della Giuliani arriva oggi quanto mai necessario. A lei bisogna essere grati proprio per il modo di ordinare i fatti e nel comunicarli con efficacia. Fin dalle prime pagine della Giuliani si percepisce un 8

approccio che ti coinvolge. La nostra ricercatrice ci presenta subito due elementi della ricostruzione non lasciati al caso: il testo, cioè le vittime innocenti e il contesto Bologna. La città “sta lì adagiata e ordinatamente complessa”. Era la “cornice” il contesto della orribile tragedia. A differenza di altri attentati, quello di Bologna presentava una prima caratteristica, le vittime provenivano da 50 diverse città e oltre ai 9 stranieri, gli assassinati coprivano un ampio spettro della società: 19 studenti, gli insegnanti 5, gli operai 14, gli impiegati 12, i pensionati 7, le casalinghe 11, vi erano poi artigiani, militari, ferrovieri, tassisti, dirigenti, e altre categorie e un disoccupato. La Giuliani introduce il lettore nella tragedia costruita con un cinismo disumano e gestita con una abilità di depistarlo in tutti gli anni in cui investigatori e magistrati cercheranno di trovare una verità giudiziaria e studiosi analisti e politici cercheranno di ricostruire una ragione politica, civile e barbara comprensibili. “E lo stato di incredulità si allunga a dismisura come un bianco deserto, una distesa di neve sabbiosa che si perde all’orizzonte, lì dove l’orizzonte non c’è. Una superficie soffice che non riesce a prendere forma. Non c’è la linea che definisca il quadro, ma lo spazio. Spazio infinito come in un buco nero. Le cose perdono i loro contorni e tutto diventa bidimensionale, Un assurdo infinito”. “Quaranta anni iniziava questa tragedia”. “Quello che accade a Bologna è uno di quei punti di snodo, come la città di Bologna, che cambia la storia di tutti, cambia alle vittime ed ai loro parenti direttamente. Drammaticamente. La cambia a Bologna. La cambia a tutta l’Italia. Per sempre”. 9

La nostra ricercatrice si addentra, con abilità di rigorosa analista, in quel groviglio di verità e di depistaggi così ben studiati e innescati a tempo debito, come la bomba del 2 agosto 1980 in quella sala di aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. Sa bene leggere i documenti e ricomporre con accortezza i puzzle delle diverse ipotesi investigative. Ad un lettore, che per la prima volta affronta lo studio delle carte, riesce a fornirgli la chiave di interpretazione della ipotesi e di cogliere i punti deboli e soprattutto di quelli volutamente ingannevoli. Non era facile. Tanti studiosi e tanti investigatori hanno tentato di fare luce ma si sono imbattuti nella rete dei silenzi, delle dichiarazioni false e devianti, e il vaglio critico non è riuscito a far luce su un tempo caratterizzato dal profondo conflitto ideologico e di potere nel governo del mondo da parte dei due grandi blocchi dentro i quali le sovranità statuali erano limitate. Alla luce di questa realtà internazionale la nostra ricercatrice riesce a vedere quanto della lotta terroristica apparteneva a quelle logiche bipolari e quanto invece erano frutto di logiche interne. Nonostante l’impegno di alcuni investigatori, magistrati e politici illuminati l’Italia non è ancora riuscita a fare i conti con la storia di quegli anni e fatto chiarezza sulle ragioni e responsabilità del terrorismo. Il lavoro della Giuliani da un contributo importante non solo all’esame critico di una verità giudiziaria ma anche alla comprensione della forza con cui la democrazia italiana seppe resistere all’attacco del terrorismo nelle sue diverse espressioni. La ricerca della Giuliani andrà nelle librerie in un momento delicato della storia del nostro Paese e del mondo con l’emergere di tendenze razziste e soprattutto con l’ac10

centuarsi del degrado della lotta politica che sta intaccando i fondamenti di una democrazia basati sul rispetto dell’avversario e sulla difesa dei valori fondamenti alla base della Costituzione patrimonio di tutti. Mai come in questo momento questo libro è un contributo positivo di una coscienza civile limpida.È fondamentale offrire ai giovani la lettura delle pagine più terribili dell’attacco terroristico facendo loro scoprire la barbarie disumana di disegni eversivi da non dimenticare mai.

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“Nell’aria bruciata d’agosto, si è alzata una nuvola di polvere sottile, ha invaso il piazzale, sul quale mi sono affacciato tante volte. Bastava la voce dell’altoparlante, con quegli inconfondibili accenti, per farmi sentire che ero arrivato a casa. Adesso la telecamera scopre l’orologio, con le lancette ferme sui numeri romani: le dieci e venticinque. Un attimo, e molti destini si sono compiuti. Ascolto le frasi che sembrano monotone, ma sono sgomente, di Filippini, il cronista della TV, costretto a raccontare qualcosa che si vede, a spiegare ragioni, motivi che non si sanno: lo conosco da tanti anni, e immagino la sua pena. Dice: «Tra le vittime, c’è il corpo di una bambina». Enzo Biagi Corriere della sera 2 agosto 2017

Le vittime provenivano da 50 diverse città. I morti stranieri erano 9. Gli studenti assassinati erano 19, gli insegnanti 5, gli operai 14, gli impiegati 12, i pensionati 7, le casalinghe 11, vi erano poi artigiani, militari, ferrovieri, tassisti, dirigenti ed altre categorie, vi era anche un disoccupato. T. Secci, Cento milioni per testa di morto, Bologna, 2 agosto 1980, Targa italiana, Milano, 1989, p. 47

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Due Agosto Millenovecentottanta Ci sono storie diverse il 2 agosto del 1980. Storie di persone che si sarebbero sfiorate soltanto quel giorno. Se quel giorno non fosse durato per sempre. Si sarebbero incontrate, un’occhiata di sfuggita e poi via. Magari ne prendi due. Le confrontiamo. Due diverse storie, due diversi punti di vista. Solo due. Una che passa, una che resta. Ci serve un contesto. Un luogo. Ogni evento ha una sua cornice. Disegnate una città e chiamatela Bologna. Bologna è lo sfondo. Sta li adagiata e ordinatamente complessa. La cornice. 38 km di archi e colonne che l’abbracciano. Percorsi sinuosi che si snodano tra le vie rendendo unico il cammino, come quello del portico, costruito nel 1674, che conduce, al Santuario della Madonna di Luca, sulla collina di La Guardia. Non ha eccezioni di bellezza, Bologna non lo concede nemmeno il 2 agosto del 1980 prima delle 10.25. L’estate non è solo sole,vacanze, spensieratezza, ma anche il caldo che si staglia sulle fronti degli operai nei cantieri edili, negli aloni delle giacche dei lavoratori che sbrigano gli ulti15

mi impegni prima delle agognate vacanze. In questa estate torrida, quella del 1980, c’è una storia di passaggio. Una donna con i capelli lunghi, lisci separati al capo, che le scivolano sulle gote, incorniciando uno sguardo assente e glaciale. I suoi occhi guardano in basso e riflettono il marmoreo pavimento della hall dell’albergo Jolly, uno dei tre vicini alla Stazione di Bologna. Ha il passo svelto e ritmico, quasi una marcia inesorabile. In mano una valigia. Esce dalla porta a vetri. Ella sfugge alla morsa di quella mattina assolata. Ella sfugge. Intanto il caldo: l’asfalto rovente sembra mangiare i pneumatici delle vetture. L’odore acre delle franate segnano il ritmo della mattina. La lasciamo andare la signora dagli occhi assenti. È la nostra storia di passaggio. Forse è di passaggio come tanti altri. La ritroveremo in seguito. Magari è solo un caso, magari è lì per qualcosa. La seconda storia è quella che rimane. Racconta il dramma di una bambina. Il rumore assordante dell’arrivo del treno in stazione, un rumore stridulo, meccanico, intrusivo scandisce il tempo di chi parte e chi arriva. Due fermacapelli ad arginare l’anarchia infantile. Una bimba, che di quel guazzabuglio di attese non si chiede il perché, probabilmente gioca, sicuramente sogna. Sua mamma le tocca i capelli. Angela ha tutta la vita davanti. Sta andando in vacanza. Con lei, oltre alla sua mamma, due amiche. Tre giovani 16

donne e una bimba sono ferme davanti al cartellone delle partenze. Volti che animano Bologna sembrano appartenere a vissuti diversi, storie da raccontare. È un sabato qualunque, è un sabato italiano, “il peggio sembra essere passato”. Sono le 9.30, Angela è stanca. Le sue gambe penzolano dal bordo della poltroncina della sala d’aspetto 2 classe, ritmiche come il pendolio di un orologio. Un dondolio costante. Angela non è sola, su quelle sedie ai suoi fianchi le amiche della mamma. La mamma è in piedi e chiacchiera con una di loro. La valigia marrone al fianco. E intanto si aspetta. Una storia di passaggio, una storia che resta. Due storie di due persone che non si conoscono e non lo faranno mai: quella di una donna misteriosa e quella di una bambina annoiata. Tra pochissimo le loro vite si incroceranno con quelle di altre centinaia. Sono solo due momenti di normale vita. Sono solo centinaia di momenti di diverse vite. Se ci fosse una telecamera, se ci fosse un regista e una troupe, ora sarebbe il tempo di una ripresa dall’alto. Isometrica in termini tecnici. Una ripresa in cui tutti coloro che sono nella stazione di Bologna risultano presi dalla stessa altezza. Tutti uguali. Isometrica appunto. Un momento unico. Le 10.24 del 2 agosto 1980. 40 anni fa iniziava questa tragedia. Ci torniamo ancora per l’ultima volta, con una serie di inquadrature che adesso stringono sulle persone che si muovono dentro e fuori la stazione di Bologna. Ci torniamo per essere certi che questa volta non ci sfugga niente. 17

Per essere certi di ricordarli tutti, per trattenerli ancora qualche attimo con noi. Se fosse un film, il regista, quello che prima ha effettuato l’isometria e che ci ha fatto incontrare la moltitudine che “passa”, adesso ci porterebbe nella sala d’attesa. Di seconda classe. È agosto. È il 1980. Fa caldo. Ti si stacca la pelle per quanto fa caldo. Fa un caldo, assurdo, continuo, incessante. Dentro la sala d’attesa fa ancora più caldo. Verrebbe voglia di mettersi nudi. Ma non basterebbe. Servirebbe una bella vasca. Acqua tiepida o leggermente fredda. Di quella che quando ci si immerge, viene la pelle d’oca. Ed i pori, presi da una intesa frenesia si mettono silenziosamente ad urlare per la differenza di temperatura. La pelle grida ed il corpo rilascia tossine. Circola il sangue. È una sensazione fantastica. È fantastica. Appunto. Non è reale. Non è reale alla stazione di Bologna, il giorno due, dell’agosto 1980, in una sala d’aspetto di seconda classe stracolma di gente. Stracolma di respiri affannati, alcuni più di altri, alcuni più tranquilli, ma insofferenti. Stracolma di odori diversi che si mascherano in un’essenza di vita umana, di vissuto di gruppo. Momentaneo. Quelli che entrano sono guardati con sospetto, per una semplice forma di percezione: restringono lo spazio vitale. Chi esce, ha forse esaurito la pena. Sono guardati con invidia. Eppure la sensazione predominante, in una sala d’attesa di seconda classe, anche il due di agosto del 1980 è l’apatia. Non è noia, ma una sospensione della coscienza, dello stato di vigilanza attiva sostituito, da un momento di necessaria inattività. Apatia. Ma anche l’apatia è una sensazione strana. È scoccian18

te questa sensazione. Molti devono andare in vacanza. Si deve prendere il treno per il mare. Altro che vasca. Altro che acqua tiepida o leggermente fredda che apre i pori. Sulla spiaggia. Con i vettovagliamenti per restarci la mattina intera, se hai famiglia e tutto il giorno se non ce l’hai. Poi la siesta delle 14. Profumo d’Italia. Da nord a sud, isole comprese ad agosto si va in vacanza e si preferisce il mare. Qualcuno, stakanovista o già villeggiante a luglio, provvederà a mantenere quello stato di stasi lavorativa che porterà tutti a settembre. Responsabili. Eroici. Profumo d’Italia. Bologna non fa eccezione. Bologna non si ferma. Non si può fermare. L’hanno creata per essere un meraviglioso luogo di incontro di genti che si muovono da Nord a Sud, da Est a Ovest. D’Europa. Bologna è uno dei rari snodi d’Europa. Anche se l’Europa non esiste ancora. C’è ancora il muro. Quello che taglia Berlino. Bologna la rossa, Bologna del Dams, Bologna della contestazione studentesca, quella che ha fatto tremare i vertici dello Stato italiano solo tre anni prima. Nel 1977. Si dirà “Bologna anima creativa del Movimento”. Ma anche un’anima violenta, minore, ma comunque presente. L’11 marzo del 1977, la città era stata interessata da 2 giorni di violenti scontri a seguito della morte di un militante, Francesco Lorusso, di Lotta Continua, formazione di estrema sinistra di natura extraparlamentare. Il 23 e 25 settembre 1977, si era invece svolto il «Convegno nazionale contro la repressione», che aveva visto la partecipazione di un numero impressionante di persone che in maniera totalmente pacifica aveva invaso la città. Una città di snodo. Un simbolo. Bologna, città complessa, una di quelle che anticipa i tempi, crea il pensie19

ro comune e ne dà senso. Bologna intellettuale ed operaia, affaccendata nella sua bellezza che va oltre gli stereotipi. Ma questi erano altri tempi. C’era altro. Questo è il nuovo decennio. È l’agosto del 1980. Le sale d’aspetto sono sale che fanno invidia agli ospedali. Si diventa pazienti. Non nel senso della virtù purtroppo. Si patisce. Il caldo in questo caso. C’è solo un unico signore sovrano: il tempo che determina l’attesa. Il tempo tiranno. Scandisce. Porta ordine e razionalizza. Egli che è figlio della logica del maschile, in un anelito marziale, divide ciò che ciclicamente stabilito. Il tempo è una creazione umana perché non esiste in se. Definire un giorno ha senso solo per gli esseri umani: non esiste un’ora, non esiste il tempo, ma l’assurda pretesa umana di poterlo contare, di poterlo addomesticare come fosse un animale. In prospettiva cinque secondi prima, forse un minuto, trenta minuti ed un’ora, non esistono. Li chiamiamo attimi, secondi, ore ma sono possibili infiniti mondi che si stratificano nel tempo, realtà diverse, ma inesistenti che consentono al genere umano di vivere nell’illusione della routine. Connivenze e convivenze colluse in un abbraccio innaturale, che sotto forma di persone si trovano in quel momento preciso a trovarsi accanto. Diventano compagni di un viaggio infinito e drammatico in cui la fine è sempre rimandata all’infinito. È la zona soffice. La zona che prende forma a seconda di chi la guardi. È il mondo del sogno, del possibile, ma improbabile e dell’incredibile che ad un certo punto si con20

fondono insieme, si schiacciano in un’unica grande evidenza che chiamiamo Strage di Bologna. Sembra strano dirlo, ma prima della strage c’era solo la routine straordinaria di andare in vacanza, di muoversi. Una considerazione lapalissiana, ma fondamentale. Bisogna entrare in quella frazione di attimo per capire esattamente la molteplicità di elementi che costituiscono una tragedia, un evento complesso che non è l’insieme delle storie che lo compongono. Ascoltare chi è sopravvissuto, vuol dire sminuire il momento in cui si spezza l’Italia per l’ennesima volta. Il fiato corto e la consapevolezza che ancora una volta dovremmo rimboccarci le maniche e spalare tra le macerie di una nazione incompleta, la cui posizione la rende il crocevia ideale dei movimenti terroristici. Immaginiamo una corda tesa, tirata da due muscolosi personaggi agli estremi. Ora, immaginiamo che all’esatta metà della corda ci sia un nodo che lega una parte all’altra. Immaginiamo a quale tensione è sottoposto il nodo nell’atto di essere tirato. Adesso immaginiamo che non siano solo due i personaggi muscolosi che tirano la corda dalla loro, ma 10. 20. 30. Immaginiamo il nodo, i fili che si sfaldano, i fili che cedono. Quelle sono le nostre vittime. Quelle che si trovano in un momento preciso, in un’ora precisa in un luogo preciso, per una assurda decisione entropica, per una assoluta decisione del caos che regna sovrano. Immaginiamo anche la posizione, perfetta che caoticamente queste vittime assumo prima dello scoppio dell’ordigno. Una posizione precisa nello spazio e nel tempo che ne determinerà il destino. Alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, nella sala 21

d’aspetto di seconda classe, colma di persone, un ordigno è posizionato sopra un tavolino. Probabilmente contenuto in una borsa. È lì. Anche lui attende. Poi smette di attendere. Esplode. Questo succede. Esplode. Fosse un film, sarebbe una scena sconvolgente, una di quelle scene in cui gli effetti speciali rendono vero quel che succede. Magari romanzano, magari il regista si prende qualche licenza drammatica. L’eroe sarebbe nei paraggi: John Mcclane, John Rambo, uno di quelli che alla fine si guadagnano il plauso di un pubblico soddisfatto. No, non è un film. Non ci sono eroi. C’è solo morte. Ovunque. Questa è la realtà. La realtà non si percepisce solo con la vista e l’udito. La realtà è piena di odori e sensazioni tattili, contatto più profondo. Quello che quando viene percepito va direttamente in corteccia cerebrale. È immediato. Ti impregna l’odore. Ti dà fastidio il tatto. Sono sensi che invadono l’individuo, li percuotono e li portano ad avere una reazione precisa. Questo non è un film. Questa è la realtà. Questo è quello che succede a Bologna, il 2 agosto del 1980 alle ore 10.25. Una bomba esplode. Ed è tutto nero. L’esplosione che parte dalla sala d’aspetto è così deflagrante che investe anche il treno Ancona-Basilea, distruggendo letteralmente 30 metri di pensilina. La sala d’aspetto crolla. Crolla metà dell’edificio nella quale era locata. La bomba lascia un cratere impressionante. 200 feriti, 85 morti, una scomparsa, dicono e diranno 22

alcuni, polverizzata nell’esplosione. C’è anche Angela. La bambina della storia che non è più una storia. È una tragedia. Forse qualcosa di più. Questo accade. Non c’è altro. Quello che accade a Bologna è uno di quei punti di snodo, come la città di Bologna, che cambia la storia, di tutti. La cambia alle vittime ed ai loro parenti, direttamente. Drammaticamente. La cambia a Bologna. La cambia a tutta l’Italia. Per sempre. Il 2 agosto 1980 è, temporalmente, uno di quei momenti che cambia tutto. A dominare su tutto: il tempo. Ma non questa volta: dovrebbe scorrere inesorabile appunto, ma che per la prima volta si ferma. Il tempo non va avanti. Si ferma. C’è l’orologio della stazione. Rimarrà fermo lì. Lui è l’unico che rimarrà immoto. Le altre cose cambieranno tutte, ma lui rimarrà per sempre alle 10.25 del 2 agosto 1980: ha fermato il tempo. In una giornata afosa che si estende all’infinito, un deserto soffice in cui la sabbia prende la forma dell’orrore. Un terribile incubo chiamato morte. Strage. Lutto. Quell’orologio effigia il momento, l’esatto istante in cui il nodo si sfalda e le micro cordicelle che lo tengono insieme si rompono, si dilaniano. Per assurdo il nodo si stringe, diventa più resistente, ma le corde tagliate rimangono lì a testimoniare la tensione. Sono perse, cadute in un respiro di un attimo. Il 2 agosto del 1980, per l’ennesima volta, in Italia, succede l’impensabile. Succede ciò che non si riesce ad immaginare. Il tempo si ferma ed un istante dura per sempre. Alle 10.25 l’Italia si ferma. 23

Dopo, rimane il silenzio. Un dopo eterno. Si usa il termine bomba... Si usa questo termine per descrivere una deflagrazione di un ordigno. Si usa questo termine per indicare un preciso istante che segna un prima ed un dopo. Il momento delle lacrime è successivo. Non avviene in tutti i casi. Il più delle volte è associato allo stato di vicinanza delle persone con il deceduto. L’assurdo consiste nel fatto che più è distante la relazione affettiva con la persona che non c’è più, più è facile elaborare il lutto e quindi piangere. La maggioranza dei cari, di quelli veramente vicini, non piange. Rimane in sospeso. Come se un attimo potesse durare un’eternità, un vuoto lungo un millennio. È l’effetto del dolore. Il dolore profondo. Quello che azzera la cognizione e la sostituisce con un lungo silenzio incredulo. Lo stato di incredulità si allunga a dismisura come un bianco deserto, una distesa di neve sabbiosa che si perde all’orizzonte, lì dove l’orizzonte non c’è. Una superficie soffice che non riesce a prendere forma. Non c’è la linea che definisca il quadro, ma spazio. Spazio infinito come in un buco nero. Le cose perdono i loro contorni e tutto diventa bidimensionale. Un assurdo infinito. Non ci sono parole per spiegare questa sensazione, non le hanno trovate. Per questo alcuni si rifugiano in Dio. A questo serve un funerale: trovare la ragione per chiudere e piangere. Rendere quindi il dolore un comportamento manifesto. È un’alchimia tragica, il cui dramma si svolge su un piano invisibile. Il dolore del lutto è legato alla proiezione affettiva e co24

gnitiva che la persona rappresenta dentro chi la conosce. Questa immagine è tanto vitale in ognuno di noi, quanto la persona rappresenta all’interno della nostra vita. Quando muore un padre, una madre, un figlio, muore anche chi lo ha amato. Muore una parte di lui. Questo è il dolore. Spesso cosmico. Rimanere attaccati ai fantasmi che ci aleggiano intorno, è prassi umana. Creiamo i fantasmi quando chi li impersona scompare. Essi ci rassicurano, danno un senso ai momenti difficili, ci rendono facili le preghiere all’assoluto. Attraverso questi fantasmi, questi buchi infiniti, troviamo la necessità di sopravvivere e continuare a guardare al cielo. Al domani. Anche se esiste solo l’oggi. Toccarli, analizzarli, portarli alla luce, è una strategia folle. I fantasmi non si curano, ne dai fantasmi si guarisce. Essi tornano sempre. Di solito la notte. Quando ci si sveglia con sensazioni strane, con qualcosa di irrisolto nel cuore, come se pendesse un peso ineluttabile. A volte piangiamo. A volte li piangiamo e poi ci addormentiamo pagando il peso della mancanza. Tutto questo è umano. Tutto questo all’interno dei processi che ricostruiscono i fatti delittuosi non c’è. L’hanno debitamente relegato ad altro: la parte civile. Il dolore si traduce in lingua di giurisprudenza. Un linguaggio creato ad arte per nascondere un valore tecnico che non esiste. La tecnica è basata sulla scienza, la giurisprudenza, no. Eppure è l’unico linguaggio necessario in un momento in cui il vero, il reale può diventare verisimile. In quel linguaggio si cerca di trovare il senso del25

l’evento, della dipartita del caro, della tragedia. È un male necessario. Ma il dolore è altro.

2 agosto 1980, il complesso della stazione di Bologna Dalla relazione dei tecnici del locale Gabinetto di Polizia Scientifica del 27 settembre 1980 apprendiamo come era fatta la Stazione di Bologna prima dell’esplosione. La Stazione di Bologna è un complesso stabile che si affaccia sulla Piazza Medaglie d’Oro, di forma quadrangolare che apre alla sua destra a Viale Pietramellara. L’intero stabile è aperto ai tre lati che fanno da accesso ai locali. In particolare, partendo da quello di destra, attraverso un passo carrabile immette in un piazzale, si affacciano: • gli ingressi dell’amministrazione F.S. • Il ristoro militare. • La mensa ferroviaria. Dall’ingresso anteriore si accede all’ingresso della biglietteria sussidiaria e a quello della biglietteria principale. La biglietteria principale è situata in un’ampia sala, dove sono ubicati anche un’edicola, una tabaccheria, l’ufficio informazioni e il corridoio che conduce al sottopassaggio per i binari di transito. La suddetta sala inoltre, porta alla piazza antistante la stazione. All’interno, nel tratto retrostante lo stabile, vi è il lungo marciapiede del primo binario e, a destra, si affacciano: 26

• • • • • •

l’ufficio della Polfer. La farmacia. Gli uffici della Squadra di Rialzo e sosta letti. La sala sosta del personale di macchina. L’ufficio valori. I bagni pubblici.

A sinistra si affacciano: • Gli ingressi dell’ex ufficio informazioni. • La sala d’attesa della prima classe. • Il box vendite tabacchi e della sala della 2 classe. • La tavola calda, del chiosco bar, del ristorante di 1 classe. • Il chiosco per la vendita dei giornali. Il marciapiede del primo binario è largo mt. 7,30 e lungo, nel tratto compreso tra il piazzale Est e quello Ovest, mt.2,73. L’esplosione interessò il terzo lato sinistro del fabbricato centrale provocando il crollo della costruzione compreso l’atrio delle partenze e il ristorante tavola calda. Inoltre l’esplosione provocò la distruzione quasi totale della sala della 1a e 2a classe, del corridoio e del lato partenze che conduce al sottopassaggio, del box rivendita tabacchi, situato tra le due sale d’attesa, parte del self service e gli uffici della C.I.O.A.R., dell’amministrazione delle Ferrovie siti nel sottotetto della costruzioni nonché di parte della pensilina del marciapiede del primo binario. La demolizione completa interessò la pensilina a rialzo posta all’esterno del fabbricato in Piazza Medaglie D’oro. All’arrivo dei soccorritori le macerie avevano ostruito 27

l’ingresso al sottopassaggio interno posto tra le due sale d’attesa e in parte, di quello del sottopassaggio esterno sul primo binario, sito tra l’ufficio informazioni e la sala di prima classe invadendo anche parte del sottopassaggio stesso. Inoltre l’onda esplosiva provocò la rottura di alcune vetrate degli stabili prospicienti la stessa Piazza e lo sfaldamento del bordo del marciapiede del primo binario. Sul primo binario, al momento dell’esplosione, era in sosta il treno straordinario “ADRIA-EXPRES8” nr.13534 con percorso Ancona-Basilea, giunto da Rimini alle ore 10,12 con 71’ di ritardo, le cui carrozze di prima classe nr.51.83.l0-70.134/8, e nr.51.83.l0.80.018/1, rispettivamente la nona e la decima delle quattordici componenti del treno furono investite dalla deflagrazione e dal crollo del fabbricato e della pensilina. L’opera di recupero delle salme e di sgombero delle macerie fu effettuata dai Vigili del Fuoco, dai militari dell’Esercito e dai numerosi appartenenti agli Enti Ospedalieri di Bologna e dai molti volontari. Alle ore 22 del 2 agosto 1980, fu ritrovato sul pavimento della sala d’attesa della 2a classe, un avvallamento in corrispondenza ad una struttura muraria parallela al punto di maggior danneggiamento di una delle carrozze ferroviarie del treno straordinario “ADRIA-EXPRESS” a I3 metri circa dal muro perimetrale del fabbricato dell’ala sinistra della stazione ed a mt, 1,75 dal bordo del marciapiede del primo binario. L’avvallamento era a forma di cratere della profondità media, in corrispondenza dell’epicentro di cm. 23 circa e massima di cm. 35 circa rispetto al piano del pavimento. Il pavimento era un mosaico con tessere di colore bian28

co-grigio e fu completamento divelto in corrispondenza del cratere con un diametro di circa cm. 120 x 100, con i contorni frantumati e frastagliati a strati degradanti verso il centro del cratere per un’area totale di 2,80 x 3,60. La ricerca e la raccolta di quanto potesse essere utile ai fini delle indagini ebbero inizio lo stesso giorno 2 agosto e furono proseguite fino al mese di settembre. Alla repertazione di oggetti utili alle indagini e al recupero delle vittime parteciparono il personale del Commissariato Compartimentale di P.S. presso le Ferrovie dello Stato e i militari dell’Arma dei Carabinieri, Vigili del fuoco e volontari. L’esplosione della bomba alla Stazione di Bologna il 2 agosto 1980 causò la morte di 85 persone e 200 feriti.

In Nome del Popolo Italiano: le indagini del teorema dei cerchi concentrici L’azione investigativa e le attività istruttorie si basarono su una logica che inquadrò la strage del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna in una dinamica a cerchi concentrici: due strutturali e uno funzionale. Il cerchio più esterno era rappresentato dall’associazione sovversiva, quello intermedio dalla banda armata ed il più interno, funzionale ai primi due, rappresentato dalla strage. Lo scopo dell’associazione sarebbe stato quello di fornire sostegno economico e coperture ai reali autori di iniziative terroristiche e di imprimere alla guida del paese una svolta marcatamente anticomunista ed antidemocratica. Quindi un progetto di eversione finalizzato a sovvertire 29

l’ordine democratico e gli equilibri democratici espressi e previsti dalla Costituzione. L’associazione, secondo la pubblica accusa, sarebbe stata formata da Licio Gelli capo della loggia massonica coperta “Propaganda due”; il Gen. Pietro Musumeci ed il Col. Giuseppe Belmonte, appartenenti al servizio di sicurezza militare SISMI e primo affiliato alla loggia P/2 di pari grado nell’odine della Loggia Massonica a Musumeci e appartenente al capitolo di Roma. Tra i “Fratelli Massoni” anche: Francesco Pazienza, collaboratore del SISMI con particolare influenza sull’allora capo del servizio, poi deceduto, Gen. Santovito; Fabio De Felice, Paolo Signorelli e Massimiliano Fachini. Ordinati dal Gran Maestro anche, esponenti di spicco dei movimenti eversivi di estrema destra Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, movimenti clandestini ai quali facevano capo Stefano Delle Ghiaie, Adriano Tilgher, Marco Ballan e Maurizio Giorgi. L’impianto accusatorio ipotizzata poi una “manovalanza” a più livelli, una banda armata, come la definisce la sentenza di primo grado: “ritagliata all’interno di altre formazioni eversive neofasciste che agivano sotto sigle diverse”. Detta banda conservava un’autonomia d’azione dall’associazione eversiva ed era deputata a rendersi artefice dei delitti gestiti sul piano politico dall’associazione eversiva. Un’organizzazione armata che si era dedicata alla realizzazione di una serie di attentati dinamitardi, come quello alla Stazione di Bologna. I ruoli dell’organizzazione armata per la realizzazione della Strage di Bologna, secondo la pubblica accusa, era cosi strutturata: Signorelli e il Fa30

chini, uomini guida, rispettivamente, delle articolazioni romana e veneta della banda stessa; Roberto Rinani, Roberto Rado e Giovanni Melioli legati al Fachini; Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Egidio Giuliani, Marcello lannilli e Gilberto Cavallini, appartenenti ad un movimento che spesso aveva agito soprattutto a Roma, sotto la sigla NAR (nuclei armati rivoluzionari); ed infine Sergio Picciafuoco, delinquente comune, all’epoca latitante da circa dieci anni. Si contestò inoltre, a Fioravanti, alla Mambro, al Fachini e a Picciafuoco, nonché al Signorelli e al Rinani, il reato di strage e altri reati ad esso connessi di omicidio plurimo, porto illegale di esplosivo, lesioni personali volontarie, danneggiamento ed attentato ad impianti di pubblica utilità. Il ritrovamento dell’esplosivo simile a quello di Bologna in uno scompartimento di seconda classe del treno Espresso 514 Taranto-Milano, il 13 gennaio 1981 su segnalazione dei servizi segreti nell’ambito dell’operazione denominata “Terrore sui treni”, fu ritenuto dagli organi inquirenti un tentativo di depistaggio dai veri esecutori della strage del 2 agosto. L’obiettivo era di indirizzare gli inquirenti su una pista straniera, la cosiddetta pista libica. Il depistaggio, secondo le sentenze, fu opera degli apparati deviati del SISMI. La Corte d’assise di Roma accertò che: “la fonte non esisteva e le informazioni erano false, costruite nell’ufficio di Musumeci e Belmonte, con la connivenza di Santovito”. Nella motivazione i giudici scrissero che: “la ricostruzione dei fatti, basata su prove documentali e testimoniali, e sulle dichiarazioni degli stessi impu31

tati, fa emergere una macchinazione sconvolgente che ha obiettivamente depistato le indagini sulla strage di Bologna. Sgomenta che forze dell’apparato statale, sia pure deviate, abbiano potuto così agire, non solo in violazione della legge, ma con disprezzo della memoria di tante vittime innocenti, del dolore delle loro famiglie e con il tradimento delle aspettative di tutti i cittadini, a che giustizia si facesse”. La valigia era stata messa sul treno da un sottufficiale dei Carabinieri e conteneva oggetti personali di due estremisti di destra, un francese e un tedesco, chiamati Raphael Legrand e Martin Dimitris. L’attività di depistaggio posta in essere dal SISMI, nei mesi immediatamente successivi alla strage, determinò la condanna di detenzione e porto di armi ed esplosivo a Musumeci e Belmonte da parte Corte d’Assise d’Appello di Roma 14.3.86 che così sentenzia: “agendo in concorso tra loro e con persone allo stato non identificate”. Con sentenza 11 luglio 1988 la Corte d’Assise di Bologna assolse tutti dal delitto di associazione sovversiva, fu, invece, confermata l’esistenza e la responsabiltà della strage di Bologna della banda armata a Fachini, Signorelli, Fioravanti, Mambro, Cavallini e Giuliani, di Picciafuoco e Rinani per semplice partecipazione. Licio Gelli fu condannato solo per il reato di calunnia aggravata con fini di terrorismo contro quattro cittadini tedeschi, facenti parte del gruppo Hoffmann, una formazione dell’ultradestra e contro il neofascista Giorgio Vale uc32

ciso il 5 maggio del 1982, indicati dagli uomini del Superesse, la struttura segreta all’interno dei servizi segreti costituita da Pazienza, come gli organizzatori del fasullo attentato al Taranto-Milano. Il Gran Maestro Venerabile della Loggia P2 avrebbe agito con l’ex vicecapo del Sismi Pietro Musumeci e al suo braccio destro Giuseppe Belmonte nella “sceneggiata” della valigia-bomba sistemata sull’espresso Taranto-Milano al fine di dimostrare che la strage del 2 agosto fosse opera di un’operazione internazionale. La sentenza di primo grado, nel dimostrare la responsabilità per il delitto di strage, pose l’accento su due proposizioni. La prima basata sull’analisi della struttura, delle finalità e del modus operandi dei movimenti della destra eversiva, la seconda basata sull’analisi dei dati contenuti in documenti relativi a vicende stragiste anteriori al 2 agosto 1980 dalle quali emerge, secondo la pubblica accusa, un’evidente vocazione stragista sia sotto il profilo ideologico che progettuale e politico. I documenti che vengono esaminati sono molteplici: • il manoscritto “Da Tufi a Mario Guido Naldi”, sequestrato il 31.8.80 in una cabina telefonica di via Irnerio; • il manoscritto “linea politica” sequestrato a Carlo Battaglia in Latina il 10.9.80; • la lettera inviata da Carluccio Ferraresi a Roberto Frigato; • il documento “un’analisi tattica” di Angelo Izzo sequestrato a Edgardo Bonazzi il 2.8.80; • il memoriale di Eliodoro Pomar; • il documento “La disintegrazione del sistema” di Freda; 33

• i “fogli d’ordini” di ordine Nuovo; • il documento “Guerra rivoluzionaria”. Quanto alle vicende stragiste anteriori la Corte d’Assise di Bologna ritenne significativa, all’interno della logica dibattimentale, la strage di Peteano commessa il 31.5.72 da Vincenzo Vinciguerra, esponente di Avanguardia Nazionale, che in relazione a questo fatto fu pienamente confesso. La Corte d’Assise d’Appello di Bologna con la sentenza pronunciata il 18 luglio 1990 assolse tutti gli imputati dal delitto di associazione sovversiva. Quanto al delitto di banda armata, confermò la responsabilità nei confronti di Fioravanti, Mambro, Cavallini e Giuliani, ma assolse, invece, per non avere commesso il fatto Signorelli, Fachini, Rinani, Melioli e Picciafuoco. Assolse per non avere commesso il fatto tutti gli imputati del delitto di strage. Stesso giudizio anche per Gelli e Pazienza dal reato di calunnia, confermandolo invece per Musumeci e Belmonte, ma sollevandoli dall’aggravante della finalità di eversione e terrorismo. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite Penali con la sentenza 12 febbraio 1992 annullò con rinvio la sentenza d’appello ridisegnando la logica processuale. Infatti uscì dal dibattimento processuale il reato delitto di Associazione Eversiva perché tutti gli imputati furono definitivamente prosciolti. Fu confermato e quindi oggetto dibattimentale il delitto di banda armata, in quanto fu affermata la responsabilità di Fioravanti, Mambro, Cavallini e Giuliani. La Cassazione pose al nuovo processo il quesito di ac34

certare se si fosse costituito, o meno, un unico sodalizio che vedesse raggruppati esponenti della destra romana, Fioravanti, Mambro, Cavallini, Giuliani e di quella veneta di Fachini, Rinani e la posizione di Picciafuoco. La Corte d’Appello di Bologna, nel secondo processo, fu chiamata a valutare le responsabilità di Fioravanti, Mambro, Fachini e Picciafuoco per i delitti di strage e connessi. Per l’imputazione di calunnia, mentre fù resa definitiva l’affermazione di responsabilità di Musumeci e Belmonte e nei loro confronti restava soltanto da accertare se sussista anche aggravante speciale, per Gelli e Pazienza. Restò in discussione il punto della loro partecipazione al delitto.

In Nome del Popolo Italiano: il processo all’estrema destra ed il progetto eversivo La progettualità, la finalità e il modus operandi furono le variabili esaminate per individuare l’agente responsabile della Strage di Bologna. Lo studio e l’analisi delle variabili sembrava essere coerente con la matrice della destra eversiva che fu definita a vocazione stragista, sia sotto il profilo ideologico che progettuale e politico. Modalità e finalità coerenti, quindi, con il substrato ideologico e programmatico emergente da una serie di documenti provenienti dall’area politica in questione. Le indagini furono indirizzate nell’immediato della strage ad alcuni membri della destra eversiva. Uno degli elementi, considerato importante dagli inquirenti, fu la narrazione dei fatti di Bologna tra gli ambienti della destra extraparlamentare. 35

I commenti sulla Strage di Bologna intercettati nel carcere di Ferrara tra i detenuti Aurora, Nicoletti e gli agenti della Polizia Penitenziaria con frasi del genere: “Ecco cosa succede a fidarsi dei ragazzini” e “Come hanno fatto a prenderci tutti”. Queste frasi, secondo gli inquirenti, descrivevano stupore per il fatto che i provvedimenti di cattura avessero così indebolito il gruppo di estrema destra non incline nell’ideologia ad un massacro di tali proporzioni. Tali commenti furono interpretati, dalla sentenza di primo grado, come una presa di distanza dai fatti del 2 agosto, degli elementi di spicco della eversione neofascista romana pur riconoscendone la provenienza dal loro ambiente del fatto criminoso. Altri elementi che dettero sostegno alla matrice dell’estrema destra nella strage di Bologna furono le dichiarazioni di Luigi Vettore Presilio al magistrato di sorveglianza di Padova il 7 luglio 1980. Vettore Presilio aveva informalmente dichiarato che sarebbe stato contattato da esponenti di un’organizzazione di estrema destra e che gli avrebbero proposto di partecipare ad un attentato ai danni del Giudice Stiz di Treviso. L’attentato, organizzato nei dettagli come l’utilizzo di un’Alfetta truccata da autovettura dei Carabinieri, sarebbe stato preceduto da un altro attentato che avrebbe “riempito le pagine dei giornali”. Nella serata dello stesso 6 agosto, Vettore confermò le dichiarazioni al Procuratore della Repubblica di Bologna aggiungendo d’aver ricevuto le proposte da Roberto Rinani e che l’attentato alla Stazione di Bologna sarebbe avve36

nuto la prima settimana d’agosto. Nel corso delle sue dichiarazioni istruttorie Vettori riferì, inoltre, di aver appreso da Rinani dei suoi contatti con la cellula veneta già facente capo a Freda e Ventura, di cui all’epoca era principale esponente Massimiliano Fachini. Apparve di particolare attenzione, ai fini investigativi, anche la vicenda di Amos Spiazzi, l’ex colonnello dell’Esercito inviato a Roma dal centro SISDE di Bolzano per raccogliere informazioni sui movimenti eversivi. Spiazzi dichiarò di aver appreso, da un’informativa del 27 luglio del 1980, di un progetto di riunificazione dei gruppi autonomi dell’estrema destra in un’unica organizzazione. L’opera di ricompattamento sarebbe stata condotta da Franco Mangiameli detto “Ciccio”. Per definire l’azione del gruppo sarebbe stato necessario decidere un unico modus operandi tra attentati o obiettivi indiscriminati e attentati selettivi. I giudici di primo grado ritennero complementari le dichiarazioni di Spiazzi e di Vettore Presilio nella parte che riguarda l’attentato ai magistrati. La sentenza d’Appello, partendo dalla considerazione preliminare secondo cui la mancata prova della sussistenza di un progetto unico della banda armata come delineato dall’accusa e ritenuta fondamentale nella sentenza di 1° grado, giudicò debole il quadro accusatorio nell’imputazione di strage nei confronti di Fioravanti, Mambro, Picciafuoco e Fachini. I giudici della Corte D’Assise ritennero poco convincente l’idea proposta dall’accusa di una progettualità finalizzata a stragi ed attentati ad un’unica ed esclusiva matrice di destra in quanto poco dimostrabile anche nei procedimenti penali relativi ad altri avvenimenti stragistici. Infatti, concludono i giudici: 37

“l’idea stragista, pur circolante in quell’area, non poteva considerarsi elevata ad espressione di un programma riferibile a gruppi od organismi ben individuati, ma era rimasta come manifestazione di intendimenti generici riferibili a singole persone. Nessun dato significativo può ricavarsi dall’elencazione di fatti stragistici consumati negli anni precedenti, se non quello utilizzabile per la ricostruzione di un periodo oscuro della storia del nostro paese, periodo che, per altro, non ha avuto ancora completa e soddisfacente chiarificazione”. Sul tema delle voci provenienti dall’interno della destra, la sentenza di appello osserva che la deposizione di Vettore Presilio non contiene un chiaro riferimento ad un evento prossimo di strage, ma ad un evento sicuramente eclatante ma mirato ad una singola persona. Le testimonianze di Vettore a proposito di un’adesione tra il polo veneto e il polo romano dell’estrema destra diretti in attentati indiscriminati non trovò un riscontro. Anche il progetto esposto nell’informativa di Spiazzi di riorganizzazione dei gruppi eversivi e un programma di azioni dimostrativo venne ritenuto riconducibile all’azione del solo Mangiameli e senza alcun riferimento alla strage. La sentenza di secondo grado fece rilevare, inoltre, che secondo l’informativa Spiazzi, tra compiti di Mangiameli vi era quello di reperire esplosivo, mentre nell’ambiente romano si progettava un attentato ad un magistrato. Da queste risultanze la sentenza d’appello concluse che: “non è dato di risalire alla individuazione degli autori della strage e neppure al riconoscimento di una strategia che prevedesse e preparasse operazioni stragiste”. 38

Per Fioravanti e Mambro il primo elemento indiziario fu costituito dalle dichiarazioni di Massimo Sparti, criminale appartenente alla Banda della Magliana. Sparti dichiarò che il 4 agosto aveva incontrato a Roma Fioravanti che gli chiese di provvedere al reperimento di documenti falsi “freschi” per Francesca Mambro; Fioravanti, in quell’occasione, avrebbe commentato lo scoppio con la frase compiaciuta: “hai visto che botto.” Fioravanti, inoltre, avrebbe confidato a Sparti di essere stato alla Stazione di Bologna il 2 agosto vestito da turista tedesco per passare inosservato e che la Mambro sarebbe stata costretta a tingersi i capelli per il timore di essere riconosciuta. A giudizio dei primi giudici, Sparti trovò conferma in Fausto De Vecchi, che è colui che materialmente predispose i due documenti di identità. Il secondo elemento indiziario fu costituito dalla telefonata di Ciavardini a Loreti Cecilia, amica di Elena Venditti la sua fidanzata. La Loreti dichiarò che il 1 agosto 1980 pervenne a casa del suo fidanzato Marco Pizzari una telefonata con la quale Ciavardini propose di rinviare la gita per Venezia che aveva organizzato la comitiva, per alcuni suoi imprevisti. Ciavardini, dopo averlo inizialmente escluso, ammise di aver fatto la telefonata e giustificò il differimento della partenza alla mancanza dei documenti di identità falsi di cui aveva bisogno nella sua condizione di latitante. La sentenza di primo grado concluse che la Venditti aveva programmato un viaggio con Ciavardini a Venezia per il 1° agosto. Sempre secondo i giudici del primo gra39

do, Ciavardini comunicò di rinviare il viaggio a Venezia per la presenza di gravi problemi, ovvero la sua presenza sul posto della strage e che alla data del 3 o 4 agosto i problemi, che non riguardavano il possesso di documenti di identità erano venuti meno. Quanto all’alibi di Fioravanti e Mambro per il 2 agosto, sarebbero stati ospiti a Treviso del Cavallini e della Sbroiavacca e quel giorno si sarebbero recati a Padova, la sentenza commenta che appariva poco attendibile sia per la genericità dei fatti raccontati sia dell’inattendibilità dei testi caduti in molte contraddizioni narrative. L’omicidio di Mangiameli, membro di Terza Posizione, reato per il quale fu condannato Valerio Fioravanti, rappresentò, per i giudici del primo grado, un ulteriore elemento indicativo del coinvolgimento dell’imputato nella strage. L’omicidio di Mangiameli fu caratterizzato da una “precipitosità” meritevole di attenzione investigativa, ovvero subito dopo l’intervista di Spiazzi all’Espresso sul progetto di “Ciccio” di riunire in un unico gruppo la destra eversiva e la precisa sensazione diffusasi nell’ambiente eversivo dell’identificazione del “Ciccio” nel Mangiameli. La posizione di Mangiameli di collaboratore del SISDE lo fece ritenere un soggetto vulnerabile e, secondo i giudici, possibile testimone della Strage. La riprova documentale fu rappresentata dal volantino di Terza Posizione che parla della 85esima vittima della Strage (all’epoca del volantino le vittime della strage di bologna erano 84). Fu ritenuto poco coerente attribuire la causa dell’omicidio al delitto Mattarella in cui fu coinvolto Mangiameli e che avvenne otto mesi prima. La sentenza di secondo grado, affrontando il tema della responsabilità di Fioravanti e Mam40

bro, dichiara inattendibili le dichiarazioni di Massimo Sparti e le definisce: “Allusive e suggestive nel contenuto e dall’interpretazione forzata da parte dei giudici di primo”. Venne invece definita attendibile la testimonianza della Loreti sulla telefonata del Ciavardini, per altro ammessa anche da costui, ma fu ritenuta plausibile anche la giustificazione addotta dal Ciavardini sulle sue difficoltà nel reperire i documenti falsi. Infatti fu confermata la circostanza per cui Ciavardini aspettava i documenti falsi che gli sarebbero stati consegnati da Fioravanti e della Mambro a Treviso con la conseguente richiesta di restituzione di un documento di identità fattagli dal Fioravanti. Inoltre fu la stessa Loreti a confermare che Ciavardini le confidò la difficoltà per i documenti. Il fallimento dell’alibi di Fioravanti e Mambro fu interpretato dai giudici della Corte D’Assise spontaneo. Infatti Fioravanti estraneo alla strage, fu chiamato comunque a fornire un alibi per il giorno 2 agosto. Di qui la necessità di costruire un alibi falso. Per quanto riguardava l’omicidio Mangiameli nella sentenza di secondo grado la causale era rimasta non chiarita. La Corte d’Appello affermò, quindi: “[…] che tutti gli elementi considerati hanno la caratteristica della ambiguità e non della univocità, tanto che richiederebbero, per essere sostegno di colpevolezza, di essere letti tutti in uno soltanto dei significati possibili, con una scelta aprioristica non consentita”. Per quanto riguarda il ruolo di Sergio Picciafuoco la sentenza di primo grado affermò che l’imputato, un delin41

quente comune specializzato in reati contro il patrimonio, latitante da dieci anni e sconosciuto al mondo del terrorismo, si era, in realtà, avvicinato a movimenti della destra eversiva fin da epoca antecedente al 2 agosto, in particolare a T.P. e ai NAR. Tale adesione fu confermata anche dall’annotazione del suo nome nell’agenda di Cavallini, contenente numerosi altri nominativi di militanti dell’eversione di destra detenuti. Picciafuoco fu trovato in possesso di molti documenti contraffatti da soggetti appartenenti al gruppo di estrema destra. Altro elemento valutato a carico dell’imputato fu la sua presenza alla stazione di Bologna il 2 agosto. Infatti Picciafuoco, il 2 agosto alle 11.39, si recò all’ospedale di Bologna perché fu leggermente ferito durante l’esplosione, dichiarando di chiamarsi Vailati Eralio, utilizzando le stesse generalità spese in un albergo di Taormina pochi giorni prima. La sentenza di secondo grado ritenne plausibile la giustificazione di Cavallini di avere annotato sulla sua agenda il nome del Picciafuoco, che pur non conoscendolo, lo considerò indiziato della strage ma solo perché lo riportava la stampa dell’epoca. La presenza dell’imputato alla stazione di Bologna continua la sentenza: “risultava svuotata della sua carica sintomatica, dal momento che la evidente determinazione di lui di non dare ragione della sua presenza era pur sempre ricollegato alla sua posizione di delinquente comune latitante”. Massimiliano Fachini, capo del gruppo eversivo veneto, già condannato in numerosi attentati terroristici e per questo ritenuto, dalla sentenza di primo grado responsabile per i fatti del 2 agosto. Il primo elemento circa la respon42

sabilità di Fachini nella strage di Bologna secondo i giudici di primo, furono le dichiarazioni di Calore, Aleandri e Napoli. Infatti dalle testimonianze dei tre eversori di destra emerse che il Fachini ed il gruppo a lui facente capo disponevano di notevoli quantitativi di esplosivo di recupero militare. Su questo punto la sentenza dichiara che: “il Fachini e i suoi indicavano tale esplosivo come proveniente dallo sconfezionamento di materiale bellico giacente in un laghetto veneto; che fra le altre sostanze esplosive di recupero militare figurava anche il T4; che il gruppo di Fachini adottava la tecnica del preinnesco o innesco secondario (tecnica poi trasmessa anche al “gruppo MRP”); che quale innesco secondario potevano essere usate “pizzette” di T4. Del T4 era stato riscontrato l’impiego nel congegno che aveva determinato la deflagrazione del 2 agosto. Di questo tipo di esplosivo (e di altro) il Fachini era stato il fornitore in più occasioni della eversione di destra, come avevano riferito gli stessi Calore, Aleandri e Napoli”. Fu, infatti, su dichiarazione di Napoli che fu trovato dagli inquirenti, nel corso del giudizio di primo grado, un deposito nel lago di Garda di residuati bellici dai quali, secondo gli accertamenti tecnici, era possibile estrarre quell’esplosivo. Ulteriori collegamenti di Fachini con la strage provenivano dalle confidenze del Rinani, militante della banda veneta, a Vettore Presilio circa le dichiarazioni fatte a Stefano Nicoletti da Edgardo Bonazzi sulla responsabilità di Fachini e Signorelli e sulla loro imprudenza di avere affidato l’esecuzione dell’attentato a dei “ragazzini”. A giudizio della sentenza di appello, fu dimostrato il legame 43

degli alti esponenti della banda veneta con quelli della banda romana del Fioravanti. Fu ritenuta significativa ma non univoca la disponibilità del T4 da parte del Fachini. Venne ribadito, inoltre, che l’annuncio fatto dal Rinani e rivelato da Vettore Presilio non era riferibile alla strage. La sentenza di primo grado è strutturata ad evidenziare le dinamiche dei gruppi eversivi e le collaborazioni al fine di raggiungere gli obiettivi che li determinavano ma evidenzia soprattutto “i legami intersoggettivi” tra gli imputati. Venne giudicata di centrale importanza il ruolo determinante di Valerio Fioravanti definito dai primi giudici proprio comandante militare nella banda armata del gruppo, facente capo a Calore, costituito dagli operativi dell’ambiente di Costruiamo l’Azione sopravvissuti alla crisi dell’organizzazione. Il gruppo si era sfaldando sotto il profilo organizzativo e aveva mutato fisionomia dall’unione con il gruppo capo a Egidio Giuliani. Calore, aveva fatto conoscere Fioravanti a Cavallini in occasione della rapina all’orefice D’Amore di Tivoli commessa nel 1979. La presentazione di Cavallini a Giuliani ad opera di Bruno Mariani aveva rappresentato il momento conclusivo della fusione “operativa” tra i resti di CLA e la banda Giuliani. Nell’autunno 79, durante la carcerazione di Calore, Cavallini aveva fatto la spola tra Roma e Padova per portare a Fachini varie partite di oro. Il sodalizio Fìoravanti-Cavallini aveva cementato la convergenza dei due poli, romano e veneto. Sempre la sentenza di primo grado descrive i legami tra gli imputati per restituire un impianto solido per l’unicità dell’azione nella Strage di Bologna. I giudici di primo grado, quindi, rilevano che la Strage del 2 agosto fu anticipata ma nello stesso tempo annoverata in un proget44

to complesso e ampio caratterizzato da “una micidiale escalation militare”. La finalità dell’azione era la sintesi del concetto di Valerio così espresso: “evidenziare la presenza della destra, al massimo livello possibile, nella lotta armata contro le istituzioni dello Stato nelle sue articolazioni centrali e periferiche con l’evidente ulteriore finalità di seminare nella collettività il terrore e l’insicurezza”. Connubio, substrato ideologico unità di intenti tra la componente romana e quella veneta dimostrati, secondo i giudici di primo grado, dalle gesta di quel periodo e i progetti: • l’omicidio dell’agente della Polizia di Stato Maurizio Arnesano commesso il 6 febbraio e che è ascritto a Valerio F. e Luigi Ciavardini; • l’omicidio dell’agente Francesco Evangelista con ferimento dei colleghi Antonio Manfredo; • l’omicidio di Lorefice commesso il 28 maggio da Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini e Luigi Ciavardini e Vale. (1 Sentenza di Primo Grado dell’11 Luglio 1988 2 sentenza della Corte D’Assise del 1996) L’omicidio di Lorefice viene giudicato in sentenza come esplicativo della collaborazione tra i vari gruppi dell’estrema destra: NAR (Valerio), FUAN (Mambro), operativi di TP (Vale e Ciavardini) e Cavallini (latitante milanese che era stato “appoggiato” da Fachini a Roma presso i dirigenti di CLA); l’omicidio del giudice Mario Amato commesso il 23 giugno da Fioravanti, Mambro, Cavallini, Soderim e Ciavardini. 45

La sentenza annota come dimostrazione della sinergia operativa tra i vari gruppi dell’estrema destra tra cui • il fallito attentato alla casa dell’On.Tina Anselmi a Castelfranco Veneto in data 8 marzo 80; • l’attentato, di marca stragista, a Palazzo Marino di Milano del 30 luglio 1980 ore 1,55; • l’attentato alla Libreria Feltrinelli di Padova del 25.7.80 rivendicato a nome dei NAR; • l’assalto al distretto militare di Padova per procurare le armi pesanti da usare contro il furgone blindato che avrebbe trasportato Concutelli dal carcere dell’Ucciardone al palazzo di giustizia di Palermo (Valerio, Mambro, Mangiameli); • il progetto dell’attentato a un magistrato veneto Stiz, da realizzare dopo l’attentato alla Stazione di Bologna. La progettualità e il modus operandi di questi attentati furono definiti dalla sentenza di primo grado 11/7/1988 dalla II Corte d’Assise di Bologna identificativi del: “fine di aggregazione, in funzione rivoluzionaria, intorno ad obiettivi unificanti e mobilitanti, delle forze disgregate della destra, soprattutto in ambiente giovanile, nonché quello ulteriore di scollamento delle istituzioni democratiche, attraverso il disorientamento della collettività nazionale e la conseguente progressiva erosione degli equilibri sociali”. A dare una cornice di senso alla sentenza di appello del 1988 fu l’elemento dell’autonomia della struttura, organizzazione e azione della banda armata che si delineava attraverso l’assoluta specificità del programma criminoso. Un programma criminoso attuabile attraverso tre componenti 46

dell’attentato selettivo, dell’attentato indiscriminato e dell’azione militare eclatante volta a galvanizzare l’ambiente. La composizione soggettiva dell’organizzazione era garantita dalla molteplicità delle esperienze di militanti dell’eversione neofascista. Esperienze diverse ma con un comune denominatore strategico. La segretezza del sodalizio era l’elemento imprescindibile su cui si basava tutta l’organizzazione. Sulla base di una narrazione sull’identità del gruppo eversivo di estrema destra, la sentenza di primo grado conclude, affermando la responsabilità di Fioravanti, Mambro, Cavallini, Signorelli, Facilini e Giuliani in ordine al contestato reato di costituzione, promozione ed organizzazione di banda armata, nonché di Rinani e Picciafuoco per semplice partecipazione. La sentenza di appello antepone l’esame della banda armata a quello della strage. La logica della sentenza parte dalla premessa che il delitto di strage, oltre che essere riconosciuto nei suoi elementi oggettivi come la pluralità di persone, la struttura organizzativa permanente, la dotazione di armi, lo scopo di commettere reati contro la personalità dello Stato, deve necessariamente trovare fondamento anche sul piano soggettivo e cioè nella piena consapevolezza dei partecipanti di contribuire e di essere parte attiva in un progetto condiviso e finalizzato in un obiettivo comune, la strage. La sentenza di secondo grado afferma, quindi, che la decisione dei primi giudici non è soddisfacente quanto all’esame del requisito dell’accordo tra più soggetti per legarsi in unico vincolo d’azione, e la dimostrazione della caratteristica dell’elemento associativo non è dimostrato 47

nella sua stabilità in nessuna azione concreta, restando relegato solo alla sfera ideologica: “Una narrazione anacronistica delle azioni terroristiche che precedettero la strage del 2 agosto” Così viene definita la sentenza di secondo grado dai giudici della corte d’appello che precedettero. I giudici di secondo grado, in riferimento alle motivazioni della sentenza di primo grado, sentenziano: “una mancanza di elementi con carattere di certezza idonei a chiarire i contributi personali dei singoli imputati; in particolare, le vicende del movimento Costruiamo l’azione, cui certamente aderirono tanto il leader del gruppo Nord, Fachini, quanto gli esponenti della destra romana,non permettono di identificare,quanto agli imputati del presente processo, precise, personali, differenziate responsabilità nella esecuzione di fatti delittuosi”. La Corte d’Assise d’Appello ravvisa, inoltre, una evidente contraddizione tra le teorizzazioni di Costruiamo l’Azione e le gesta dei soggetti inseriti nella, galassia dello “spontaneismo armato”. Presi in esame taluni fatti individuati dal primo giudice come momenti significativi dell’accordo sociale stabile tra il gruppo romano e quello veneto, come i progetti relativi alla fuga di Freda, alla fuga di Concutelli e all’uccisione di un magistrato veneto, il giudice di appello ha valutato che, al di là della comune matrice eversiva di destra, vi fosse una decisa divaricazione ideologica, culturale e, talora, anche generazionale tra le persone coinvolte in tali fatti. Gruppi eversivi caratterizzati, quindi, da idee circolanti 48

sia nell’ambiente veneto che in quello romano, non concretizzati in un progetto.

In Nome del Popolo Italiano: Settembre 1992, il processo va rifatto La Cassazione, il 12 settembre rinvia ad un nuovo processo evidenziando tre punti definiti “censurabili”. Nel primo punto la Cassazione richiama i giudici d’Appello nella ricostruzione del contesto nel quale si formò e dal quale trasse la sua genesi la banda armata in contestazione. Ricostruzione valida solo da un punto storico ma deficitaria di una valenza investigativa rendendo le motivazioni dell’assoluzione deboli e prive di fondamento: “È chiaro – afferma la Cassazione – che una analisi delle risultanze probatorie molteplici (dai documenti ideologici e programmatici, alle plurime dichiarazioni dei terroristi dissociati, ai fatti storicamente accertati) sulla struttura, sulla ideologia e sulla strategia operativa, concretamente realizzatasi nei fatti, delle organizzazioni eversive immediatamente precedenti a quella in esame avrebbe potuto offrire un contributo all’indagine”. Ad esempio, la Cassazione, giudica significativa, la vicenda di Costruiamo l’azione, nella quale avrebbe avuto parte notevole Fachini, pur non essendo emersa la sua partecipazione a fatti delittuosi specifici riferibili a detta organizzazione. A tal proposito la Cassazione riprende la parte della sentenza d’appello in cui si evidenzia la cesura tra il CLA e lo “spontaneismo” dei NAR definendolo: 49

“frutto di una insufficiente considerazione dei due movimenti… la sentenza di appello non ha adeguatamente considerato che il fenomeno spontaneista era largamente presente nel movimento CLA, che affidava la sua unitarietà alla linea ideologica del giornale, ma lasciava ampio spazio alla creatività operativa dei gruppi operativi che nella sua linea si riconoscevano”. La Suprema Corte continua: “la sentenza di appello non ha considerato che tale linea registrava la presenza di quelle venature sinistrorse che poi sarebbero emerse anche nei NAR”. Il secondo punto concerne l’analisi dei sintomi e dei momenti di collegamento tra il gruppo eversivo romano di Fioravanti e quello veneto di Fachini. A riguardo la Cassazione afferma che la sentenza di appello elude l’accertamento delle circostanze dei vari episodi come le fughe di Preda e Concutelli e l’attentato al giudice Stiz accontentandosi di definirli in maniera superficiale e di considerarli genericamente espressioni di intenti e posizioni nascenti da orientamenti culturali e strategie diverse, oppure vaghi disegni circolanti tra i due gruppi che non avevano dato luogo ad alcuna concreta collaborazione. Il terzo punto concerne i rapporti intercorsi tra gli esponenti di rilievo dei due gruppi, romano e veneto. La Cassazione trova meritorie solo alcune considerazioni della sentenza di appello perché trattate con adeguate risultanze probatorie, ovvero le frequentazioni Fioravanti-Signorelli, Fachini-Signorelli e Fachini-Fioravanti; si evidenziano carenze però nell’analisi del rapporto Fa50

chini-Cavallini. Carenze dovute ad una scarsa analisi di alcune dichiarazioni come quella di Marco Guerra in merito alla collaborazione prestata dal Fachini nel riciclaggio di preziosi rapinati dal Cavallini e dal Giuliani; di Calore e di Aleandri sulle forniture di armi ed esplosivi da parte del Fachini ai gruppi eversivi romani, tramite il Cavallini. La sentenza di Cassazione conclude giustificando la decisione dei giudici d’Appello perché debole dal punto di vista investigativo e probatorio infatti riporta: Al postutto va osservato che il compendio delle circostanze richiamate non risolve di per sé univocamente il problema dell’accertamento della formazione di una banda armata quale configurata dal capo di imputazione, prospettando, al limite, la possibilità di convergenze progettuali e operative fra i gruppi. Per cui risulta logicamente corretta la risoluzione della corte di merito che ha privilegiato la considerazione del concorso ricorrente di un gruppo di persone in azioni delittuose collettive, di rilevante significato politico, per pervenire alla conclusione della formazione della banda armata romana del Fioravanti. La Cassazione prosegue in quest’ottica: “La necessità già messa in evidenza di un riesame della problematica sulle responsabilità individuali relative ai delitti di strage e degli altri connessi, non può non riaprire logicamente il problema della formazione della cd. banda romano-veneta, alla stregua di quelle che saranno per essere le risultanze del nuovo esame di questa parte della sentenza impugnata, correlate con la rivisitazione approfondita delle emergenze processuali sui tre punti dei quali si è fin qui discorso. E ciò con specifico riguardo alle po51

sizioni del Fachini e del Picciafuoco nonché del Rinani, per il quale ultimo vanno tenuti presenti i suoi accertati rapporti con il Fachini e, in specie, le confidenze che egli avrebbe fatto al Vettore Presilio, fortemente sintomatiche della sua etraneità al gruppo eversivo veneto”. “Tuttavia, nell’ambito fissato dalle acquisizioni processuali e con il rigore dell’accertamento giudiziale, non può il giudice, nell’approccio ad un evento delittuoso di carattere politico sottoposto al suo accertamento rinunciare alla ricerca e alla valutazione di tutte quelle circostanze che formano il contesto storico-politico del fatto e che sono direttamente utili alla comprensione della sua causale. Dall’individuazione di questa possono invero emergere preziosi apporti per l’accertamento definito del fatto e delle responsabilità individuali”.

Il processo di rinvio del 1993 Il processo di rinvio inizia il 10 ottobre 1993 e si protrae per 57 udienze; celebrato nella contumacia degli imputati Musumeci e Gelli, mentre tutti gli altri imputati presero parte, sia pure a fasi alterne, alle vane udienze, con l’eccezione di Fachini, Fioravanti e Mambro che furono sempre presenti. Presenziarono al Processo come parti civili molti familiari delle vittime, il Comune di Bologna, la Giunta provinciale di Bologna, la Regione Emilia-Romagna; l’Avvocatura dello Stato in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dei Ministeri degli Interni e di Grazia e Giustizia, nonché dell’Ente Ferrovie dello Stato; Um52

berto Vale e Anna Antonia Garofoli, Roberto Fiore; oltre a parti offese dei delitti di lesioni e di calunnia. Gli imputati accettarono tutti di essere interrogati ad eccezione di Picciafuoco che già dalla prima udienza assunse un comportamento ostruzionistico. Con l’ordinanza del 23 dicembre 1993 la Corte aveva disposto la rinnovazione parziale del dibattimento con acquisizione di numerosa documentazione consistente in passate sentenze ed altri provvedimenti pronunciati da autorità giudiziarie diverse; in dichiarazioni e testimonianze rese in altri procedimenti già definiti: a) in atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2; b) nell’escussione di alcuni testimoni e nell’audizione di imputati di reati connessi; c) nell’espletamento, in forma di perizia, della trascrizione di un esame testimoniale istruttorio che era stato registrato su nastro. Al termine della discussione, che si è protratta per 26 udienze, hanno fatto dichiarazioni finali solo Fachini, Fioravanti e Mambro. Cassazione anche nella sentenza della Corte D’assise del 3 maggio 1994, tra le prove a carico di Fioravanti e Mambro vi sono la vicenda Sparti, la telefonata di Ciavardini, la motivazione dell’omicidio Mangiameli e l’alibi. L’esistenza di rete di contatti e operazioni terroristiche e le strutture associate per finalità e modus operandi trovano fondamento su un dato certo, ovvero che furono gli uomini del SISMI deviato a progettare l’operazione “terrore sui treni” e a collocare la valigia sul treno, è incontestabile che il MAB, ritrovato sul treno Taranto-Milano alla Stazione di Bologna sia finito nella valigia solo dopo essere passato dal53

le mani di Carminati a quelle di Musumeci e Belmonte o, che è lo stesso, per espresso incarico dei medesimi. Il viaggio compiuto dal MAB, secondo la Corte D’Assise, è un filo conduttore che porta dal gruppo di cui fanno parte Fioravanti e Mambro direttamente ai Servizi segreti che attuano il depistaggio. Tale sodalizio è affiancato e rafforzato dalla rilevante presenza della banda della Magliana, che si pone come punto di incontro e di coagulo di vari gruppi: • i giovanissimi terroristi dei NAR, da Fioravanti e Mambro ad Alibrandi, Carminati, Beisito e Cavallini; • gli esponenti della destra eversiva “storica”, Semerari e De Felice ovvero gli “ordinovisti”, come erano definiti da Abbatino e dai suoi compagni, che nello stesso tempo erano presumibilmente collegati a Licio Gelli, direttamente e attraverso Aleandri membri della cosiddetta Banda della Magliana. Una rete forte fatta da sodalizi collaudati da una interrotta sequenza di connivenze e di coperture attuate dai Servizi in favore di terroristi di destra. Sulla base di queste ricostruzioni la sentenza afferma che: “1) Gli autori della valigia sono gli stessi della strage di Bologna (in virtù della identità dell’esplosivo); 2) quella medesima, organizzazione si accinge a realizzare un piano di attentati alle linee ferroviarie; 3) chi non ha avuto remore a provocare la morte di 85 persone e il ferimento di altre 200 alla stazione di Bologna è ora in procinto di scatenare una campagna di attentati; 4) la valigia, con l’esplosivo e le armi, costituisce l’avvio dell’esecuzione della suddetta campagna. Appare chiara, dunque, la portata altamente terroristica dell’operazione, perché capace di diffondere un allarme concreto e vivissimo nella popolazione e 54

nelle stesse Istituzioni. L’accertata sussistenza – ormai con carattere di definitività – dell’aggravante teleologica ha permesso di stabilire che la condotta degli imputati si articolò in una complessa operazione che ebbe come obiettivo il depistaggio delle indagini e, insieme, il favoreggiamento delle persone inquisite, così come ha rilevato anche la Cassazione. Ora, non si può condividere l’assunto della sentenza di appello secondo cui il doloso dirottamento degli inquirenti verso una pista inesistente esaurirebbe i suoi effetti con il «misurare la gravità del fatto»”. Invero, la conseguente sottrazione dei colpevoli – anche se, in ipotesi, non conosciuti – alla loro scoperta equivaleva a consentire il perpetuarsi indisturbato della loro attività di eversione e, in definitiva, equivaleva ad agire con fini eversivi. Da questi elementi la sentenza enuclea la certezza che la finalità perseguita dagli imputati con ruoli diversi e definisce: “chi era stato ideatore e promotore dell’iniziativa di depistaggio, di chi ne era stato il solerte regista e di chi aveva prestato la sua opera di esecutore, fu di natura prettamente terroristica e, nel medesimo tempo, essenzialmente eversiva. Gli imputati Fioravanti, Mambro e Sergio Picciafuoco verranno condannati all’ergastolo per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e quindi considerati esecutori materiali”. Condannati per banda armata gli altri neofascisti e per depistaggio Licio Gelli, Francesco Pazienza e gli ufficiali del Sismi Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte.

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Analisi scientifiche delle risultanze processuali

2 agosto 1980: le testimonianze di chi c’era, la testimonianza di chi ha sentito, le testimonianze di chi ha pensato Gran parte della procedura del processo penale si basa sui resoconti testimoniali. I racconti dei testimoni o delle cosiddette “persone informate sui fatti”, costituiscono la base portante di qualsiasi istruttoria e di qualsiasi giudizio finale. Eppure anche le testimonianze, per quanto possano essere vere e reali, hanno la loro variabilità. A decidere ciò che è reale e ciò che non lo è il giudice, il presidente della Corte, colui che, peritus peritorum, con salomonico scrupolo, decide cosa è vero e cosa non lo è. La sua interpretazione è legge, la sua ottica è quella del reale. Nella mia carriera di consulente, spesso ho potuto notare come il giudizio fosse suscettibile dalla capacità del giudice di essere sensibile ad un argomento piuttosto che ad un altro, oppure la sua capacità di rispettare una presunta correttezza processuale che però veniva innanzitutto da un’idea di massima che nel corso del giudizio si era fatto. È difficile anche da un punto di vista tecnico riuscire a dimostrare ad un uomo ciò che è difficile dimostrare, ovvero che la realtà è mutevole a seconda di chi la percepisce: in scienza si chiama “l’errore dello sperimentatore” e ne siamo soggetti tutti. 56

Va detto però che la magistratura è estremamente preparata e sensibile alle tematiche scientifiche. Mai come in questo periodo, anche con eccesso di zelo, si affidano perizie ad esperti pur di ridurre al minimo il rischio d’errore. Ma la testimonianza? Il resoconto della persona non è apparentemente verificabile scientificamente: si tratta sempre di un resoconto soggettivo. Per quanto ne dicano sedicenti esperti del linguaggio non esiste nessuna tecnica che verifica la veridicità del racconto, ma solo una serie di indici generali di concordanza che devono essere necessariamente rivisti a seconda di chi testimonia: motivazione del soggetto, eventuali traumi o patologie, concordanza tra ciò che viene detto ed espressione affettiva del resoconto, ovvero, il cosiddetto resoconto distonico del testimone. Ogni cosa va poi rivista sulla base dell’atteggiamento del singolo individuo. Non stiamo parlando di reazioni inconsce, non è roba da psicanalisi, ma di semplici indicatori che possono essere messi in luce al momento della testimonianza. Prendiamo ad esempio le dichiarazioni rese al pubblico ufficiale. All’interno del processo c’è la cosiddetta testimonianza suggestiva, ovvero quella che viene resa dal testimone che è stato suggestionato dell’interlocutore. Una testimonianza resa ad un pubblico ufficiale è sempre e comunque suggestiva. Il soggetto interrogato tenderà sempre ad un criterio di massima desiderabilità sociale e quindi il suo reso, per quanto oggettivo, risentirà sempre della relazione momentanea avuta in un luogo di indagine, con una persona rappresentante dello Stato. Questo è suggestivo e porta all’errore dello sperimentatore. È chiaro che più è alto il numero delle persone che con57

ferma un dato evento, più si riduce l’errore. Inoltre la concordanza dei ricordi deve essere piena, ovvero, al di là di quello che viene detto, i fatti devono coincidere nonostante le diverse ottiche. In tale ottica il tempo è un cattivo consigliere perché testimonianze rese ad anni di distanza sono suscettibili di errori ed arricchimento dovuti alle esperienze avute. Durante lo svolgimento dei tanti processi per la Strage di Bologna a volte si ha questa idea.

Massimo Sparti: l’amico dei Fascisti Uno dei personaggi più controversi tra quelli che testimonieranno nei vari processi per la strage c’è Massimo Sparti. Le sue dichiarazioni saranno ritenute fondamentali per avvalorare l’idea della pista nera come cornice di senso al fatto. Chi era Sparti? Massimo Sparti era un pluri-pregiudicato che nel corso degli anni si era affiliato alla Banda della Magliana. Inoltre pare fosse simpatizzante del gruppo terroristico di estrema destra Ordine Nuovo e grande amico di Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva. Il primo reato, che gli costò una condanna, fu una truffa commessa il 13 gennaio 1954. Da quel momento Sparti sarà condannato per reati come false dichiarazioni, furto, associazione per delinquere. Il 5 marzo 1960 il Tribunale di Roma applicò a Sparti la diminuente del vizio parziale di mente. Nel 1977 fu condannato per l’omicidio del comunista Walter Rossi con il ruolo di autista della macchina insieme ai due assassini Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti. Il 9 aprile 1981 venne arrestato. 58

Nel giardino di casa furono trovate due pistole e due bombe a mano. Due giorni dopo il suo arresto, Sparti iniziò a collaborare con dichiarazioni sulla Strage di Bologna. Il 3 marzo 1982 Sparti venne dimesso dal carcere di Pisa quando gli fu diagnosticato un tumore al pancreas. Il dott Francesco Ceraudo, a lungo Direttore del Centro clinico del carcere di Pisa, fu sollevato dall’incarico dopo aver certificato la compatibiltà carceraria dello Sparti. I capi d’imputazione che gravarono su Sparti erano 21 ma se la cavò con 4 anni e 8 mesi di reclusione, durante la quale beneficiò di molti permessi premio e benefici come concessione del lavoro esterno e semilibertà, nonostante non assumesse una buona condotta carceraria. Successivamente fu colto in flagranza nel compimento di reati ma senza subire conseguenze giudiziali. Morì dopo 23 anni dalla diagnosi. Il 23 novembre 1995, le sue dichiarazioni furono uno degli assi portanti che condussero alla condanna di Valerio Fioravanti all’ergastolo con l’accusa di essere uno degli esecutori materiali della strage, insieme a Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Tra le prove della loro presenza alla Stazione di Bologna il 2 agosto 1980 nell’ora della Strage la testimonianza del pluricondannato Massimo Sparti. Il 12 febbraio 1992 le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione dichiararono nullo il processo d’appello del 18 luglio 1990 che assolse dall’accusa di strage Massimiliano Fachini, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Sergio Picciafuoco, Roberto Rinani e Paolo Signorelli. La sentenza fu definita illogica e priva di fondamento, tanto che in alcune parti i giudici hanno sostenuto tesi inverosimili che nemmeno la difesa aveva sostenuto (sentenza del 16 maggio 1996). 59

Nella sentenza della Corte D’assise del 16 maggio 1994 che condanna Fioravanti, Mambro e Ciavardini riassume le dichirazioni di Sparti in alcuni passaggi: “esattamente due giorni dopo la strage di Bologna, subito dopo pranzo Valerio si presentò a casa mia con la Mambro, riferendosi alla strage mi disse testualmente: “Hai visto che botto!”. aggiunse che a Bologna si era vestito in modo da sembrare un turista tedesco. Mentre la Mambro poteva essere stata notata, per cui aveva bisogno urgentissimo di documenti falsi, le aveva anche fatto tingere i capelli, dovevano andare in Sicilia”. Le dichiarazioni di Sparti, quindi, per la Corte d’Assise del 1994 assunsero attendibilità e validità inoppugnabili anche nelle contraddizioni giudicate, con sacrificio della scienza, prive di fondamento. A tal proposito la sentenza afferma: “È da notare, ancora, che talune variazioni al suo racconto furono apportate dallo Sparti esclusivamente con riferimento a dettagli di contorno, vale a dire a vicende del tutto marginali rispetto ai passaggi sopra evidenziati che, lo si ripete, non subirono mai modificazioni. Tali marginali variazioni hanno riguardato: a) la percezione del cambiamento del colore dei capelli della Mambro. Il 13/5/81 aggiunse anche, appunto per tale timore, che la ragazza, come effettivamente io potetti constatare, si era tinta i capelli”. Il 23/7/81 affermò che: “Valerio mi disse anche che le aveva fatto tingere i capelli, ma io debbo con tutta onestà dichiarare che non avrei fatto caso a ciò se questi non ne avesse parlato il 5/5/82. Il particolare che la Mambro si fosse tinta i capel60

li mi fu dichiarato da Valerio ed io potei constatarlo personalmente in quanto i capelli della Mambro avevano degli strani riflessi rossicci come se al colore naturale fosse stato sovrapposto un colore artificiale;” “il punto se i documenti fossero da consegnare in bianco o meno” (11/4/81); “... patente e carta di identità di cui mi fornì le generalità ma non i numeri” (13/5/81); “I documenti erano in bianco; il nome e le generalità della ragazza sarebbero stati apposti successivamente. Valerio non mi ha detto quali generalità sarebbero state usate” (23/7/81); “non sono certo, a questo punto, se i due documenti erano in bianco ovvero recavano il nome di un falso intestatario”. Mentre assumevano valore probatorio gli arricchimenti che Sparti fa nelle dichiarazioni rendendo più solido l’impianto accusatorio. Come al solito la scienza impiegata all’occorrenza. La sentenza del 16 maggio 1994 annota che: “le dichiarazioni di Massimo Sparti, rese nel corso dell’interrogatorio del giorno 11 aprile 1981 avanti al magistrato del P.M. di Roma, possono essere schematicamente riprodotte nelle seguenti, distinte proposizioni”. Nel confronto con Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, nel maggio 1982 Sparti dichiarava: “Intendo precisare a questo punto che Valerio ha pronunciato la frase “hai visto che botto” in tono esaltato e compiaciuto; questa frase poteva anche avere un significato equivoco, vale a dire il significato di un commento di 61

un fatto accaduto per opera di altri, ma successivamente quando ha aggiunto che era passato da Bologna e che era vestito in modo da sembrare un turista tedesco, ho pensato che potesse essere implicato nell’attentato stesso ed è per questo che ho parlato a Cristiano”. L’emotività nella narrazione che descrive una personalità incline ad esaltare parti del racconto al fine di compiacere l’interlocutore. Sparti dichiarerà successivamente nell’interrogatorio del 5 maggio 1982 che: “Vero è che io sono rimasto assente da Roma per tutto di mese di agosto, ma è anche vero che talvolta ho fatto una scappata a Roma a prendere qualcosa a casa ed è anche vero che conservo l’impressione che quando il Valerio mi disse ‘hai sentito che botto a Bologna’ si riferisse ad un fatto recente... ripeto, ripensandoci, la data effettiva della visita non riesco a ricordarla... non essendo in grado di precisare la data, l’incontro con Fioravanti e la Mambro potrebbe essere avvenuto anche ai primi di settembre, ma non era passato molto dalla strage”. In dibattimento nel processo di primo grado (ud. 30.9.1987) lo Sparti ritorna sulla sua originaria versione anche in ordine alla data dell’incontro con il Fioravanti e, rispondendo alle contestazioni del presidente circa i dubbi manifestati al riguardo nell’interrogatorio del 5 maggio 82, risponde che: “questi dubbi sono venuti da un’altra parte, più che da me. Ci sono state delle persone che hanno insistito per farmi ritrattare dicendo che era meglio se non mi interessavo di queste cose”. 62

Ora, delle ragioni di quella parziale ritrattazione vi è agli atti una spiegazione che poggia su inoppugnabili ed eloquenti basi documentali (raccoglitore 203, p.27 e ss.). Il 21 dicembre 1986 i Carabinieri di Fidenza facevano irruzione in una stanza dell’albergo cittadino “Due spade”, dove avevano preso alloggio Massimo Sparti e Fausto De Vecchi. Nel corso della perquisizione venivano sequestrati numerosi arnesi da scasso che erano posseduti dai due ospiti senza giustificato motivo e per i quali i medesimi individui venivano condannati ad otto mesi di arresto dal Pretore del luogo. In quella circostanza i Carabinieri trovano nelle tasche di Sparti una istanza scritta di suo pugno ed indirizzata al Presidente della IX sezione del Tribunale di Roma e per conoscenza ad altri Uffici Giudiziari della capitale (Procura della Repubblica., Corte d’Assise d’Appello, Tribunale per i Minori e Giudice Tutelare). Il 27.1.86 nell’istanza Sparti manifesta disappunto nei confronti della moglie che, ottenuto l’affidamento dei figli a seguito della loro separazione, li aveva allontanati definitivamente dal padre; nell’istanza si legge “... una separazione estortami con l’assicurazione, pure dello studio De Cataldo allora anche mio difensore, che era solo una finzione per la Magistratura e per la sicurezza dei figli. Ho taciuto sui tentativi di farmi modificare la versione sulla strage di Bologna, sui suggerimenti a tacere su eventuali ricordi di fatti e persone in merito ad alcuni episodi di terrorismo”. Al magistrato della Procura della Repubblica di Bologna che si era recato ad interrogarlo (31 gennaio 1987) dopo avere preso visione del documento sequestrato, lo Sparti forniva, tra i molti altri, i seguenti chiarimenti (pag.2): 63

“Per quanto riguarda le pressioni a modificare la mia versione sulla strage di Bologna, dopo l’intervento iniziale dell’avvocato De Cataldo di cui ho detto mi redarguì con asprezza dicendomi che mi ero cacciato in un ginepraio… fu successivamente mia moglie ad invitarmi più volte a togliermi dai pasticci dicendomi anche che era sufficiente che io dichiarassi che il documento per la Mambro era stato richiesto mesi prima, che io mi confondevo con le date e che nel mese di agosto, anzi il 4 di agosto eravamo a Prato allo Stelvio”. Sparti quindi ritornò ad affermare che: “il fatto del 4 agosto che non era sicuro è perché quel mese io e la mia famiglia siamo andati a Prato allo Stelvio per una vacanza e anche in seno alla famiglia c’era insistenza nel dirmi che non ero sicuro. Non è sicuro il 4, noi stavamo a Prato allo Stelvio, dicevano che mi ero dimenticato e sbagliato. Invece io sono sicurissimo che non mi sbaglio, perché noi il 4 stavamo a Roma e dopo qualche giorno siamo partiti e penso che questo sia accertabile anche dai registri degli alberghi”. A tal proposito la sentenza del 16 maggio 1994 annotò: “Dall’esame di questo episodio emerge, dunque, con chiarezza quali siano state le ragioni dell’unica variazione apportata dallo Sparti al nucleo essenziale del suo racconto circa gli avvenimenti del 4 agosto. Tale variazione, pertanto, non può minimamente assurgere ad argomento idoneo a scalfire il giudizio di assoluta coerenza e linearità del comportamento del dichiarante”.

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Ma rileggendo le dichiarazioni relative alla data di incontro con Fioravanti e Mambro, si evince che Sparti avanza dubbi sulla sua stessa narrazione. La sentenza del 1994 continuava con un capitolo sulla credibilità intrinseca e la coerenza delle dichiarazioni di Sparti affermando che: “rivelano una assoluta coerenza interna, perché i comportamenti descritti e le affermazioni riferite come proprie del Fioravanti seguono un filo logico ineccepibile”. I giudici della Corte d’Assise giudicarono superflui i racconti di Sparti in merito al travestimento da turista tedesco. Ma se un elemento cosi importante venne dichiarato superfluo e trascurabile anche il resto del racconto ne venne incitato a maggior ragione se venne ribadito da un’altra testimone presente la mattina della Strage, la Sig.ra Mirella Cuoghi. Assunse maggior importanza se ci collegava alla finalità dell’incontro con Fioravanti dichiarato da Sparti ovvero la necessità di fornire alla Mambro un documento perché l’unica riconoscibile sul luogo della Strage. Le testimonianze per avere un valore probatorio avevano bisogno di un riscontro che ne determini la veridicità e l’attendibilità. Spesso, infatti, le testimonianze erano fallaci nel loro contenuto narrativo a causa di rimozioni, ricordi falsati, distorsioni percettive. Tutti fenomeni attribuiti alla buona fede del soggetto. I giudici d’appello del 1994 riconobbero come riscontri oggettivi all’incontro tra Sparti e Fioravanti accompagnato dalla Mambro, alla richiesta di documenti, alla data in cui era avvenuto e all’urgenza della richiesta un’altra testimo65

nianza, quella di Fausto De Vecchi, che nella sua natura è di per sé soggetta a quei fenomeni cognitivi summenzionati e di conseguenza necessita di risconti per essere valutata valida ed attendibile. Al riguardo, è di fondamentale importanza il deposto di Fausto De Vecchi. La sentenza definì riscontri nella testimonianza di De Vecchi che era di per sé riscontro alla testimoniaza di Sparti, i seguenti punti: l’epoca della richiesta dei documenti falsi commissionata da Sparti a tal proposito la sentenza scrive: “a) ha collocato la richiesta di documenti pervenutagli dallo Sparti ai primi giorni di agosto. Sollecitato ad una maggiore precisione, ha effettuato una ricostruzione di quei giorni che lo ha portato ad indicare un giorno subito successivo alla domenica, “o il 4 o il 5 agosto”... “il lunedì o il martedì venne lo Sparti”; b) per il numero di documenti. Ha detto che si trattava di ‘due’ documenti falsi; “una carta di identità più una patente” (ibidem); c) per il carattere di urgenza della richiesta. Il commissario Lazzerini riferì di avere informalmente interpellato sulla circostanza il De Vecchi, all’epoca detenuto a Rebibbia e di essersi sentito rispondere che allo Sparti, “che aveva fretta ed era terrorizzato”, i documenti richiesti il mattino furono consegnati la sera o dal pomeriggio al mattino successivo. La difesa, dal canto suo, affermava che Sparti il 4 agosto 1980 non era a Roma. L’assunto sarebbe stato provato da altre deposizione: quella della sig.ra Maria Teresa Venanzi, moglie dello Sparti e della Sig.ra Luciana Torchia, domestica della famiglia. 66

Occorre, pertanto, esaminare le dette deposizioni. La Venanzi fu interrogata per la prima volta il 5 maggio 82 dal G.I. di Bologna e ha dichiarato: “Ricordo che nel 1980, come ogni anno, appena finite le scuole io e i miei due bambini siamo andati a Cura di Vetralla in un’abitazione della mia nonna materna. Mio marito è rimasto a Roma per curare il negozio rimanendo in casa da solo e mi ha raggiunto verso la metà di luglio, mentre alla fine di luglio e cioè alla chiusura del negozio, sono venute a Cura anche mia madre e la Torchia Luciana. Non ricordo se nel corso del luglio mio marito abbia fatto qualche scappata a Roma. Ricordo però che apprendemmo dalla televisione dell’attentato di Bologna e che di lì a uno o più giorni ma comunque pochi, siamo partiti io, mio marito, uno dei bambini e la Luciana Torchia per l’Alto Adige. Non posso escludere che tra la sera in cui abbiamo appreso la notizia di Bologna e il giorno in cui siamo partiti per l’Alto Adige, mio marito abbia fatto una scappata a Roma, ma posso escludere con certezza che possa essersi trattenuto a Roma per più di una giornata. A ben ripensarci posso addirittura escludere che mio marito in detto periodo si sia assentato da Cura di Vetralla per venire a Roma”. Successivamente, la Venanzi fu escussa al dibattimento di primo grado all’udienza del 25 gennaio 1988 e, pur di fronte alle ripetute sollecitazioni rivoltele dal presidente affinché rendesse un nuovo ed autonomo racconto dei fatti, ha dichiarato soltanto: “Sono passati tanti anni, ma credo di avere già fatto una deposizione... Io confermo quello che ho già detto nella mia dichiarazione quando mi hanno interrogato”. 67

La Venanzi fu, infine, sentita nella veste di imputata di reato connesso al dibattimento di secondo grado nell’udienza dell’8 gennaio 1990 dichiarò: “Intendo rispondere. Mio marito è stato con me in villeggiatura, a Cura di Vetralla dal 15 luglio alla fine di agosto 1980 e non siamo mai tornati a Roma. Quando giunse la notizia della strage eravamo a Vetralla. Il 4 agosto a Vetralla ci raggiunse la Luciana che aveva chiuso il negozio. Sono certa che il 4 agosto mio marito era con me a Vetralla. C’erano con noi mio figlio Stefano, la Luciana, mia madre, l’altro figlio ed io. Direttamente da Vetralla, poi, alcuni giorni dopo la strage partimmo per lo Stelvio”. La Torchia fu interrogata la prima volta il 5 maggio 1982 dal G.I. di Bologna: “Ricordo che nel luglio 1980 io e la suocera di Sparti, alla fine del mese, abbiamo chiuso il negozio e abbiamo raggiunto la moglie dello Sparti a Cura di Vetralla; non ricordo se lo Sparti è venuto su con noi o se lo abbiamo trovato a Cura. Ricordo altresì che al principio di agosto, dopo avere appreso dalla televisione dell’attentato di Bologna, siamo partiti lo Sparti, la moglie, io e uno dei bambini per l’Alto Adige per andare a far visita a mio zio Tallarico Francesco che abita a Prato allo Stelvio. Prima di arrivare a tale località abbiamo pernottato in un albergo di Trento, quindi ci siamo trattenuti alcuni giorni ed abbiamo pernottato in un grande albergo di cui ricordo approssimativamente il nome Trace Posting’ che è sito all’inizio della deviazione dalla strada statale per Prato allo Stelvio.

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D.R.: non sono assolutamente in grado di ricordare se durante il mese di agosto, prima e dopo il viaggio in Alto Adige, lo Sparti si sia assentato da Cura di Vetralla. D.R.: Conosco Cristiano Fioravanti perché soleva venire a casa nostra, cioè dello Sparti, e se ben ricordo ho visto per una volta anche il Valerio. D.R.: Non ricordo proprio se al nostro ritorno da Cura di Vetralla sia venuto a casa nostra Cristiano Fioravanti in compagnia di una ragazza”. Al dibattimento di primo grado (udienza del 25 gennaio 1988) la teste ha detto di non avere più alcun ricordo preciso dei fatti e di volere confermare quanto dichiarato in precedenza. Al dibattimento di secondo grado (udienza del giorno 8 gennaio 1990) la teste ha dichiarato: “Dal 1972, se non ricordo male, ho vissuto a casa degli Sparti. Lavoravo sia nel negozio che in casa. Andavo molto d’accordo con la signora; non mi era per niente simpatico il marito perché egli talvolta percuoteva la moglie e ciò mi indisponeva perché mi richiamava alla mente le percosse che mia madre riceveva da mio padre. Ricordo che chiudemmo il negozio il 2 agosto. La signora con i figli e col marito era già in villeggiatura in Vetralla. In quel periodo di luglio il negozio era portato avanti da me e dalla madre della signora. Mi sembra che notizie della strage io le avessi la sera dopo la chiusura del negozio in casa. Sempre di sera ricevetti una telefonata di Cristiano Fioravanti che mi chiedeva se c’era lo Sparti. Io risposi che era in villeggiatura. Mi aggiunse che era uscito dal carcere ed era senza soldi. Va bene, dissi io, vieni pure qui, ti darò i soldi per il taxi. Dopo un paio 69

d’ore Cristiano si presentò a casa e mi annunciò che era passato per la clinica dove era ricoverata la madre ed aveva ricevuto da lei il denaro di cui aveva bisogno. Il 3 agosto io e la madre della signora raggiungemmo in treno il resto della famiglia a Vetralla. La casa di Roma rimase chiusa. Alla stazione trovammo ad attenderci il signor Sparti. Il giorno successivo, cioè lunedì, lo Sparti sicuramente rimase con noi e così anche il giorno 5 e quelli successivi fino a che dopo qualche giorno tutti partimmo per lo Stelvio m macchina, guidata dallo Sparti. Peraltro egli non è tipo che si muove quando è in vacanza... La sentenza afferma che le testimonianze delle due donne non erano attendibili né valide perché basate su un “ricordo impreciso dei movimenti dello Sparti nei primi giorni di agosto”. La sentenza continua a dare elementi che rendono instabile le testimonianze della domestica: “La Torchia, poi – sempre solidale con la Venanzi e dichiaratamente ostile al marito –, ha voluto attribuire il diverso atteggiamento tenuto in istruttoria e nel dibattimento di primo grado al “disagio e alla paura” che le incuteva lo Sparti, ma ha dovuto ammettere che coniugi Sparti erano già separati all’epoca del giudizio di primo grado, dimodoché, essendo già venute meno le possibili cause di percosse od altro per la Venanzi, erano m realtà del tutto insussistenti le addotte ragioni della sua assunta reticenza…E di tutta evidenza, pertanto, che le ultime dichiarazioni della Venanzi e della Torchia sono totalmente prive 70

di qualsiasi attendibilità. Ma non basta, perché tali dichiarazioni hanno, altresì, incontrato specifiche smentite”. La sentenza del 16 maggio 1996 condannò all’ergastolo per il delitto di strage: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco e fu assolto Massimiliano Fachini. La sentenza commenta che per la Cassazione, tra gli indizi a carico di Fioravanti e Mambro, ricomprendono la vicenda, Sparti. Le dichiarazioni di Sparti rappresentarono quindi un caposaldo nell’incriminazione dei tre neofascisti. Cosa dichiarò esattamente Sparti? Egli riferì che: “esattamente due giorni dopo la strage di Bologna, subito dopo pranzo Valerio si presentò a casa mia con la Mambro riferendosi alla strage mi disse testualmente: “Hai visto che botto!”. Aggiunse che a Bologna si era vestito in modo da sembrare un turista tedesco mentre la Mambro poteva essere stata notata, per cui aveva bisogno urgentissimo di documenti falsi e le aveva anche fatto tingere i capelli, dovevano andare in Sicilia (sentenza d’appello del 16 maggio 1994). Il 23 luglio 1983, Sparti durante un interrogatorio, dichiarò che Fioravanti gli chiese dei documenti falsi. Come lui riferisce: “Da ciò ho desunto che i due dovevano essere stati a Bologna”. Mambro e Fioranti dichiareranno di essere solo passati per Bologna il 3 agosto. Sparti infierì che Fioravanti e Mambro erano stati il 2 agosto aggiungendo che: “avessero bisogno di quei documenti perché per Mam71

bro per timore che fosse riconosciuta. Anzi Valerio mi ha detto di essere stato a Bologna il giorno 2 agosto 1980 con la Mambro ed a questo proposito si lasciò andare con questa espressione: – hai visto che botto? – e alla domanda piena di costernazione per il sospetto che si andava affacciando alla mia mente, questi ha avuto un atteggiamento misto di vanteria e di spavalderia, tanto da farmi seriamente riflettere sulla sua responsabilità dell’attentato”. Fioravanti si sarebbe, quindi, recato da Sparti per recuperare un documento falso per la Mambro che contrariamente a lui non si era camuffata da turista tedesco o come tese a ribadire: «vestito di cuoio ed il cappello con la piuma» per non essere notato. In quell’occasione Fioravanti avrebbe fatto una battuta sull’esplosione («Hai visto che botto?»). Il motivo per cui Fioravanti fece visita a Sparti, secondo le sue dichiarazioni, era per recuperare un documento falso per Mambro. La Mambro, infatti, temeva, di essere riconosciuta perché l’unica a non essersi travestita per compiere la strage. Fioravanti, invece, aveva provveduto a camuffarsi da turista tedesco. Sparti dichiarò di essersi affrettato a procurare un documento rivolgendosi ad un falsario di nome Mario Ginesi che, però, in sede processuale nega. Sparti dichiarerà di essersi confuso, il falsario era tale Fausto De Vecchi, un suo amico di Roma. Fausto De Vecchi, arrestato con Massimo Sparti, affermerà la versione del testimone, ma poi smentirà e cadrà in contraddizione. In realtà Fioravanti non aveva bisogno di Sparti. Delinquente comune di cui non si fidava, per contraffare un documento: altri “camerata” fidatissimi come Gilberto Ca72

vallini, Mauro Addis e Andrea Vian di Treviso avevano larga disponibilità di documenti contraffatti. Quel documento comunque Sparti riuscirà a consegnarlo a Fioravanti la mattina del 5 agosto alle 10, come dichiarerà. Nel frattempo Fioravanti e Mambro avevano compiuto una rapina a Roma per la quale erano stati stati condannati: appare alquanto strana un’operazione cosi azzardata in un momento di estrema tensione dopo tre giorni dalla strage. Sparti dichiarò che la sera del 5 la coppia era andata a dormire all’Hotel Cicerone. La Mambro s’infratta, citato testualmente, come è anche riportato nel libro di Andrea Colombo. Secondo Sparti, infatti, mentre Fioravanti si registra regolarmente con il suo documento, la Mambro non utilizza il documento falso appena ricevuto e fatto con urgenza. Infatti lì risulterà registrata la carta d’identità di Fioravanti mentre quella della Mambro, no. Risulteranno, invece, quelli di donne successivamente identificate. Inoltre Sparti pur non conoscendo la Mambro, aveva affermato che si era tinta i capelli. Dopo un’indecisione iniziale aveva dichiarato di aver osservato la ricrescita dei capelli e aver pensato per logica. La polizia scientifica aveva analizzato una ciocca di capelli dalla Mambro dopo l’arresto, ma non aveva trovato tracce di tintura. Per logica sarebbe stato più opportuno tingersi i capelli prima della Strage per non essere riconosciuta vista che era già nota alle forze dell’ordine. Durante il processo a Mambro e Fioravanti furono ascoltati molti sopravvissuti alla strage ma nessuno aveva ricordato di persone vestiti da tirolesi. A nulla era servita la smentita del figlio di Sparti, Stefano, che aveva dichiarato che il padre il 4 agosto del 1980 non avrebbe potuto incon73

trare Fioravanti a Roma perché si trovava in ferie con la tutta la famiglia a Cura di Vetralla. Stefano Sparti fu ritenuto inattendibile come anche le dichiarazioni della mamma, della nonna e della tata dell’epoca. Nella sentenza di colpevolezza dei due NAR si riconoscerà comunque l’affidabilità di Massimo Sparti, e la veridicità delle sue accuse. La testimonianza di Massimo Sparti disattende tutti gli elementi che la rendono valida e attendibile sia da un punto di vista scientifico sia da un punto di vista giuridico. L’aspetto giuridico per quanto attende alla testimonianza di Massimo Sparti si sviluppa in dati di fatto che emergono da sentenze passate e da un’interpretazione logica della gestalt che ne emerge. A tal proposito appare importante la sentenza delle sezioni unite dalla Corte di Cassazione del 21.10.1992 (processo a carico di Adriano Sofri ed altri) “Ai fini di prova per una corretta valutazione della chiamata in correità a mente l’art 192 comma 3, il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità delle chiamate (confidente e accusatore) in relazione, tra l’altro, della sua personalità, al suo passato, alle sue condizioni socio-economiche, e familiari, ai rapporti con i chiamati in correità e alla genesi remota e prossima della sua risoluzione a confessare e all’accusa dei suoi coautori e complici; in secondo luogo deve verificare l’intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante alla luce dei criteri quali, tra gli altri, quella della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i c.d riscontri esterni. L’esame del giudice compiuto seguendo l’indi74

cato ordine logico, perché non si può procedere a valutazione unitaria della chiamata in correità e degli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa”. Si noti che la Corte di Cassazione nella sentenza su citata delinea gli aspetti che devono essere valutati per dare credibilità alla chiamata in correità. In particolare divide e pone la questione su due piani: l’attendibilità della narrazione e l’attendibilità del narrante. L’attendibilità deve essere, inoltre, giudicata valida ovvero tale da rispettare la coerenza con i riscontri oggetti e compatibile con gli aspetti della realtà. La logica descritta nella sentenza della Corte di Cassazione del 21.10.1992 non sembri sia rispettata nella valutazione dell’attendibilità della testimonianza di Massimo Sparti. A conferma di ciò è il passato del Sig. Sparti e i riscontri storici riportati nelle sentenze dei processi che lo riguardano. Prima ad essere sacrificata è la coerenza storicagiuridica ad esempio: Massimo Sparti e Fausto De Vecchi testimoniano di essere stati complici nel fornire a Fioravanti i documenti falsi per la Mambro ma non furono mai processati per il reato da loro stessi ammesso. Sparti non ha mai conosciuto il Sig. Luigi Ciavardini (verbale 4.1.1990 p.m tribunale dei minori di Bologna). Valerio Fioravanti non gli fece nessun accenno ai ragazzini usati nella Strage di Bologna. Inoltre Sparti è un teste de relato in quanto riferisce di presunte affermazione di Valerio Fioravanti, che ha negato di avergliele fatte. Se75

condo la Cassazione del 21.10.1992 viene disatteso la caratteristica della duplicità della valutazione. In primo luogo bisogna stabilire se Sparti dice la verità e poi stabilire se Fioravanti dice la verità a Sparti. Infatti secondo il racconto di Sparti, Fioravanti lo incontrò per la richiesta dei documenti falsi alla Mambro. Durante l’incontro Fioravanti riferisce a Sparti con talmente affermazioni generiche “eravamo a Bologna” da far ragionevolmente ipotizzare ad un errore nell’elaborazione del pensiero. Sparti avrebbe potuto equivocare il transito, realmente accaduto, di Fioravanti e Mambro alla stazione di Bologna il 3 agosto con la loro presenza a Bologna anche il giorno prima, quello della strage. Tale errore è giustificato dalle leggi della logica dell’inferenza (dal latino inferre, letteralmente portare dentro). L’inferenza è parte del ragionamento logico mediante il quale si produce conoscenza producendo una conclusione a partire da una serie di premesse. La logica e la verità si pongono su due piani differenti: potremmo trovarci in presenza di inferenze valide con premesse false che producono una conclusione vera oppure potremmo avere premesse vere che producono una conclusione falsa. Rileggendo le dichiarazioni di Sparti le conclusioni fallate dalle sue inferenze indeboliscono la validità del ragionamento: “Intendo precisare a questo punto che Valerio ha pronunciato la frase ‘hai visto che botto’ in tono esaltato e compiaciuto; questa frase poteva anche avere un significato equivoco, vale a dire il significato di un commento di un fatto accaduto per opera di altri, ma successivamente quando ha aggiunto che era passato da Bologna e che era 76

vestito in modo da sembrare un turista tedesco, ho pensato che potesse essere implicato nell’attentato stesso ed è per questo che ho parlato a Cristiano”. Con le stesse premesse – Fioravanti a Bologna, vestito da tedesco le conclusioni sarebbero state perché aveva bisogno di un travestimento perché latitante. Vestirsi da tedesco, ammesso che si riferisca ad un abbigliamento fuori dal contesto della moda italiana anni 80, sarebbe risultato troppo evidente e facilmente identificabile a seguito di un evento cosi eclatante come quello della strage alla Stazione di Bologna. In realtà, ammesso che fosse vero che Fioravanti si sarebbe vestito da turista tedesco sarebbe potuto essere un travestimento in un contesto di quotidianità in una città come Bologna. Inoltre è Sparti stesso che dichiara che ha tratto da sé la conclusione: “Da ciò ho desunto che i due dovevano essere stati a Bologna” (sentenza d’appello del 16 maggio 1994). Al di là della qualità della dichiarazione dello Sparti, le sue affermazioni furono in parte confermate dal racconto di una dei feriti della strage: Mirella Cuochi che già era stata sentita a sommarie informazioni in alcune dichiarazioni del 1983. In particolare, le testimonianze erano coincidenti su un punto particolare. La Cuoghi disse di aver visto fuori della Stazione di Bologna una ragazza vestita da tedesco. Come vedremo questa dichiarazione non è così certa come si vorrebbe far intendere. Nel 2019 nell’ambito del processo a Gilberto Cavallini membro dei NAR, Mirella Cuoghi, infatti, fu ascoltata in processo e le sue dichiarazioni erano divergenti da quelle di Sparti in quanto affermava che: 77

“In particolare ho notato una signora, una donna perché si sollevava mentre io arrivavo e aveva un abbigliamento molto caldo per i mei gusti, cioè con scarponi, calzoni, calzettoni molto grossi e tutto il suo abbigliamento mi dava da pensare, dato che sembrava fosse assonnata e ferma sotto al sole, una situazione assurda e per quello che dissi a mia figlia e guardando anche altri vestiti in modo molto pesante, dire pesante è poco, non sono neanche tedeschi… è una forma dialettale”. Mentre Sparti aveva dichiarato che l’unica ad aver bisogno di documenti falsi era Francesca Mambro perché non aveva provveduto a travestirsi ma solo Fioravanti che nell’ultima dichiarazione della Sig.ra Cuochi davanti al giudice Leoni non verrà nemmeno menzionato.

Un ricordo tragico, le testimonianze di Mirella Cuoghi Mirella Cuoghi il 18 novembre 1983 davanti ai magistrati Luzza, Zincani, Castaldo e Dardani riconosce, non troppa convinta, Francesca Mambro, terrorista dei Nuclei Armati Rivoluzionari, per averla vista, con indosso un maglione da tirolese, nel piazzale della stazione alcuni minuti prima dell’esplosione. In realtà le dichiarazioni rese agli inquirenti, paiono in un primo momento, frutto più della suggestione che di una reale percezione. Mirella Cuoghi però una cosa la conferma: davanti alla stazione di Bologna c’era una ragazza che vestiva come fosse un tedesco. Mirella Cuoghi non venne comunque chiamata a testimoniare nei processi fino al 2018. 78

Infatti nel 2007 un ricordo di Mirella Cuoghi affiora alla sua memoria dopo 27 anni dalla strage, 24 anni circa dopo aver reso sommarie informazioni nella prima testimonianza del 1983. Va ribadito che fino ad allora, Mirella Cuoghi non era mai stata chiamata a testimoniare nei processi a Mambro e Fioravanti. Il ricordo pare sia stato evocato grazie all’intervista fatta da un Giornalista, Riccardo Bocca e costituisce un vero e proprio scoop. Bocca racconta, nel suo libro “Tutta un’altra strage” di aver intervistato la Sig.ra Cuoghi in presenza del Presidente dell’Associazione “Vittime della Strage di Bologna”, Paolo Bolognesi. Il ricordo sarebbe arrivato proprio in quella circostanza: Una ragazza vestita da tedesco. Questa espressione che assume vari significati però costituirà la conferma alle dichiarazioni di Sparti. La Mambro era a Bologna il 2 agosto del 1980. Il 14 novembre 2018, infatti, davanti alla Corte d’Assise di Bologna, nell’ambito del processo che vede imputato l’ex NAR Gilberto Cavallini per concorso alla Strage, la Signora Mirella Cuoghi dirà che tale circostanza le sarebbe tornata alla memoria solo in un secondo momento, quando, frequentando l’Associazione familiari delle vittime, sentì parlare del fatto che, forse, gli attentatori erano vestiti da tedeschi. Il ricordo della Cuoghi di quella mattina prosegue davanti al Presidente Leoni e testimonia che il giorno 2 agosto era partita da Modena con la figlia Mara di 17 anni ed erano giunte a Bologna alle ore 9.30. Le due donne si erano avviate verso il lato della piazzola antistante la stazione dove, da lì a poco, sarebbe dovuto partire il pullman che l’avrebbe portate verso la Grecia. La 79

signora, in primo luogo, parla della tremenda afa di quel giorno: situazione che l’aveva costretta a trovare un riparo all’ombra. La Sig.ra Cuoghi, con la figlia, si era spostata prima verso l’aiuola della piazzola dove si era accomodata su una panchina. La figlia era con lei. Le due donne, prosegue la testimone, si erano spostate poi verso l’estremità della piazzola, dove all’epoca si trovava l’Hotel Jolly. La piazza era molto affollata. La Signora Cuoghi prosegue il suo ricordo affermando testualmente che: “guardavo, guadavamo il passeggio, che poi non era un passeggio ma un correre di persone, gente che andava, gente che veniva… c’era un via vai di gente, eravamo immersi nella folla. Sopra all’erba c’erano sdraiate delle persone e chi era in piedi. In particolare ho notato una signora, una donna perché si sollevava mentre io arrivavo e aveva un abbigliamento molto caldo per i mei gusti, cioè con scarponi, calzoni, calzettoni molto grossi e tutto il suo abbigliamento mi dava da pensare, dato che sembrava fosse assonnata e ferma sotto al sole, una situazione assurda e per quello che dissi a mia figlia e guardando anche altri vestiti in modo molto pesante, dire pesante è poco, non sono neanche tedeschi… è una forma dialettale. Mia figlia ha guardato, ma era un’adolescente e se ne fregava poco della mia espressione. Questa è l’unica cosa grossa che ricordo di quel giorno. Poi feci una riflessione che può nemmeno essere giusta: che cavolo ci facevano queste persone sotto un sole che a me sembrava troppo caldo… L’unica persona che ho visto in volto è questa signora, sembrava che avesse dormito o era assonnata o accaldata, gli altri erano comunque persone che si muo80

vevano, seduti e in piedi. Io non mi sono messa a sedere con loro, quindi non posso sapere cosa si sono detti o fatto… Dopo di che sapendo che arrivava questo autobus, che ci avrebbe portato in Grecia, che avevamo scelto per spendere poco… Quindi sapevo che dovevo ritornare sul piazzale e quindi dissi a mia figlia di andare. Dopo di che io sono arrivata al piazzale e mi sono messa sotto la pensilina perché era l’unico modo per avere un pochino d’ombra. Mia figlia aveva un bisogno e le dissi di andare in via dell’Indipendenza dove mi ricordavo che c’era una farmacia. Dopo mi sono spostata perché ho visto arrivare l’autobus. L’autobus si era spostato molto perché c’erano i taxi. La gente iniziava a salire sull’autobus e mia figlia non c’era. Mi sono spostata per chiamare mia figlia, di un metro. Dopo ho sentito due mani, uno spostamento che mi ha spinta. Tutto il resto è una cosa stranissima… mi sono trovata tra le braccia di un uomo… dopo di che ricordo una donna che strisciava ma ero io che strisciavo cosi mi dissero in ospedale quando si accorsero che non avevo equilibrio… E ho avuto un flash della stazione vuota e che c’era un piazzale pulito. Questo mi sconvolge perché non so se può succedere una cosa del genere ma io non ho visto questo, non c’era più nessuno e non era possibile, ho i ricordi precedenti che eravamo fitti così”. Bisogna approfondire il resoconto: Mirella Cuoghi ricorda, nella piazza molto affollata, una donna vestita in maniera inappropriata alle condizioni atmosferiche della mattina tanto da farlo notare alla figlia con un’espressione modenese “… e non sono nemmeno tedeschi”. 81

La signora Cuoghi riferiva che anche altri erano vestiti in maniera pesante: “anche altri vestiti in modo molto pesante, dire pesante è poco” Queste riflessioni, la Cuoghi le condivide con la figlia Mara. Madre e figlia raggiungono il lato della piazzola dove sarebbe arrivato da li a poco il loro autobus. Solo dopo l’avvistamento dei “tedeschi” la figlia della signora si allontana per andare in farmacia. Durante l’udienza dell’ultimo processo a Cavallini (2019/2020) l’avvocato della difesa Alessandro Pellegrini chiede riscontri sulle dichiarazioni che la Sig.ra Cuoghi rilasciò il 18 novembre 1983 quando i giudici le mostrarono delle foto di donne al fine di riconoscere Francesca Mambro. A tal proposito la Sig. Cuoghi aggiunge che: “Ho guardato tutte queste donne e l’unica mi sembrava questa, – ma è la Mambro – mi hanno detto. Ho avuto paura, ho pensato che forse l’avevo vista sul giornale. Su otto foto ho detto che era quella. Cercavano di farmi dire che l’avevo riconosciuta, ma io non l’ho riconosciuta, non posso dire che era lei perché non lo so. Rimango della stessa idea, il suo volto mi ha ricordato quella signora, poi magari era solo una signora che si riposava sul prato.” Quindi di Mirella Cuoghi abbiamo tre circostanze in cui il suo ricordo viene verbalizzato, ma con evidenti contraddizioni nella narrazione. La Sig.ra Cuoghi ha sempre affermato, sia nel 1983 davanti agli inquirenti, sia nell’intervista a Riccardo Bocca, 82

di aver notato due persone, un uomo e una donna, vestiti in maniera pensante, tanto da far pensare a due tedeschi. Nella dichiarazione del 14 novembre del 2019, la Cuoghi afferma di aver visto molte persone vestite in maniera “pesante”, tali da attirare la sua attenzione era stata solo una donna perché assonnata. Inoltre nell’ultima dichiarazione la Cuoghi aggiunge che era in compagnia della figlia Mara quando esclama “non mi sembrano nemmeno tedeschi” mentre, in precedenza, aveva dichiarato di aver notato “i tedeschi” dopo che la figlia si era allontanata per andare alla farmacia di via dell’Indipendenza. La presenza della figlia è di evidente importanza per due motivi uno meramente scientifico relativo alla validità della testimonianza della Sig.ra Cuoghi, l’altro giuridico rappresentato dalla testimonianza della figlia a conferma di quanto narrato dalla madre. La testimonianza oculare è caratterizzata da due variabili: l’accuratezza, cioè la corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva e la credibilità, ovvero il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo. La credibilità del testimone idoneo a rendere testimonianza è una caratteristica del testimone stesso fino a prova contraria. La testimonianza relativa al 2 agosto 1980 della sig.ra Cuoghi è credibile ovvero è una testimonianza scevra da qualsiasi consapevolezza ad essere falsificata. In questo caso Mirella Cuoghi è in buona fede. La testimonianza della Cuoghi è invece non accurata: le variazioni nelle tre circostanze in cui la Cuoghi rilascia le sue dichiarazioni. Inoltre. In breve, l’inaccuratezza del ricordo non deve essere provata ma eventualmente confutata. Inoltre la 83

valutazione dell’attendibilità di un testimone si basa sui riscontri oggettivi esterni. L’attendibilità della Sig.ra Cuoghi non è confortata da nessun riscontro oggettivo, ma solo da un‘altra testimonianza quella di Massimo Sparti. Mentre quindi Sparti afferma che l’unica ad aver bisogno del passaporto falso era la Mambro che non era camuffata da turista tedesco, la Cuoghi, nelle dichiarazioni che aveva in particolare riconosciuto la Mambro come vestita da tedesco tanto da apparire accelerata e assonnata. Insomma, la Mambro era vestita o no da tedesco, o questa è solo il frutto di una suggestione? La suggestione potrebbe infatti essere il nodo che smentisce la testimonianza cardine di Sparti.

La testimonianza di Silvana Ancillotti, l’amica di Maria Fresu Chi era Maria Fresu, lo racconta una delle amiche, Silvana Ancillotti, scampata fortunosamente alla morte quel 2 agosto 1980. Silvana, il 2 agosto 1980, era alla Stazione di Bologna e non era sola. Quel giorno se lo ricorda bene, una traccia indelebile, un ricordo che cresce con lei, che non è mai mutato negli anni e non l’ha mai abbandonata. Silvana lo racconta in un’intervista rilasciata all’agenzia Adnkronos e pubblicata il 22/05/2019. Silvana Ancillotti conobbe Maria Fresu: “Tramite Verdiana con la quale ci conoscemmo quando avevamo 16-17 anni”. 84

Silvana e Verdiana abitavano vicino Montespertoli, 6-7 chilometri dal paese. “Con Verdiana ci vedevamo il sabato, la domenica”. Maria aveva 24 anni e una figlia di appena 3 anni, Angela. Come lei afferma: “So che Maria viveva, con lei, a casa dei suoi genitori. Conoscevo il fratello, i genitori, la bambina. Il papà della bimba non l’ho mai conosciuto”. Le tre donne organizzarono una vacanza a Rovereto. Come ricorda: “Lo organizzammo la settimana prima. Ci incontrammo a casa di Maria, prima a Montespertoli. Eravamo, io la mia amica Verdiana, Maria e la bambina, Angela. Il fratello di Maria ci accompagnò alla stazione di Empoli. Siamo partite da lì per Bologna, dove avremmo dovuto poi prendere la coincidenza che ci avrebbe portato a Rovereto”. “… comunque siamo entrate lì (nella stazione) perché s’aspettava la coincidenza. Perché doveva ancora arrivare il treno (…). Andammo tutte insieme a chiedere della coincidenza. A che ora ci sarebbe stato il treno che ci avrebbe portato là, a Rovereto”. Il 6 agosto alle ore 12 la Sig.ra Ancillotti fu ascoltata dal personale della polizia giudiziaria nel Reparto di Medicina dell’Ospedale Maggiore di Bologna e conferma, quanto verbalizzato, nell’intervista: “Siamo anche andate ad acquistare dei panini… Ricordo che siamo andate tutte insieme e che ci dissero che il treno era in ritardo. Poi andammo in sala d’aspetto. Quando esplose la bomba eravamo tutte insieme in sala d’aspet85

to ad attendere l’arrivo del treno… Poi ci siamo messe lì a sedere. Mi pare sulla sinistra (...) Eravamo sedute sulle panche e vedevamo, in lontananza, altre panche. Eravamo di spalle alla porta (che, dal marciapiede del binario 1, fa accedere alla sala d’aspetto, ndr), poi, quando è successo il fatto eravamo tutte lì dentro la sala d’aspetto, insomma. Maria era in piedi di fronte a noi e noi eravamo a sedere (…). Mi sembra si era un po’ in dentro, però non tanto distante dalla porta. Vedevo la fine della sala d’aspetto (…). Eravamo sedute io, la mia amica Verdiana accanto a me e, poi, la bambina. Maria era in piedi, di fronte a noi (…). Ma, poco, circa un metro… ho sentito questo gran boato. E, poi, chiamai Verdiana… Mi sono risvegliata sotto le macerie. Avevo accanto altre persone. Poi vidi la mia amica Verdiana. E la bambina. Chiesi subito soccorso… Verdiana la riconobbi dalla maglietta. Non si muoveva. Poi c’era anche vicino la bambina. Anche lei immobile. Però Maria no. No, lei non la vidi… Verdiana non era tanto distante da me, era di spalle, però la riconobbi dalla maglietta. E poi vidi la bambina di Maria”. Quindi le tre donne e la bambina si trovavano della zona ovest della sala d’aspetto della 2 classe. La Sig.ra Ancillotti sedeva accanto alla Sig.ra Verdiana Bivona che a sua volta aveva seduta, alla sua destra, Angela. Le due donne sedute e la bambina davano le spalle al tavolo dove era collocata la valigia con l’ordigno. Maria Fresu era in piedi di fronte a loro, ragionevolmente, più distante rispetto alle amiche e alla figlia. Alle 10.25 l’esplosione. La Sig.ra Ancillotti verrà soccorsa e portata all’ospedale. La sig.ra Ancillotti e i corpi senza vita della piccola Angela e 86

della Sig.ra Bivona furono portati all’Ospedale Maggiore come conferma il Prof. Pappalardo nel verbale del 18 agosto 1980, le altre vittime furono trasportate all’Ospedale Maggiore, Ospedale S. Orsola, Ospedale Malpighi e l’obitorio dell’Istituto di Medicina Legale. Della Sig.ra Maria Fresu non si ebbero notizie. I parenti di Maria Fresu effettuarono svariati tentativi di ricerca nei vari istituti e ospedali di Bologna senza risultato. Intanto i giornali pubblicano la foto della Sig.ra Maria Fresu. La Sig.ra Ancillotti verrà ascoltata, all’Ospedale Maggiore dove era ricoverta, dagli ufficiali della PG, il cui nome in calce sul verbale, solo uno contrariamente a quanto dichiarato nell’incipit del documento, è illeggibile ma è evidente il ruolo di Commissario di P.S. La Sig.ra Ancillotti dichiara, a tal proposito, in un’intervista all’agenzia Adnkronos del 22/05/2019 “Forse saranno venuti, non me lo ricordo più”. Una cosa era certa. Maria Fresu era scomparsa. Il 3 agosto alle ore 8,15 il PM Luigi Persico autorizzò “il trasporto, come richiesto all’I.M.L. (Istituto di Medicina Legale) a mezzo necrofori di un resto umano consistente in una testa umana appartenete a cadavere di sesso femminile” presso l’obitorio dell’Istituto di Medicina Legale di Bologna proveniente dall’ospedale Maggiore, dove era ricoverata la Sig.ra Silvana Ancillotti. Il Prof. Giuseppe Pappa87

lardo anatomopatologo dell’Istituto di Medicina Legale di Bologna viene incaricato dalla Magistratura per l’identificazione dei corpi della strage. La Dott.ssa Gabriella Negrini, assistente del Prof. Pappalardo, fu incaricata nell’opera di ricognizione e descrizione dei cadaveri trasportati all’Istituto di Medina Legale dalla Stazione Ferroviaria di Bologna. Il Prof. Pappalardo annota nella sua relazione che fu grazie alla segnalazione della sua assistenza la dott.ssa Gabriella Negrini che venne a conoscenza, per la prima volta, dell’esistenza del volto umano solo il 15 agosto (nella relazione del Prof. Pappalardo la data per ben due volte viene cancellata e corretta o si ipotizza un difetto alla macchina da scrivere. La data non è comprensibile se si tratta di un 15 o un 10). In realtà, annota Pappalardo nella sua relazione: “per la verità quel lembo di volto umano, era stato portato la sera del 2 agosto all’ospedale Maggiore, e di qui il giorno 3, era stato fatto trasportare all’obitorio dietro disposizione del responsabile del posto di polizia dell’Ospedale Maggiore medesimo, Brigadiere Pisano”. Giunto all’Istituto di Medina Legale il lembo di volto fu repertato e denominato con una nota scritta a mano dal Dott. Cicognani “57 testa di donna”. La nota fu cancellata con una biro e sostituita con la dicitura “57 pezzi anatomici”. Pappalardo ipotizza la cancellatura della dicitura perché attribuito in prima istanza ad un corpo con un volto sfacelato. Infatti, fu attribuito, erroneamente, a una delle due don88

ne con il capo sfacelato dopo identificate, Sala Vincenzina di 50 anni e Frigerio Errica di 57 anni. L’incarico di identificazione del volto umano era, quindi, circostanziale alla notizia che una giovane madre sarda, tale Maria Fresu, di anni 24 circa, era andata dispersa nella tragedia. Gli elementi per l’identificazione utilizzati dal Prof. Pappalardo si basarono sull’osservazione e comparazione morfoscopica dei tratti somatici del lembo di volto e la foto della carta d’identità n 38761582 della sig.ra Fresu consegnata al Prof. Pappalardo il 18/08/1980 dal Brigadiere Ceccarelli. La carta d’identità fu rinvenuta alla Stazione Ferroviara e portata alla Polizia Ferroviaria che la trasmise al nucleo della P.G. Altri elementi ritenuti validi dal Prof. Pappalardo, per l’identificazione, furono i riferimenti descrittivi del padre e della sorella di Maria Fresu che concordavano con quelli del lembo del volto: “colore castano dell’iride residuo sinistro, sottigliezza delle labbra e delle linee del mento e della piega trasversale tra questi ed il labbro inferiore, sopracciglia sottili e depilate soprattutto all’estremo esterno, colore castano dei capelli residui, compatibilità della forma del naso, a livello dei denti inferiori residui posizione un po’ obliqua convergente degli incisivi centrali in modo che tra loro rimane un piccolo spazio triangolare con l’apice rivolto verso l’alto” (perizia medico legale Prof. Papparaldo). Altri elementi corrispondenti tra Maria Fresu e il lembo di volto erano la giovane età e la piccola statura. A tal proposito il Prof. Pappalardo definì la donna della Scalpo: “… di giovane età e di piccola statura… per il colore dei capelli (nessun grigio o bianco). L’aspetto liscio 89

della cute ben manifesto la ove meglio conservata come al mento, lo stato della dentatura rimasta i cui elementi anteriori mostravano smalto integro, liscio, bianco senza fenomeni di molatura del margine libero (qual suole realizzarsi per l’usura della funzione del tempo); per la modesta taglia: le piccole dimensioni del volto nel suo insieme e dalle labbra sottili”. Il Prof. Pappalardo eseguì le operazioni di identificazioni attraverso l’unico metodo scientifico a disposizione nel 1980 ovvero la comparazione del gruppi sanguigni. Le analisi comparative dei gruppi sanguigni dei parenti della Sig.ra Fresu con quello del lembo di volto risultarono negative. Purtroppo risultò anche negativa la comparazione tra il gruppo sanguigno di Maria Fresu riportato nella cartella clinica del suo ricovero all’Ospedale Generale Provinciale S Giuseppe di Empoli per il parto della figlia Angela (il 9/9/1977 gruppo sanguigno 0 RH +) e il lembo di volto. Il Prof. Pappalardo concluse, nonostante le discordanze scientifiche, che quel volto era della Sig.ra Maria Fresu e giustificò la non compatibilità tra i gruppi sanguigni con il fenomeno della secrezione paradossa, una teoria ad oggi ritenuta inattendibile. Quel volto fu, comunque, identificato come appartenente a Maria Fresu.

La teoria della “secrezione paradossa” Ho chiesto al Prof. Carlo De Rosa, titolare della Cattedra di Medicina Legale dell’Università della Tuscia, di 90

chiarire la teoria della secrezione paradossa utilizzata dal Prof. Pappalardo e la sua validità scientifica. “Come è noto, all’esito degli accertamenti medico-legali svolti nell’agosto del 1980 sulle salme delle vittime, e solo a distanza di qualche giorno dalla strage, venne esaminato uno ‘scalpo’, in realtà una porzione di volto scuoiata ossia ‘scollata’ dalle ossa del massiccio facciale con annessa porzione di cuoio capelluto, che dal medico legale incaricato di svolgere la perizia, Prof. Pappalardo, venne attribuito a Maria Fresu così come una mano. Oltre a valutazioni di ordine biometrico, il Perito svolse accertamenti di laboratorio volti alla identificazione del gruppo sanguigno. Grazie ad una cartella clinica fornita dai familiari, si sapeva che la giovane donna era di gruppo 0 (zero). Gli esami di laboratorio, però, indicarono che quei tessuti appartenevano ad un soggetto di Gruppo sanguigno A ma, ciò nonostante, il Perito li attribuì comunque a Maria Fresu. Il Prof. Pappalardo, docente di Medicina Legale nell’Università di Bologna, spiegò tale “incongruenza” con la teoria della “secrezione paradossa”.

Stralcio della perizia originale del Prof. Pappalardo sullo “scalpo”

Secondo questa teoria, i liquidi biologici del nostro organismo (e quindi i tessuti) possono presentare in talune occasioni caratteristiche diverse dal gruppo sanguigno di appartenenza. In realtà, il gruppo sanguigno è una delle caratteristi91

che peculiari di un individuo, una sorta di ‘carta di identità’ e deriva dalla presenza o dall’assenza di ‘antigeni’ sulla superficie dei globuli rossi. Gli antigeni, sono piccole formazioni (proteine, carboidrati, glicoproteine o glicolipidi) che consentono agli anticorpi (l’esercito che combatte organismi o sostanze estranee) di riconoscere quella determinata cellula e sono presenti in tutte le cellule, a parte quelle nervose. Esistono vari criteri per classificare i gruppi sanguigni ma quello più usato è il Sistema AB0 (ABzero) messo a punto nel 1901 da Karl Landsteineri i cui studi permisero poi di identificare anche altri fattori differenziativi dei globuli rossi come il fattore Rhesus (Rh). La teoria della “secrezione paradossa” ebbe un certo successo dalla fine degli anni ’501 e per circa un ventennio2 anche se, in effetti, ben presto il valore della teoria fu messo seriamente in discussione dalla Comunità scientifica. I risultati contrastanti ottenuti dagli studiosi, con ogni probabilità, erano dati da errori nella processazione dei campioni da analizzare sì da fornire risultati che sembravano poter accreditare la possibilità di ritrovare antigeni diversi in un soggetto con un determinato gruppo sanguigno. Si deve pensare che negli anni in cui la teoria fu in voga, le metodiche di esame, viste con gli occhi di oggi, era1 Giuseppe Morganti, La secrezione paradossa quale causa di errore nelle determinazioni di gruppo sanguigno AB0 effettuate su secreti e su sangue disseccato. Tipografia viscontea, 1959 2 A. Fiori, D. De Mercurio, G. Panari, P.R. Burdi, The ABO(H) paradoxical and aberrant secretion in human saliva. Forensic Science International, Volume 17, Issue 1, January–February 1981, Pages 13-17.

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no sostanzialmente rudimentali ed empiriche. Nella fattispecie degli accertamenti svolti sui presunti resti di Maria Fresu, essi furono effettuati su tessuti (per altro a distanza di circa 15 giorni dalla tragedia) e non esattamente su liquidi biologici, la qual cosa rendeva ulteriormente difficoltoso e impreciso l’accertamento. Oggi sarebbe del tutto indifferente dimostrare o confutare la teoria della ‘secrezione paradossa’ in quanto le metodiche in uso per l’identificazione personale si giovano dell’esame del DNA, procedura che fornisce risultati praticamente certi. Più recenti accertamenti (sul DNA), comunque, hanno dimostrato che quello ‘scalpo’ non apparteneva a Maria Fresu ma ad una donna al momento sconosciuta e addirittura che la mano che pure era stata composta nella stessa piccola bara apparteneva ad un’altra donna, anch’essa sconosciuta. Rimangono, allora, due problematiche: da un lato la necessità di attribuire quello “scalpo” a una delle vittime della strage; dall’altro quella di rintracciare il corpo della povera Maria Fresu. In ordine al primo punto, è conosciuta la circostanza secondo la quale altri corpi di donna presentavano lesioni o scuoiamenti più o meno parziali del cuoio capelluto o del volto. Dalle perizie effettuate all’epoca risultano le seguenti evidenze: Casadei Flavia, classe 1962 ‘deformazione con schiacciamento del viso’; Dall’Olio Franca, classe 1960 ‘schiacciamento del capo’; 93

RohrsMargret, classe 1941 ‘capo deformato’; Ebner Berta, classe 1930 ‘schiacciamento del capo con esposizione del cervello’; Sala Vincenziana, classe 1930 ‘sfacelo traumatico del viso e del capo con perdita dei tratti somatici, larga esposizione della scatola cranica’. Frigerio Enrica, classe 1923 ‘sfacelo traumatico del capo con esposizione della cavita? cranica e distruzione massiccio facciale’; Olla Livia, classe 1913 ‘scalpo del cuoio capelluto con integrita? cranica’; La esumazione delle salme di queste sette donne ed i contestuali esami del DNA potrebbero consentire di identificare con certezza il corpo cui apparteneva lo ‘scalpo’ (oppure introdurre la possibilità che lo ‘scalpo’ non appartenga ad alcuna delle vittime conosciute). Determinate evidenze somatiche e biometriche, comunque, porterebbero a ritenere che il reperto in questione appartenesse ad una donna di giovane età. Tra le donne di cui si è appena detto, le maggiori possibilità riguarderebbero le prime tre che, all’epoca della strage avevano rispettivamente 19, 20 e 39 anni, ritenendosi più improbabile l’appartenenza alle rimanenti quattro. Per ciò che attiene la ricerca e la identificazione del corpo di Maria Fresu, si deve affermare che le possibilità sono sostanzialmente nulle, dovendosi purtroppo sostenere l’ipotesi dell’errore materiale nella composizione dei corpi nelle diverse bare. In linea meramente teorica sarebbe necessario procedere alla esumazione di tutte le salme (laddove presenti) ma, in considerazione del fatto che non può escludersi la coesistenza di porzioni corporee diverse 94

all’interno delle bare, i prelievi andrebbero effettuati su una molteplicità di parti scheletriche per ogni salma, pur persistendo comunque una quota di dubbio. Un’ultima considerazione merita la questione stessa inerente lo scuoiamento della porzione di volto e cuoio capelluto di una delle vittime. Sinora tutte le ipotesi investigative, anche di natura medico-legale ed esplosivistico, si sono accentrate sui meccanismi e sugli effetti dello scoppio, sulla distanza delle vittime dall’ordigno, etc. Si deve purtroppo affermare che i rilievi effettuati all’epoca sui corpi ed in particolare la composizione delle salme, presenta dei margini di incertezza dovuti non solo al depezzamento indotto dallo scoppio ma anche dalle modalità di scavo fra le macerie. È noto, infatti, che nelle fasi immediatamente successive alla deflagrazione, anche con l’intento di ricercare sopravvissuti, furono impiegate delle pale meccaniche. Non può dunque escludersi che ulteriori depezzamenti o lesioni dei corpi (anche se lo ‘scalpo’ in questione sarebbe stato ritrovato sui binari) siano state indotte dalle macchine scavatrici. Solo per inciso, infatti, si deve rappresentare che ulteriori indagini tecniche condotte tra il 2018 ed il 2019 hanno dimostrato la presenza di resti umani nelle macerie conservate presso l’Ex 7° Reparto Sezione Magazzini (CERIMANT) di via Prati di Caprara a Bologna. Un’ultima ipotesi, degna di considerazione, è quella per la quale specifiche parti costitutive della struttura del locale deflagrato (es putrelle, porzioni metalliche di infissi, tegole, etc.) abbiano potuto agire, cadendo ovvero proiettate sui corpi, come una sorta di arma da taglio impropria anche con contestuale meccanismo di strappo dei tes95

suti. Ciò potrebbe aver determinato lo scuoiamento per azione meccanica delle predette strutture e non per azione diretta dell’onda di scoppio. L’onda termica liberata dallo scoppio (fireball), peraltro, è in grado di produrre ustioni nel raggio di pochi metri per poi perdere tale capacità termica ma conservando elevati valori pressori. Lo ‘scalpo’ erroneamente attribuito a Maria Fresu, però, non presentava ustioni suggerendo, quindi, che la persona cui apparteneva il reperto dovesse trovarsi ad una certa distanza dall’ordigno, al contrario della Fresu la quale, secondo le testimonianze, si trovava invece nelle immediate vicinanze della bomba.” Quindi il Prof. Pappalardo, davanti alle evidenze somatiche della foto della Sig.ra Fresu e al riconoscimento dei parenti dello scalpo come la Sig.ra Maria Fresu, trovò lecito confermare l’identità del volto dando una risposta, all’epoca valida sul piano scientifico, all’incompatibilità con il gruppo sanguigno con la teoria della secrezione paradossa.

Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi: la risposta della scienza nel caso Fresu In data 9 maggio 2018, nell’ambito del processo di primo grado a Gilberto Cavallini, la della Corte d’Assise di Bologna nomina il perito esplosivista Dott Danilo Coppe e in data 11 Luglio 2018, il Presidente della Corte di Assise del Tribunale di Bologna, Dott. Michele Leoni, conferisce l’incarico al perito Ten.Col. Adolfo Gregori, comandante 96

della Sezione di Chimica – Esplosivi ed Infiammabili del Reparto Carabinieri Investigazioni Scientifiche di Roma. I due periti dovevano rispondere ai quesiti del giudice in merito alla composizione dell’ordigno utilizzato nella strage del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna. A tal proposito, tra le tante operazioni, Coppe e Gregori, valutano interessante, come descrivono nella loro perizia presentata il 10 luglio 2019: “le analisi chimiche contenute nelle bare delle vittime (…). Una in particolare ha destato l’attenzione di chi scrive. Si trattava dei resti (presumibili) di Maria Fresu. (Ricordiamo nell’occasione che l’analisi del DNA non era ancora stata sviluppata)”. I periti esplosivisti ipotizzano che quello scalpo (all’epoca della richiesta dell’esumazione appartenente a Maria Fresu) non poteva che trovarsi vicino alla fonte dell’esplosione e quindi sui capelli vi potevano essere particelle di esplosivo senza ulteriori contaminazioni esterne. Per questo i periti chiesero l’esumazione dei resti con l’ausiliario Medico Legale Prof. Dr. Stefano Buzzi. Il 25 marzo 2019, presso il cimitero del comune di Montespertoli, alla presenza degli avvocati delle parti e dei consulenti di parte, i periti procedettero alle attività di esumazione della bara contenente i resti attribuiti a Maria Fresu. All’apertura della bara i resti presenti all’interno erano adagiati sul cuscino e sull’imbottitura. Da una prima ispezione fu possibile identificare i seguenti reperti: - una massa solidificata di colore bianco alla quale era attaccata una consistente chioma di capelli di colore mar97

rone scuro. Tale reperto, sigillato in una busta di alluminio poliaccoppiato, è stato denominato “scalpo 1”; - una seconda porzione, di dimensioni ridotte rispetto alla prima, anch’essa recante una ciocca di capelli, è stata sigillata in una busta di alluminio poliaccoppiato, denominata “scalpo 2”; - una mano mummificata, completa di dita, sigillata in una busta di alluminio poliaccoppiato, denominata “Mano”; - una porzione di osso con un dente innestato e due frammenti ossei. Dai capelli del reperto denominato “Scalpo 1” appartenente, verosimilmente, a Maria Fresu i periti Coppe e Gregori eseguirono le fasi di repertazioni e analisi di eventuali tracce metalliche provenienti dal sito dell’esplosione. Una volta conclusa l’ultima fase delle analisi dei campioni ottenuti i periti impostarono la composizione della carica esplosiva. 98

La carica esplosiva ottenuta dalla repertazione delle tracce di esplosivo dai capelli dello Scalpo 1 fu comparata con cariche esplosive recuperate da ordigni bellici del secondo conflitto mondiale e analoghi campioni post bellici. I periti conclusero che: “le particelle sferiche di alluminio, trovate sugli stubs prelevati dai capelli di Maria Fresu, è ipotizzabile possano provenire o dal contenitore della carica esplosiva (recipiente metallico di alluminio) oppure dall’alluminio contenuto in alcuni esplosivi militari (ad esempio il Tritonal) o da alluminio in polvere addizionato alla carica”. Inoltre considerando la posizione della persona dello scalpo prossima alla fonte dell’esplosione, Coppe e Gregori sollevarono dubbi circa la sua identificazione con la Sig.ra Maria Fresu, che dalle dichiarazioni dell’amica, Silvana Ancillotti era distante dal tavolo sul quale era posta la valigia con l’ordigno. Su queste osservazioni il giudice nominò la Dott.ssa Elena Pilli, genetista forense, per l’accertamento del profilo genetico dello Scalpo 1. Nella loro relazione Coppe e Gregori rispondono anche al quesito integrativo posto dalla difesa, Avv Bordoni riportando testuali parole: “in merito alla possibilità di una completa dematerializzazione di un corpo per giustificare l’eventuale assenza della Sig.ra Maria Fresu, qualora quello scalpo non risultasse compatibile con il suo DNA (ricordiamo che i periti rispondono prima dei risultati genetico forensi sulla scalpo). Ovverosia se scientificamente, per quella che è l’esperienza del perito, si possa verificare che un corpo umano, anche prossimo al fulcro dell’esplosione, venga completamente dematerializzato”. 99

La risposta dei periti è che: “nella sala d’attesa della Stazione di Bologna NON ci sono state tali condizioni. Anche ipotizzando che una persona fosse adiacente al contenitore dell’esplosivo, con quelle quantità, o anche con il doppio di quelle quantità NON ci sarebbero state tali condizioni”. Quindi viene eliminata totalmente l’ipotesi della disintegrazione di un corpo nelle condizioni della Strage di Bologna, anche di persone vicine all’ordigno. Nell’addendum, invece, Coppe e Gregori annotano che: “Un depezzamento totale di un corpo, con 10-15 chilogrammi di esplosivo, riguarda persone a distanze dall’ordigno entro i 5-7 metri. La variabilità dipende da diversi fattori: ad esempio un muro che, orientando gli effetti in direzione opposta, può concentrare l’onda pressoria e quindi aumentare il danno a distanze maggiori. Oppure l’assenza di ostacoli rispetto ad altri percorsi che l’onda di sovrappressione può compire. Tali ostacoli possono essere altre persone o mobilio”. Si conclude, quindi, anche a seguito dell’accertamento del DNA dello Scalpo, che la Sig.ra Maria Fresu è scomparsa. Ancora nell’addendum Coppe e Gregori affermano che “Un dato è certo. La povera signora Fresu NON era, al momento dell’esplosione, a fianco dell’amica sopravvissuta (Ancillotti Silvana), come invece a suo tempo testimoniò, sicuramente in buona fede. Sarebbero infatti bastati pochi secondi (3-5) di distrazione dell’amica affinché Maria Fresu attraversasse la sala d’aspetto e si portasse dentro i 5-7 metri dall’ordigno.” Infine i periti ipotizzano che: “La mancanza, fra i deceduti censiti, della salma di 100

Maria Fresu è, come già scritto, spiegabile con la ripartizione di parti del suo corpo in altre bare”. L’ipotesi, tutta da verificare, quella per cui Maria Fresu si fosse allontana dalle amiche e dalla figlia, ad una distanza di circa 5 metri massimo 7 dall’ordigno e il suo corpo avrebbe subito un depezzamento a seguito dell’esplosione. Le dichiarazioni della Signora Ancillotti, in merito alla loro posizione e soprattutto a quella della signora Fresu, sono rimaste invariate nel tempo. A tal proposito è interessante riportare uno stralcio della Perizia del Medico Legale Dott. Pappalardi incaricato delle operazioni autoptiche subito dopo la strage. A pagina 06 si legge: “La Sig.ra Fresu si trovava nella sala d’aspetto di seconda classe, con la figlia e le due amiche, sedute lungo la parete laterale di sinistra (rispetto all’entrata, sta anteriormente a destra, dove era disposto l’ordigno esplosivo)”.

Maria Fresu: la risposta della genetica forense A seguito dei dubbi espressi dei periti Coppe e Gregori a proposito dell’identità del reperto Scalpo 1, ritenuto prossimo all’ordigno, attribuito a Maria Fresu, che fu collocata distante dalla fonte dell’esplosione il presidente della Corte Leoni nominò la dottoressa Elena Pilli, capitano dei carabinieri e biologa genetico-forense dell’Università di Firenze, per analizzare i resti inizialmente attribuiti alla vittima della strage Maria Fresu. Al fine di chiarire ogni tipo di esame genetico-forense che è possibile effettuare per chiarire ulteriormente la vi101

cenda legata alla Sig. ra Fresu ci sembra opportuno riportare, in esclusiva, il parere della Dott.ssa Marina Baldi: Sono stata incaricata dalla Dottoressa Immacolata Giuliani, di valutare la relazione genetica relativa al procedimento 19072/2014 RGNR e 1/2018 RG presso la corte di Assise – Tribunale di Bologna, redatta dalla Dottoressa Pilli, che si è occupata di analizzare alcuni reperti biologici sia prelevati dal corpo sepolto con il nome di Maria Fresu, vittima della Strage di Bologna, che rinvenuti tra le macerie della Stazione di Bologna, dopo l’esplosione e di descriverne il contenuto considerando la possibilità di eseguire ulteriori accertamenti. La relazione tecnica, estremamente esaustiva per ciò che riguarda le attività svolte, indica che sui reperti sottoindicati sono stati eseguiti numerosi test. Reperti a disposizione: • Esumazione Maria Fresu: Scalpo 1 n.1 • Scalpo 2 n.2 • Mano n.3 porzione mano dx • Campioni di confronto (fratelli Maria Fresu). I reperti relativi all’esplosione erano fortemente deteriorati come è possibile immaginare dal tempo trascorso e dai fenomeni di putrefazione che si avvicendano naturalmente dopo il decesso. Ciononostante, la Dott. Pilli ha eseguito le analisi secondo le migliori tecnologie oggi a disposizione riuscendo a ottenere importanti risultati. Le conclusioni a cui giunge il perito sono quindi le seguenti: • I reperti scalpo 1 e scalpo 2 appartengono alla stessa persona di sesso femminile che non è Maria Fresu. 102

• Il reperto n. 3 (mano) appartiene ad un ulteriore soggetto femminile che non è Maria Fresu. • I frammenti ossei (denominati reperto n.4), appartengono alla stessa persona di sesso femminile a cui appartengono i reperti n.1 e 2, che non è Maria Fresu. • Due dei tre frammenti ossei recuperati presso le macerie dei Prati di Caprara sono risultati di origine umana, solo dal reperto 5C è stato ma appartenenti ad ulteriori due persone di sesso maschile. ULTERIORI POSSIBILITÀ Recentemente un’altra possibilità si è affacciata nei laboratori di biologia forense e riguarda tutta la serie di importanti progressi nell’utilizzo di marcatori SNPs (“single nucleotide polymorphisms”), che, con ampliconi di poche decine di paia di basi sono utili non solo nella tipizzazione del DNA degradato, ma anche nella caratterizzazione etnica di campioni di origine sconosciuta. L’uso di questi nuovi SNPs in ambito forense, tuttavia, è reso più difficoltoso dal fatto che i “database” nazionali di profili genetici che si utilizzano per la comparazione sono tutti realizzati con marcatori STR e pertanto questa situazione rende al momento di difficile applicazione la possibilità di identificazione di un reo mediante la comparazione del profilo contenuto in una qualsiasi banca dati. È però possibile, invece, considerare la possibilità di utilizzo del profilo SNPs per quanto concerne la caratterizzazione fenotipica di un soggetto che ha contribuito alla produzione della traccia che stiamo esaminando. Infatti, l’analisi di alcuni punti ipervariabili del DNA, specifici per alcuni tratti somatici, può quindi essere di enorme interes103

se investigativo nella ricostruzione di un vero e proprio quadro fenotipico di un individuo (Forensic phenotyping). Ad esempio, si potrebbe teoricamente ipotizzare, come risultato meramente ideale, di ottenere da una traccia infinitesima da cui estraiamo il DNA, informazioni del tipo: “soggetto di sesso femminile, di etnia caucasica, occhi verdi, capelli rame, pelle chiara/media”. La difficoltà risiede nel fatto che al contrario dei caratteri ereditari classici che per la maggior parte sono dovuti a segregazione dal padre e dalla madre di varianti monogeniche secondo le leggi di Mendel, o che sono trasmessi come multifattoriali o poligenici perché dovuti al contributo di più geni che, insieme ad altri fattori ambientali che ne modificano l’espressione, portano al manifestarsi di un certo fenotipo, normale o patologico – e in questa categoria rientra il profilo di DNA forense con STR, la genetica dei tratti somatici è decisamente molto complessa e sempre poligenica. È chiaro a tutti che ad esempio il colore degli occhi o dei capelli hanno molte sfumature che quindi non possono essere ricondotte ad un singolo carattere o ad una categoria ben definita di modalità di trasmissione ereditaria, ma assumono combinazioni che possiamo indicare come pressoché infinite e sui quali vi sono azioni ambientali dovuti alla localizzazione della persona nel corso della vita: ad esempio è necessario poter distinguere una persona di etnia caucasica, orientale o africana da persone che possono aver cambiato il colore della pelle anche solo temporaneamente perché magari fin da piccoli hanno vissuto e lavorato esposti al sole. Ma può capitare che tali variazioni diventino caratteristiche della persona e della genealogia nonostante l’origine etnica sia 104

differente o mista. Con le nuovissime tecniche analitiche che si basano sull’analisi contemporanea di milioni di marcatori genetici, mediante piattaforme chiamate Microarray, siamo in grado mediante studi bioinformatici estremamente complessi, di identificare gruppi di numerosi geni coinvolti in tratti fenotipici complessi: ciò è un enorme passo avanti sia per la diagnosi e terapia di malattie ereditarie e/o congenite che fino a ieri rimanevano sconosciute, sia per l’identificazione di caratteristiche somatiche che costituisce il “fenotipo”, considerato come un insieme di varianti rilevabili “visivamente” in un individuo, di cui alcune rivestono particolare interesse identificativo forense. Tali ricerche hanno degli evidenti limiti di applicazione di tipo etico, rendendone rischioso l’utilizzo in ambito medico perché potrebbero consentire la possibilità di venire a conoscenza di caratteristiche di tipo estetico ad esempio di un feto in corso di gravidanza. Nonostante le problematiche di tipo etico è ormai chiaro che le varianti genetiche relative a caratteristiche fenotipiche siano ad ereditarietà multifattoriale e appartengono alla categoria dei tratti multifattoriali: per molto tempo, ad esempio, il colore degli occhi è stato considerato un carattere mendeliano recessivo semplice, con il castano dominante sull’azzurro, ma si è successivamente compreso che invece il colore degli occhi è sotto il controllo di numerosi geni la cui espressione contribuisce al fenotipo finale. È pertanto possibile oggi con una discreta facilità, esaminare dal punto di vista genetico, alcune caratteristiche fisiognomiche, come la pigmentazione in genere che è cer105

tamente il fenotipo più studiato. La concentrazione e la distribuzione della melanina sono responsabili del colore degli occhi, dei capelli e della pelle (le differenze sono determinate dalla varietà in numero e distribuzione dei melanosomi, organelli che si trovano all’interno della cellula nei quali viene sintetizzata la melanina e che contengono i diversi pigmenti scuri (eumelanina) e la chiari (feomelanina), quest’ultima più rappresentata, ad esempio, nei soggetti con pelle chiara e capelli rossi. Tra i vari geni coinvolti in questo processo multifattoriale, quello che riveste un ruolo importante è il gene che codifica per il recettore della melanocortina 1 (MC1R, localizzato sul cromosoma 16), regolatore della produzione di eumelanina e feomelanina nei melanociti le cui mutazioni sono responsabili di variazioni nel colore della pelle. Alcune mutazioni di MC1R sono associate con una elevata produzione di feomelanina (pelle chiara e capelli rossi): maggiore la quota di feomelanina, maggiore il colore rosso dei capelli e più chiara e più lentigginosa è la pelle; maggiore la quota di eumelanina, più scuri sono i capelli e la cute. Altri geni coinvolti sono ad esempio il gene MATP, localizzato sul cromosoma 5, il gene della tirosinasi TYRP1, localizzato sul cromosoma 9, il gene per l’albinismo oculocutaneo (OCA2) ed il gene HERC2 entrambi localizzati sul cromosoma 15, il gene SLC24A5, localizzato sul cromosoma 18, il gene per la proteina ASIP, localizzato sul cromosoma 20 e molti altri. Oggi si stima che siano almeno 124 i geni coinvolti, con diversi ruoli, nella determinazione del colore dei capelli. Esistono specifiche associazioni tra un particolare assetto genetico e la pelle 106

chiara, in particolare pelle chiara e capelli rossi, tanto che questo dato è stato già impiegato in indagini giudiziarie in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, con un grado di certezza nella possibilità di predire il colore rosso di capelli riportato pari al 96%. Esiste quindi la concreta possibilità di individuare correttamente il colore della pelle, dei capelli e degli occhi, ovviamente con limiti della tecnica. Ma vi è una ulteriore applicazione, molto interessante ed utilissima in una circostanza come quella di cui si sta discutendo e che è quella di poter ipotizzare l’origine etnica dell’individuo cui appartiene il profilo che si sta studiando. In un organismo diploide come il nostro, i cromosomi sono a coppie di omologhi, e pertanto i geni sono in doppia copia. Queste due copie dello stesso gene possono avere forme diverse, dette “forme alleliche” e queste forme alleliche controllano l’espressione dei caratteri codificati dai geni stessi. Per “frequenza allelica” si intende la frequenza relativa di ciascun allele presente su un locus genetico nella popolazione: in genetica delle popolazioni, le frequenze alleliche mostrano la diversità genetica di una popolazione nel mondo. In poche parole, le diverse popolazioni della specie umana sono distinguibili in base alla diversità genetica che intercorre tra ognuna di esse, tant’è che per poter valutare la probabilità di un eventuale match tra un profilo genetico ottenuto a partire da un reperto forense e quello di un qualsiasi individuo, si fa riferimento a veri e propri database nazionali di frequenze alleliche nelle popolazioni. La conoscenza della distribuzione delle frequenze alleliche dei marcatori STR autosomici è quindi 107

di fondamentale importanza nella genetica forense e consente di avere informazioni sulla etnia della persona cui appartiene il profilo. Queste nuove tecnologie sono ormai realtà e sono entrate nelle aule di tribunale in numerosi procedimenti in cui si è ritenuto necessario acquisire informazioni difficilmente reperibili in altro modo. In questo caso i reperti sono fortemente deteriorati, ma la ottima conoscenza del Perito di campioni degradati ha consentito di ottenere profili forensi classici, perfettamente confrontabili con quelli dei parenti della Sig.ra Fresu. Si ritiene pertanto che potrebbe essere valutabile l’ipotesi di proseguire gli accertamenti, pur con tutte le precauzioni dovute alla complessità delle analisi, per tentare di ottenere ulteriori informazioni sui soggetti a cui appartengono i resti umani che erano sepolti sotto il nome di Mari Fresu, ma che, come è stato dimostrato, non appartengono alla povera vittima. Vi è un ulteriore aspetto da considerare che potrebbe già essere studiato in maniera approfondita, già con i dati a disposizione. Infatti, le relazioni del Commissario Straordinario del Governo per le persone scomparse mostrano che vi sono ancora decine di migliaia di persone che risultano scomparse e mai più ritrovate. Già negli anni della strage questa popolazione nell’ombra era enorme e dislocata in tutta Italia. E allora perché non fare il tentativo di confrontare questi profili sconosciuti con i profili dei familiari degli scomparsi fino a quegli anni? Anche se è passato tanto tempo ricordiamo che è spesso possibile identificare un corpo tramite il confronto del DNA nucleare o mitocondriale.

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Maria Fresu è scomparsa? Il 27 aprile 2020 su incarico della Sig.ra Laura Fresu, cugina di Maria e in qualità di delegata Associazione Penelope Sardegna persone scomparse, inviai una lettera al Commissario Straordinario per le persone scomparse del Ministero dell’Interno, Prefetto Silvana Riccio nella quale chiedevo: “di ricordare Maria Fresu come persona scomparsa il 2 agosto 1980 ore 10.25 alla Stazione di Bologna. A tal riguardo appare evocativa la rimozione della foto della Sig.ra Fresu nel sito dell’Associazione delle Vittime della Strage di Bologna accanto alla figlia Angela di 3 anni anche lei deceduta a seguito dell’esplosione”. In data 26 maggio, non avendo avuto risposta, sollecitai tramite messaggio whatsapp la funzionaria del suddetto ufficio la quale mi invitò a contattare la sua collega che aveva seguito la mia richiesta. E così feci. Venni a sapere che la risposta fu nell’immediatezza della mia richiesta. Non avendo avuto riscontri, sollecitai ad un nuovo rinvio che avvenne in data 27 maggio. In allegato all’email la decisione del Commissario Straordinario per le persone scomparse Silvana Riccio: Gentile dr.ssa Giuliani, in relazione alla nota del 29 aprile u.s., concernente l’oggetto, desidero informarla che la richiesta è stata trasmessa alla competente Procura Generale presso la Corte d’Appello di Bologna. Cordiali saluti.

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L’ipotesi circa l’identità dello scalpo Il Prof. Giuseppe Pappalardo, nella sua relazione del 1980, riferisce gli elementi identificativi della persona a cui apparteneva lo Scalpo 1. Soggetto femminile; carattere glabro della cute; lunghezza dei capelli; rarefazione come depilazione del sovraciciglio sinistro e dell’estremo interno residuato controlaterale; la giovane età si evince da alcuni elementi come colore dei capelli (nessun grigio o bianco); l’aspetto liscio della cute, lo stato della dentatura rimasta. La parte anteriore della dentatura rimasta mostrava smalto bianco, liscio e integro. Di piccola statura considerate le piccole dimensione del volto. Sempre dalla relazione dell’accertamento identificativo sul reperto n. 57, denominato all’epoca “pezzi anatomici” dal Dott. Cicognani dell’Ospedale Maggiore, oggi denominato Scalpo 1, si legge che le sopracciglie sono sottili, come rarefatte per depilazione e rappresentate in specie dall’estremo mediale (il solo residuale a destra). Il residuale destro elimina l’ipotesi della bruciatura della peluria dovuto all’esplosione. Le condizioni dello Scalpo, all’epoca della repertazione sul luogo della tragedia, sono contenute nella perizia autoptica del Prof. Pappalardo: “I capelli lunghi sono di colore castano e conservati ad eccezione di una ciocca, a sinistra, che per effetto termico, mostra capelli di color giallo-cromo e secchi… e condizioni della cute che estesamente ricoperta da un induito nerastro, mal allontanabili”. Nel gergo medico per induito si intende un’affumicatura. Quindi Pappalardo riferisce che lo scalpo è stato inte110

ressato da un effetto termico sulla parte sinistra del capo e quindi la persona dello Scalpo 1 si doveva trovare ad una distanza di pochi metri dall’ordigno. A confermare tale ipotesi è l’addendum alla perizia esplosivistica del Dott Coppe e del Ten. Colonnello Gregori del 2019: “Il volto con scalpo rinvenuto, doveva essere di una donna all’interno dei 5-7 metri di distanza dall’ordigno. Se è vero che tale volto è stato trovato sui binari, è altresì evidente che il corpo ad esso appartenuto era in linea col muro divisorio della sala d’attesa rispetto alla banchina ferroviaria”. Questo spiega la rimozione dello Scalpo e il depezzamento del restante corpo con l’aumento dell’onda di sovrapressione e giustificando la bruciatura della ciocca di capelli a sinistra”. Inoltre nella vi è annotato che: “Una mano o un volto, si possono staccare dal corpo per due tipi di circostanze: per onda di sovrappressione per urto di detrito scagliato dalla esplosione. Nel primo caso è evidente che ci si trova vicino all’ordigno, ossia sull’ordine dei metri. In questo caso è molto probabile la presenza contemporanea di ustioni sia sulla mano che sull’avanbraccio d’origine. L’onda termica (fireball) che ustiona è limitata ai pochi metri. Dopo di che, pur mantenendo valori pressori elevatissimi, il calore diminuisce di intensità e aumenta la sua velocità di attraversamento dei corpi. Nell’immagine soprastante il corpo rappresentato, a sinistra, si frammenta e ustiona, mentre a destra si frammenta e basta. In pochi metri, come detto, la fireball perde le capacità termiche più penetranti. Nel caso di asportazione meccanica da detrito, lo stesso colpisce anche a distanza maggiore, cioè sull’ordine anche di decine di metri. In questo caso le ustioni sarebbero comunque assenti”. 111

I periti esplosivisti Coppe e Gregori, dopo i risultati del DNA e considerate le descrizioni effettuate al tempo nei verbali di ricognizione esterna, tra il 3 e il 4 agosto 1980 dal Prof. Sabatini dell’Istituto di Medicina Legale di Bologna, suggeriscono alcune vittime che presentavano deformazione dell’ovoide cranico con perdita di sostanza e probabilmente compatibili con lo scalpo1 e annotano nella loro perizia: “In relazione allo scalpo ed alla maschera facciale, ritenuti appartenenti, a torto, alla povera Fresu Maria, sempre in base a quanto risulta dalle, a volte sommarie, descrizioni effettuate al tempo nei verbali di ricognizione esterna (ricordo che i quesiti posti ai medici legali erano solamente relativi all’ora ed alle cause della morte), possiamo elencare alcune vittime che presentavano deformazione dell’ovoide cranico con perdita di sostanza, mai meglio specificata dal punto di vista identificativo. 112

• Casadei Flavia, classe 1962 “deformazione con schiacciamento del viso”; • Dall’Olio Franca, classe 1960 “schiacciamento del capo”; Ebner Berta, classe 1930 “schiacciamento del capo con esposizione del cervello”; • Frigerio Enrica, classe 1923 “sfacelo traumatico del capo con esposizione della cavità cranica e distruzione massiccio facciale”; • Olla Livia, classe 1913 “scalpo del cuoio capelluto con integrità cranica”; • Rohrs Margret, classe 1941 “capo deformato”; • Sala Vincenziana, classe 1930 “sfacelo traumatico del viso e del capo con perdita dei tratti somatici, larga esposizione della scatola cranica”. All’ospedale Sant’Orsola giungono 5 cadaveri di cui 1 soggetto femminile, tutti con tratti riconoscibili del volto e identificati. Infatti in prima istanza lo scalpo fu associato alla Sig. Sala e alla Sig.ra Frigerio ma già il Prof. Pappalardo il 15 agosto esclude la compatibilità con lo Scalpo 1. Gli elementi a sostegno di tale ipotesi sono inconfutabili: età e gruppo sanguigno. Un altro elemento è la presenza del volto anche se sfacelato in entrambi i cadaveri e l’assenza di ustioni. Infatti dalla prima perizia medico – collegiale, a firma tra i tanti anche di Pappalardo, sono riportate 4 categorie che dividono i cadaveri dalle lesioni riportate. Nella prima categoria i cadaveri vengono classificati in base alle ustioni (indicati con l’asterisco), lesioni da schegge e da crollo. Questo dato consente di capire chi fosse più vicino alla valigia con l’ordigno, unica fonte di calore in 113

quanto non furono riscontrati incendi secondari. Se lo scalpo appartiene a una delle sette vittime indicate da Coppe e Gregori dovremmo riscontrare sui corpi delle ustioni. Infatti come riferiscono i periti esplosivisti una mano o un volto si possono staccare a causa o di un’onda di sovrappressione con la presenza di ustioni sia sulla mano che sull’avambraccio. Altra causa per la rimozione dello scalpo è da lancio di detrito a seguito dell’esplosione in questo caso sono assenti le ustioni. Tenendo presente che lo scalpo è interessato da ustioni dovremmo attenerci alla prima causa esposta da Coppe e Gregori. Inoltre in entrambi gli scenari ipotizzati il corpo della donna dello scalpo dovrebbe riportare la mancanza di un arto. Rohrs Margret, classe 1941: “capo deformato; ampia ferita lacero dell’avambraccio e più piccoli della mano sinistra con amputazione della falange intermedio dell’indice. - Assente nella categora A quindi non riporta ustioni. Quindi si esclude che lo scalpo possa appartenete alla Sig.ra Rohrs per questi motivi: - assenza di ustioni quindi si esclude la rimozione dello scalpo per effetto dell’onda pressoria; - presenza di entrambi gli arti si esclude la rimozione dello scalpo per effetto del lancio di un detrito; - età non compatibile con quella dello scalpo. Sala Vincenziana, classe 1930 “sfacelo traumatico del viso e del capo con perdita dei tratti somatici, larga esposizione della scatola cranica”). Ferite lacero contuse del braccio e dell’avambraccio destro della mano con esportazione di frammenti ossei metacarpali. La Sig.ra Sala è presente nella categoria B legioni da schegge e da esplosione 114

e/o da crollo. Si potrebbe escludere che lo scalpo appartenga alla Sig.ra Sala per questi motivi: - assenza di ustioni quindi si esclude la rimozione dello scalpo per effetto dell’onda pressoria - presenza di entrambi gli arti si esclude la rimozione dello scalpo per effetto del lancio di un detrito - età non compatibile con quella dello scalpo - è l’appartenenza ad un gruppo sanguigno diverso dallo scalpo. Frigerio Enrica, classe 1923 “sfacelo traumatico del capo con esposizione della cavità cranica e distruzione massiccio facciale”; gli arti superiori dalle mani alla radice fratture e in parte carbonizzazione e il palmo della cute assume colore rosso arancione. Fratture delle falangi e dei metacarpi. Dall’ispezione cadaverica del 3 agosto si evidenziano ustioni sugli arti della Sig.ra Frigerio. Ma nella perizia medico collegiale il nome della Sig.ra Frigerio nonostante si trovi nella categoria A, caratterizzata dalla presenza di ustioni e lesioni da crollo e da esplosione, non viene evidenziato con il simbolo dell’asterisco corrispondente alla presenza di ustioni importanti. Da una prima lettura delle caratteristiche morfoscopiche del corpo della Sig.ra Frigerio sembra evidente una compatibilità con le caratteristiche morfoscopiche dello dello Scalpo. Anche se sono presenti entrambi gli arti, sembra anche soddisfatta la dinamica descritta dai periti esplosivistici, e, quindi, si ipotizza la rimozione dello scalpo dovuta all’azione di un’onda pressoria. Ma restano ancora molti elementi che rendono incompatibili il corpo della Sig.ra Frigerio con lo Scalpo: la differenza d’età e del gruppo sanguigno. 115

Casadei Flavia, classe 1962 “deformazione con schiacciamento del viso e del capo con larghe escoriazioni della cute frontale e della guancia destra: ferite del labbro superiore: presenza di entrambi gli arti. È evidente che lo scalpo non possa appartenere al copro della Sig.ra Casadei perché è presente il viso. Inoltre la Sig.ra Casadei è presente nella 4 categoria della relazione medico collegiale caratterizzata dall’assenza di ustioni. Ebner Berta, classe 1930 “schiacciamento del capo”. La Sig.ra Ebner è presente nella 4 categoria della relazione medico-collegiale. La presenza di entrambi gli arti e l’assenza di ustioni e l’età tendono a far escludere l’appartenenza dello scalpo alla Sig.ra Ebner. Olla Livia, classe 1913 “scalpo del cuoio capelluto con integrità cranica e frattura protesi dentaria”. La Sig.ra Olla è presente nella 4 categoria della relazione medico-collegiale. La presenza di entrambi gli arti e l’assenza di ustioni e l’età tendono a far escludere l’appartenenza dello scalpo alla Sig.ra Olla. Dall’Olio Franca, classe 1960 “schiacciamento del capo”. La Sig.ra Dall’Olio è presente nella 4 categoria della relazione medico-collegiale. La presenza di entrambi gli arti e l’assenza di ustioni e l’età tendono a far escludere l’appartenenza dello scalpo alla Sig.ra Dall’Olio. L’analisi comparativa su descritta è solo meramente indicativa e si basa su osservazioni logiche. La scienza è l’unica in grado dare definitivamente una risposta inconfutabile circa l’appartenenza dello scalpo ad una delle 7 vittime indicate. Infatti, nella lettera che ho inviato su incarico della Sig.ra Laura Fresu, cugina di Maria, al Commissario Straordinario per le persone scomparse del Mini116

stero dell’Interno, ho chiesto, inoltre: “l’esame del DNA ai parenti e 7 vittime ipotizzate dai periti esplosivisti, invitati in maniera del tutto volontaria a rilasciare un campione salivare, dal fine di fugare tutti i dubbi circa la sua appartenenza. Nel caso di risultati negativi si chiede di avviare le indagini su eventuali compatibilità di profili genetici di parenti di persone scomparse”. Un atto volontario semplice e non invasivo che fugherebbe dubbi e potrebbe concludere l’estenuante di un congiunto di una donna scomparsa.

Il parere dell’antropologa forense Dott.ssa Chantal Milani Ho chiesto un parere alla Dott.ssa Chantal Milani antropologo e odontologo forense sulla stima dell’età e su eventuali altre caratteristiche antroposomatiche della scalpo 1 considerando gli elementi presenti nella relazione del Prof. Pappalardo. “La perizia del Prof. Pappalardo descrive il reperto come ‘maschera incompleta del volto’, quindi una porzione di cute del volto solo parzialmente sorretta da frammenti ossei sottostanti e in particolare: glabella (la porzione di fronte appena sopra l’attaccatura del naso), il mento, una parte dell’orbita sinistra e un frammento dell’osso zigomatico, verosimilmente il sinistro. Dei caratteri somatici vengono descritte le labbra sottili, il dorso del naso apparentemente regolare e con apice sottile (anche se la perdita del supporto osseo ne ha sicuramente limitato l’interpretazione). L’iride sinistra, unica 117

rimasta, risulta castana. Le sopracciglia vengono descritte come sottili e depilate e i capelli lunghi e castani. La struttura ossea del mento fu misturato in 3.1 cm. Il Prof. Pappalardo descrive lo stato dentale residuo: “…i due incisivi mediali che descrivono tra loro un piccolo spazio triangolare con apice verso l’alto. Dei denti residuano solo il primo premolare di destra, il canino di destra e i quattro incisivi”. Si riferisce all’arcata inferiore. “Il loro margine libero è ben conservato, non molato. Dopo detersione, non si apprezzano pigmentazioni dello smalto ma due piccole carie superficiali, del colletto, sul versante vestibolare, rispettivamente a carico del primo premolare e del canino”. Potenzialmente indicativo delle caratteristiche antroposomatiche è la descrizione del mento: “relativamente largo con pronunziata piega trasversale intermedia tra prominenza mentoniera e labbro inferiore”. Ciò può essere indicativo di un mento largo e pronunciato. Tuttavia senza idoneo materiale fotografico si tratta di mere ipotesi ragionate. Oggi i denti residui sarebbero piuttosto informativi grazie alle tecniche tipiche dell’odontologia forense che permetterebbero di effettuare una stima dell’età. Questi metodi sfruttano la trasparenza della radice o misurazioni da effettuarsi su radiografie dei denti rimasti. All’epoca l’odontologia forense non si era ancora sviluppata, soprattutto in Italia e anche i metodi citati sono emersi solo successivamente. La dentatura viene descritta come in buono stato (a parte le due piccole carie del colletto) e senza abrasione 118

dello smalto. Questo potrebbe essere visto come un indicatore di un’età non avanzata. Per quanto si possa concordare con questa ipotesi, che coincide anche con altri elementi concordanti, fare una stima di un vero e proprio range di età risulterebbe su questa base, quantomai azzardato. I metodi di valutazione dell’età sulla base dell’abrasione dentale, infatti, sono ormai ritenuti sorpassati e spesso fuorvianti a causa della molteplicità di altri fattori che possano influire sull’usura e l’abrasione stessa dei denti. L’assenza di macchie sui denti è potenziale indicatore di buona igiene, soggetto potenzialmente non fumatore o non facente uso abbondante di caffè. Ma, anche in questo caso, sono ipotesi basate su descrizioni del tutto generiche. Quindi, ricapitolando, le deduzioni che si possono trarre dalle relazioni del Prof. Pappalardo, apparentemente si tratta di una (giovane) donna, con capelli lunghi (non si precisa quanto) e castani, occhi castani, con mento largo e pronunciato. Apparentemente aveva una buona cura di sé (sopracciglia depilate e assenza di macchie sui denti). Purtroppo siamo in presenza di un lembo di cute del volto con minimi residui ossei e dentali e di ciò si ha a disposizione, al momento, solo una fotografia non originale e di scarsa qualità. È possibile quindi inserire le precedenti valutazioni solo nel campo delle ipotesi. Senza miglior materiale fotografico, senza dettagli radiografici o un’analisi diretta, qualsiasi altra valutazione risulterebbe azzardata e priva di supporto scientifico”.

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Dove si trovavano la Sig.ra Fresu e la donna dello scalpo? Va premesso che la ricostruzione di quanto segue è basata in gran parte sulla perizia esplosivistica del 2019 ed in parte sui ricordi di Silvana Ancilotti prima dello scoppio. È chiaro che i ricordi, per quella caratteristica esposta prima riguardante variabili intervenienti dovuti ad una sindrome post traumatica da stress vanno presi con le dovute cautele, tenendo conto del fatto che la rievocazione di eventi così drammatici, anche se prima dell’esplosione, sono ampiamente suscettibili di modifica e rievocazione soggettiva e distorta. La ricostruzione quindi si basa soprattutto sul resoconto peritale, ma è solo un’ipotesi. I periti esplosivisti hanno accertato che solo il 10% delle vittime è morta per effetti diretti della detonazione. Queste vittime si trovavano a una distanza non superiore ai 5 metri dal punto dell’esplosione denominata “area mortale”. Le vittime che si trovavano ad una distanza maggiore di 5 metri ma inferiore agli 11 sono decedute per effetti indiretti della detonazione (l’area dei danni “molto grave”). La sig.ra Fresu con la figlia e le amiche si trovavano nella circonferenza che delimita l’area dei danni molto gravi. La Sig.ra Bivona e la piccola Angela sono, infatti decedute per il crollo del soffitto e i loro corpi rimasti integri. La Sig.ra Ancillotti è sopravvissuta. Come mai Maria Fresu si è completamente depezzata? Ammettiamo che si fosse allontanata, dove sarebbe dovuta essere per giustificare un deprezzamento tale da non trovare nemmeno un volto per il riconoscimento? Dalle dichiarazioni dell’Ancillotti contenute nella perizia del Prof. 120

Pappalardo si legge che la Fresu si trovava nella sala d’aspetto di seconda classe, con la figlia e le due amiche, sedute lungo la parete laterale di sinistra (rispetto all’entrata, sta anteriormente a destra, dove era disposto l’ordigno esplosivo) ma nell’intervista rilasciata all’agenzia “Adnkronos” la Sig.ra Ancillotti dichiara che: “ci siamo messe lì a sedere. Mi pare sulla sinistra (...) Eravamo sedute sulle panche e vedevamo, in lontananza, altre panche. Eravamo di spalle alla porta (che, dal marciapiede del binario 1, fa accedere alla sala d’aspetto, ndr).” Dalle dichiarazioni della Sig.ra Ancillotti del 6 agosto 1980 delle ore 12 sappiamo che: “ci siamo sedute nell’angolo sinistro rispetto a chi entra. Preciso l’angolo sinistro posto difronte all’ingresso della sala d’aspetto.” Dalla cartina della Stazione di Bologna tenendo come riferimenti metrici i punti segnalati nella didascalia si potrebbe calcolare l’esatta distanza tra la posizione iniziale di Maria Fresu e l’ordigno e calcolare il tempo impiegato per raggiungere “l’area danni gravi” e ipotizzare un depezzamento. L’Ancillotti dichiara che erano sedute lungo la parete laterale di sinistra rispetto all’entrata. Dalle dichiarazioni di Silvana Ancillotti abbiamo altri punti di riferimento per collocare la Sig.ra Fresu all’interno della sala della seconda classe prima dell’esplosione: “vedevamo in lontananza altre panche”. ed ancora: “di fronte all’ingresso della sala d’aspetto” ed ancora 121

“eravamo di spalle alla porta (che, dal marciapiede del binario 1, fa accedere alla sala d’aspetto, ndr)”. È probabile che la Sig.ra Ancillotti e le sue amiche con la piccola Angela sedessero sulle panche centrali di sinistra dando le spalle al tavolo sul quale era stato depositato l’ordigno. In particolare, Silvana sedeva accanto alla Sig. Bivona alla destra della quale sedeva la piccola Angela. Maria Fresu era di fronte alla Sig.ra Ancillotti. Quindi partendo dalla sinistra dell’entrata principale, in ordine erano sedute Angela, la Sig.ra Bivona e la Sig.ra Ancillotti e di fronte in piedi la Sig.ra Fresu. Da fascicolo descrittivo dei rilievi tecnici del 27 /09/1980 redatto dalla Questura di Bologna, sappiamo che la sala d’aspetto della 2 classe, dove si trovava Maria Fresu, era: “delle dimensioni di 12mt di larghezza per 13.80 m di lunghezza”. Sulla planimetria della sala è riportato che ogni panca ha una larghezza di 60 cm, le panche lungo la parete di sinistra sono 8 e quindi occupano 4 metri e 40 cm della parete. Lungo la fila delle panche appoggiato alla parete della porta d’ingresso vi è un tavolo portabagagli della lunghezza di 2 metri. Quindi dalla porta d’ingresso le panche della parete di sinistra occupano una lunghezza di 6 metri e 40 cm. Se prendiamo come punto di riferimento la panca della parete di sinistra che sta sulla stessa linea della prima panca partendo dalla porta d’ingresso del blocco centrale possiamo calcolarne la distanza dall’ordigno, ovvero 8.80 me122

tri. Se consideriamo che il blocco centrale era formato da 4 sedute laterali di 60 cm ognuno, possiamo concludere che il blocco fosse lungo 2,40 e la prima panca fosse distante 6,40 metri dall’ordigno. Dalla descrizione della Sig.ra Ancillotti si potrebbe ipotizzare che fossero sedute ad una distanza superiore a mt 2,40 e inferiore a mt 8,80. Quindi considerato il fatto che la Sig.ra Bivona e la piccola Angela non avevano riportato lesioni dirette dall’esplosione e la sig.ra Ancillotti è sopravvissuta alla strage, considerata la perizia Coppe e Gregori che le localizza nell’area gravi danni che comprende un raggio che va dai 5 agli 11 metri; considerate le testimonianze della sopravvissuta: si potrebbe ipotizzare che sedevano sulle panche del blocco centrale ad una distanza compresa tra i 5 e gli 8.80 metri. Coppe e Gregori annotano: “La povera signora Fresu NON era, al momento dell’esplosione, a fianco dell’amica sopravvissuta (Ancillotti Silvana), come invece a suo tempo testimoniò, sicuramente in buona fede. Sarebbero infatti bastati pochi secondi (3-5) di distrazione dell’amica affinché Maria Fresu attraversasse la sala d’aspetto e si portasse dentro i 5-7 metri dall’ordigno. Con ogni probabilità la Sig.ra Fresu si trovava vicino alle amiche, ad una distanza compresa tra i 5 e gli 8.80 metri dall’ordigno dove erano localizzate le panche centrali. D’altronde, qualora ci fosse stato un allontanamento che l’Ancillotti non ricorda, i periti ipotizzano che i tempi di percorso della Fresu all’interno della sala d’aspetto affollata si restringono in una manciata di secondi (3-5). 123

Considerando che parte dell’area della sala era occupata dai sedili laterali e centrali restava ben poco per l’afflusso di gente che quel giorno sappiamo essere occupata sicuramente da 85 persone (quelle decedute) e parte dei 200 feriti sopravvissuti (molti dei quali erano nelle altre aree di pertinenza della Stazione). Maria Fresu avrebbe compiuto una traversata, che sarebbe potuta essere compresa tra i 5 e gli 8.80 metri, ostacolata dalla folla, dalle valige dei viaggiatori adagiate per terra e dai sedili, in un arco temporale di 3/ 5 secondi? La folla avrebbe ritardato di molto la traversata della sala della Fresu che l’avrebbe portata in prossimità dell’ordigno tanto da essere notata dalla Sig.ra Ancillotti. Sarebbe verosimile ricordare l’allontanamento della Fresu dal luogo dove era la figlia senza prima aver dichiarato il motivo dell’allontanamento? È possibile che una madre si allontani dalla figlia non dicendo nulla alle amiche? Una cosa è certa: la Sig.ra Maria Fresu è scomparsa e l’ipotesi del depezzamento come causa della sua identificazione appare alquanto improbabile. Un particolare interessante è il ritrovamento della carta di identità della Fresu. Il Brigadiere Ceccarelli riferì che la carta d’identità fu rinvenuta presso la Stazione Ferroviaria e portata alla Polizia Ferroviaria la quale la trasmise al nucleo P.G. Non fu mai rinvenuta la borsetta della Sig.ra Fresu mentre sono stati rinvenuti altri effetti personali come una borsa da viaggio, una valigia e anche una giacchetta che doveva essere contenuta nella valigia. Le valigie, come testimonia la Sig.ra Ancillotti erano in prossimità delle panche dove erano sedute. 124

Resta aperto il dubbio su come possa essere stata ritrovata la carta d’identità e non la borsa della Sig.ra Fresu e nient’altro che la riguardi. Come se bastasse una carta d’identità a sostituirla. Sarebbe interessante sapere dove è stata ritrovata e in che condizioni.

Testimonianze dall’area mortale Tonino Braccia, aveva 19 anni il 2 agosto 1980, agente della Polizia di Stato originario di Serva D’Altino una frazione del comune di Altinosi in provincia di Chieti residente in Abruzzo. Per Tonino non sarà facile ottenere quel congedo per assistere ad un matrimonio al suo paese ma alla fine il suo comandante approva la richiesta a fronte di una promessa: “Tonino, io ti do il congedo per il matrimonio ma tu ti devi tagliare i capelli”. Tonino quella mattina del 2 agosto si reca alla Stazione di Bologna per prendere il treno delle 10.45 diretto a Pescara come mi racconta mi racconta al telefono: “Entrai in Stazione dall’ingresso del binario 1. Ero in anticipo. Faceva molto caldo quella mattina. Nella sala d’aspetto scrutai dalla porta finestra del binario 1 gente accalcata e affaticata dal caldo; qualcuno, più ottimista, si muoveva alla ricerca di un angolo di refrigerio, uno spicchio d’ombra che alleviasse quella sofferenza. Decisi a questo punto di restare fuori sulla panchina del binario 1 a fumarmi una sigaretta. C’era molta gente sulla panchina così decisi di mettermi anch’io alla ricerca di un ri125

paro dal caldo e dalla folla, buttai il mozzicone ed entrai nella sala d’aspetto della seconda classe. Aprii la porta a vetri, la chiusi e pensai che quell’angolo poteva essere un buon posto al riparo dal caldo e dalla folla. Mi appoggiai alla porta finestra. Dopo alcuni istanti, almeno quello che mi era sembrato il tempo trascorso, mi ritrovai incastrato sotto un treno. Ero senza pantaloni. Faceva molto caldo. Avevo molta sete. Arrivarono i soccorsi. Ero nell’ambulanza. Ero confuso. Ripresi la memoria di quanto fosse successo solo dopo 15 giorni. I danni che riportai sono molteplici. La parte destra del corpo, occhio, femore e altre parti furono fortemente compromessi. Danni gravi al braccio sinistro che poi mi hanno ricostruito con una protesi. Ho ancora i segni di quel giorno. Davanti ai miei occhi le immagini di quei pochi istanti prima della tragedia. Nella mia testa i ricordi di un dolore che non avrà mai pace. Nel mio corpo conservo ancora le tracce di quell’esplosione: oltre alle gravi ferite ho ancora molte schegge di vetro”. Tonino, a seguito dell’esplosione, sfondò la vetrata della porta alla quale era appoggiato, tanto da riportare schegge di vetro in tutto il corpo alcune delle quali estratte durante i molteplici interventi ma molte altre ancora presenti: “Quelle schegge le sento ancora presenti nel mio corpo, delle fitte che sembrano scandire le lancette dell’orologio del 2 agosto 1980 ore 10.25”. Tonino chiude il suo racconto su un ricordo, le parole escono strozzate dal dolore di quelle immagini: “In ospedale mi venne a trovare il mio comandante e per strapparmi un sorriso mi disse – Puoi anche non tagliarti più i capelli –”.

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La testimonianza di Tonino è molto importante, oltre ad essere la memoria di quanto successo quel tragico giorno d’agosto di 40 anni fa, riporta delle informazioni criminologiche e criminalistiche molto importanti. Riprendiamo quanto esposto nella relazione dei due esplosivisti Coppe e Gregori a proposito della correlazione tra tipo di esplosivo, distanza di un corpo da esso e i danni riportati dal corpo stesso. A proposito di un’eventuale disintegrazione di un corpo i periti escludono categoricamente uno scenario simile a seguito dell’esplosione alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980. I periti invece ipotizzano circa l’eventualità di un depezzamento di un corpo ad una distanza di circa 5-7 metri dall’ordigno e puntualizzano, nel loro Addendum, che: “La variabilità dipende da diversi fattori. Ad esempio un muro che, orientando gli effetti in direzione opposta, può concentrare l’onda pressoria e quindi aumentare il danno a distanze maggiori. Oppure l’assenza di ostacoli rispetto ad altri percorsi che l’onda di sovrappressione può compire. Tali ostacoli possono essere altre persone o mobilio”. Il sig. Tonino Braccia era appoggiato alla porta a vetri che dalla sala d’aspetto della 2 classe apre sulla panchina del binario 1. Quindi il Sig. Braccia era ad una distanza di massimo 2 metri dal tavolo sul quale era posizionato l’ordigno. Tra il Sig Braccia e l’ordigno gli ostacoli che potevano rallentare l’onda pressoria potevano essere solo persone. Tra il Sig. Braccia non c’erano muri che potevano aumentare la concentrazione dell’onda pressoria. Tonino Braccia è, fortunatamente, sopravvissuto all’attentato e il 127

suo corpo anche se ha riportato ferite importanti e stato ritrovato integro. Maria Fresu, il cui corpo si ipotizza si sia depezzato tanto da non trovarne traccia, viene collocata dai periti esplosivisti in un raggio di 5/7 metri dall’ordigno. Anche per Maria Fresu ci troviamo, ammesso come valida l’ipotesi dei periti, nelle stesse condizioni del Sig. Braccia. Infatti la struttura della sala d’aspetto è un locale unico nel quale sono assenti muri interni o costruzioni simili. Sono presenti però del mobilio e molte persone che possono ostacolare l’effetto dell’onda di sovrappressione, diminuendone la concentrazione. Una cosa è sicura: ammesso che la Sig.ra Maria Fresu si sia spostata, compie un tragitto che va dal punto in cui sono sedute le sue amiche e sua figlia verso una destinazione che non conosciamo ma si avvicina alla fonte dell’esplosione ovvero in quel raggio in cui si trova anche il Sig. Braccia. Perché, allora, la Sig.ra Fresu è l’unica vittima completamente depezzata tanto da non lasciare traccia identificabile? Quindi si potrebbe parlare di deflagrazione? Ma Coppe e Gregori, lo ribadiamo, eliminano totalmente quest’ipotesi dallo scenario della Strage di Bologna.I periti hanno accertato che solo il 10% delle vittime è morta per effetti diretti della detonazione e si trovavano ad una distanza non superiore ai 5 metri dall’ordigno. Ma la posizione di quei corpi è la destinazione finale dovuta all’esplosione e non possiamo sapere dove si trovavano prima. Rimane, però un dato certo, di queste vittime sono stati ritrovati e identificati. Anche Gabriella Negrini, all’epoca assistente del Prof. Pappalardi, elimina totalmente l’ipotesi del depezzamento e della distribuzione delle varie parti del corpo della Sig.ra Fresu nelle bare delle altre vittime. Alcune dichiarazione della dott.ssa Negri128

ni in un’intervista per Adnkrons rilasciata dopo i risultati genetico forensi fuga ogni dubbio in merito alla possibilità che i resti di Maria Fresu siano stati distribuiti delle varie bare: “Ognuno ha il diritto di pensare quello che vuole, ma la Medicina legale era ed è un istituto serissimo dell’Università di Bologna. Certo, nelle prime ore ci fu l’arrivo di tante salme, la confusione dei parenti. Ma tutti noi, dopo quei primi frangenti, operammo con la professionalità che ci è propria. E trattammo tutti quei poveri resti col rigore e la serietà che la situazione imponeva”. Inoltre la persona dello Scalpo 1 dalla perizia esplosivista doveva trovarsi in un raggio di 5/7 metri per giustificare lo stato anatomapatologico. Un’altra ipotesi dei periti Coppe e Gregori che quello Scalpo sia stato provocato da un urto di detrito scagliato dall’esplosione. In questo caso mancherebbe un intero corpo. Ma dello Scalpo 1 non abbiamo il resto del corpo e sono validi i dubbi fin qui esposti e la sua identità. La dott.ssa Negrini sempre per Adnkronos e in merito alle vittime identificate: “Nonostante le comparazioni, nessuna delle altre vittime, anche le due col volto sfacelo e coi connotati non più distinguibili, è mancante di una così vasta e particolare porzione del viso. Io stessa non ricordo affatto vittime che avessero lesioni tali, anche da una prima sommaria analisi, da far supporre che quei resti facessero parte dei corpi già identificati. A proposito dello Scalpo 1 Coppe e Gregori nella loro relazione annotano che: “doveva essere di una donna sem129

pre all’interno dei 5-7 metri. Se è vero che tale volto è stato trovato sui binari, è altresì evidente che il corpo ad esso appartenuto era in linea col muro divisorio della sala d’attesa rispetto alla banchina ferroviaria. Peraltro sul volto rinvenuto non vi erano tracce evidenti di combustione”. Ma, dalla perizia Pappalardo, invece si legge che sullo Scalpo 1 vi era un induito nella parte sinistra ovvero segni di un affumicatura quindi si potrebbe ipotizzare che la donna dello scalpo 1 si trovava vicinissima all’ordigno, molto più vicina di quanto non lo fosse il Sig. Braccia, quindi meno di 2 metri, e, come riportano Coppe e Gregori nell’addendum alla loro perizia: “ se è vero che tale volto è stato trovato sui binari, è altresì evidente che il corpo ad esso appartenuto era in linea col muro divisorio della sala d’attesa rispetto alla banchina ferroviaria” e quindi tra la porta, dove era appoggiato il Sig. Braccia, e il tavolo sul quale era poggiato l’ordigno. Il Sig. Braccia si salva per effetto della defenestrazione che non si oppone all’esposione causando un aumento dell’onda pressoria. Mentre la donna dello scalpo subisce asportazione del volto per effetto del muro sull’esplosione e l’immediata vicinanza all’ordigno. A sostegno di quest’ipotesi la campionatura di particelle di alluminio originata dall’esplosione e particelle irregolari di Solfato di Boario provenienti dalle pitture murarie e l’induito sulla parte sinistra del volto. Resta da risolvere solo l’enigma del resto del corpo e la scomparsa di Maria Fresu. È suggestivo il fatto che anche sul sito dell’Associazione Vittime della Strage di Bologna abbiano tolto l’immagine della Sig.ra Fresu accanto alla figlioletta Angela. Un’altra testimonianza importante per dimostrare gli effetti di un ordigno come quello di Bologna è quella di Pao130

lo Sacrati. Paolo mi racconta che aveva 13 anni quando suo malgrado divenne vittima della Strage di Bologna. Quel giorno Paolo sarebbe dovuto partire con la nonna. La mamma li accompagnò dentro la Stazione ad aspettare il treno. I tre sostarono sulla panchina del primo binario sotto la pensilina tra i tabacchi e la scalinata del sottopassaggio. La mamma si allontanò per controllare l’orario delle partenze sul cartellone. Da quel momento i ricordi di Paolo lo riportano sotto la pensilina. Dopo circa due ore i soccorritori furono allarmati dalle sue urla. Saprà dopo qualche giorno che la mamma e la nonna non erano sopravvissute all’attentato.

Il parere del dott. Fabrizio Mignacca sulla validità ed attendibilità delle testimonianze e dei testimoni Abbiamo finora riportato le testimonianze di chi c’era e di coloro che sembrano essere informate dei fatti. Al fine di stabilire un criterio scientifico dal quale poter stabilire un punto di partenza e una direzione di analisi delle risultanze processuali, ho sentito la necessità di chiedere allo psicologo Fabrizio Mignacca un parere sulla validità delle testimonianze e sull’attendibilità dei testimoni. Riporto di seguito il suo parere: “Ogni tipo di atto che ha una direzione scientifica deve essere verificato nella sua attendibilità e nella sua validità. L’attendibilità di una testimonianza consiste nello stabilire se quella dichiarazione è fornita da una persona che è una persona consapevole di dire ciò che sta dicendo e delle ripercussioni che la sua azione avrà all’interno della sfera sociale, la validità riguarda invece il contenuto della dichiarazione che si divide in interna ed esterna. La 131

validità interna indica che tutte le parti della testimonianza sono coerenti tra loro e dimostrano la stessa tesi, la validità esterna indica invece la coerenza che le dichiarazioni hanno con altre rese dalla stessa persona e con quelle rese da altre persone. Questa verifica è fondamentale mettere un punto di congruenza nello stabilire dalle testimonianze ciò che è definibile come “Verisimile”, ovvero, non la realtà dei fatti, ma una ricostruzione coerente e congruente di un evento percepito. Va innanzitutto specificato che il percetto non è la riproduzione della realtà, ma la riproduzione soggettiva ed individuale di un evento. Oltre che a modificazioni di tipo fisiologico, un evento percepito, subisce l’azione di molteplici meccanismi interni che ne deformano non solo in senso, ma tutti i connotati. I meccanismi affettivi molto spesso sono decisivi per la modificazione del ricordo. Va inoltre precisato il modello di immagazzinamento dell’informazione, la modalità e il tipo di memoria attivata all’atto della rievocazione. Esistono molteplici modelli di memoria e tutti costituiscono una strutturazione valida, ma il processo di rievocazione è un processo globale di tipo olistico, ovvero attiva una molteplicità di elementi diversi come un torrente in piena. Il ricordo avviene nel cosiddetto “qui ed ora” ovvero nel momento presente in cui viene evocato e non costituisce una realtà passata, ma chi rievoca tende a rivivere nel momento della rievocazione la situazione. Questo vuol dire che tende a modificarla attraverso una serie di criteri personali che tendono a costituire lo sfondo del ricordo, ma che ne modificano sensibilmente il contenuto. Le tecniche di testimonianza che vanno per la maggio132

re oggi sono tecniche di stampo anglosassone assolutamente incomplete e spesso fuori da ogni logica in dottrina scientifica. Questo accade perché queste tecniche non tengono in conto di quella variabile interna che è onnipresente in un contesto come quello umano. questo presupposto che sembra assai filosofico è invece decisivo nella distorsione degli avvenimenti. L’unica cosa che però viene tenuta in conto nella valutazione della testimonianza è il grado di suggestione che essa contiene. Le testimonianze che in tribunale vengono ritenute valide ed attendibili (senza neanche conoscere la differenza tra le due cose) sono quelle non suggestionate da variabili che sono empiricamente decise da inquirenti o dal corpo giudicante senza nessuna validità scientifica. È un paradosso la pretesa della giurisprudenza di stabilire ciò che è suggestivo in una testimonianza e ciò che non lo è, non conoscendo minimamente una base di statistica. Facciamo un esempio. è giudicata suggestiva la testimonianza raccolta in gruppo perché, secondo la pretesa della giurisprudenza, risente del parere degli altri. Non è ritenuta suggestiva la testimonianza resa davanti a degli inquirenti. Per definizione sia la prima che la seconda sono testimonianze rese in gruppo: esiste una medesima condizione gruppale iniziale che rende suggestiva ed invalidante la condizione di ricordo. La seconda però è ritenuta valida pur non avendo nessun presupposto scientifico come se la divisa o una toga presupponesse la verità. Ciò che influenza e rende suggestivo un resoconto sono le condizioni interne ed esterne della situazione in cui viene resa, appunto la validità e l’attendibilità. Una persona togata o una in uniforme non fa differenza, la testimo133

nianza resa è comunque suggestiva. In tribunale la testimonianza è ancora più suggestiva. La formula rituale di giuramento è il principio cardine della suggestione. La testimonianza quindi deve essere consona non alla verità, ma alle pretese dell’avvocato, del pubblico ministero e del giudice. Possiamo quindi già stabilire che qualsiasi testimonianza resa in un procedimento giuridico che non tiene conto della suggestionabilità dell’atto stesso e dei presupposti scientifici che sottendono al ricordo ed all’evocazione del ricordo è suggestiva e non valida per definizione. La valutazione testimoniale dovrebbe innanzitutto passare per un resoconto delle condizioni di testimonianza a livello di ambiente e “posizione” degli attori, dovrebbe iniziare con una rievocazione semplice di orientamento nello spazio e nel tempo e poi per gradi procedere alla rievocazione del fatto. Ogni tipo di contenuto emotivo legato ad un fatto dovrebbe essere ampliato e non soffocato. La valutazione del contenuto emotivo infatti è uno degli indici di coerenza di ciò che viene detto ovvero se la persona è attendibile. Esempio: il sorriso, anche sarcastico in un racconto drammatico è distonico ed indica un nucleo emotivo che sta bloccando l’assunzione di responsabilità nell’indicare un evento o un fatto. Si potrebbe stimare, ma bisogna approfondire, che il soggetto, nel caso, sia estremamente coinvolto emotivamente e questo rende quello che dice suscettibile di distorsione rievocativa. Se prendiamo ad esempio le dichiarazioni di Massimo Sparti, dobbiamo chiederci se il soggetto sia attendibile o stia seguendo una propria convenienza personale non consona alla gravità del giudizio. Anche in questo caso la domanda principale 134

è quella di chiedersi, “a che serve”, quale è lo scopo di Massimo Sparti: fare luce sulla strage di Bologna o ricevere facilitazioni carcerarie? È vero che anche un pluricondannato dice la verità, ma questa domanda va fatta non in riferimento a quello che dice, ovvero al criterio di validità, ma al criterio di attendibilità, ovvero alla sua necessità di affermare alcune cose e se queste poi avranno una ripercussione su quello che succede. Fosse in voga, nelle aule giudiziarie, un minimo di criterio statistico scientifico potremmo affermare che le dichiarazioni di Sparti sono valide ma non attendibili, per cui difficilmente accettabili. Nel caso delle testimonianze delle vittime sopravvissute al dramma della strage di Bologna abbiamo un ulteriore problema iniziale che le inficia tutte. È scienza che un evento drammatico come sopravvivere all’esplosione di una bomba sviluppa una cosiddetta sindrome post traumatica da stress. Nel migliore dei casi. Nel migliore dei casi quindi le difese psichiche “scindono” la consapevolezza del soggetto creando un fenomeno dispercettivo che difende l’integrità dell’”IO”. È una posizione difensiva che si sviluppa a causa dell’evento drammatico, una sorta di attivazione del sistema immunitario che attiva i globuli bianchi difendendo l’organismo dalla malattia. In definizione l’IO è indicato come il grado di consapevolezza di se stessi e delle ripercussioni che le nostre azioni hanno nell’ambiente sociale. Più è scisso l’IO, meno si ha consapevolezza della realtà e più contenuti interni allucinatori compensano il grado di discernimento. Per contenuti allucinatori si intendono una serie di comprovate mo135

dalità non reali che i soggetti tendono a rievocare come parte del ricordo, ma che in realtà non sono accaduti. Ad esempio, una delle risultanze scientifiche della scissione dell’IO per eventi drammatici e traumatici è quella di percepirsi come esterni al proprio corpo. È chiaramente una allucinazione di natura psicotica. L’American Psychiatric Association (APA) ha stabilito che i sintomi della sindrome compaiono solitamente entro tre mesi dal trauma, anche se in qualche caso lo stato di stress si manifesta anche più tardi. I sintomi sono classificabili in tre categorie ben definite: • episodi di intrusione: le persone affette da PTSD hanno ricordi improvvisi che si manifestano in modo molto vivido e sono accompagnati da emozioni dolorose e dal ‘rivivere’ il dramma. A volte, l’esperienza è talmente forte da far sembrare all’individuo coinvolto che l’evento traumatico si stia ripetendo; • volontà di evitare e mancata elaborazione: l’individuo cerca di evitare contatti con chiunque e con qualunque cosa che lo riporti al trauma. Inizialmente, la persona sperimenta uno stato emozionale di disinteresse e di distacco, riducendo la sua capacità di interazione emotiva e riuscendo a condurre solo attività semplici e di routine. La mancata elaborazione emozionale causa un accumulo di ansia e tensione che può cronicizzate portando a veri e propri stati depressivi. Al tempo stesso si manifesta frequentemente il senso di colpa; • ipersensibilità e ipervigilanza: le persone si comportano come se fossero costantemente minacciate dal trauma. Reagiscono in modo violento e improvviso, 136

non riescono a concentrarsi, hanno problemi di memoria e si sentono costantemente in pericolo. A volte, per alleviare il proprio stato di dolore, le persone si rivolgono al consumo di alcol o di droghe. Una persona affetta da PTSD può anche perdere il controllo sulla propria vita ed essere quindi a rischio di comportamenti suicidi. (definizione dell’Istituto Superiore di Sanità) In particolare il Disturbo Post traumatico si definisce sintomaticamente: • Sintomi intrusivi associati all’evento?come: 1. ricorrenti, involontari ricordi spiacevoli dell’evento traumatico; 2. ricorrenti sogni spiacevoli in cui il contenuto e/o le emozioni del sogno sono collegati all’evento traumatico; 3. flashback in cui il soggetto sente o agisce come se l’evento traumatico si stesse ripresentando. • Marcata reattività associati all’evento traumatico: 1. ipervigilanza e forti risposte di allarme; 2. problemi di concentrazione; 3. difficoltà relative al sonno; 4. marcate reazioni fisiologiche a fattori scatenanti interni o esterni che all’evento traumatico. • Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico: 1. evitamento o tentativi di evitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico; 2. evitamento o tentativi di evitare fattori esterni (per137

sone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti, situazioni) che suscitano ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico. • Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento traumatico: 1. incapacità di ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico; 2. persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative relative a se stessi, ad altri o al mondo (per es. Io sono cattivo, non ci si può fidare di nessuno, il mondo è assolutamente pericoloso); 3. persistente stato emotivo negativo (per es. paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna); Ogni tipo di resoconto deve ritenersi sensibile di modificazioni stabili ed evidenti modificazioni del percetto, tali da rendere la testimonianza né valida e né attendibile il soggetto. In nessun caso.

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Criminalistica: dinamica dell’esplosione

L’ordigno Un esplosivo è un sistema che per somministrazione di piccolissime quantità di energia termica o meccanica si trasforma chimicamente in breve tempo e sviluppa energia, gas e vapori. L’esplosione è un fenomeno di trasformazione chimica o chimico-fisica che avviene in un tempo rapidissimo, accompagnata da sviluppo di energia per lo più termica generalmente con sviluppo di gas. Un sistema esplosivo è omogeneo se costituito da una sola specie chimica definita e invece eterogeneo quando è costituito da più sostanze chimiche. Quelli detonanti sono caratterizzati dal fatto che se esposti allo stimolo termico danno luogo a una breve transizione dallo stato di deflagrazione a quello di detonazione. I detonatori possono essere messi a contatto con una carica adiacente o ad un urto. Questi esplosivi sono utilizzati negli artifizi d’innesco e sono denominati “detonanti primari” o esplosivi innescanti cioè in grado di esplodere trasmettendo il fenomeno esplosivo ad altri esplosivi cui sono a contatto. I detonanti secondari, detti anche da scoppio, per esplodere richiedono l’intervento di un detonante primario (es. trinitroglicerina, nitrocellulosa, pentrite, T4 e tritolo). 139

La detonazione è un fenomeno così violento che non può essere spiegato solo con il meccanismo della combustione ed infatti essa si propaga con il meccanismo dell’onda esplosiva. All’onda esplosiva è associato il fenomeno fisico di pressione o onda d’urto e un il fenomeno chimico della reazione di combustione. I due fenomeni coesistono nella reazione esplosiva. Tutti gli esplosivi detonanti sono composti generalmente da uno o più composti organici esplosivi la nitroglicerina, il tritolo, pentrite, T4, ecc. che funzionano da combustibili e da uno o più composti organici ricchi di ossigeno come i nitrati, clorati, perclorati, ecc. che funzionano da comburenti.

La perizia esplosivistica di Coppe e Gregori In data 9 maggio 2018 il dott. Danilo Coppe Geominerario Esplosivista accettava incarico di Perito su richiesta della Corte d’Assise di Bologna in merito all’ultimo processo relativo alla Strage del 2 agosto 1980. In data 11 Luglio 2018, il Presidente della Corte di Assise del Tribunale di Bologna, Dott. Michele Leoni, conferiva incarico al Ten. Col. Adolfo GREGORI, comandante della Sezione di Chimica – Esplosivi ed Infiammabili del Reparto Carabinieri Investigazioni Scientifiche di Roma. L’incarico consisteva nell’espletare una perizia chimica sui reperti inerenti il Procedimento Penale n° 19072/2014 R.G.n.r. e n° 1/2018 R.G. Assise, nei confronti di Cavallini. I quesiti posti dal giudice in merito alla perizia chimico-esplosivistica dovevano trovare risposta tramite una rilettura degli atti ed eventualmente anche tramite metodiche sperimentali innovative. I quesiti del giudice Michele 140

Leoni erano in merito alla composizione dell’esplosivo e percentuale delle componenti dell’esplosivo e sulle dimensioni dell’ordigno usato a Bologna il 2.8.1980 per la strage alla stazione: se ci fosse un temporizzatore chimico o un timer elettrico; sull’utilizzo dello stesso tipo di esplosivo in altre stragi e attentati. Inoltre il giudice chiedeva ai periti esplosivistici di indagare sugli elementi di compatibilità fra l’esplosivo usato per la strage alla stazione di Bologna e le indicazioni tecniche fornite da Sergio Calore nel proprio interrogatorio in data 9.12.1987, in particolare alle pagine da 159 a 161, e comunque. I due periti furono in seguito incaricati di eseguire un addendum alla loro perizia per rispondere al quesito del Presidente della Corte: “Rilevato che nella sentenza in data 16/5/1994 della Corte d’Assise di Appello di Bologna, alle pagine 348 e seguenti vengono sollevate perplessità in ordine alle risultanze della consulenza in materia chimico esplosivistica a suo tempo espletata, in particolare sulla composizione dell’esplosivo e sulle percentuali delle varie componenti in relazione alle dimensioni dell’ordigno; ritenuto altresì di rivalutare l’ipotesi del possibile uso di un temporizzatore chimico anziché di un timer elettrico; ritenuto quindi di procedere anche in considerazione della possibile evoluzione delle tecniche di indagine sul punto che può essere intervenuta negli ultimi decenni una nuova verifica peritale in ordine a quanto sopra, tramite rilettura degli atti ed eventualmente anche tramite metodiche sperimentali, dispone perizia su quanto sopra”. L’esplosione avvenne nella sala d’aspetto della seconda classe della Stazione di Bologna. Tutto l’edificio adibito a 141

Stazione Ferroviaria era una struttura di muratura di mattoni. Il tetto era in travi e sottofondo di legno con tegole. Le pensiline erano costituite da putrelle e pilastri in ferro. La sala di attesa aveva un pavimento di piccole piastrelle in porcellana che formavano mosaico. L’esplosione dell’ordigno ebbe gioco facile nello sfondare le pareti e sollevare la copertura, proiettando infiniti frammenti di laterizio in tutte le direzioni, oltre a, naturalmente determinare il crollo di tutti i muri perimetrali ed invadere i locali attigui. Nella perizia Coppe e Gregori riferiscono la difficoltà di reperire campioni di terreno idonei all’analisi per l’accertamento della composizione dell’esplosivo. I due periti annotano nella loro perizia le difficoltà incontrate nel repertare materiali utili alle indagini esplosivistiche e a tal proposito scrivono: “Giova ricordare che, all’epoca, gli Inquirenti avevano a disposizione infiniti reperti su cuifare analisi e pertanto fu normale consegnare subito tanti oggetti appartenuti alle vittime ma nel 2006, al termine di una fase processuale, fu purtroppo deciso di distruggere ogni reperto raccolto all’epoca della strage: sacchetti di terra raccolti nel cratere e tutti gli oggetti o i frammenti reperiti fra le macerie”. Per i periti restano, dunque, due possibilità per eseguire le perizie. In assenza di materiale analizzabile la perizia non poteva che attenersi ad una valutazione critica per la ricerca di nuovi reperti attraverso la realizzazione di nuovi campionamenti di campioni nell’area del cratere, considerando che era stato riempito di cemento per renderlo monumento alla memoria del 2 agosto. 142

Anche le analisi su oggetti possibilmente presenti nella ex sala d’attesa di 2^ classe avrebbero potuto contribuire alla ricerca di tracce di esplosivo come anche alcuni ricordi delle vittime mai interessati dalle analisi e consegnati ai loro parenti. Gli oggetti utili a tal scopo potevano essere cercati tra le macerie repertate e conservate nell’area militare di Bologna. Un’altra attività di ricerca posta in atto dai due periti esplosivisti si basava sulla repertazione di eventuali tracce di esplosivo su reperti autoptici. Inoltre i periti confidavano nella presenza di reperti “freschi” per analizzarli con nuove tecniche. Le attività peritali sul cratere furono già avviate dal laboratorio di analisi della Polizia Scientifica il 4 agosto 1980 la cui relazione è annotato con il n. 0265 e firmata dall’Assistente Principale di Polizia addetta al Laboratorio di Chimica Antonietta Montoro. All’epoca della prima perizia erano a disposizione 6 buste di plastica trasparente contenenti reperti utili alle analisi come detriti di materiale da costruzione: n 8 garze sterili utilizzate per asportare residui di pareti esterne delle carrozze ferroviarie interessate dall’esplosione e brandelli di stoffa con tracce di bruciatura. Altri reperti di terriccio prelevati dal luogo dell’esplosione furono a disposizione del reparto scientifico dei carabinieri. Infatti nella nota n. 605/80 datata 23 agosto 1980. Purtroppo questo materiale, utile alle perizie esplosivistiche, fu distrutto nel 2006. Quindi Coppe e Gregori optarono per la realizzazione di nuovi carotaggi nell’area del cratere. Per fare tale operazione, però, era necessario acquisire la documentazione tecnica dei lavori di pavimentazione effettuati dopo la stra143

ge al fine di capire se l’intero pavimento era stato escavato e riempito con ghiaia, per ragioni di umidità. L’impresa che si occupò dei lavori, la Edilterra, fallì e il suo archivio confluì in un’impresa cooperativa che a sua volta era fallita. I periti, quindi, fanno richiesta alle Ferrovie dello Stato di possibili fotografie della sala d’attesa scattate all’epoca della sua inaugurazione. Come annotano i periti Coppe e Gregori nella loro perizia: “Anche questa ricerca, vedremo, è stata costellata da inspiegabili lungaggini e difficoltà”. Dopo diverso tempo sono state rese disponibili le carte cantieristiche dei lavori del dopo esplosione. Dal giornale di cantiere si è scoperto che nella ricostruzione della sala il fondo originale non fu sostituito ma si levò semplicemente il vecchio rivestimento. Ma nel 2000 furono realizzati dei bagni proprio sotto la sala d’aspetto in questione. Per cui il metodo del carotaggio fu accantonata, il terreno aveva subito troppe stratificazioni. L’unico oggetto presente nella sala d’attesa e disponibile per le operazioni di campionamento di eventuali tracce di esplosivo era un pannello dell’Ente del Turismo. Il pannello fu conservato, per molto tempo, da Dante Negroni dirigente al Nucleo Controllori Viaggianti con ufficio situato in primo binario. Il Sig. Negroni mi racconta che dopo la tragedia il pannello fu stipato nel magazzino della Stazione. A distanza di un anno, dalla strage, il Sig. Negroni con un suo collega notarono due facchini, addetti alle pulizie, tra144

sportare il pannello destinato alla discarica. Dante mi racconta: “non potevano distruggere quell’oggetto simbolo di quella tragedia e la storia della Stazione prima di quel maledetto 2 agosto. Quel pannello era dell’Ente del Turismo e abbelli per anni la sala d’attesa della prima classe”. Il Sig. Dante è sicuro: quel pannello si trovava nella prima classe e non nella seconda dove avvenne l’esplosione. Nulla cambia alla perizia in quanto furono trovate tracce di esplosivo. Infatti rileggendo il fascicolo n. 198/80 apprendiamo che nessun muro della sala della 2 classe, dopo lo scoppio, avrebbe potuto reggere il pannello. Nel fascicolo la descrizione dei danni provocati dall’esplosione alla Stazione: “L’esplosione ha interessato il terzo sinistro del fabbricato centrale, provocando il crollo della costruzione compresa tra l’atrio partenze e il ristorante tavola calda, con la distruzione quasi totale della sala d’attesa di prima e seconda classe, del corridoio, che dal lato partenze conduce al sottopassaggio… del muro interno posto tra la sala d’attesa di prima classe e la scala d’accesso al sottopassaggio restava in piedi solo una parte, per un’altezza massima di 3 metri, mentre risultava del tutto abbattuto il muro divisorio tra la sala d’accesso al sottopassaggio e la sala d’attesa della seconda classe”. La collocazione del pannello nella prima o seconda classe è importante perché molte componenti volatili dell’esplosivo, come la Nitroglicerina, non sarebbero potute depositarsi a una certa distanza. Ma il dubbio ci sarebbe 145

stato se il risultato delle analisi fosse stato negativo. Infatti la presenza di nitroglicerina è riportata nella prima perizia Marino, Pelizza, Vettori, Spampinato.

Foto del 1976 donata dalla Fondazione Ferrari.

Sarebbe stato interessante confrontare le foto delle due sale d’attesa della Stazione ma la ricerca non ha prodotto risultati. Di conforto è il fatto che anche i due periti esplosivisti ebbero difficoltà nel reperire foto della Stazione con lo stesso risultato. Comunque quel pannello il Sig. Dante l’ha custodito per anni nel suo ufficio al binario 1 della Stazione di Bologna e dopo il suo pensionamento lo donò all’Associazione dei familiari che lo ricollocò nella sala 146

d’attesa. Il confronto fu possibile grazie ad una foto del 1976, l’unica a disposizione, concessa dalla Fondazione Ferrari. Il giorno 11 luglio 2018, presso il Deposito giudiziario del Tribunale di Bologna, Coppe e Gregori iniziarono le attività peritali per la ricerca di tracce di esplosivo.

Il pannello conservato dall’Associazione delle Vittime.

Dalle analisi effettuate sul pannello fotografico fu riscontrata la presenza delle seguenti tipologie di esplosivi: - TNT - RDX - HMX - NG I periti annotano nella loro relazione: “presenza di TNT e l’RDX (Compoud B) che appaiono essere presenti in quantità mediamente superiori alle altre 147

componenti, e tali da poter ritenere, anche a distanza di circa 40 anni dall’evento, che potessero costituire la parte preponderante della carica esplosiva”. I periti evidenziano che l’esplosivo HMX è impiegato soltanto negli esplosivi plastici militari o in quelli da caricamento di ordigni bellici, ed è stato impiegato soltanto dopo il II conflitto mondiale. L’RDX era invece in una percentuale tra 5 e 10. Da questi dati si può concludere che tracce di HMX rilevate provengano dall’RDX recuperato da ordigni bellici, e presente nella carica esplosa alla stazione di Bologna. Altri oggetti utili, per le analisi, furono consegnati ai periti dai familiari delle vittime. I periti hanno allargato le loro ricerche, al fine di ottenere oggetti utili alla loro analisi ricercando reperti nei siti interessati all’epoca come: l’Istituto di Medicina Legale di Bologna per eventuali reperti autoptici, struttura presso l’Università di Padova e Ateneo anche nei Laboratori di Chimica. I periti hanno inoltre interpellato, senza riportare esiti positivi, la Polizia Scientifica di Roma e diverse Strutture Militari di Bologna, Padova, Milano, Orgiano. Un sito ritenuto interessante per queste analisi fu l’Ex 7° Reparto Sezione Magazzini (CERIMANT) di via Prati di Caprara a Bologna, adibito a deposito delle macerie subito dopo l’esplosione. Dopo 38 anni le macerie della Strage furono rinvenute dai periti abbandonate ad un’estremità dell’area e sotto una fitta vegetazione. Per realizzare lo smassamento fu necessaria una deforestazione e un lavoro di scavo e repertazione. I periti analizzarono con certosina attenzione anche tutte le perizie 148

esplosivistiche effettuate negli anni dai loro colleghi ed evidenziano alcune perplessità circa i risultati. La prima perizia del collegio Merino, Pelizza, Spampianto e Vettori del 02/08/1980 e 16/09/1980 affidata dai magistrati Dott. Persico, Dott. Dardani, Dott. Rossi, si concentra sulla presenza di Nitroglicerina e solfato di Bario, oltre TNT (trinitrotoluolo) e T4, quali elementi caratterizzanti una gelatina ad uso civile “rinforzata” con Tritolo e T4. Coppe e Gregori ritennero eccessiva l’attribuzione della presenza di nitroglicerina e solfato di Bario, oltre TNT e T4. Inoltre Coppe e Gregori escludono la presenza di gelatina a base di nitroglicerina che avrebbe reso possibile un innesco anche accidentale, se si pensa soprattutto che il 2 agosto era una giornata particolarmente calda. La nitroglicerina trasudando per l’esposizione al caldo della giornata (sopra i 40 gradi), si sarebbe potuta innescare se la valigia che la conteneva fosse stata appoggiata pesantemente su una superficie. Queste risultanze portano a concludere che l’esplosivo è stato confezionato in ambito militare. Coppe e Gregori mostrarono perplessità anche sulla scelta della Corte di Assise d’Appello nel 1990 che, alfine di chiarire alcune discrepanze emerse nella perizia dell’80/81, nomina un collegio di periti per i 3/5 composto dagli stessi consulenti della prima perizia e su questo punto annotano: “ovvio che questi abbiano ribadito le proprie convinzioni. Di particolare importanza nelle perizie su menzionate come si ritorni a sostenere l’assurdo assioma sulla residualità dell’RDX (che caratterizza ordigni bellici) ovvero che più è presente nella carica esplosiva e meno residuo 149

si riscontra nelle analisi. Tale deduzione è priva di ogni fondamento statistico, ma sembra essere stata considerata alla stregua di una legge fisica, al solo scopo di avvalorare l’ipotesi dell’impiego di una gelatina civile fortificata con TNT e T4”. Un richiamo netto e preciso quello di Coppe e Gregori ai loro colleghi che utilizzano un metodo deduttivo contro ogni legge scientifica, anzi, pur di dimostrare il loro assioma lo validano come legge. Nella nuova perizia, invece, si conferma la natura militare dell’esplosivo. Un’altra perplessità espressa da Coppe e Gregori è relativa alle varie perizie effettuate dopo quella del 1990. La perplessità deriva dal fatto che le perizie successive al 1990 non furono effettuate sulle analisi dei campioni di terra prelevati dal cratere che all’epoca erano disponibile, ma si limitarono a una disamina dei lavori precedenti integrandoli, come riferiscono i periti del 2019: “con considerazioni derivanti dai test effettuati su ipotetiche ricostruzioni della natura e conformazione (geometria) della carica esplodente.” Cosa diversa fu per il collegio peritale Montagni, Ramazzotti, Telloni nominato alla fine degli anni 80 da Giudice Felice Casson del Tribunale di Venezia. Infatti la perizia Montagnani apre scenari differenti sulla natura della carica esplosiva, ipotizzando l’impiego di esplosivi militari derivanti dallo scaricamento di residuati bellici. Ma questa ipotesi non fu mai discussa nelle seguenti fasi processuali. Per quanto riguarda le tipologie di innesco Coppe e Gregori escludono, quindi, la presenza di gelatina a base di 150

nitroglicerina che avrebbe reso possibile un innesco anche accidentale dovuto al caldo del 2 agosto e puntualizzano che: “visti i risultati delle analisi che danno per certa la sostanziale presenza di Compound B, è evidente che si è trattato comunque di esplosivo detonante che necessita INEVITABILMENTE di un detonatore”. In particolare i periti ipotizzano l’uso di un detonatore elettrico in commercio negli anni 80. I detonatori elettrici necessitano di una sorgente di corrente elettrica o con attivazione mediante esploditore apposito oppure attivazione mediante collegamento con pile, batterie, linee elettriche. Fra la sorgente e l’innesco, inoltre, è possibile un interruttore. I periti, quindi, concludono con la possibilità di un innesco elettrico con timer meccanico o elettrico con radiocomando o con timer chimico oppure con interruttore a movimento. La perizia esplosivistica conclude le ipotesi sull’innesco alla luce di un ritrovamento: “un dato è certo. Con l’esplosivo viaggiava almeno un detonatore. L’involucro (una valigia o una borsa da viaggio) conteneva già tutto quanto serviva per fare un ordigno. È statisticamente verosimile, visti i precedenti del periodo. In questo caso, anche il più imprudente fra gli attentatori, era uso a inserire fra la sorgente di elettricità (in questo caso una batteria) ed il detonatore, una “sicura di trasporto”. Fra le macerie di Prati di Caprara, è stato rinvenuto un interruttore”. Non si esclude quindi l’esplosione accidentale. L’interruttore è probabilmente simile a quelli utilizzati 151

nell’industria automobilistica dell’epoca per attivare luci o tergicristalli. Dotato di una levetta on/off pare essere di tipo comune. Appare di diversa destinazione dall’uso automobilistico perché montato su un’asta. L’interruttore si presenta deformato e i periti valutano questa caratteristica:

“lo fa ritenere molto vicino all’esplosione. In una sala d’attesa ferroviaria, secondo chi scrive, non aveva alcuna ragione di esserci. La levetta è danneggiata e non scatta più ma traballa da un estremo all’altro della sua corsa. La qualità del prodotto originale è molto bassa”. Inoltre, i periti ipotizzano che l’ordigno potesse essere collegato ad un timer di tipo meccanico, quale un temporizzatore da forno oppure una banale sveglia meccanica anche un orologio da polso. Sempre sul piano probabilistico i periti escludono l’uso di un radiocomando: 152

“molte comunicazioni ferroviarie avvenivano via radio. Anche l’attivazione di alcuni scambi. Quindi il rischio di un innesco prematuro a causa di frequenze libere dissuaderebbe molti attentatori”. I periti ipotizzano l’attivazione accidentale da parte di qualche curioso di un innesco a movimento qualora il bagaglio, contenete l’ordigno, sarebbe stato lasciato incustodito. Come sorgenti di innesco, Coppe e Gregori, giudicano interessanti dal punto di vista investigativo il ritrovamento di due batterie e a tal proposito concludono: “anche ammettendo che potessero essere la sorgente di elettricità, non danno indicazioni sul meccanismo adottato”.

La quantità di esplosivo

La parte tratteggiata evidenzia le aree interessate dall’esplosione.

Lo studio effettuato dal Dott. Coppe e dal Ten. Col. Gregori, per accertare la quantità di esplosivo utilizzato nella Strage di Bologna, si basa sui seguenti dati: 153

- le dimensioni del cratere - lo studio delle proiezioni A tal fine i periti hanno considerato la struttura architettonica della Stazione di Bologna attraverso disegni vetusti e foto sgranate 1 e il materiale edile utilizzato. I lavori di costruzione iniziarono a maggio del 1858 e venne inaugurata nel 1871, per poi essere ristrutturata in maniera importante nel 1934. I muri della Stazione Centrale di Bologna, all’epoca dell’avvenimento, erano costituiti da una muratura portante in mattoni pieni legati, con tutta probabilità, da malta di calce. Le indagini sono state indirizzate sulla velocità di proiezione dei frammenti di muratura. Dal valore della velocità, attraverso un’analisi del fenomeno dissipatorio dell’energia dell’onda di airblast nel processo disgregativo della muratura, si dovrebbe arrivare al valore dell’onda di airblast commisurato con gli effetti, da cui, sulla base della distanza scalata, al valore più probabile del quantitativo di esplosivo.

Pianta dei luoghi coinvolti dall’esplosione. In rosso e tratteggiati sono evidenziate le strutture coinvolte dall’esplosione (perizia Coppe-Gregori).

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La maggior parte dei frammenti fu trovata a una distanza di 25 metri sul versante del piazzale della stazione. Non fu preso in considerazione il calcolo della distanza dal binario perché falsato dalla presenza del treno al momento dell’evento. Dalle testimonianze e ricostruzioni, sembra che l’esplosivo, di fabbricazione militare, fu posto in una valigia, sistemata a circa 50 centimetri d’altezza su di un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala Ovest. Coppe e Gregori al fine di calcolare la quantità di esplosivo nell’attentato in questione hanno valutato l’effetto cratere attraverso i fascicoli del primo rilievo tecnico nr 198/80: “… Si è evidenziato… OMISSIS… un avvallamento a forma di cratere della profondità media, nella zona centrale, di cm. 23 circa e massima di cm. 35 circa rispetto al piano del pavimento. OMISSIS… Quest’ultimo, a mosaico con tessere di colore biancogrigio, è stato completamente divelto nella zona centrale dell’avvallamento, per circa cm. 120 x 100, mentre presenta i contorni frantumati e frastagliati a strati degradanti verso il centro del cratere per un’area totale di mt. 2,80 x 3,67”. I periti attraverso una serie di calcoli concludono: “dalle formule precedentemente esposte, per poter eguagliare una pressione simile, sono necessari 11.79 kg di TNT equivalente che, in termini di Compound B, equivalgono a 10,31 kg. In sintesi, a nostro avviso, le quantità necessarie a creare il cratere (se la carica fosse stata posta a terra) e i danni da rottura riscontrati, si pongono con quantità di Compound B, pari a circa 10 kg. Tuttavia, 155

essendo molto probabile la presenza di cariche di lancio e, secondo alcune ipotesi del passato, che la carica era posta su un tavolino, la quantità può attestarsi attorno ai 15 kg”. La presenza di TNT e RDX con dinamite gelatina fa supporre ai periti che l’ordigno utilizzato a Bologna il 2 agosto 1980 sia Compound B di provenienza americana, utilizzato nelle bombe d’aereo nella Seconda Guerra Mondiale. Inoltre i periti specificano, nella loro relazione, che per il recupero subacqueo di questo tipo di ordigni erano necessari palloni di sollevamento o argani in superficie. Più facili da maneggiare erano invece i proiettili di artiglieria. Coppe e Gregori specificano che: “avendo trovato tracce di cariche di lancio parrebbe orientarsi l’origine del Compound B della Strage di Bologna verso il Colpo da cannone navale da 5”/38 con peso carica di circa 1,8 kg o il Colpo da artiglieria da 155 con peso carica di circa 6.9 kg”. Quindi si può concludere che l’esplosivo della Strage di Bologna era recuperato dallo scaricamento di munizioni militari. Inoltre continuano i periti di origine bellica: “Chi disponeva di detti materiali poteva disporre ed utilizzare anche cariche di lancio ad integrazione di quelle più potenti. Da qui il reperimento in analisi di NG e altri stabilizzanti come la Akardite la Difenilammina, l’Etilcentralite. Ciò non esclude la possibilità della presenza di una certa quantità di gelatina dinamite (dovuta alla rilevata presenza di NG dai periti dell’epoca)”.

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In rosso e tratteggiati sono evidenziate le strutture coinvolte dall’esplosione (Perizia Coppe-Gregori). Dalle testimonianze e ricostruzioni, sembra che l’esplosivo, di fabbricazione militare, era posto in una valigia, sistemata a circa 50 centimetri d’altezza su di un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala Ovest. I periti inoltre esaminano il cratere provocato dall’esplosione e concludono che le quantità necessarie a creare il cratere (se la carica fosse stata posta a terra) e i danni da rottura riscontrati, si pongono con quantità di Compound B, pari a circa 10 kg. Tuttavia, considerando la composizione dell’esplosivo i periti concludono che la carica era posta su un tavolino e la quantità può attestarsi attorno ai 15 kg. Considerati i risultati delle analisi che danno per certa la sostanziale presenza di Compound B, i periti concludono che: “è evidente che si è trattato comunque di esplosivo detonante che necessitò inevitabilmente di un detonatore. L’involucro era una valigia posizionata sotto il tavolo nell’ala ovest della sala d’aspetto della 2 classe”. L’uso di un innesco chimico è escluso dai periti in quanto prevede una preparazione di 10 minuti prima dal momento dell’esplosione e, quindi, impossibile ipotizzarne l’uso scenario del genere considerato il luogo affollato e non idoneo a poter svolgere un’operazioni così delicata e riservata. Anche l’uso di innesco di un radiocomando viene escluso dalle ipotesi di Coppe e Gregori, perché nel 1980 molte comunicazioni ferroviarie avvenivano via radio e si rischiava un innesco prematuro. Tra i reperti di Prati di Caprara, inoltre, furono reperiti 157

dai Coppi e Gregori due parti di batterie ritenute probabili sorgenti di innesco. Ma anche ammettendo che potessero essere la sorgente di elettricità, non danno indicazioni sul meccanismo adottato. La relazione dei due periti si conclude con un’annotazione meritevole di attenzione investigativa ai fini di identificare gli eventi terroristici simili, per l’utilizzo della stesso tipologia di ordigno, con la Strage di Bologna. 1. L’attentato al treno Marsiglia-Parigi a Tain l’Hermitage, 31 dicembre 1983. Alle 19.45 esplode un ordigno di notevole potenza tra la seconda e la terza carrozza di prima classe del treno superveloce TGV Marsiglia-Parigi. Il treno aveva lasciato la stazione di Marsiglia alle 17.29. Al momento dell’esplosione il treno viaggiava a 160 chilometri orari e si stava dirigendo verso Lione. Appena 35 secondi prima aveva incrociato un altro convoglio. Se lo scoppio fosse avvenuto in quel frangente lo spostamento d’aria avrebbe sicuramente provocato il deragliamento dei due treni. Invece il TGV proseguì la sua corsa per quasi mezzo chilometro e si fermò nella stazione di Tain Hermitage, dove sopraggiunsero i soccorsi. Tre i morti ed una quindicina i feriti. L’analogia con gli ordigni utilizzati nell’attentato al treno Marsiglia-Parigi e quello della Strage di Bologna fu già messa in evidenza in un’interrogazione molto dettagliata il 2 febbraio 2006, dall’allora parlamentare di Alleanza Nazionale 2. L’attentato alla stazione Saint-Charles di Marsi158

glia, 31 dicembre 1983. Alle 20.09 esplode una bomba nascosta in una valigia lasciata nel deposito automatico bagagli della nuova stazione Saint-Charles di Marsiglia, inaugurata da appena un mese. L’ordigno a tempo era stato programmato per esplodere al momento dell’arrivo di un rapido Parigi-Marsiglia. Pochi secondi e la stazione sarebbe stata affollata di passeggeri scesi dal treno. Nel deposito bagagli lo scoppio ha aperto una voragine di due metri di diametro nel pavimento. Due i morti, un algerino di 25 anni e un polacco di 38 anni. I feriti furono 34 di cui 7 gravemente mutilati. In un telegramma compilato il 7 febbraio 1984 da un generale del ministero dell’Interno ungherese e inviato ad un suo omologo tedesco orientale si legge: «Il gruppo terroristico di Carlos sta diventando più attivo. Gli attentati commessi il 31 dicembre 1983 nel sud della Francia sono da ascrivere a questo gruppo»”. Fragalà nella sua interpellanza parlamentare n 2-1636 inviata con urgenza il 17 agosto 2015 dal Ministero della Giustizia alla Procura della Repubblica di Bologna alla Procura sottolineò anche l’incredibile somiglianza fra l’attentato al treno 904 in Italia e quello compiuto da Carlos contro il treno ad alta velocità a Tain L’Hermitage, in Francia. Subito dopo l’attentato sul 904, esattamente come era accaduto un anno prima, il 1 o gennaio 1983 in Francia per due attentati ai treni, uno alla stazione di St. Charles Marsiglia, l’altro sul treno ad Alta Velocità a Tain L’Hernitage, entrambi oggi definitivamente attribuiti dalla giustizia francese al terrorista Ilich Ramirez Sanchez detto Carlos, scriveva Fragalà all’epoca: 159

“arrivarono varie rivendicazioni di organizzazioni di destra e, infine, in entrambi i casi, una rivendicazione della Jihad islamica…” A proposito delle analogie tra la Strage di Bologna e altri eventi terroristici i periti concludono: “i due eventi verificatisi in Francia, all’attentato al treno Italicus hanno le maggiori analogie contestuali (location) e vittimologiche con la strage di Bologna. Dei primi due non siamo riusciti a reperire informazioni di dettaglio sulla composizione delle cariche esplosive… Allo stato attuale non è possibile individuare tante e tali analogie da poterli ricondurre ad un unico disegno criminale/eversivo”. Un’annotazione importante nella relazione dei periti è la seguente: “Dispostivi simili risultano essere stati presenti nell’ordigno destinato a Tina Anselmi anche a quello trasportato dalla Christa Margot Frohlich Christa Margot Frohlic quando fu arrestata a Fiumicino nel 1983”. Christa Margot Frohlich era una terrorista tedesca appartenente al gruppo di Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come ‘Carlos lo sciacallo’. Per quanto riguarda il sistema di innesco: “a livello solo probabilistico, riteniamo che l’ordigno potesse essere collegato ad un timer di tipo meccanico, quale un temporizzatore da forno oppure una banale sveglia meccanica o anche un orologio da polso”.

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Anatomia di un’esplosione L’esplosione alla Stazione di Bologna fu causata da un ordigno, dalla quale composizione concludono i periti della Corte d’Assise di Bologna del 2019. “è evidente la presenza di TNT e RDX, oltre la dinamite gelatina, nell’esplosivo usato a Bologna il 2 agosto 1980, la scelta cade o sul Compound B o meno probabilmente sulla Tritolite. Il primo di provenienza USA il secondo Europa. Il Compound B è un esplosivo impiegato nella seconda parte del Secondo Conflitto Mondiale!”. Largamente impiegato nelle bombe d’aereo… quindi: “l’esplosivo di Bologna è sicuramente di origine bellica, frutto dello scaricamento di munizionamento militare. Chi disponeva di detti materiali poteva disporre ed utilizzare anche cariche di lancio ad integrazione di quelle più potenti. Da qui il reperimento in analisi di NG e altri stabilizzanti come la Akardite la Difenilammina, l’Etilcentralite. Ciò non esclude la possibilità della presenza di una certa quantità di gelatina dinamite (dovuta alla rilevata presenza di NG dai periti dell’epoca). Un altro elemento è: “la presenza modesta di alluminio “partecipante” nei capelli dello scalpo 1 non necessariamente dovrebbe appartenere alla composizione dell’esplosivo usato” e annotano che: “oltre ad un possibile contenitore o alle componenti di un meccanismo di attivazione, non va dimenticato che i detonatori hanno il bossolo di alluminio. Se l’ordigno viaggiava con una piccola scorta di detonatori, questa potrebbe giustificare la quantità effettivamente rinvenuta. Non è stato quantificato il numero totale di particelle di alluminio, poiché non ha senso un’analisi 161

quantitativa, non avendo termini di paragone, ma il dato importante è la sola presenza di tale tipo di particelle. Il numero di particelle di alluminio individuato sugli stubs è comunque nell’ordine di qualche decina, e soltanto alcune di esse per comodità sono state documentate nella relazione, essendo tutte simili nella forma e nella composizione”. Per cui si potrebbe ipotizzare che l’alluminio fosse presente sul bossolo di un detonatore che viaggiava con un ordigno e un timer difettoso anche “in plastica potrebbe dare origine a un’esplosione prematura/indesiderata a seguito di scossoni” come suggeriscono Coppe e Gregori. Come accadde a Giacomo Feltrinelli nel 1972 nell’attentato ai tralicci di Segrate. Feltrinelli perse la vita nel tentativo di programmare la detonazione delle cariche utilizzando un timer ricavato da orologi da polso con schermo e parti in plastica. O come accadde a Silvio Ferrari morto il 19 maggio 1974 di notte alle 3:30 circa, in via IV Novembre nei pressi di piazza del Mercato a Brescia in seguito all’esplosione della bomba che portava sulla pedana della Vespa per posizionarla davanti alla sede bresciana della CISl. L’ordigno era composto da mezzo chilo di tritolo ad alto punto di fusione e da mezzo chilo di polvere da mina con innesco a orologeria con una sveglia di marca “Europa” del 1968. La causa dello scoppio non fu accidentale ma dovuta a un errore di regolazione della sveglia. Oltre al dato riferito al tipo di ordigno e timer e l’eventualità di uno scoppio per errore è interessante notare che il corpo di Ferrari, anche se con parti mancanti, fu rinvenuto e identificato. Addirittura fu anche possibile riportare l’esatta posizione della vittima nel momento dello scop162

pio. Nella perizia medico legale si legge che Ferrari si trovava con i piedi per terra e i gomiti sul manubrio della Vespa col motore acceso. Coppe e Gregori, nella loro relazione, spiegano come sia possibile un’esplosione con un timer elettrico: “togliendo la lancetta dei minuti per disporre di 12 ore di tempo programmabile per la detonazione delle cariche, si eliminava in parte il contrasto adeguato sul perno di rotazione delle lancette stesse. A questo punto la lancetta delle ore era soggetta a spostamenti in caso di urto e quindi all’attivazione delle cariche”. Per cui è ipotizzabile lo stesso scenario nella Strage alla Stazione di Bologna. I periti, lo ribadiamo, annotano nella loro relazione che: “un dato è certo. Con l’esplosivo viaggiava almeno un detonatore. L’involucro (una valigia o una borsa da viaggio) conteneva già tutto quanto serviva per fare un ordigno. È statisticamente verosimile, visti i precedenti del periodo. In questo caso, anche il più imprudente fra gli attentatori, era uso a inserire fra la sorgente di elettricità (in questo caso una batteria) ed il detonatore, una sicura di trasporto”. Quindi l’esplosione per errore o per una tragica fatalità non è escluso come ipotesi nella Strage di Bologna. Inoltre, lo ricordiamo, nelle macerie di Prati di Caprara, fu rinvenuto dai periti Coppe e Gregori un interruttore di alluminio che viene ipotizzato come parte dell’ordigno con una levetta off e on danneggiata. I periti del PM ipotizzano che qualora quell’interruttore fosse stato parte dell’ordigno si 163

sarebbe fuso a seguito dell’esplosione. Coppe e Gregori rispondono che: “chi scrive non condivide l’idea che l’alluminio, avendo un punto di fusione basso, si disintegri certamente se è nei pressi di un’esplosione. Vero è che la temperatura di una detonazione è 2 o 3 volte quella di fusione dell’alluminio, ma tale onda termica ha la durata di pochi millesimi di secondo. C’è differenza quindi fra temperatura emanata e temperatura percepita dagli oggetti. Inoltre se l’interruttore fosse stato posto all’esterno dell’involucro dell’ordigno o avesse avuto fra l’esplosivo e sé stesso una serie di indumenti costipati, si potrebbe tranquillamente pensare ad una preservazione del metallo”. Inoltre l’interruttore era interessato da un’ossidazione compatibile con un’esposizione ad alta temperatura. “Del resto è frequentissimo trovare, dopo i lavori di mina, la parte estrema di un detonatore, anch’esso di alluminio, che pure era a ridosso delle cariche esplosive”. Per quanto riguarda il sistema d’innesco Coppe e Gregori annotano che: “i periti del tribunale che ci hanno preceduto non sono stati in grado di reperire reperti significativi. Lo scrivente ha potuto intravedere solo copie annerite di fotocopie di foto e descrizioni non esaustive su alcune componentistiche che potevano essere riconducibili all’innesco. Quindi, secondo chi scrive, a livello SOLO probabilistico, riteniamo che l’ordigno potesse essere collegato ad un timer di tipo meccanico, quale un temporizzatore da forno 164

oppure una banale sveglia meccanica o anche un orologio da polso”. Infatti a seguito dell’esame dalle macerie accantonate nell’area demaniale del Magazzino del Genio Militare dei Prati di Caprara ad opera dei carabinieri di Bologna iniziati il 7 agosto 1980 e terminato 6 settembre dello stesso anno, vennero ritrovati e sottoposti a perizia dal Maresciallo del Carabinieri Bartolomeo Gasperoni e contenuti nella busta n3: molla a spirale probabilmente per sveglia; parte di una sveglia con due sfare segna ore; di filo con il terminale a linguetta metallica; pezzetto di filo di circa cm. 15 color blu; cm.15 (filo al elettrico); chiodo metallico di percussore; pezzetto di filo elettrico di circa 8 cm. di color rosso; frammento di plastica con applicati due fili. Una lista di oggetti che potrebbero far parte del confezionamento di un ordigno con un timer elettrico anche di plastica, come ipotizzato dagli ultimi periti esplosivisti Coppe e Gregori. Ricordiamo che tutto questo materiale repertato all’epoca della tragedia è stato distrutto su ordine delle autorità competenti nel 2006. Per quanto riguarda il quantitativo di esplosivo, Coppe e Gregori, affermato sia stato di circa 15 kg contenuto in una valigia. La storia ci restituisce l’esperienza di altri attentati terroristici e ci permette di affermare che spesso l’esecuzione di una strage presuppone che la carica sia costituita da un esplosivo detonante confezionato in precedenza in modo da ottenere una densità di caricamento che garantisca una velocità di detonazione ottimale. Quindi si potrebbe ipotizzare un ordigno formato da un nucleo iniziale della carica, 165

rappresentato dalla carica base e da una carica supplementare esplosiva. Il modus operandi dell’operazione terroristica è coerente con un’azione a più sequenze messe in atto da più persone ignare del progetto e dalla loro funzionalità. Si ipotizza inoltre che siano stati impiegati due involucri, esempio due valige. Dopo l’operazione di innesco, lontana dalla scena del crimine, si sarebbe attuato l’avvicinamento dei due involucri, uno contenente la carica base con il congegno di accensione, l’altro contenete la carica esplosiva. L’esplosione accidentale non solo può essere ipotizzata dall’esperienza del sequestro dell’esplosivo di Frolich Christa Margot ma anche dal ritrovamento da parte dei periti Coppe e Gregori dell’interruttore difettoso nelle macerie di Prati di Caprara. Appare poco convincente l’ipotesi che il congegno di accensione sia stato innescato, volontariamente, sulla scena del crimine. Il congegno di accensione sarebbe potuto essere un detonatore, una miccia accesa avrebbe sviluppato molto fumo e un odore di bruciato che avrebbe attirato l’attenzione. In tal caso il detonatore con l’interruttore un timer elettrico difettoso avrebbe viaggiato all’interno dell’involucro diverso da quello che conteneva la carica esplosiva. Sulla base di questa ipotesi è evidente che il congegno di accensione era costituito da: a. un vero e proprio congegno di accensione a tempo b. da un interruttore con levetta on e off come quello ritrovato nelle macerie di Prati Caprara o un timer elettrico c. una carica esplosiva primaria. 166

Quindi si potrebbe ipotizzare: esplosione accidentale, l’ordigno doveva essere trasportato in un’altra località obiettivo dei terroristi; consapevole, una scomposizione di fasi distinte per agevolare l’operazione. In entrambi i casi si prospettano le seguenti fasi • fase di trasporto della carica anche con più di una valigia • fase di collocazione della carica sul tavolino portabagagli della sala d’attesa della seconda classe della Stazione di Bologna • fase di innescamento della carica esplosione lontano dalla scena del crimine. Ovvero la connessione elettrica nonché l’inserzione del detonatore elettrico nella carica primaria. Riportiamo quanto dichiarato nella perizia esplosivista di Coppe e Gregori: “con l’esplosivo viaggiava almeno un detonatore. L’involucro (una valigia o una borsa da viaggio) conteneva già tutto quanto serviva per fare un ordigno. È statisticamente verosimile, visti i precedenti del periodo. In questo caso, anche il più imprudente fra gli attentatori, era uso a inserire fra la sorgente di elettricità (in questo caso una batteria) ed il detonatore, una ‘sicura di trasporto’. Fra le macerie di Prati di Caprara, è stato rinvenuto un interruttore… La sua deformità lo fa ritenere molto vicino all’esplosione. In una sala d’attesa ferroviaria, secondo chi scrive, non aveva alcuna ragione di esserci. La levetta è danneggiata e non scatta più ma traballa da un estremo all’altro della sua corsa. La qualità del prodotto originale è molto bassa”. 167

Quindi si potrebbe ipotizzare un’organizzazione in più ruoli distinti. Colui che è responsabile dell’innescamento è incaricato di montare, azionare e lasciare il suo involucro. L’involucro con innesco azionato viene lasciato sul tavolo portabagagli, per non destare sospetti, accanto ad altre cariche. Gli involucri vengono affidati a colui che ha il ruolo di trasportatore. Le operazioni di innescamento così delineate, quindi, permetterebbero di ipotizzare l’azione di due ruoli: quello del trasportatori (ad esempio uno con la carica detonante, l’altro con la carica esplosiva) e quello dell’innesco. Altro scenario è l’attivazione accidentale della levetta dell’interruttore difettoso, come quello ritrovato da Coppe e Gregori, e l’attivazione del timer con la conseguente attivazione della carica base e l’esplosione dell’involucro con la carica esplosiva posizionata accanto e predisposte per il solo trasporto. Un’esplosione accidentale sarebbe giustificata dalla presenza di Nitroglicerina. Nella prima perizia la nitroglicerina fu menzionata come componente dell’ordigno. I periti Coppe e Gregori, a tal proposito scrivono nella loro perizia: “Se avessimo dovuto dare per buone le analisi fatte in origine, la presenza di gelatina a base di nitroglicerina avrebbe reso possibile un innesco anche accidentale, se si pensa soprattutto che il 2 agosto era una giornata particolarmente calda. La nitroglicerina trasudata per lunghe esposizioni al caldo, (sopra i 40 °C) può innescarsi se, la valigia che la conteneva fosse stata appoggiata pesantemente a terra. Con l’esplosivo, riscontrato, ossia con prevalenza di RDX e TNT, NON si presentano criticità legate alle temperature”. 168

Nella foto è evidente il cratere provocato dall’esplosione.

La presenza di Nitroglicerina è supportata però solo dalla prima perizia, perché avevano a disposizione più oggetti sui quali improntare le loro analisi. Coppe e Gregori, invece, repertano le particelle di esplosivo solo sull’unico oggetto a loro disposizione, il pannello dell’Ente del turismo, conservato per molti anni nell’ufficio del Sig. Negroni e poi consegnato all’Associazione Vittime della Strage che provvedette a posizionarlo nella sala d’attesa della 2 classe. Ma, come ricorda il Sig. Negroni, quel pannello prima dell’esplosione si trovava nella 1 classe. Questa lontananza della fonte dell’esplosione giustifica l’assenza della Nitroglicerina essendo una sostanza volatile e quindi soggetto alla variabile distanza dal punto della detonazione. In caso di esplosione accidentale sarebbero deceduti an169

che i trasportatori e ne avremmo riscontro. Un dato è certo. In quella sala d’aspetto una persona non è stata ancora identificata ed è la persona dello Scalpo 1. Qualora l’obiettivo fosse stato la Stazione di Bologna sarebbe logico pensare che trasportatore dell’ordigno si sarebbe allontanato in un luogo sicuro e non avremmo di certo testimoni oculari della sua presenza nel momento dell’esplosione.

Un reperto scomparso In un documentario di qualche anno fa prodotto da Collettivo Italiano coop a.r.l, con la regia di Gian Butturini, conservato dalla Banca della Memoria del Cosentino si vede in conferenza stampa del 5 agosto 1980 il Questore di Bologna Italo Ferrante rispondere alle domande dei giornalisti. L’intervento al min. 22.45 di un giornalista non ancora identificato può aprire a nuovi scenari: “Io, Sig. Questore sono stato casualmente, ovviamente, 170

testimone di un ritrovamento: di un pezzo di innesco del congegno di una bomba rinvenuto da un vigile del fuoco il quale l’ha consegnato al Comando della Polizia Ferroviaria. Io personalmente assieme ad un altro collega abbiamo sentito il vigile del fuoco, guardando l’innesco, che si trattava di un congegno con degli spezzoni di miccia combusta. Nel momento in cui il vigile del fuoco è entrato e ha consegnato cautamente al comando io mi sono accostato per entrare e sono stato respinto, la porta chiusa a chiave e hanno abbassato la tendina. Ciò è avvenuto mezz’ora prima l’arrivo del Presidente Pertini. Siccome si è parlato sempre, fino a tarda sera di un’eventuale tragedia causata dallo scoppio di una caldaia, le chiedo, Sig. Questore, se le risultasse questo rinvenimento, l’ora, il verbale di ritrovamento e di cosa si trattava. Il Questore Ferrante risponde che se ne sarebbe accertato. Dell’esistenza del reperto segnalato dal giornalista, ritrovato dal vigile del fuoco e consegnato al comando della Polizia Ferroviaria era fino ad oggi sconosciuta. Io non metto in dubbio che questo oggetto sia sparito come le valige che sparirono da Padova, dal momento in cui le autorità di governo e polizia hanno parlato di un incidente mentre prima che arrivasse Pertini era in mano la prova di un attentato”. In un’ANSA del 2 agosto (n. 421/1), infatti, si fa riferimento al ritrovamento di un ordigno alcuni minuti prima l’arrivo del Presidente Pertini. I sostituti procuratori della Repubblica Riccardo Rossi, che era di turno e Attilio Dardani, dopo una sommaria ispezione esterna non si sono voluti pronunciare sulla natura dell’oggetto “dobbiamo aspettare l’esame di un perito” hanno detto. 171

Dell’ordigno, da come è evidenziato nel capitolo sulla perizia esplosivistica, non fu ufficialmente repertato nulla. Coppe e Gregori in assenza di materiale analizzabile per la perizia non potevano che attenersi ad una valutazione critica della ricerca di nuovi reperti. In nessun verbale, quindi, ne tantomeno nel materiale a disposizione dei periti Coppe e Gregori si fa menzione di un ordigno con spezzoni di miccia combusta. I periti, infatti, concludono: alla luce di tutte queste possibilità, escludendo quelle molto improbabili per difficoltà di reperimento dei componenti, complessità eccessiva e periodo storico restano le seguenti possibilità: - Innesco elettrico con timer meccanico; - Innesco elettrico con radiocomando; - Innesco elettrico con timer chimico; - Innesco elettrico con interruttore a movimento. Quindi in assenza di altro materiale escludono la possibilità di un detonatore a fuoco e di uno spezzone di miccia a lenta combustione e un’attivazione con miccia a lenta combustione (ritardo dell’esplosione dipendente dalla lunghezza della miccia). Si potrebbe razionalmente concludere che nessun esperto esplosivista si sarebbe cosi sprovveduto da trasportare esplosivo ad alto potenziale militare con dei detonatori un’esplosione accidentale. Ma la storia ci restituisce il caso del sequestro da parte del giudice Rosario Priore della valigia contenete esplosivo con detonatore a Fiumicino nel 1982 alla terrorista Christa-Margot Fröhlich. La Fröhlich iscritta dalla Procura di Bologna insieme a Thomas Kram sul registro degli indagati nell’ambito del procedi172

mento penale n. 7823/05 (“indagini sul delitto di strage avvenuto alla Stazione di Bologna”, ma poi archiviato). Un’annotazione importante nella relazione dei periti è la seguente: “dispostivi simili risultano essere stati presenti nell’ordigno destinato a Tina Anselmi anche a quello trasportato dalla Christa Margot Frohlich Christa Margot Frohlic quando fu arrestata a Fiumicino nel 1983.” Christa Margot Frohlich era una terrorista tedesca appartenente al gruppo di Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come ‘Carlos lo sciacallo’. Per quanto riguarda il sistema di innesco: “a livello solo probabilistico, riteniamo che l’ordigno potesse essere collegato ad un timer di tipo meccanico, quale un temporizzatore da forno oppure una banale sveglia meccanica o anche un orologio da polso”. Dalle perizia di Calisti e Geromini (Rif.to D3354/ D3357 - Tome 38 ) sappiamo che l’esplosivo rinvenuto in una valigia Delsey Nera in possesso di Frolich Christa Margot. All’interno della valigia furono rinvenute, “tappezzate” alle pareti interne, spirali di miccia detonante per una lunghezza totale di 84 metri ed un peso di pentrite di circa 1260 grammi (miccia detonante con carica lineare al metro di circa 15 grammi). Il dispositivo di innesco risultò costituito da due detonatori elettrici in alluminio attivabili da una sveglia a suoneria elettronica modificata, collegata ad una pila da 1,5 V. In particolare della valigia fu trovata una miccia detonante esplodente contenete esplodente tipo T4 avete peso complessivo di Kg 3.5 (Marino, Pelizza, Vettori, Spampinato 1980). 173

Se fosse vero il ritrovamento della testimonianza del giornalista durante la conferenza stampa del 5 agosto 1980 cambierebbe la dinamica dell’esplosione e ipotizzare un altro scenario investigativo considerando il tipo di ordigno già sequestrato alla Frolich? Il ritrovamento di un ordigno con spezzoni di miccia combusta potrebbe essere parte di un timer elettrico magari difettoso? Se fosse accertato un siffatto ordigno sarebbe possibile ipotizzare un’esplosione accidentale? E perché trasportare un ordigno pronto per essere esploso? Forse perché, come detto in precedenza, l’operazione d’innesco veniva fatta da una persona diversa dal trasportatore, ignaro del contenuto della valigia, in un luogo distante dalla scena del crimine. Conoscere la composizione dell’esplosivo, la quantità dei componenti e la struttura dell’ordigno è importante per comprendere il profilo dell’artificiere. La storia processuale della Strage di Bologna mantiene coerente il profilo e la matrice degli attentatori nonostante le varie perizie restituiscano conclusioni diverse sul tipo di ordigno. Infatti Fioravanti, Mambro e Ciavardini verranno condannati sulle risultanze peritali di un ordigno diverso da quello per cui è stato condannato il loro correo Gilberto Cavallini. Una logica processuale che dovrebbe mantenersi inalterata nel tempo nel rispetto di chi cerca giustizia.

Tracce, segni, ferite La stazione di Bologna è un crocevia di storie, di gente che va, di gente che resta e di gente che lascia il segno. Ogni segno non dovrebbe essere trascurato perché potreb174

be cambiare la storia. Perché Bologna ha scritto la storia e a Bologna ogni segno ha la sua la storia. Lo è da sempre. Di persone a Bologna quel giorno ne erano passate tante, non tutte per restarci. C’era Thomas Kram: giovane studente dell’università di Perugia, noto alle autorità internazionali. Kram fu arrestato dalla polizia tedesca il 16 agosto 1976 perché membro appartenente all’organizzazione eversiva RZ-Revolutionaere Zelle. Il 1 agosto del 1980 alle ore 12.08, prima di giungere a Bologna, Kram fu identificato e perquisito dalla polizia ferroviaria al valico di frontiera di Chiasso, sul treno 201 partito da Karlsruhe e diretto a Milano. Kram fu fermato dalla polizia italiana su richiesta delle autorità tedesche con una commissione rogatoria internazionale al fine di ritracciare una cittadina tedesca, esponente delle cellule rivoluzionarie che poteva trovarsi in compagnia di Kram il quale risultava in contatto con Heidi, identificata con Frohlich Margot Christa, esponente di spicco del gruppo terroristico di Carlos lo Sciacallo. Nella tarda serata di quello stesso giorno Kram prese alloggio presso l’albergo di Bologna in via della Zecca dove fu identificato con la sua patente di guida numero n 20344 rilasciata l’11 novembre 1970. Infatti così si legge nel fascicolo d’archiviazione dell’indagine su Kram e la Froelich come autori della strage: “la scheda dell’albergo centrale sembra indicare l’arrivo di Thomas Kram o quantomeno la sua registrazione al n 1481 della stanza 21, dopo la mezzanotte del 1 agosto”(fascicolo n 13225/ RNR richiesta di archiviazione Cieri)”.

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Il giorno successivo Kram lasciò l’albergo. Sempre il 1 agosto del 1980 presso l’Hotel Jolly è di stanza una giovane donna tedesca. È bionda. È una bella donna e non passa inosservata agli occhi attenti di un cameriere dell’Hotel, Roberto Bulghini che racconta: “si fece portare una valigia alla stazione da un facchino e questo successe il giorno precedente alla strage. La donna ritornò in Hotel Jolly il 2 agosto […] era particolarmente euforica”. Il cameriere riconoscerà quella tedesca bionda due anni dopo la strage su una pagina di giornale dopo il suo arresto all’aeroporto di Fiumicino con una valigia piena di esplosivo. La donna tedesca di 38 anni si chiama Frolich Margot Christa. C’è da precisare che le dichiarazioni di Roberto Bulghini saranno smentite dal suo stato mentale. Infatti, Bulghini, fu ricoverato per psicosi delirante nel 1986. Della presenza della Frolich a Bologna il 2 agosto del 1980 non abbiamo nessuna conferma. La Frohlich fu arrestata il 18 giugno 1982 all’aeroporto di Fiumicino perché trasportava in una valigia 3,5kg di miccia detonante ad alto potenziale T4. La Frohlich fu detenuta presso la Casa Circondariale di Rebibbia a Roma fino al 20 dicembre 1988. Kram e Frohlich saranno indagati nel 2005 dalla Procura di Bologna su richiesta del Ministero della Giustizia. Infatti Il 17 agosto 2005, il Ministro trasmette alla Procura della Repubblica di Bologna copia dell’interpellanza urgente n 2-1836 del deputato Vincenzo Fragalà con la quale richiedeva: “[…] informazioni sugli esiti di eventuali attività di indagine compiute da codesta procura della Repubblica, concer176

nenti il coinvolgimento del gruppo terroristico denominato ‘Separat’ guidato da Ilich Ramirez Sanchez detto Carlos lo Sciacallo, nella strage avvenuta il 2 agosto 1980”. Questa richiesta era supportata dall’ipotesi alternativa alla pista Nar e denominata pista Palestinese. Il movente sarebbe stato riconducibile alla violazione, da parte dello Stato Italiano, degli accordi segretamente intercorsi con le organizzazioni militari palestinesi, il cosiddetto Lodo Moro, per consentire il trasporto da parte di vari esponenti del gruppo terroristico di Carlos lo Sciacallo, di d’armi sul territorio italiano salvaguardando i nostri interessi militari ed economici. L’accordo fu violato il 7 novembre 1979 quando ad Ortona furono arrestati Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Giorgio Neri, colti in possesso di due missili Sam 7 Strella ed il successivo arresto il 13 novembre 1979 di Abu Anzeh Saleh, cittadino giordano e residente a Bologna il cui nome era annotato su un foglio segue a Sergio Neri. Thomas Kram era presente a Bologna il 1 e il 2 agosto 1980. Kram faceva parte del gruppo di Carlo e lo riferisce Cieri nella sua richiesta di archiviazione: “Nel documento 86, Kram era indicato come membro delle cellule rivoluzionarie descritto dalla M.F.S. come a pieno titolo del grippo di Ilich Ramirez Sanchez. I servizi ungheresi lo descrivono come appartenente al ramo tedesco. I servizi tedeschi fanno risalire alla metà del 1979 l’incontro tra i due uomini (IV, 2599 e 2634)”. In un altro documento si apprende che Kram (alias Laszlo) non aveva un ruolo dirigenziale all’interno del grup177

po di Carlos come, invece, lo era la Frolich (Heidi). L’ipotesi palestinese è stata indagata e archiviata come tutti i personaggi che ne rappresentano l’azione, la struttura e la dinamica nella strage del 2 agosto 1980. Eppure Kram e Froelich non sono gli unici a lasciare segni che sbiadiscono nel tempo e invecchiano nelle carte. Altre due donne lasceranno il segno a Bologna. È il 31 luglio del 1980 alla reception dell’Hotel Exclesior, le cui finestre si affacciano sulla sala d’aspetto di seconda classe, si registrano due passaporti uno a nome di Maria Quintana, nata a Bilbao il 5 marzo 1936 e residente in Venezuela e l’altro a nome di Juanita Jaramillo di origine basca. Due passaporti due donne mai identificate, spettatrici o registe di un imminente cambio della storia italiana. Non sappiamo chi siano queste donne. Non sappiamo nemmeno chi possano essere i due asiatici avvistati da un certo Iamello operaio italiano residente a Barntrup in Germania che il 7 agosto 1980 dichiarò in un’intervista: “ad un corrispondente italiano della WDR DI Colonia, egli ha dichiarato che si trovava nella Stazione di Bologna in attesa di congiunti dalle 9 del mattino fino al momento dello scoppio e poi di aver notato tra l’altro la presenza sospetta di due persone, apparentemente asiatiche, che si aggiravano poco prima dell’esplosione con bagagli nei pressi della sala d’attesa della seconda classe e di aver avuto la sensazione che al momento in cui esse si dirigevano verso i binari non avessero più una valigia”. (Comunicato dell’ambasciata italiana a Bon n. 00981 al Ministero dell’Interno).

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Il signor Iamello, nonostante si fosse messo a disposizione delle autorità italiane, non fu mai ascoltato e la sua testimonianza ha forse perso un segno importante per questa assurda vicenda. È stata quindi mia premura contattare Radio Colonia, ma purtroppo dopo svariate ricerche, la dott.ssa Daniela Nosari mi ha confermato che tutte le registrazioni risalenti a prima del 1981 sono andate al macero per problemi di spazio. Infine ci sarebbe la donna assonnata e accaldata vestita da turista tedesca che lascia un labile segno nel ricordo della Sig.ra Mirella Cuoghi: si perché la Sig.ra Cuoghi non ricorda più se la donna fosse accompagnata da altri turisti vestiti “in maniera pesante”. Sappiamo con certezza chi ha lasciato un segno indelebile nella storia d’italia e sono le 85 vittime (e forse una scomparsa) e i 200 feriti che hanno fermato la loro esistenza alle 10.25 del 2 agosto 1980 alla Stazione di Bologna. Ci sono vigili del fuoco che intervennero alcuni minuti dopo lo scoppio. Alcuni di loro mi hanno accompagnato con la loro narrazione sul luogo della tragedia, come Stefano Sghinolfi soprannominato dai colleghi cucciolo perché era il più giovane della squadra) che mi racconta: “Ero di servizio quella mattina. Ricordo che siamo giunti sul posto alcuni minuti dopo l’arrivo della prima squadra della Caserma Carlo Fava del distaccamento di Viale Bologna. Ci rendemmo subito conto che non poteva trattarsi dello scoppio di una caldaia, le macerie erano troppe. Io ero in squadra con Claudio Deserti e con lui partecipai al recupero di Marina Gamberini”.

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Claudio Deserti al telefono continua il ricordo del collega: “Eravamo sul marciapiede del binario 1, la Stazione era completamente crollata. Si avvertivano urla di dolore provenienti sotto le macerie quando mi sentii dei picchiettii sulla spalla, mi girai. Un signore presentandosi come un controllore mi chiese di intervenire per salvare una persona incastrata agli uffici del primo piano. Alzai lo sguardo ma non vidi nessuno. Non mi persi d’animo e contro gli ordine del mio superiore Enzo Grilli mi arrampicai. Entrai dalla finestra, facendomi spazio tra le macerie. Scorsi una persona: era appoggiata ad una scrivania con le braccia incastrate lungo i fianchi. Mi era difficile raggiungerla. Le toccai il viso per accertarmi che respirasse, che fosse viva. Le tolsi la polvere dalla bocca e sentii un rantolio. Allora chiamai aiuto. I miei colleghi mi raggiunsero e fu come quando togli i bastoncini dello Shangai: con molta delicatezza togliemmo tutte le macerie che impedivano l’estrazione della signora. Era una donna. Era Marina Gamberini e quel controllore era il padre. Marina oggi con molto dolore ricorda quei momenti che non la lasceranno più. Un segno indelebile che cresce con lei”. Storie che lasciano il segno, storie che cercano un segno che dia senso alla follia di quel giorno. Molti segni che tracciano ipotesi su chi e perché mise quell’ordigno alla Stazione di Bologna. L’unica verità che rimane è quella giudiziaria, quella che rimane scritta nelle sentenze, nel tentativo di armonizzare quadri accusatori spesso in contrasto tra loro, le cui certezze sono state spesso ribaltate negli altri gradi di giudizio. 180

Oggi per le vittime di Bologna, rimane un’unica grande verità. La giustizia italiana ha messo quel segno che traccia la storia, che la definisce e la tramanda come unica verità: i resposabili della strage del 2 agosto 1980 sono Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciarvardini e in corso di giudizio definitivo Gilberto Cavallini (condannato in primo grado nel 2020). E poi c’è ancora un altro segno da tracciare quello dei mandanti della strage e lo sta facendo la Procura di Bologna che ha chiuso le indagini firmate dall’avvocato generale Alberto Candi e dai sostituti pg Umberto Palma e Nicola Proto, che hanno coordinato le indagini di Guardia di Finanza, Digos e Ros dei carabinieri. Il segno conduce al fondatore della P2 Licio Gelli e al suo braccio destro Umberto Ortolani, in ordine finanziatore e mandante della strage. Organizzatore della strage, secondo l’ipotesi accusatoria, è stato Federico Umberto D’Amato, per anni capo dell’Ufficio affari riservati, anche lui iscritto alla P2, morto nel 1996. La nuova pista sui mandanti porta anche a Mario Tedeschi (deceduto nel 1993) già direttore del Borghese e poi parlamentare del Msi nell’ordinanza si legge il suo ruolo nella pianificazione ed esecuzione della Strage era: “la gestione mediatica dell’evento strage”. La procura nella nuova inchiesta individua il quinto esecutore della Strage, Paolo Bellini. Bellini fu militante neofascista di Avanguardia nazionale. Questi sono i segni tracciati dalla giustizia italiana che cercano di dare ristoro al logorante dolore dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime decedute nello scoppio e all’Italia intera che ancora aspetta una verità completa di cosa successe quel giorno a Bologna. Segni che lasciano dub181

bi e interrogativi forse perché sfuggono ad ogni logica umana e restano incastrati in un groviglio emotivo senza soluzioni: “Che ristoro può dare la pena; che cosa mi rende la giustizia”, mi disse qualche anno fa, a causa sua, il Procuratore capo dell’Antimafia Pierluigi Vigna parlando del ristoro che la giustizia italiana può dare al dolore dei parenti delle vittime di reato violento. Le sentenze le scrivono gli uomini e gli uomini valutano trascurando quel presupposto realistico che per natura sfugge alle loro comprensioni. Quella variabile dipendente che infierisce sulle dinamiche della realtà e la rende interpretabile. Interpretare questa è la parola chiave che ci ha condotto fino alla fine della lettura di questo saggio. Interpretare i vari segni di questa assurda storia e aggiungere quello che sembra mancare.

Le congetture documentate: geopolitica, accordi, disaccordi e tradimenti Se non fosse una tragica realtà, se non esistesse lo scoppio e la morte di decine di persone, gli sviluppi delle indagini e le piste che si sono aperte nel corso degli anni, porterebbero ad una spy story degna di un novellista. In Italia di solito succede così. Ci sono i ben pensanti e coloro che li fanno ben pensare. Per cui ognuno ha la sua verità. La stupenda costatazione è che è tutto vero. Ogni pista è vero perché suffragata da ipotesi certe che diventano complotti. Quindi la strage di Bologna vede rotte straniere, piste estere, trame atlantiche che diventano piene di informazioni ri182

dondanti, pleonastiche e sufficienti a mostrare come tutto può essere valido. Basta crederci. Alcuni hanno infatti voluto vedere gli eventi della strage di Bologna come la risultante di quel movimento stragista, ampio e diffuso che vede la commistione di più generi, numeri e casi diversi, in una pappetta in cui l’ideologia di destra e sinistra si appiattisce nella necessità di fare “MOB”, tumulto. Per raccontare anche queste piste, dobbiamo partire da lontano. Dal mar Mediterraneo e dagli interessi che lo circondano. Lo scenario della pista libica L’azione politica internazionale si concentrò particolarmente sul nostro paese negli anni 70 e 80, a causa di una spirale di violenza terroristica, gestita e organizzata da una serie di contatti, accordi, intese e alleanze tattico-strategiche con varie organizzazioni sovversive attive nel Vecchio Continente: una serie di obiettivi diversi concatenati nella trasmissione del terrorismo internazionale volti al raggiungimento di un unico ossessivo fine ovvero l’abbattimento del potere israeliano-sionista-americano-imperialista. Scenderanno in trincea terroristi palestinesi, guerriglieri sudamericani, rivoluzionari italiani, francesi, tedeschi e anarchici spagnoli, greci e inglesi. A sostegno dell’ipotesi internazionale come spiegazione alle stragi di Bologna e Ustica (27 giugno 1980), qualche documento che non può essere trascurato. Tali documenti che fanno parte del carteggio tra Roma e Beirut conservato negli archivi della sede centrale, a Forte Braschi. Il carteggio pare sia composto da faldoni con la dicitura “segretissimo”. 183

La pista è quella che analizza i rapporti tra l’Italia e la Libia e il progetto sempre più esteso del “Panarabismo” che, nella mente dei suoi ideatori, poteva esplicarsi anche sulle coste libiche. Con la Libia sotto il protettorato britannico, divisa nelle tre entità di Tripolitania, Fezzan e Cirenaica, nel 1951, i britannici riconobbero in Sidi Muhammad Idris al-Mahdi alSenussi (già re della Cirenaica e capo della confraternita dei Senussi), l’unica figura capace di tenere sotto controllo le tre regioni all’indomani dell’indipendenza del Paese. La leadership di Idris era rispettata dalle tribù locali, considerata la sua provenienza dalla “Tariqa” sunnita più influente del Paese e famosa per le sue battaglie in ottica anti-Italia. Nel 1959, la scoperta del petrolio nel sottosuolo libico. creò tensioni nei ceti sociali più bassi appartenenti alla maggioranza arabo-berbera della popolazione che temevano l’arrivo di nuovi interessi internazionali. La Libia era ancora sotto il dominio islamico e fu interessata da una serie di eventi che incisero sulle sorti del modo arabo come la rivoluzione egiziana del 1952, l’inizio della guerra degli algerini per l’indipendenza dalla Francia, la conquista del potere da parte dei “Baathisti” in Siria nel 1963 e in Iraq nel 1968. In questa situazione di belligeranza, Muhammar Gheddafi approfittò dell’atteggiamento poco collaborativo e conforme al “Panarabismo” di re Idris nei confronti dei Paesi Arabi alleati, come l’Egitto, la Giordania e la Siria che venivano attaccati pesantemente da Israele. L’evento determinate fu il Pogrom tra il 2 e il 9 giugno del 1967 quando un gruppo di studenti degli “Ulema” assalì il quartiere ebraico di Hara. 184

Furono uccisi 17 ebrei. Questo determinò uno dei motivi per far si che Israele scatenasse la cosiddetta “Guerra dei sei giorni” che determinò un attacco duro alle forze armate egiziane che mostrarono disorganizzazione non riuscendo ad arginare gli attacchi di Israele che in pochi giorni misero in ginocchio la coalizione dei Paesi Arabi. In uno scenario di crisi come questo, fu inevitabile il crollo di credibilità e potere del Presidente dell’Egitto Gamal Abd Al-Nasser, uno dei principali sostenitori del “Panarabismo”, provocando una grave crisi all’interno dell’intellettualità arabo-islamica. Infatti molti attribuirono la sconfitta a ragioni ideologiche rappresentate nell’abbandono dei precetti islamici in nome del nazionalismo e del socialismo, concetti allogeni rispetto alla cultura e al mondo arabo. Per il mondo islamico, tali concezioni erano appartenenti più alla cultura occidentale che alla loro. La conseguente reazione non si fece aspettare: rifiutando la cultura occidentale, gli Islamici risposero con una serie di sanguinosi atti di terrorismo, riconoscendo nella religione islamica le fondamenta per una ricostruzione della società. Questa fase discendente dell’alleanza araba e del Panarabismo socialista di stampo nasseriano creò l’opportunità a Gheddafi di raccogliere l’eredità di Nesser. Il 1 settembre 1969 il colonnello Gheddafi saliva al potere con un colpo di Stato. Angelo del Boca in un libro dedicato alla controversa figura del rais descrive il suo disegno di ricostruzione del progetto arabo: “È dal contatto quotidiano con una società informe, per certi versi ancora arcaica, per altriappena alle soglie del mondo moderno, che Gheddafi scopre l’immenso vuo185

to che ha ricevuto in eredità da re Idris e che avverte la tentazione irresistibile di colmarlo con istituzioni del tutto nuove, audaci e ancora tutte da definire”. Nel 1969 fu proprio Aldo Moro, Ministro degli Esteri, a dover gestire la difficile situazione dei rapporti con la Libia. Questa situazione gli capitò come una doccia fredda: gestire lo scottante dossier Libia, i rapporti col nuovo regime insediatosi a Tripoli, resi difficili dal rimpatrio forzato degli italiani. Infatti Il 21 febbraio 1973 un Boeing 727 noleggiato dalla compagnia libica, sorvolava i cieli del Sinai occupato dall’esercito di Israele che lo abbatteva procurando la morte a 108 persone. Il giorno seguente Gheddafi parlò di “vendette e ritorsioni” che non furono mai concretizzate in atti di guerriglia a causa dello scarso arruolamento nell’esercito libico. Lo stesso Gheddafi si lamentò di questa situazione e l’8 maggio 1973 durante una visita all’Università di Tripoli confessò pubblicamente che aveva acquistato dei “Mirages” per l’aviazione militare, purtroppo non c’erano piloti. Stesso problema per i ranghi della Marina. Fu proprio in quel periodo che il regime di Tripodi decise di “avvalersi” del supporto di mercenari e istruttori di altri Paesi. L’Italia entrerà in questa partita a pieno titolo e a testimoniarlo sarà l’OP di Mino Pecorelli del 19 settembre 1973: “nella notte tra il 14 e il 15 agosto salpa dall’Italia un traghetto di linea diretto in Libia carico di 51 trasposrto truppe cingolati (M113) e semoventi M109 (Oto Melara su licenza americana)”. Sempre OP segnalerà altre forniture 186

per l’esercito di Tripodi. La notizia è confermata in una nota del SISMI risalente al 1980 e trasmessa il 3 giugno 1986 alla Procura di Roma su richiesta dell’allora sostituto procuratore Domenico Sica impegnato, in quel periodo, in un’inchiesta “sulla cessione di armi e munizioni in Libia”. Anche l’Unità riporterà notizie relative all’uscita di armi dall’Italia e dirette in Libia. Un altro evento segnerà il destino del nostro Paese. È il 9 dicembre 1976 quando il Colonnello Gheddafi acquistò il 9.1 per cento delle azioni della Fiat di Gianni Agnelli e Cesare Romiti. Al tavolo della trattativa partecipa anche l’unione Sovietica interessata alla costruzione di una fabbrica di auto con tecnologia Fiat a Togliattigrad. Secondo gli Uffici di via delle Botteghe Oscure l’accordo fu raggiunto a Mosca con la firma di un contratto di 456 milioni di dollari e tra i firmatari vi erano il presidente della Fiat Agnelli, il Ministro dell’industria sovietico Komarov e un rappresentante del governo di Tripodi. Gheddafi divenuto azionista influente del nostro Paese era pronto a mettere piede nel delicato settore dell’industria bellica italiana. Il ricatto della Libia nei nostri confronti riguardava anche il fatto che era in quarto fornitore di pertrolio all’italia, per questo, il regime libico avviò richieste di armi, aerei, carri, radar, ec. Vengono costruite società ad hoc per addestrare personale libico. La conferma di carattere istituzionale venne dal generale Zeno Tascio, all’epoca responsabile del secondo reparto SIOS, il servizio di informazioni operative e situazioni dell’Aereonautica. Tascio fu ascoltato dalla Commissione Stragi della X legislatura nella 33esima seduta. 187

Tascio dichiarò che, tra le varie attività informative dell’ufficio, c’era anche quella di monitorare e controllare i piloti ex militari, impegnati in attività di addestramento dei piloti libici. Tascio infatti aggiunse in commissione: “Essendo la Libia un Paese d’interesse, ancorché non facente parte di quelli che rappresentano una minaccia, è un paese su cui è rivolta la nostra attenzione. Se una società italiana svolge addestramento per la Libia e i nostri piloti vanno, ni siamo i competenti. La maggior parte dei piloti civili erano di provienze militare. La socierà SIAI Marchetti aveva venduto dei veivoli ed anche la società Aeritalia aveva venuto degli apparecchi. Avendo venduto degli aeroplani nel contratto era prevista la fornitura dell’addestramento: chi vende aeroplani in genere vende anche addestramento”. Alla fine degli anni settanta le società libiche, con la copertura di interessi turistici e immobiliari, nelle isole di Ustica, Pantelleria, Favignana, Lampedusa commerciavano in armi. Così, mentre gli altri Paesi occidentali studiavano strategie per controllare la Libia il nostro paese si legava a doppio filo al regime del colonnello Gheddafi. Le autorità libiche iniziarono a foreggiare, addestrare una serie di gruppi terroristici attivi in Europa tra cui IRA, ETA, la banda Baader-Meinhof e le Brigate Rosse. Il regime di Tripodi, inoltre, sarà responsabile anche del rovesciamento del potere dello Scià di Persia. Più di 2000 dissidenti iraniani portati da FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) di George Habbash saranno portati in Libia e in Siria per essere addestrati. Nonostante ciò i rapporti con il regime Khomyni si inclineranno a se188

guito della scomparsa, avvenuta ad agosto del 1978, dell’Iman Maussa Sadr, capo spirituale degli sciiti libanesi. L’Ayatollah accuserà il presidente della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista (appellattivo di Gheddafi della Repubblica Araba di Libia dal 1977) di averlo rapito e assassinato. Le autorità libiche cercarono di accreditare la tesi per cui il religioso sciitita fosse sparito appena giunto a Roma. Questa vicenda sarà protocollata dai nostri servizi segreti e da quelli libici con la dicitura “il noto caso”. Questa situazione influenzerà i rapporti di diplomazia tra Italia e Libia. Il regime di Gheddafi sin dal 1970 sul libro nero degli Stati Uniti, rivolgeva l’attenzione anche su altri Paesi occidentali. L’Italia era stata sempre condizionata da interessi petroliferi e da desiderio di controbilanciare una politica filo–israeliana (di ispirazione americana) con una politica filo-araba (di matrice più sud europea). A tal proposito Zeno Tascio dichiarò alla Commissione Stragi: “Acquistavamo molto petrolio libico fino al 12% del fabbisogno nazionale. Quindi c’era un interscambio nella bilancia dei pagamenti che veniva parzialmente coperto dalla fornitura di questo tipo”. Nel report del SISMI del 6 giugno 1980 indirizzata al Presidente del Consiglio Francesco Cossiga, si rendeva noto: “Il compito principale dei Servizi Speciali e quello di individuare e ricercare i dissidenti libici all’estero invitarli a rientrare in patria o ad eliminarli fisicamente in caso di rifiuto”. 189

Da questa nota si apprende che i rapporti tra il servizio segreto italiano e quello libico si erano intensificato proprio a cavallo tra il 1979 e il 1980 in relazione all’arresto di pescatori italiani da parte delle autorità di Tripoli, alla sparizione dell’Iman Sciita Moussa Sadr e alla controversa questione dei dissidenti libici esuli in Italia. Esiste un altro punto interessante datato 10 maggio 1980 e proveniente dall’ufficio di Gabinetto dell’allora Ministro dell’Interno, Virgilio Rognoni ritrovato nell’ambito dell’inchiesta sulla Strage di Ustica. Dalla nota si apprende che l’isola di Malta risulta essere una delle più importanti basi di appoggio militare della Libia come base di smistamento internazionale del terrorismo. Il Sandy Telegraph pubblicherà un dossier a firma del diplomatico inglese Norman Kirkham dove riferiva che molti agenti libici, camuffati da studenti si sarebbero introdotti in Gran Bretagna e in altri paesi europei per eliminare libici che si appoggiavano al governo di Gheddafi. Malta era base strategica per lo smistamento di questi terroristi. Il 27 aprile 1980 il colonnello Gheddafi, durante un incontro all’accademia militare di Tripoli, lancerà un ultimatum agli esuli libici residenti anche in Italia: “Tutte le persone che hanno lasciato la Libia devono rientrare entro il 10 giugno prossimo. Se i profughi non obbediranno, dovranno inevitabilmente essere liquidati ovunque essi siano”. La questione degli oppositori libici nel mirino del regime di Tripoli preoccupa il Governo di Cossiga. Altro appunto importante è datato il 17 maggio 1980 e proveniente dall’ufficio di Gabinetto del Ministero dell’Interno e ri190

ferisce che il Consiglio Rivoluzionario Libico avrebbe inviato a La Valletta (Malta) circa mille “studenti” membri della milizia popolare e specifica, fra di questi vi sarebbero anche elementi tunisini, egiziani e palestinesi militari della legione Straniera Libica. Secondo il Viminale il contingente stanziato a Malta era stato addestrato per la campagna di omicidi che era già in atto contro gli oppositori del regime residenti all’estero. La nota del 17 maggio del Viminale conclude: “L’unità della Marina Militare libica stanzionerebbe a largo dell’isola di Malta anche allo scopo di catturare pescherecci italiani i cui equipaggi potrebbero poi servire come osteggi da scambiare con eventuali libici arrestati nel corso delle operazioni”. Apparve, quindi, chiaro che la questione dei sequestri dei pescherecci italiani prendeva forma dallo scontro tra Gheddafi e l’Italia a proposito dei rifugiati dissidenti libici residenti in Italia. Il Governo italiano, quindi, si vide costretto a prendere accordi con il regime di Tripoli attraverso l’intervento del suo portavoce, generale Roberto Jucci. Il Generale Jucci, su incarico del Presidente del Consiglio Francesco Cossiga e d’accordo con il Ministro della Difesa Attilio Ruffini, viene inviato in Libia dal 17 al 22 ottobre per risolvere la questione con il regime di Gheddafi. Dopo una serie di trattative con il Direttore dei Servizi Informatici libici Yunis Belgassem, si trovò una serie di punti di accordo: tra le richieste avanzate dal regime di Gheddafi ci fu la collaborazione da parte del nostro Governo per controllare i cittadini libici renitenti alla leva e resi191

denti in Italia e di avviare un’indagine per individuare il luogo dove veniva stampato il giornale Saut Libia redatto dei dissidenti libici. Secondo il nostro responsabile del servizio Informazioni Libico, Mausa Salem ElHaji, la rivista veniva stampata a Londra e introdotta nel nostro Paese nascosta in valigie diplomatiche e con la compiacenza della autorità italiane. Jucci riuscirà a concludere l’accordo con la liberazione degli italiani sequestrati in Libia. L’accordo riguarderà anche alcuni benefici economici all’Italia in particolare verrà potenziato anche la quantità di greggio da parte dell’Eni gia previsto nell’accordo stipulato il 29 settembre 1972. Inoltre Jucci riferisce in commissione che nell’accordo era prevista anche la soluzione del Noto Caso da parte dell’Italia: “Addivenire ad una adeguata soluzione del Noto Caso; il mantenimento dei contatti diretti, tramite i tre ufficiali del Consiglio della Rivoluzione, con il Presidente Gheddafi”. Il Noto Caso doveva risolversi, secondo gli accordi, con l’intervento di due rappresentanti libici che avrebbero consegnato dei documenti tesi a testimoniare la scomparsa dell’Iman in Italia. I documenti sarebbero stati prima esaminati congiuntamente dai rapperesentanti libici, da Jucci a e da un avvocato e poi consegnati alla Procura di Roma per avviare un’indagine. Nell’aprile 1997 il generale Jucci fu interrogato dal giudice istruttore per il caso Ustica Rosario Priore in merito al’importanza dell’operazione legata al Noto Caso: I libici avevano un interesse notevole alla vicenda della sparizio192

ne dell’Iman, giacché la scomparsa di una figura cosi carismatica per gli sciiti e che godeva di diritto dell’ospitalità presso il governo libico, danneggiava enormemente l’immagine della Libia e che la scomparsa era avvenuta al di fuori del territorio libico. Chiesero inizialmente la costituzione di una commissione bilaterale (la stessa cosa accadde quando precipitò – il 18 luglio 1980 – sulle montagne della Sila un Mig 23 dell’aviazione libica). La richiesta non fu evasa ma fu suggerito di nominare un valido avvocato e di portare testimonianze al di sopra di ogni sospetto, non libiche. L’accordo firmato nell’ottobre del 1979 era essenzialmente diretto a liberare i membri degli pescherecci italiani da parte delle autorità libiche in cambio la consegna, da parte dei servizi segreti italiani, dei dissidenti libici residenti in Italia. L’8 luglio 1980 dopo alcuni giorni dalla strage di Ustica e mentre si stavano definendo gli accordi con il regime libico verrà fatta esplodere una bomba davanti alla principale agenzia del Lybian Air Lines. Il Sismi ipotizzerà che l’attentato fosse opera proprio dei dissidenti libici. 16 giorni dopo, il 2 agosto alle 10.25 una bomba farà saltare la Stazione di Bologna: a ricordarlo 85 morti e 100 feriti. Jucci, al rientro dalla Libia, riferì al Presidente del Consiglio Francesco Cossiga e il Ministro degli Esteri Franco Maria Malfatti, che i libici non avevano nessuna prova che l’iman fosse giunto in Italia ma che sarebbe stato, comunque opportuno avviare degli accertamenti. Jucci, riferì in Commissione Stragi l’incontro con Cossiga al rientro della sua missione in Libia. 193

“Cossiga era conscio della delicatezza della vicenda e ritengo che abbia svolto azioni per imprimere agli accertamenti una dovuta importanza, dando così l’impressione alla controparte della nostra buona volontà ma sempre in termini consentiti alla legge”. Il magistrato incaricato di “imprimere agli accertamenti una certa importanza” fu Pietro Pascalino. Il Generale Jucci fu incaricato di gestire gli aiuti militare alla Libia in cambio di prezzi vantaggiosi per l’acquisto di Petrolio per il nostro Paese. Il 14 febbraio 1980 segreteria particolare del SIMSI Mousa Salem ElHaji, servizio informazioni libico in Italia, un elenco di 23 nominativi di dissidenti libici. In Italia sarà avviato un’importante operazione di eliminazione fisica dei dissidenti del regime Giamahirah, su condanna del Tribuanale di Tripoli. Dalla relazione del X Commissione Stragi si legge che: “le esecuzioni vennero affidate a delle squadre di killer professionisti addestrati ed inviate appositamente in italia dai Servizi Speciali Libici”. Quindi il governo italiano si impegnò dal 1979 a stipulare accordi con il regime libico per controllare l’azione di Gheddafi mutuata dal Parababismo Nasseriano. Questa Alleanza sarà debilitata da alcuni episodi nei quali il nostro Paese sospenderà gli accordi con il mondo arabo. Il primo fu il tradimento avvertito da Gheddafi quando il Ministro degli Esteri italiano, prima Malfatti poi Ruffini, inizia a tessere la trama con il laburista Dom Mintoff per la protezione dell’isola di Malta. Nel gennaio del 1980 infatti, iniziarono i negoziati tra Italia e Malta per un trattato 194

di garanzia economica e di riconoscimento della neutralità di Malta anche attraverso interventi di carattere militare. È facile intuire che questo provvedimento mirava ad insinuarsi nel rapporto tra Libia e Malta tra i quali vi era anche la difesa a carattere militare da parte della Libia. Inoltre Dom Mintoff mirava a raggiungere un’indipendenze energetica dell’isola attraverso lo sfruttamento petrolifero dei giacimenti dei Banchi di Medina, rivendicato anche dalla Libia. Eppure c’era un’altra situazione da considerare per il raggiungimento dell’agognata indipendenza da parte del Governo Maltese ovvero la concessione all’Unione Sovietica delle loro basi militari. Quindi l’Italia mirava a negoziare con Malta per vari questioni di notevole importanza economica, diplomatica e militare: il controllo di Malta era fondamentale sia per controllare le risorse petrolifere, sia per gestire i rapporti con la Libia ma anche per controllare l’Unione Sovietica. Questo negoziato era fortemente osteggiato dalla Libia che nel marzo del 1980 fece pervenire, tramite canali diplomatici, molti avvisi diretti a ostentare la disapprovazione degli accordi su menzionati. A giugno, quindi, una delegazione del Ministro degli esteri della Farnesina incontro il sottosegretario degli Esteri Giuseppe Zamberletti, alla Farnesina. Zamberletti dichiarò ai magistrati per le indagini sulla Strage di Ustica che fu proprio una delegazione del ministero degli esteri libico a dissuadere il nostro Governo a stipulare l’accordo bilaterale con Malta “Poiché tale accordo bilaterale era dal loro governo interpretato come un gesto di non amicizia verso la Libia. Non usarono il termine ostile ma con un giro di parole il 195

cui senso era di gesto non amichevole. Ci chiedevano di sospendere la conclusione del trattato. Si mostrarono gentili ma irritati. Nell’andar via ci dissero di ripensarci”. I magistrati romani ricostruiscono quanto accaduto riferendo che a metà agosto l’ENI avrebbe cominciato le trivellazioni con la piattaforma SAIPEM 2, ma le oprazioni saranno bloccate a causa di un intervento libico che provocò forti tensioni e il 4 settembre le trivellazioni vennero definitivamente interrotte. La firma per il trattato con Malta ritardavano creando non poche tensioni da parte della Farnesina. Infatti a metà luglio giunsero al Presidente degli affari esteri Giulio Andreotti e e al direttore del Sismi Santovito altre sollecitazioni a ritardare la conclusione dell’accordo. Il 2 agosto alla stessa ora in cui l’ordigno esplodeva alla stazione di Bologna fu siglato l’accordo a La Valletta dal sottosegretario agli affari esteri Zamberletti. La coincidenza fu messa in risalto come ipotesi della matrice terroristica dallo stesso Zamberletti in due occasioni pubbliche. Il collegamento tra le trattative tra Malta e Italia osteggiate dai libici e la caduta del DC9 I-TIGIItavia sarà messa in risalto solo a seguito dell’inchiesta del giudice Rosario Priore. La Strage di Bologna e quella del DC9 sui cieli di Ustica furono messe in relazione anche da un elemento che fu avvalorato dagli accertamenti peritali in fase processuale ma destarono solo grandi tensioni senza approdare a nessuna conferma giuridica: la presenza di T 4 su alcuni reperti della strage del 27 giugno. La perizia esplosivistica effettuata sui reperti, come borse, valige cuscini ed altro nei 196

laboratori della IV° divisione Esplosivi e Propellenti dell’Aereonautica Militare Italiana su incarico del sostituto Procuratore titolare delle indagini sulla Strage di Ustica, Giorgio Santacroce riferì la presenza di T4. L’analisi dei campioni repertati sugli oggetti risultò poco affidabile dato il lungo tempo trascorso nella realizzazione degli accertamenti. La seconda repertazione e successiva analisi trovarono T4 e TNT su di un frammento dello schienale nº 2 rosso. Il 16 marzo 1989 vengono depositate 477 pagine della perizia collegiale presieduta dal Prof. Massimo Blasi nella quale si afferma che: “l’effetto dilavante preferenziale dell’acqua di mare sul TNT, giustifica anche secondo il parere degli esperti che hanno condotto le indagini, la mancata individuazione di TNT da parte dei Laboratori dell’Aereonautica Militare Italiana”. La mancata individuazione del TNT era dovuto all’utilizzo di strumenti poco sensibile in uso in quegli anni. In conclusione. Continua la perizia Blasi: “si può affermare che i frammenti recuperati provenivano dall’esplosione di una miscela di TNT e T4 in proporzioni paragonabili agli ordigni bellici”. La perizia chimica Malorni Acampora del 3 febbraio 1987 e disposta dal giudice istruttore nel corso della perizia Blasi e riportata nella Parte I, Libro I, Capo I, Titolo III, Capitolo IV, pag. 1399 e ss. della sentenza ordinanza del giudice istruttore, rileva la presenza chiara e inequivocabile sia di T4 sia di TNT repertato dal dello schienale nº 2 rosso. La miscela esplosiva era tipica degli ordigni bellici. 197

La presenza di miscele esplosive tipiche di ordigni bellici fece crollare l’ipotesi del cedimento strutturale dell’aereo ma le conclusioni e i dubbi aperti nella perizia rimasero inevase e mai risolti. Oggi sappiamo che il DC9 I.TIGI fu abbattuto a causa della collisione di un aereo straniero. È chiaro il riferimento al tipo di ordigno utilizzato nella strage di Bologna come è chiaro un’eventuale azione terroristica giustificata dalla situazione geopolitica e dei rapporti tra il nostro Paese e la Libia e gli altri paesi europei legati da rapporti strategici e tattici. Gli scenari stragisti possono essere analizzati nell’ipotesi di una ritorsione dei Fedayyn contro l’Italia per la violazione del “lodo Moro” e la risposta all’estromissione della Libia da Malta. La pista libica e la pista palestinese sembrano calzare perfettamente motivazioni, modus operandi e struttura operativa nella strage i Bologna come lo è quella che per la giustizia italiana è unica e certa: la pista Nar. Non si può certo trascurare il fatto che l’Italia avesse un’instabile e complessa relazione con il Medio Oriente, territorio ambito per i suoi giacimenti petroliferi ma nello stesso debole e fragile politicamente. Una Politica, quella mediorientale compromessa dalla religione e da una scacchiera militare troppo variegata e aperta a molti compromessi geopolitici pur di raggiungere l’indipendenza.

Lo scenario dello sciacallo: L’OLP e il gruppo di Carlos Il 1967 rappresentò un anno cruciale per le tensioni tra la coalizione araba e il mondo islamico. 198

A seguito delle rappresaglie dell’esercito islamico sul territorio della Giordania il 7 aprile ci fu una risposta in contrattacco dei guerriglieri palestinesi in territorio siriano. La tensione crebbe a maggio, quando Siria, Egitto e Israele ordinarono la mobilitazione generale. L’Egitto chiese l’intervento delle truppe dell’ONU stanziate nel Canale di Suez dopo il tentativo da parte di NASSER di decretarne la nazionalizzazione. Il 1 giugno Levi Eshkol venne nominato capo del nuovo Governo di unità di Israele, la cui difesa fu affidata a Moshe Dayan. Il 5 giugno, con un attacco a sorpresa, l’aviazione israeliana distruggeva gran parte delle forze di terra egiziane di siriane, giordane e irachene. L’esercito di Israele, attraverso il deserto del Sinai, giunse nel Canale di Suez e il 7 giugno occupava i territori annessi alla Giordania (Cisgiordania), nei quali era compresa anche la città di Gerusalemme. Il presidente egiziano Nasser rompeva i rapporti diplomatici con Stati Uniti e la Gran Bretagna, accusandoli di prendere parte alle operazioni belliche a fiancodi Israele, infine rompeva con loro, le relazioni diplomatiche. Il 10 giugno, dopo un appello dell’Egitto alle Nazioni Unite affinche´ venisse stabilito il cessate il fuoco, la guerra finì. Israele prese il potere in tutta la Palestina. Il 28 maggio 1964, il Congresso Nazionale Palestinese si riunirà nell’area araba di Gerusalemme e stilò la costituzione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Verranno attrezzati campi di addestramento per guerriglieri che verranno successivamente spediti per incursioni in territorio israeliano. Nel summit del Cairo del settembre 1964 il Consiglio della Lega Araba decise di strutturare un 199

comando militare unificato contro lo Stato di Israele, con la partecipazione dei palestinesi, il cui incarico sarà affidato Ahmad SHUQARI, esponente politico legato all’Arabia Saudita e all’Egitto. Nel 1966 ci furono una serie di rappresaglie da parte dell’Esercito Israeliano contro i profughi in territorio siriano e giordano. Dopo la guerra dei sei giorni i capi di stato arabi si riunirono in un vertice a Khartoum in Sudan. Nel vertice che durò dal 29 agosto al 1 settembre i leader arabi decisero di affrontare Israele con un atteggiamento intransigente di chiusura verso soluzioni diplomatiche per riaffermare con determinazione e forza la causa palestinese. Sarà determinante il rifiuto Israele di lasciare i territori occupati durante la «guerra dei sei giorni» che su ordine dell’OLP che verranno a nascere le prime avvisaglie del terrorismo internazionale. Confluirono ben presto nell’Organizzazione diversi gruppi, i principali dei quali furono: • AL FATAH (la vittoria), diretto da Yasser ARAFAT • il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) diretto da Wadi HADDAD e George HABBASH. La costituzione di Al Fatah del 1964, tuttora immutata, prevedeva, infatti la “completa liberazione della Palestina e lo sradicamento dell’entità sionista a livello economico, politico, militare e culturale” (art.12), nonché “l’istituzione di uno Stato democratico e indipendente con sovranità piena su tutto il territorio palestinese, con capitale a Gerusalemme...” (art.13). Quindi la distruzione di Israele. 200

George Habbash era un medico. Habbash fondò ad Amman una clinica per poveri insieme ad un altro palestinese greco-ortodosso, Wadi HADDAD. La sua azione militare era guidata da tattiche terroristiche e filosofiche: principio cardine del suo modus operandi è il terrore attraverso il quale compiere la sua missione di liberazione della Palestina dal potere sionista. Il suo braccio destro, Haddad, era dell’idea che il terrore dovesse andare oltre confine anche in Paesi stranieri attraverso strategie terroristiche con obiettivi aerei attraverso l’utilizzo di bombe. Insomma l’azione palestinese si espandeva e colpiva anche bersagli civili per raggiungere una totale supremazia. Wadi Haddad morirà il 1º aprile del 1978 in un ospedale di Berlino Est, stroncato da un tumore. Sempre affiliato all’azione dell’OLP troviamo: • il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDPLP), guidato da Nayger HAWATMEH • l’AS-SAIQA legato alla Siria, guidato da Zuhier MUSSHEIN • il Fronte di Liberazione Arabo (FLA) il cui leader fu Ahmed ABDERRIA. Per AL FATAH, il solo modo di «liberare la Palestina araba occupata era la lotta armata». Il 4 febbraio 1969, si riunì a il Cairo il Congresso Nazionale palestinese: Yasser ARAFAT venne eletto presidente del Comitato Esecutivo dell’OLP. La costituzione di un fronte volto alla destabilizzazione dei governi costituiti attraverso atti terroristici con rivendicazioni filo islamiche aveva attirato attenzione di altri 201

componenti della guerriglia internazionale, tra cui personaggi di altri continenti. Tra questi, l’esponente più drammaticamente conosciuto era Carlos lo sciacallo. Ilich Ramirez Sanchez detto appunto Carlos lo sciacallo, per il suo profilo estremamente pragmatico e spietato, era un noto terrorista mercenario venezuelano con cittadinanza palestinese che si professava Marxista-Leninista e filo islamico. Un insieme di concetti spesso contrastanti tra loro che si riassumevano in una necessaria volontà di distruzione di quelli che erano, ipoteticamente, i cardini della società occidentale. Ramirez Sanchez, non poteva non guardare di buon occhio quello che stava accadendo in medio oriente, che avrebbe potuto fornire una base ideologica e soprattutto una serie di spunti operativi per perseguire il suo disegno delirante: sovvertire il sistema occidentale attraverso la rivoluzione. Questo era un vecchio pallino di tutti coloro che si definivano rivoluzionari, costruire sul sangue, spesso innocente, una volontà di potenza che poi alla fine in scarsissimi casi aveva portato risultati. Egli siglò la sua alleanza con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) nel 1973 quando fu artefice di un tentativo di assassinio nei confronti di un uomo di affari ebreo Joseph Sieff. Il tentato omicidio era una vendetta nei confronti di chi era sospettato di essere stato l’assassinio a Parigi di Mohamed Boudia, un direttore di teatro presunto organizzatore del FPLP, da parte del Mossad, il servizio segreto israeliano. Carlos lo sciacallo, ammise di essere stato responsabile dei vari attentati come organizzatore e ideatore. Infatti si dichiarò responsabile di aver messo delle autobombe pres202

so le sedi di tre giornali francesi tacciati di sentimenti filoisraeliani e di aver lanciato una granata in un ristorante di Parigi, uccidendo due persone e ferendone trenta. Infine ammise anche di aver partecipato, il 13 e il 17 gennaio 1975, a due attacchi ad aerei di linea nell’aeroporto di Orly, presso Parigi i quali fortunatamente fallirono nella loro realizzazione. L’azione terroristica ai danni dei dissidenti libici residenti in Europa ebbe un’azione a tenaglia che sfuggì a qualsiasi controllo e addirittura, crebbe con il benestare delle autorità estere. Carlos lo sciacallo era comunque personaggio attenzionato già nel suo periodo in Europa, in particolare a Parigi. Nel 1975, tre poliziotti fecero irruzione nella sua casa parigina durante una festa. Carlos sparò a due di loro e fuggì passando per Bruxelles giunse a Beirut. In realtà la fuga di Carlos lo Sciacallo fu anche dovuta al fatto che il 27 giugno 1975, il suo contatto Michel Moukharbal, in realtà agente del Mossad, venne catturato e interrogato. A Beirut Carlos, prese parte alla pianificazione dell’attacco al quartier generale dell’OPEC a Vienna: la sua missione per FPLP era quella di uccidere due alti membri dell’OPEC, il ministro per il petrolio iraniano e quello saudita. In quell’occasione Carlos, con il suo commando fece irruzione nell’edificio e prese in ostaggio 60 persone. Giunto a Tripoli con un aereo ottenuto dalla trattativa con le autorità locali, liberò tutti gli ostaggi. Giunto ad Algeri, chiese asilo politico. Arrivato in Libia però Ramírez Sánchez fu espulso da FLPL per non aver portato a termine la sua missione all’OPEC. 203

Rientrato a Beirut, dopo essere stato arrestato in Jugoslavia nel settembre del 1976, Ramírez Sánchez ad Aden formò un suo gruppo, l’Organizzazione Araba per la Lotta Armata, composta da ribelli siriani, libanesi e tedeschi e riuscì a costruire una rete di rapporti con la Stasi della Germania Est. Proseguendo in una sorta di infame carriera, diventò anche sicario dei servizi segreti della Romania per assassinare alcuni dissidenti nascosti in Francia e distruggere gli uffici di Radio Free Europe a Monaco di Baviera. La sua posizione di leader assunse una valenza importante grazie al cambio dei vertici della FPLP e l’aiuto del regime iracheno. Carlos ritornò al servizio dei palestinesi. Carlos lo Sciacallo, con il suo modus operandi spietato e senza scrupoli diverrà l’uomo più ricercato al mondo, almeno fino agli inizi degli anni Novanta. Già condannato all’ergastolo per l’attentato del 1975 a Rue Toullier a Parigi, in contumacia, il 1º giugno 1992 Il 15 agosto 1994, Ilich RAMIREZ SANCHEZ fu consegnato alle autorità francesi che avevano emesso nei suoi confronti un mandato di cattura internazionale. Carlos risultava ricercato anche dalle autorità tedesche ed austriache per attentato dinamitardo, tentato omicidio e sequestro di persona. Ed in Italia? Possibile che in Terra Italica, Carlos non avesse mai messo piede? Già negli anni ’70, l’intelligence italiana lo segnalò come un esponente FPLP di George Habbash in Europa. Risultò essere sposato con la tedesca, militante terroristica del gruppo RAF, Magdalena Kopp, ex compagna di un estremista del gruppo terroristico RAF. La direzione del 204

SISDE evidenziò un collegamento tra i lanciamissili Strela sequestrati al commando palestinese nel settembre del 1973 ad Ostia, quelli utilizzati dal gruppo di Carlos durante il fallito attentato ad Orly del 13 gennaio 1975 e quelli trovati ad Ortona la seradell’8 novembre 1979, sequestrati, secondo la versione ufficiale, durante un normale controllo del Nucleo Radiomobile dei carabinieri della Compagnia di Chieti. La sera dell’8 novembre 1979 furono arrestati per detenzioni di armi belliche Daniele Pifano, nato a Cerzeto l’8 marzo 1946, residente a Roma, ex militante di Potere Operaio, impiegato presso l’Istituto di Patologia generale della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Roma, facente parte della formazione eversiva Azione Rivoluzionaria e Giorgio Baumgartenr, nato a Roma il 10 giugno 1950, medico ortopedico in servizio presso il Policlinico Umberto I. Baumgartenr era legato gruppo dei NAP di Giuseppe NIERI, tecnico di radiologia, anch’egli militante della sinistra extraparlamentare, membro di spicco del Collettivo Policlinico. I tre furono arrestati mentre trasportavano a bordo di un furgone Peugeot targato Roma K30860, nascosti dentro una cassa di legno, due missili SAM-7 Strela di fabbricazione sovietica. A seguito delle indagini si scoprì che i tre arrestati erano in stretto contatto con Saleh ABU AZNEH. Abu Saleh era residente a Bologna, nato ad Amman il 18 maggio 1949. Abu Saleh era un membro di spicco della FPLP, proveniente della Giordania e iscritto all’Università di Perugia. Venne arrestato. L’arresto di Abu Saleh scatenò una serie di eventi imprevisti di natura ritorsiva. 205

L’11 luglio 1980 pervenne al Sisde un’avviso sulle possibili azioni ritorsive, che venivano definite come operazioni: “coordinate e concomitanti con partecipazione di gruppi non palestinesi (forse italiani o spagnoli o tedeschi) in più Paesi tra cui l’Italia”. Saleh non era solo il rappresentante della FPLP in Italia, ma anche il mediatore con il gruppo di Carlos. Tra gli uomini di Carlos vi era Thomas Kram che, come abbiamo detto in precedenza il 1 e il 2 agosto era a Bologna. Il legame tra Carlos e la strage di Bologna si esaurisce qui? Possibile sia uno degli attori non partecipanti ad un gioco più ampio inquadrandolo in un particolare periodo in cui il nostro Paese era un passaggio di diversi personaggi? Non è facile trascurare queste informazioni provenienti dagli uffici della nostra intelligence. Altri documenti descrivono dinamiche geopolitiche complesse e delicate alle quali i nostri governi furono chiamati a moderare, non di meno furono le sommosse interne ad opera dei vari movimenti della destra e della sinistra extraparlamentare. I due sistemi, quello dell’eversione interna e quello medio orientale spesso si intersecavano e operavano per raggiungere anche obiettivi diversi.

Lo scenario del traffico d’armi: FPLP e BR Il 19 settembre 1980, sul quotidiano locale Corriere del Ticino compare un’intervista ad Abu AYAD, il numero due dell’OLP (alias Salah KHALAF, nome di battaglia Abu 206

AYAD) a firma della giornalista Rita Porena. Nell’intervista Ayad riferì che un anno prima erano stati informati dell’esistenza di campi di addestramento per stranieri organizzati dai Kataeb (Partito Falangista Libanese lottò contro i francesi per l’indipendenza e costituì milizie armate durante la guerra civile dal 1975 al 1990), nei pressi di Aqura, nella zona est (da Beirut nord-est sino a 20 km da Tripoli), controllati dalle destre maronite. L’OPL avviò un’indagine per appurare la nazionalità degli ospiti dei campi, entrando in contatto con due tedeschi occidentali che avevano preso parte all’addestramento. I due tedeschi riferirono a Ayad che nel nel campo erano addestrati circa 30-35 persone, fra cui italiani, spagnoli e tedeschi della Germania Federale. Il responsabile del gruppo tedesco si chiama Hoffmann. Sempre i tedeschi riferirono che l’intento degli italiani era di avviare una restaurazione del nazifascismo nei loro Paesi e che per farlo dovevano sconfiggere il nemico numero uno: il Partito Comunista. Nel progetto eversivo Bologna rappresentava l’obiettivo più idoneo perché amministrato dalla sinistra. Sempre nell’articolo della Porena, Abu Ayad afferma di aver messo in relazione la Strage con quanto aveva sentito nei campi di addestramento di Aqura. Ayad dichiarò di mettersi a disposizione delle autorità italiane e fare in modo che i tedeschi rendessero pubblico tutto quello che avevano visto e udito nei campi di addestramento, compresi i nomi ed il numero degli italiani che erano con loro. In un appunto l’archivio dell’UCIGOS (ex AARR), datato 11 maggio 1989, proveniente dalla DIGOS di Bologna si legge: 207

«Nella redazione figura inoltre Rita PORENA, ex giornalista del Corriere del Ticino, già legata al colonnello del SISMI GIOVANNONE ed assurta all’onore delle cronache per aver costituito uno dei momenti iniziali – con l’intervista al dirigente dell’OLP, Abu AYAD, del settembre 1980 – della cosiddetta “pista libanese” che, secondo gli ex ufficiali del SISMI MUSUMECI e BELMONTE, avrebbe dovuto consentire di giungere all’individuazione dei responsabili della strage del 2 agosto1980 (neofascisti italiani addestrati in campi della Falange libanese). Tale pista, come noto, è stata ritenuta falsa dalla locale Corte d’Assise che ha condannato MUSUMECI, BELMONTE, PAZIENZA e GELLI a dieci anni di reclusione per calunnia pluriaggravata». Nel gennaio 1981 il SIMSI e il suo direttore il Generale Giuseppe Santovito avvaloravano con un atto formale, la cosiddetta pista internazionale per la strage del 2 agosto 1980. L’ipotesi, risultata poi un atto di depistaggio fu suggerita da Licio Gelli e dal colonnello Pietro Musumeci. Il 13 febbraio 1981 venne ritrovata una valigia contenente esplosivo TNT-T4 in un vagone del treno 514 Taranto-Milano. L’operazione venne riportata dalle cronache giudiziarie come «operazione: terrore sui treni», il piano ideato dal SISMI tirava in ballo, fra gli altri, i nomi di Franco Freda, Giovanni Ventura, Stefano Delle Chiaie, leader di organizzazione eversiva di destra con collegamenti con sedicenti gruppi terroristici stranieri, tedeschi e francesi. La Corte di Assise di Bologna (sia in primo che in secondo grado) condannò per concorso in calunnia pluriaggravata gli ufficiali 208

del SISMI Giuseppe BELMONTE e Pietro MUSUMECI, i quali, come in sentenza: “abusando dei loro poteri e violando i doveri inerenti alla funzione pubblica che essi svolgevano in qualità di esponenti del SISMI, simulando il realizzarsi di un insieme di reati di natura eversiva, inducendo in errore il Comando Generale dell’Arma, l’UCIGOS, il Capo della Polizia, i vari organi di polizia giudiziaria che avevano l’obbligo di riferire le informazioni ricevute all’autorità giudiziaria bolognese e direttamente ai magistrati che indagavano sulle responsabilità degli autori della strage del 2 agosto 1980 e di coloro che avevano collocato l’esplosivo e le armi rinvenute sul treno 514 in Bologna il 13 gennaio 1981, incolpavano falsamente di tali reati, facendo in tal modo dirottare le indagini su false piste estere, [una serie di persone] pur sapendole innocenti”. In una nota del SID e passata al Servizio Stranieri del Ministero dell’Interno si legge il nome di Abu Ayad. Nella nota si legge che il 15 febbraio 1975, si sarebbero, svolte a Beirut e a Damasco, riunioni segrete fra capi guerriglieri palestinesi aderenti ai gruppi di George Habbash e Abu Ayad e alcuni italiani facenti parte delle Brigate Rosse: «tenuto conto che argomento della riunione sarebbe incentrato sulla opportunità di attuare clamoroso gesto in Italia allo scopo ottenere liberazione brigatisti rossi attualmente in stato di detenzione». Il 28 aprile 1989, il giudice istruttore del Tribunale di Venezia, dottor Carlo Mastelloni nell’ambito del procedimento penale nº 204/83 AGI sulle indagini a carico di Yas209

ser Arafat sulle forniture di armi ed esplosivi dall’OLP alle BR e sull’introduzione clandestina di armi in territorio italiano, faceva notificare alla Porena un mandato di comparizione per favoreggiamento personale. L’imputazione si riferiva alle vicende connesse alla partita di armi fornita dall’OLP di ARAFAT (per il tramite concreto della fazione estremista di George HABBASH) alle BR nel1979. Rita Porena sarà indagata per aver ostacolato le indagini dell’autorità giudiziaria per coprire le responsabilità delle organizzazioni palestinesi nel traffico clandestino di armi ed esplosivi. Con lo stesso capo d’imputazione in concorso con la Porena, sarà indagato il colonnello Stefano Giovannone, ufficiale dell’Arma, entrato nei servizi di sicurezza militari nel 1965, dal 1972 al 1981, capo-centro a Beirut, responsabile per il SISMI dell’area medio orientale e dei rapporti con l’OLP. Strettamente legato ad Aldo Moro, Giovannone morì qualche anno prima del processo sul traffico di armi, nella sua abitazione romana. Inoltre ricevettero un mandato di comparizione firmato dal giudice istruttore veneziano, Carlo Mastelloni, per i reati relativi al favoreggiamento nel traffico d’armi ed omissione in atti d’ufficio: • il prefetto Walter Pelosi, ex capo del Cesis, • i generali Giulio Grassini e Giuseppe Santovito, rispettivamente capi del Sisde e del Sismi fino al maggio 1981 e iscritti alla P2, • il generale Ninetto Lugaresi, successore di Santovito al vertice del Sismi fino all’83, • il generale del servizio segreto Pasquale Notarnicola, i colonnelli del Sismi Armando Sportelli e Stefano 210

Giovannone, deceduto due anni prima dell’arrivo del mandato. A provocare per primo l’apertura dell’inchiesta era stato il super-pentito Patrizio Peci. Nel 1980 aveva parlato dei rapporti tra BR e OLP per il trasporto di armi da distribuire all’IRA e all’ETA Basca. Sulle dichiarazioni di Peci, il giudice Mastelloni spiccò il mandato di comparizione anche per Arafat e mandati di cattura per Salah Kalaf e Kalil Al Wazir. Giovannone e Santovito furono accusati anche di aver depistato le indagini per aver sconfessato le dichiarazioni di Peci. Infatti, secondo Mastelloni, avrebbero avvertito gli esponenti dell’OLP delle confessioni di Peci. All’ex capo del Sismi Lugaresi si contestava il fatto che non avrebbe riferito alla commissione parlamentare sul sequestro e sull’omicidio di Aldo Moro, sul fatto che il Sismi sapeva delle armi sequestrate alle Br che avevano ricevuto dall’OLP come il mitra Sterling, arrivati in barca con l’Operazione Francis, che provenienti dal Libano erano stati sequestrati nei covi BR di Torino, Milano, Genova e Biella (tra l’altro l’imbarcazione Papago, un piccolo Yacht che aveva trasportato le armi sarebbe stata guidata da Massimo Gidoni allora affiliato alle Brigate Rosse ed acquistato da parte di un certo “Maurizio” dietro il cui pseudonimo si celava il capo delle BR stesse Mario Morucci. Tra l’equipagggio del Papago Riccardo Dura e Sandro Galletta. Altri affiliati dell’epoca). I canali diplomatici per il trasposto d’armi vennero aperti in particolare con l’FPLP di Habbash. Secondo l’istruttoria del giudice Mastelloni, il ruolo dei brigatisti era il tra211

sporto delle armi. Anche l’On. Aldo Moro evocherà in ben due lettere scritte nel covo della sua prigionia il nome del colonnello Giovannone e ne richiederà il rientro in Italia. Nella lettera che l’On. Moro inviò a Flaminio Piccoli citava Giovannone in rapporto alla «nota vicenda dei palestinesi» e in quella inviata ad Erminio Pennacchini in cui considera Giovannone tra i protagonisti della soluzione per la quale: «ai prigionieri politici dell’altra parte viene assegnato un soggiorno obbligato in Stato terzo». Al centro di tutto questo discorso c’è il famigerato “Lodo Moro”, un patto segreto di non belligeranza tra Stato italiano e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Tale accordo, che era solo verbale, emerse durante i lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sul «dossier Mitrokhin» e deve il suo nome all’allora presidente del consiglio Aldo Moro. Secondo questo punto di vista, l’ennesimo, i fatti di Bologna quindi sarebbero dovuti ad una strategia ed un contesto ampio di traffico di armi, accordi segreti e cospirazioni internazionali in cui l’Italia venne coinvolta. La strage di Bologna quindi sarebbe conseguenza della violazione del Lodo Moro e un avvertimento allo stato italiano perché non intervenisse nel traffico delle armi. Scenario conclusivo: non c’è nulla di concluso Decine di processi, istruttorie, migliaia di pagini redatte da molte commissione parlamentari di inchiesta sulle stragi hanno raccolto informazioni spesso contrastanti. 212

Perché quella bomba esplose a Bologna il due agosto 1980? Rimangono solo un insieme di fatti più o meno strutturati che non hanno una singola risposta, ma un concorso di cause che non rende giustizia: furono Le Brigate Rosse, o l’estrema destra che operarono al fianco di operazioni terroristiche con matrice Mediorientale? Ci furono coperture da depistaggi, messi in atto da uomini dell’intelligence italiana e di governo per agevolare un patto di non belligeranza nel nostro Paese e agevolare l’acquisto di greggio? Questi patti mortali e scellerati vengono disattesi e scatenano reazioni stragiste? Che posto hanno nella verità processuale? Che ruolo hanno nel processo di giustizia? Tutto si risolve in una frase tipica, davanti alla quale non esiste replica, davanti alla quale cessano ogni tipo di ragionamento pratico, ogni attribuzione di responsabilità individuale, nessuna ideologizazione se non strumentalizzata a quella che chiamano enfaticamente: strategia della tensione. Per dirla in altri termini, una minestra indifferenziata in cui il colore del sangue dei morti si mischia alle trame scellerate di chi pensa di poter giocare con i fili del destino, strumentalizzando e piegando a se una verità difficile, di un paese stretto tra compromessi e responsabilità limitate, in cui il cosiddetto potere territoriale viene messo ogni volta in discussione da interessi contrastanti come se la politica italiana sia il simbolo del trasformismo storico, del voltafaccia e dello sberleffo a chi invece ha sostenuto questa nazione. I primi a subirne le conseguenze sono i suoi cittadini, inglobati in un vortice di idealismo falso e pregiudizievole sul quale si stagliano innumerevoli atti di tribunale che in maniera ipocrita, alcune volte, si stabilisce 213

una linea di verità che non collima con la giustizia, quella evocata da coloro che hanno il diritto di averla. In tutto questo in scienza e coscienza, non possiamo non trovare gli enormi nodi che ancora legano questa vicenda ad altre, probabilmente con causa, probabilmente senza motivo, ma che tanto per cambiare, non hanno permesso a questa nazione quel progresso culturale che da 70 anni veniva richiesto a gran voce. È un assurdo che si celebri il triste anniversario del 40esimo anno di questo scellerato evento ed ancora ci siano processi aperti che lo riguardino. È assurdo che una nazione che si dica civile e democratica tenga in sospeso e vivo il dolore di chi ha diritto ad una risposta univoca che non venga contraddetta da fatti riferiti o dichiarazioni contrastanti. Ci si chiede ad esempio perché oggi parlare di mandanti e non avere il coraggio di dire che la responsabilità di affermare i loro nomi, è stata presa solo quando essi sono morti. Perché 40 anni fa non si poteva fare? Questa è scienza e coscienza. L’uno accanto all’altro in un legame etico che questa nazione difficilmente dimostra. Che siano i NAR o altri, è ora di dare una risposta, perché a conti fatti non sappiamo chi MATERIALMENTE mise quella bomba su quel tavolino della seconda classe della sala d’attesa della stazione di Bologna. Non ce lo dicono le sentenze e non ce lo dicono le testimonianze. Non ce lo disse la scienza allora, e non ce lo disse la storia. Spesso la giustizia anche nel dimostrare ciò che è stato deciso aprioristicamente come verità inciampa in errori messi in risalto da pagine sbiadite di un fascicolo. Ad esempio, Gelli, la P2 e i servizi segreti italiani vengono accusati di calunnia per aver messo in atto il depistaggio per 214

incolpare la destra eversiva e poi, con le ultime indagini, vengono accusati di essere i mandanti della strage messa in atto dalla destra eversiva. E allora che sia la teoria dei cerchi concentrici che però non tiene presente che spesso alcuni sistemi si alimentano per osmosi con altri sistemi e simili a liquidi che trova un equilibrio a secondo del contenitore che l’accoglie. Per continuare la metafora spesso è una piccola goccia che provoca il travaso e che si propaga seguendo le leggi della natura.

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Documentazione citata

Sentenza di primo grado 11 luglio 1988. Sentenza secondo grado del 18 luglio 1990. Sentenza 2 febbraio 1992 - Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione. Sentenza16 maggio 1994. Richiesta di archiviazione Kram - Froelich n 13225/11 R.N.R. Perizia Esplosivistica dei periti Coppe e Gregori Corte D’Assise P.P.nr 1/ 2018 Presidente Michele Leoni. Addendum alla Perizia Esplosivistica dei periti Coppe e Gregori. Fascicolo rilievi tecnici 344/80 G.I Vol. 1. Perizia Medico Colleggiale del 1980. Perizia Medico Legale Prof. Giuseppe Pappalardo del 15 agosto 1980.

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Ringraziamenti

Dante Negroni, Stefano Sghinolfi, Ezio Grilli, Claudio Deserti, Paolo Sacrati, Laura Fresu, l’ANVVF - Sezione provinciale di Bologna, il blog pilastrobologna.it@ gmail.com, Fabrizio Mignacca, Marina Baldi, Carlo De Rosa, Chantal Milani, Armando Palmegiani, Rodolfo Gregori, Comandante della Sezione Chimica Esplosivi e Infiammabili del RIS di Roma (RACIS), Francesco Fanigliulo, Maresciallo Capo della Sezione Chimica e Infiammibili del RIS di Roma (RACIS).

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Perizia integrale Pappalardo

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Testimonianza due asiatici

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Finito di stampare nel mese di